Bilbo uno sbandato? Per la Contea era così

Casa HobbitBilbo Baggins è un eroe? Dipende dalla prospettiva da cui si guarda. Il protagonista dello Hobbit, che appare anche nella parte iniziale e finale del Signore degli Anelli è sicuramente passato alla storia della Contea, ma non per quel che pensate voi. La sua crescita personale, le sue avventure straordinarie, le numerose conquiste fatte e tutte le ricchezze riportate a casa, non sono tutte cose a suo favore. Il punto di vista con cui si guarda alla gesta del piccolo hobbit è fondamentale.

Il punto di vista sociologico

ConteaLa nuova socia dell’AIST, Elisabetta Marchi, si presenta con un saggio molto originale che si focalizza su Bilbo Baggins, guardandolo dal punto di vista degli hobbit della Contea. Ecco così che il nostro piccolo eroe diventa un “deviato sociale”, ribaltando completamente quelle imprese di cui il protagonista andrà tanto fiero. È interessante così scoprire che l’opinione di Ted Sabbioso è condivisa ampiamente dagli altri hobbit: «Il vecchio Bilbo è notoriamente matto!”. Anzi, è lo stesso Tolkien ha sottolineare che al suo ritorno a casa, Bilbo aveva perso la reputazione: «Di fatto veniva considerato dagli hobbit del circondario come uno “stravagante”».
Hobbit SturoiNel suo saggio, Elisabetta Marchi usa gli strumenti della sociologia per analizzare, quindi, il rapporto individuo-società, strutturato attraverso l’articolazione di tre concetti collegati tra loro (individuo, norma, società). Quest’ultimo è un paradigma in cui il binomio normalità-devianza diventa uno strumento di definizione del grado di integrazione dell’individuo alla società: normali e devianti non sono che due facce della stessa medaglia. A partire da questa prospettiva, la figura di Bilbo Baggins cambia notevolmente. Il saggio analizza in che modo cambia il rapporto tra la sua identità, definita dagli altri e da lui stesso, e la Contea, intesa come l’universo simbolico di riferimento. E il cambiamento avviene proprio nell’arco di tempo compreso tra le prime pagine dello Hobbit, fino al momento della sua partenza all’inizio del Signore degli Anelli.

Scarica il saggio di Elisabetta Marchi: “Bilbo Baggins e la Contea: una carriera deviante

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27 Comments to “Bilbo uno sbandato? Per la Contea era così”

  1. Norbert ha detto:

    Bellissimo saggio
    Noto solo che, nella chiusa società Hobbit, Bilbo è deviante anche perché studia le lingue, si incontra con viaggiatori, si ineteressa a ciò che c’è “nel vasto mondo”. Cosa che gli hobbit comuni non fanno. Ne è un esempio la conversazione tra i 4 hobbit ritornati dalla guerra e la famiglia Cotton. Ai Cotton (quasi) nulla importa di ciò che è accaduto nel remoto sud.
    Gli interessa la Contea.

    E Frodo, altro deviante, della Contea dice:
    “Vorrei tanto salvare la Contea, se potessi farlo, benché sia stato spesso indotto a pensare che gli abitanti sono di una stupidità e di una noia incommensurabili, e che, data la situazione, un terremoto o una invasione di draghi sarebbero la cosa migliore”

    • redazione ha detto:

      Ecco uno spunto interessante: non sono così sicuro che anche Frodo sia un deviante…
      In fondo,quando torna, passa in secondo piano rispetto agli eroi come Pipino e Merry, e anche gli occhi degli hobbit lo qualificano come un fallito, recluso in casa, strambo sì, ma in fondo non so quanto “deviante”. Andrebbe riletta tutta l’ultima parte del Signore degli Anelli che riguarda Frodo, dalla fine dello stravolgimento nella Contea fino alla partenza…
      Roberto

      • Norbert ha detto:

        Che Frodo “prima di partire” abbia “ereditato” anche la nomea di strambo di Bilbo (esempio non tenendo il lutto ma festeggiando il compleanno suo e di Bilbo) per me è evidente. ma è solo la mia opinione.

        Come credo che Frodo al ritorno soffra di un misto di
        1. scarsa considerazione di se perché “ha fallito” e non è tornato “come eroe”;
        2. le ferite fisiche e mentali della Missione
        3. Agli Hobbit frega nulla della Missione di Frodo. A liberar la Contea c’hanno pensato Merry e Pipino, non Frodo. Quindi Frodo “non ha fatto nulla di rilevante”

        Mi aspetto molto dalla lettura di un testo, “Achilles in Vietnam” che, confrontandosi con l’Iliade, parla del PTSD e di altri problemi dei “veterani”. Penso possa far luce anche su Frodo e su Tolkien

        • Elisabetta ha detto:

          @Norbert spero tu abbia letto la risposta precedente sullla devianza di Frodo, secondo me diversa da quella da Bilbo, ma pur semmpre ascrivibile ad un tipo di relazione patologica con la società di riferimento. In ogni caso ancora una volta lo spunto che introduci nella conversazione con il problema dei veterani porta a considerazioni secondo me interessanti. Nella risposta precedente parlavo di anomia come modello relazionale tra Frodo e la Contea, ascrivibile alla perdita di orientamento e significato delle cose importanti. Tutto questo è molto vicino al concetto di PTSD ed in effetti lo si ritrova negli studi di fine 800 sugli irregolari dell’esercito ottomano. Questa sensazione di distacco e/o straniamento dalle altre persone veniva di fatto associata al termine anomia. Credo che la tua lettura sarà davvero interessante!

          • Norbert ha detto:

            Certo che l’ho leto – ed è interessante.
            Ma Frodo, per come me lo immagino, è un po’ diverso, e assai più simile a Bilbo “post viaggio”. Anche se è forse formalmente “più rispettoso”

            Dopo il suo ritorno Frodo è diversissimo da Bilbo. Bilbo, a parte la perdita dei beni andati all’asta, ha un happy ending. Frodo mica tanto

          • Elisabetta ha detto:

            @Norbert hai ragione sulla mancanza di happy ending. Se continuassimo a correre sul binario Goffman-Lemert ti direi che una identità ricostruita e deviante, fosse anche quella di un falsario sistematico, è sempre meglio di un’identità che, sotto una maschera rispettabile, si rivela frammentata e alla fine disgiunta da qualsiasi legame con la società.

    • Barbara Sanguineti ha detto:

      Dovrei anch’io riguardare bene tutta la parte sugli Hobbit – all’inizio e alla fine del SdA. Ma forse si potrebbe dire che a differenza di Bilbo, un personaggio con una storia ‘sociale’ nella Contea prima e dopo il suo viaggio, Frodo non era altrettanto conosciuto nella sua comunità, prima di diventare il Portatore dell’anello? E quindi anche dopo il suo ritorno resta in qualche modo ‘nell’ombra’- sia per il suo distacco esistenziale da quel mondo che non sentiva più suo, sia perché quel mondo (la comunità Hobbit) non l’aveva forse mai molto considerato… idee buttate lì, tutte da verificare!!

    • Elisabetta ha detto:

      Norbert grazie dei complimenti, ma soprattutto grazie per aver commentato in maniera così puntuale. E’ interessante questa idea che proponi di Frodo deviante perché mi dà la possibilità di ampliare il discorso appena accennato sul paradigma della devianza così come trattato da Erwing Goffman differenziandolo da quello di Lemert espresso invece nella figura di Bilbo.
      In effetti Frodo è un deviante, ma non come Bilbo. A mio avviso è invece strettamente connesso con l’idea di identità che esplora Goffman. E’ portatore di uno stigma, come molti altri Tuc, ed esattamente come loro, alla ricerca di un modo per nasconderlo. Frodo ama l’idea del viaggio “Una volta giunto l’autunno sapeva che almeno una parte della sua anima sarebbe stata ben disposta al viaggio.”, ma non interamente poiché dice anche “Seguire Bilbo era l’unica cosa che rendeva sopportabile l’idea della partenza”.
      Una parte di sè non è sicuramente vicina ai valori hobbit, ma si tratta di una sola parte. L’identità di Frodo sembra cogliere al meglio gli aspetti descritti da Goffman. Il processo interattivo secondo questo autore infatti è costantemente e coscientemente manipolato dall’individuo, attore sociale nel vero senso della parola, che, a seconda delle diverse situazioni, mette in scena la maschera più appropriata. E anche Frodo sembra possedere definizioni di sé diverse, intercambiabili, la cui rappresentazione riuscita diventa il fine dell’agire individuale.
      Frodo non vorrebbe lasciare la Contea “a dire il vero era estremamente riluttante a partire”, e nemmeno vorrebbe staccarsene in maniera netta e radicale come ha fatto Bilbo. “ Sin da aprile rumini la partenza e ti congedi dai luoghi che preferisci. Era così evidente! Ti sentivamo ogni momento borbottare: ”Chissà se rivedrò mai più stendersi ai miei piedi questa valle!” Ed altre cose simili.”
      Davanti alle esortazioni di Gandalf appare dubbioso e reticente, eppure “Segretamente aveva già deciso di partire il giorno del suo cinquantesimo compleanno”. E ancora si può leggere “Pensava il meno possibile all’Anello e a quali avventure l’avrebbe potuto condurre. Ma non comunicò a Gandalf tutti i suoi pensieri.”
      Il carattere normativo del ruolo non è interiorizzato, ma diventa un mezzo istituzionalizzato attraverso cui l’individuo applica con più o meno successo una strategia di marketing, il cui prodotto è in effetti la migliore presentazione di se stessi. Questo non è soltanto un richiamo all’individuo-prisma di Simmel, diverso a seconda delle cerchie sociali con cui viene in contatto, ma l’affermarsi di un nuovo concetto di identità frantumato in cui l’individuo è intrinsecamente legato a quelle strategie di difesa per riuscire a mantenere un legame saldo con la società, e in questo caso la Contea. Cosa succede infatti se viene a perdersi il legame individuo-società? Il vero Spettro dell’Anello di Goffman era rappresentato dal concetto di anomia traslato da Durkheim. In entrambi gli autori la separazione radicale dell’individuo dal mondo sociale rappresenta una minaccia enorme. Di qui deriva infatti la perdita dell’”orientamento”, vale a dire del significato delle cose e delle azioni. Sam lo mantiene fino alla fine, piangendo mentre decide di abbandonare gli utensili di cucina, Frodo invece ne sperimenta a fondo l’assenza, senza più riuscire a ricordare le cose ritenute una volta importanti. E quando torna alla Contea, in realtà non vi torna affatto, il legame è spezzato.
      “Accade sovente così Sam quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle

      • Eva ha detto:

        Ma “Elisabetta” che ha risposto a @Norbert è la Elisabetta del Saggio? Complimenti di nuovo, mi hai ulteriormente affascinata con la risposta a @Norbert.Bellissima riflessione.Grazie

        • Elisabetta ha detto:

          Si, Eva, sono l’autrice del saggio. Ti ringrazio per i tuoi commenti positivi, mi sono davvero di grande aiuto. Francamente nell’estemporaneità del dialogo c’e’ sempre la paura di lasciarsi trascinare dall’entusiamsmo a scapito della lucidità e dell’accuratezza della visione. Il tuo feed back positivo è per me invece una conferma dell’inestimabile ricchezza che può scaturire dal dialogo e dal confronto. Grazie !

  2. Eva ha detto:

    Bellissimo saggio, davvero molto interessante.Grazie, lo condivido subito con altri amici!

  3. Barbara Sanguineti ha detto:

    Per quanto riguarda Frodo, dovrei anch’io riguardare bene tutta la parte sugli Hobbit – all’inizio e alla fine del SdA. Ma forse si potrebbe dire che a differenza di Bilbo, un personaggio con una storia ‘sociale’ nella Contea prima e dopo il suo viaggio, Frodo non era altrettanto conosciuto nella sua comunità, prima di diventare il Portatore dell’anello? E quindi anche dopo il suo ritorno resta in qualche modo ‘nell’ombra’- sia per il suo distacco esistenziale da quel mondo che non sentiva più suo, sia perché quel mondo (la comunità Hobbit) non l’aveva forse mai molto considerato?… idee buttate lì, tutte da verificare!! Barbara

  4. Gwindor ha detto:

    Bel saggio. Non sono sicuro di condividere la parte relativa al Bilbo rappresentante dell’etica protestante — non è che il concetto di impresa e l’apprezzamento del profitto siano monopolio di quella confessione — ma a parte questo la trovo un’ottima analisi, suffragata in particolare dall’assenza di dispiacere in Bilbo riguardo alla sua nuova nomea, dispiacere che invece mi sembra di trovare in Frodo.

    • Elisabetta ha detto:

      Grazie Gwindor per avermi permesso con il tuo commento di focalizzare la metodologia che mi ha portato a creare questo tipo di lettura. Ora mi perdonerai se la risposta precedente, oltre ad essere in posti diversi da questo, non era del tutto esaustiva rispetto al rapporto tra apprezzamento del profitto/scelta confessionale. Di certo la realtà, come hai fatto notare, è ben più prismatica. Il fulcro dell’analisi weberiana non è però trovare un nesso monopolistico sull’apprezzamento del profitto da parte di una determinata confessione. Weber stesso dice “Ora l’intera letteratura ascetica di quasi tute le confessioni è naturalmente pervasa dalla convinzione che Dio gradisca moltissimo il lavoro coscienzioso anche se compensato da un basso salario, da parte di colui al quale la vita non ha riservato altre prospettive.” Il nesso causale è tra un tratto psicologico e la sua efficacia. Infatti weber continua:”Qui l’ascesi protestante (…) non solo approfondì enormemente questa posizione, ma procurò a tale norma ciò che infine soltanto importava per la sua efficacia: l’impulso psicologico – con la concezione di questo lavoro come Beruf, professione in seguito a vocazione, e nel senso del mezzo migliore, anzi unico, spesso, per acquisire la sicurezza del prprio stato di grazia. E d’altro lato, legalizzò lo sfruttamento di questa laboriosità specifica e peculiare, in quanto interpretò anche l’attività lucrativa dell’imprenditore nel senso di “Beruf”.””

  5. Luca ha detto:

    Nel suo saggio, Elisabetta Marchi usa gli strumenti della sociologia per analizzare il concetto di devianza applicato a Bilbo Bagins. Al momento credo che sia un lavoro inedito in Italia, non so la situazione nel resto dell’Europa (e non mi spingo oltre). Brava Elisabetta, complimenti!

  6. Elisabetta ha detto:

    Grazie Gwindor. Come dici molto bene qui e altrove la realtà è per fortuna sfaccettata. Di tutte queste facce del prisma ci è però concesso scegliere. Così come auspicato da Max Weber lo scopo della scienza e quindi secondo me dell’analisi dei fatti, siano essi storici o letterari, dovrebbe avere lo scopo di dire la verità, di descrivere e spiegare, in altre parole di produrre spiegazioni causali. Data l’immensità del tema da affrontare appare chiaro come ognuno di noi, avvicinandosi al testo, operi una selezione sia dei fenomeni da studiare, sia dei punti di vista attraverso cui studiarli e di conseguenza delle cause di tali fenomeni. Si tratta di avere ben chiara l’idea che ogni spiegazione causale è soltanto una visione frammentaria e parziale della realtà indagata. Il postulato fondante di una lettura mirata sta quindi nella precisa consapevolezza che l’angolazione da cui si legge è inscindibile dai valori del ricercatore, la cui onestà sta unicamente nel leggere le affinità che ritrova nel testo senza inventarle. Il principio di selezione di Weber va quindi di pari passo con il concetto di paradigma così come si ritrova in Thomas S. Kuhn.
    “Con la scelta di questo termine ho voluto far presente il fatto che alcuni esempi di effettiva prassi scientifica – esempi che comprendono globalmente leggi, teorie, applicazioni e strumenti – forniscono modelli che danno origine a particolari tradizioni scientifiche con una loro coerenza.”
    Da qui, in sostanza, l’emergere della possibilità del ricercatore di optare per una teoria con cui individuare sia il problema da risolvere che i metodi legittimi attraverso cui farlo. Nel mio caso, attraverso la lettura puntuale del testo, si può rintracciare una lettura tematica, una visione mirata e parziale di cui come ricercatore mi avvalgo per verificare una tesi. In questo modo, parafrasando le parole di Wu Ming 4, possiamo dire che si tratta di trovare una chiave di lettura il cui scopo è aprire una serratura già presente nel testo.
    In quanto a Frodo credo tu abbia ragione e spero di averlo ben esplicitato nel commento precedente.

  7. Elisabetta ha detto:

    Grazie Barbara, le tue idee che definisci buttate lì, per me sono indubbiamente valide. Quello che tu chiami distacco esistenziale io lo vedo come anomia, ma stiamo comunque cercando di identificare lo scisma tra Frodo e la Contea.

  8. Elisabetta ha detto:

    Ecco un altro spunto interessante Roberto che mi hai dato. Perché Merry e Pipino tornano alla Contea cambiati, “possenti viaggiatori, armati di tutto punto (…) straordinariamente grandi e forti” dopo essere stati dati per morti e non vengono considerati devianti? Forse perché anche la Contea è cambiata?
    Se dovessimo guardarla attraverso le diverse concezioni di potere teorizzate da Weber allora l’arrivo degli hobbit alla Contea si scontra con il potere legal-razionale dilagante. Questa forma di legittimazione si avvale di procedure certe, verificabili e socialmente condivise. Ad ogni richiesta gli hobbit si trovano davanti a rifiuti o procedure
    “Sono desolato mastro Merry, ma abbiamo ordini.” E ancora “Mi dispiace signor Merry, ma non è permesso”
    Dall’autorità burocratica codificata da procedure analizzata da Weber e molto ben descritta da Tolkien attraverso l’utilizzo di tante maiuscole inutili “siete arrestato per Violazione di Cancelli, Distruzione di Regole, Assalto ai Guardiani dei Cancelli, Pernottamento negli Edifici della Contea Senza Permesso e Corruzione di Guardie con Cibo” l’unico vero modo di uscirne passa attraverso il potere carismatico il quale poggia sulla capacità straordinarie attribuite ai leader in base al proprio valore, di ordine morale, religioso od eroico.
    Di qui allora forse la valenza di Merry e Pipino, anche se questa lettura sarebbe da rivedere più a fondo in altro momento. In ogni caso la frase più bella ed eroica secondo me resta quella di Frodo
    “Non essere assurdo!”, disse Frodo “Vado dove mi pare e quando più mi garba”
    “Ma non dimenticate che siete in arresto”
    “Non lo dimenticherò”, disse Frodo, “mai. Ma forse ti perdonerò.”

  9. Niccolò ha detto:

    Saggio scaricato… Già il titolo mi intriga, non vedo l’ora di leggerlo. Brava Elisabetta!

  10. Wu Ming 4 ha detto:

    Complimenti per il saggio. E anche per la bella discussione che ne è seguita nel thread. Bisognerebbe farne di più. Mi permetto di notare che l’ultima parte del SdA, andrebbe davvero apporfondita, perché probabilmente della società hobbit rivela più di quanto faccia il Prologo del romanzo.

    • Elisabetta ha detto:

      Grazie @Wu Ming 4 per i complimenti. Ne sono onorata. La discussione mi è servita molto. In effetti ogni perplessità è come un raggio di luce che va ad evidenziare una parte del paesaggio altrimenti in ombra: la bellezza del dialogo sta proprio nel potersi scambiare con gentilezza la torcia. Ancora grazie per aver lasciato un tuo commento. Userò di certo il tuo suggerimento poichè spero non sia questa l’ultima volta che parlo di Contea.

  11. Elisabetta ha detto:

    Alcune riflessioni sul saggio, legate anche agli aspetti del rapporto tra Bilbo e il profitto, sono scaturite grazie alla disponibilità al dialogo di Istituto Filosofico. Le riporto all’interno dei commenti perchè potrebbero essere utili anche ai fini di discussioni future. Per quanto mi riguarda è stato un dibattito prezioso che mi ha arricchito ed emozionato. Non è finito, ovviamente, ma come ogni strada, continua.

  12. Elisabetta ha detto:

    Da Istituto Filosofico

    Ciao Elisabetta Marchi, saggio scritto molto bene per un’esordiente, brava!! L’idea della devianza mi pare centrata mentre anche io come Norbert Spina e Giampaolo Canzonieri non vedo Bilbo amante del profitto. I testi che citi sono corretti ma riguardano la parte iniziale del racconto. Imho se si guarda la conclusione si ha un’immagine di un Bilbo molto simile (in questa sua non “avidità”) agli altri hobbit. Egli infatti sceglie di partire non per la possibile ricompensa (per quanto sancita da un contratto) ma sopratutto dal desiderio di avventura tipico dei Tuc. Quest’assenza di avidità è riconosciuta dallo stesso Thorin nelle sue ultime parole che, proprio perché pronunciate sul letto di morte, hanno un’importanza che nell’economia del racconto non è possibile sottovalutare: “Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto (LH, XVIII)”.
    La non avidità di Bilbo emerge anche quando, unico della compagnia, non viene toccato dalla malia del drago (LH XIII) e poi quando, vistasi ridotta drasticamente la sua ricompensa (dal quattordicesimo stabilito a due cassette d’oro e argento) afferma «non so cosa me ne sarei fatto» (LH XVIII).

    Da Elisabetta Marchi

    Grazie Istituto Filosofico per l’apprezzamento, sono parole di grande conforto! Sta diventando motivo di riflessione per me il fatto che venga maggiormente accettata in Bilbo una forma di devianza che Lemert attribuisce esemplarmente ai falsari sistematici piuttosto che attribuirgli caratteristiche legate all’ascesi protestante. Probabilmente nel saggio ne ho dato una lettura meno efficace e ti ringrazio per aver espresso le tue perplessità, perché in questo modo mi dai la possibilità di portare avanti questa tesi con argomenti ulteriori e diversi.
    Quanto è importante l’avidità all’interno dell’etica sociale del capitalismo? E’ condizione necessaria al suo sviluppo? La si può ritrovare in altre forme precapitalistiche? Weber afferma:” Non perché “l’impulso al profitto” nelle epoche precapitalistiche fosse ancora ignoto o non fosse sviluppato (come è stato detto così spesso), o perché “l’auri sacra fames”, l’avidità di denaro, allora (o anche oggi) al di fuori del capitalismo borghese fosse minore, rispetto alla sfera specificamente capitalistica, secondo l’illusione nutrita dai romantici moderni. Non sta qui la differenza tra lo spirito capitalistico e precapitalistico. L’avidità del mandarino cinese, del patrizio dell’antica Roma, dell’agrario moderno regge a ogni confronto. (…) La diffusione generale di un’assoluta mancanza di scrupoli nell’affermazione del proprio interesse materiale, pecuniario, era proprio una caratteristica specifica di paesi il cui sviluppo capitalistico borghese era rimasto arretrato.” Continua Weber: ”L’”auri sacra fames” è vecchia come la storia dell’umanità che noi conosciamo. Ma vedremo come coloro per cui essa fu un impulso a cui si abbandonarono senza riserve (…) non fossero affatto gli esponenti di quella mentalità da cui si è generato lo ”spirito” capitalistico specificatamente moderno come fenomeno di massa.”
    L’avidità non è quindi il fulcro del problema, la discriminante di cui avvalersi al fine di definire lo spirito capitalistico, anzi, ne è l’ostacolo (ma questa è un’altra storia).
    Di certo, come giustamente sottolinei, Bilbo non parte a causa della possibile ricompensa. E ti dirò di più, fosse stato anche il motivo principale, non sarebbe comunque bastato a farne un portatore dello spirito del capitalismo. Ciò che lo accomuna semmai all’etica specificatamente borghese è la distinzione tra guadagno e profitto, vale a dire il sicuro calcolo dei costi. Infatti Bilbo, parlando della sua ricompensa, puntualizza: “sono disposto a considerare con attenzione tutte le vostre rivendicazioni e a detrarre dal totale quanto è giusto.”(LH,XVIII)
    Non è l’avidità o la sua assenza la caratteristica fondante dello spirito del capitalismo, ne l’accumulo del capitale o il completo disinteresse per lo stesso. Quello che fa di Bilbo un portatore dello spirito del capitalismo si ritrova nel concetto di dovere professionale, di organizzazione razionale del lavoro, di sicuro calcolo dei costi, dell’utilizzo di specifiche possibilità tecniche unite a una determinata condotta pratica mutuata dall’etica razionale del protestantesimo ascetico.
    Il nucleo fondante della tesi weberiana resta, secondo me, strettamente collegato al carattere metodico dell’ascesi professionale e alle ripercussioni economiche date da questo impulso, aggiungendo, banalmente, “e viceversa”.
    Qui l’ascesi protestante (…) non solo approfondì enormemente questa posizione, ma procurò a tale norma ciò che infine soltanto importava per la sua efficacia: l’impulso psicologico – con la concezione di questo lavoro come Beruf, professione in seguito a vocazione, e nel senso del mezzo migliore, anzi unico, spesso, per acquisire la sicurezza del proprio stato di grazia. E d’altro lato, legalizzò lo sfruttamento di questa laboriosità specifica e peculiare, in quanto interpretò anche l’attività lucrativa dell’imprenditore nel senso di “Beruf”.””
    La grandezza di Weber sta proprio per me nel suo approfondire ed ampliare una tesi basata sul materialismo storico che di per sé risulterebbe monca come chiave di lettura di un reale così complesso. “Poiché sebbene l’uomo moderno in complesso neanche con tutta la buona volontà non sia solitamente in grado di rendersi conto di tutta l’importanza che i contenuti religiosi della coscienza hanno effettivamente avuto per la condotta della vita, la civiltà e cultura, e per i caratteri dei popoli e delle nazioni, -tuttavia non è ovviamente lecita l’intenzione di sostituire un’interpretazione causale della civiltà e della storia unilateralmente “materialistica” con un’interpretazione spiritualistica altrettanto unilaterale. Entrambe sono ugualmente possibili, ma né l’una né l’altra giovano alla verità storica, se pretendono di non essere un semplice lavoro preparatorio, ma la stessa conclusione della ricerca.”
    Vorrei concludere questa risposta, suppongo troppo lunga da leggere, ma estremamente breve da scrivere data l’importanza degli argomenti trattati, inserendo la tua bellissima citazione delle parole di Thorin all’interno della tesi del saggio. Parlare di una carriera deviante significa principalmente introdurre l’importanza del processo storico nella costruzione dell’identità. Di certo non esistono bacchette magiche sociali tali da stravolgere il proprio senso del sé come nuove cenerentole. La carriera deviante di Bilbo parte dall’inizio della sua vita, se vogliamo mettere un punto alla Watzlawick direi dal primo incontro di Bilbo fanciullo con Gandalf. Nel momento in cui Thorin spira, Bilbo è ancora all’interno di quella che potremmo definire una devianza primaria (manca il ritorno alla Contea e la seconda partenza a cementare l’idea del nuovo sé di Bilbo)e sicuramente continua a portare con sé molti processi socializzanti propri della Contea. Contea legata, secondo me, all’atteggiamento dei cattolici verso il lavoro, così come emerso dalle ricerche di Offenbacher.
    “Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto (LH, XVIII)”.

    Queste parole sintetizzano in maniera esemplare il problema legato alla mancanza di risultati nel lavoro pagato a cottimo di determinate aree, problema da cui scaturì la ricerca di Offenbacher e di cui Weber utilizzò i risultati per sviluppare la sua tesi sul processo di scontro e reciproco accrescimento tra educazione religiosa e concezione del lavoro. Da una parte abbiamo un comportamento che si esplica attraverso l’idea che “l’uomo “per natura” non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma vivere semplicemente, vivere come è abituato a vivere, e guadagnare tanto quanto è necessario”, dall’altra “la capacità di concentrazione del pensiero, come il contegno assolutamente centrale per cui ci si sente moralmente obbligati verso il lavoro, qui si trovano associati con una particolare frequenza a uno spirito economico rigoroso, che calcola il compenso e il suo grado in genere, e con un severo dominio di sé, con una temperanza e moderazione che accresce insolitamente l’efficienza.”
    Di qui si evince, spero, in maniera netta la differenza tra l’atteggiamento (cattolico) della Contea verso il lavoro e il comportamento (legato all’etica protestante) di Bilbo nei confronti della sua professione.
    Ogni citazione di Weber è tratta da L’etica protestante e lo spirito del capitalismo mi scuso per non aver messo le pagine. Qualora lo si ritenga perlomeno corretto se non proficuo, mi impegno a modificare il post. Grazie per la possibilità di dialogo, insperata ed emozionante

  13. Elisabetta ha detto:

    Da Istituto Filosofico

    Ciao Elisabetta Marchi, grazie per le precisazioni sul concetto di avidità, molto chiare (e an passant ti dico che per me Weber è un genio!). Mi permetto però di continuare, certo che il “dibattito” possa esserti (e essermi) utile.
    Mettendo da parte la parola “avidità” e cercando di restare nella TdM (evito di entrare su Weber), riformulo le mie perplessità così: non vedo proprio la “dedizione” di Bilbo al lavoro e al profitto perché (rifacendomi ai testi del mio precedente post):
    1- non parte per il profitto ma per voglia di avventura (lato Tuc)
    2- alla fine rinuncia serenamente a gran parte del profitto che gli spettava da contratto (i due sacchi di denaro sono quasi nulla rispetto alla 14° parte che gli spettava da contratto)
    3- Thorin gli riconosce che non stima molto la ricchezza (questa è la frase finale: nella tua risposta non capisco bene perché dici che riguarda l’inizio di Bilbo)
    4- quando torna Bilbo né lavora né si dedica a far fruttare il profitto diversamente dalla mentalità capitalistico-protestante (specie calvinista).
    Infine una mio suggerimento. Anziché usare la distinzione cattolico/protestante sarebbe imho meno “equivoco” e più adatto alla comprensione della Contea usar quella pre-industriale/capitalistico o economia di sussistenza/di mercato (e anche in questo caso Bilbo sta nella prima parte della distinzione).

    da Elisabetta Marchi

    Ciao Istituto Filosofico! Ti ringrazio per le tue precisazioni: non so quanto ti possano essere utili le mie risposte, di certo so quanto sono utili a me le tue domande. Ogni tua perplessità mi aiuta a cercare risposte sempre più dettagliate (in verità, spero di averne anche trovata qualcuna)
    I binomi da analizzare sono quindi Bilbo/dedizione al lavoro e Bilbo/profitto, così come appaiono nella TdM nell’arco di tempo preso in considerazione all’interno del saggio. Come vedi parto da una prima distinzione metodologica, per me indispensabile ai fini dell’analisi del testo . Innanzi tutto dedizione al lavoro e profitto possono essere concetti paralleli, ma non sono assimilabili. Per questo mi sono dilungata sul concetto di avidità: il profitto, la ricerca del profitto, il mancato utilizzo del profitto, la bramosia incontrollata per il risultato del profitto, di per sé non sono caratteristiche legate all’etica sociale del capitalismo. Come può il capitale essere estraneo al capitalismo? Vi rientra, se vuoi, nel momento in cui si parla di calcolo dei costi o di separazione tra ricavo e guadagno, in sintesi quando si applica una gestione razionale del profitto. Allo stesso modo, volendo fare un parallelo, dedizione al lavoro e caparbietà d’intenti non sono ascrivibili all’interno della stessa tipizzazione legata all’agire sociale. Per dedizione al lavoro intendo l’idea di dovere che l’individuo sente verso la propria attività professionale, là dove il dovere viene a coincidere con il concetto di vocazione, molto lontano quindi dalla caparbietà intesa come ostinazione cocciuta a perseguire un obiettivo. Di qui in avanti userò invece il termine profitto allacciandolo alla definizione di utile che si ricava da un’attività imprenditoriale.
    L’altra distinzione riguarda l’arco temporale che ho scelto di esplorare all’interno del mio saggio. La prospettiva che si richiama alla mente con le tue parole “nella TdM” è vasta e orizzontale quanto un’immensa pianura. Nel mio saggio ho cercato invece di eseguire, se mi passi il termine bieco, una sorta di carotaggio letterario, o per meglio dire un tuffo verticale nel testo da un determinato punto della scogliera. Si tratta quindi di guardare ad un unico personaggio, la cui storia viene presa in considerazione all’interno di un arco di tempo limitato, compreso tra l’inizio de Lo Hobbit e la seconda partenza di Bilbo all’inizio del Signore degli Anelli. Questa distinzione risulterà importante all’interno dell’ampliarsi del dialogo.
    In ogni caso hai tracciato un sentiero assai chiaro da seguire, e da lì mi incammino, solo tenendo presente che la pista A corrisponde al binomio (Bilbo/atteggiamento verso il lavoro) e la pista B (Bilbo/profitto).
    1a)
    Bilbo parte come Scassinatore per offrire la sua assistenza professionale. All’inizio del viaggio non avverte ancora nessuna tensione morale verso il proprio lavoro. Il concetto di dedizione si manifesta per la prima volta nell’incontro coi troll. In questa situazione Bilbo agisce spinto da un impulso (“c’era qualcosa che gli impediva di tornare subito da Thorin”) che lo obbliga moralmente a eseguire al meglio delle proprie capacità ciò che percepisce come attività qualitative fondanti del lavoro di Scassinatore. E questa è la caratteristica dell’etica sociale della civiltà capitalistica.
    1b)
    Bilbo non parte per il profitto, ma a causa dello stigma derivato dal lato Tuc. Completamente d’accordo con te. Il profitto in ogni caso non sarebbe condizione sufficiente a legarlo all’etica sociale del capitalismo. I nani partono per profitto, Bilbo non parte per il profitto. Entrambe le condizioni, tra loro contrarie, non hanno attinenza con il concetto di lavoro come fine a se stesso legato al modello preso in considerazione.

    2a) All’interno dell’esperienza di viaggio coi nani Bilbo assume via via, nell’idea che ha di sé e che gli
    altri significativi gli rimandano, la capacità di autodefinirsi, in qualche modo, come Scassinatore.
    Nel momento in cui parla con un Bard abbagliato dall’arkengemma, Bilbo si ripropone come Scassinatore,
    si, ma onesto. In questo caso le affinità con l’etica specificatamente borghese sono molto forti.
    L’imprenditore borghese doveva infatti perseguire obiettivi di lucro senza però eludere i limiti di
    correttezza formale. La dedizione al lavoro passa quindi anche dall’assumere, all’interno della propria
    condotta, non solo gli obiettivi fondanti di una professione, qualunque essa sia, ma anche i vincoli morali
    ad essa collegata.

    2b) Bilbo non ha problemi a rifiutare parte del profitto. Se guardiamo a questa azione attraverso la tipizzazione dell’agire dell’imprenditore borghese, per quanto ci possa sembrare strano, in effetti risulta perfettamente compatibile con due idee alla base di questo modello: la prima è che non si doveva fare un uso scandaloso delle proprie ricchezze, la seconda è che bisognava farne un uso razionale. Il problema di Bilbo non è se reinvestire o meno il profitto, quanto se riuscire o meno ad arrivare a casa senza “agguati e scannamenti”. In realtà l’impresa capitalistica non stima solo il guadagno, ma il guadagno continuo e rinnovato traducibile nel termine redditività. Sarebbe arrivato a casa vivo con tutto quel profitto? Forse è questa la domanda che si è posto. Per tanto, secondo me, il criterio delle probabilità di conseguire redditività ha un’influenza maggiore sul concetto stesso di guadagno. Si tratta di un’organizzazione razionale del lavoro tipica dello spirito capitalistico. L’assunto di base, ricordiamoci, è che non è la forma economica di organizzazione che genera il capitalismo quanto l’”ethos” che sta alla base degli imprenditori.

    3)Per questa risposta le piste convergono poiché fanno parte del concetto più ampio di devianza in cui ho inserito l’atteggiamento verso il lavoro di Bilbo, secondo me fondato sull’etica sociale del capitalismo. Qui risulta fondamentale acquisire all’interno del dialogo lo stesso arco temporale per dare un senso comune alla parola inizio e fine. La modalità con cui cambia il rapporto tra Bilbo e la Contea, all’interno del paradigma individuo-norma-società, si snoda lungo un percorso che secondo me ha un inizio, chiamato “Festa inattesa” (Lo Hobbit) e una fine chiamata “Una festa a lungo attesa” (Il Signore degli Anelli). Questo è l’arco di tempo che ho analizzato e al cui interno, secondo me, in un processo storico, l’identità di Bilbo viene a ridefinirsi. Come ti dicevo, nel momento in cui Thorin spira, Bilbo è ancora all’interno di quella che potremmo definire una devianza primaria (manca il ritorno alla Contea e la seconda partenza a cementare l’idea del nuovo sé di Bilbo)e sicuramente continua a portare con sé molti processi socializzanti legati alla Contea. Di conseguenza Bilbo è all’inizio della propria ridefinizione dell’identità pur trovandosi alla fine de Lo Hobbit.

    4a) Con il suo ritorno Bilbo lascia i panni legati all’assistenza professionale così come acquisiti dal contratto coi nani. Il dovere legato al lavoro di Scassinatore viene sistemato su un trespolo all’ingresso, come la cotta di maglia. Gandalf lo vede cambiato, l’intero circondario non lo considera più secondo parametri di rispettabilità, Bilbo stesso si percepisce diverso. Ciononostante non è più uno Scassinatore.

    4b) Come reinveste il profitto Bilbo tornando a casa? Bilbo innanzi tutto deve ricomprare molti dei suoi mobili. Prima di far fruttare il profitto deve coprire i “costi” dell’avventura. Potremmo pensare che anche i regali fatti agli altri hobbit rientrino in una gestione razionale del binomio costi/profitti? Ricomprare i mobili dai partecipanti all’asta avrà lo stesso valore che comprare dai nipoti “parte dell’affetto dimostratogli”? Che alla fine Bilbo non abbia granchè da reinvestire poiché si ritrova con “un’azienda sociale” in pareggio? Questi davvero sono solo spunti comunicativi più che risposte strutturate, me ne rendo conto, e questo in gran parte anche perché non è mai stato il profitto il mio campo d’indagine.

    I sentieri sono finiti e ci ritroviamo nella radura delle conclusioni, spero incolumi dopo tante parole. Come spero d’aver chiarito le caratteristiche legate all’etica sociale del capitalismo non sono ascrivibili alla ricerca del profitto quanto alla gestione razionale del capitale. La vocazione intesa come dovere morale che l’individuo sente verso il proprio lavoro lo svincola dal concetto di bramosia o dalla caparbietà d’intenti. Ciò che è specifico del capitalismo non è la forma economica, ma l’ethos che sta alla base degli imprenditori.
    Spero di essere riuscita a dare risposta alle tue domande, per quanto mi riguarda non posso che ringraziarti per avermi dato la possibilità di guardare alla mia tesi con occhi diversi.
    Sono certa che il tuo suggerimento finale sia animato dalla buona volontà di allontanare il più possibile la mia tesi dal dirupo dei giudizi di valore legati ad una lettura estemporanea del binomio cattolico/protestante. Tu mi insegni che Weber, nella sua genialità, non ha mai dato giudizi di valore sulle religioni, anzi ha chiaramente espresso che alcuni aspetti delle religioni che aveva trattato, se considerati da un punto di vista religioso, erano spesso “esteriori e grossolani”, ma comunque erano tratti esistenti che avevano ripercussioni pratiche. Mi è perciò impossibile seguire il tuo consiglio per i seguenti motivi :-):
    1) Non vedo nulla di “equivoco” nel sottolineare le influenze che una educazione religiosa può avere su un tipo di condotta e quindi un agire sociale risultato poi favorevole ad una determinata forma economica.
    2) Non era mia intenzione, all’interno del saggio, portare avanti un discorso basato sulla comprensione della Contea. Il cuore dell’analisi, infatti, verte sull’agire sociale di Bilbo Baggins in rapporto all’universo simbolico di riferimento (Contea) secondo il paradigma presente all’interno delle varie teorie legate al microinterazionismo.
    3) In realtà, se dovessi cominciare a guardare alla Contea come centro di interesse mi appoggerei a chiavi diverse di lettura. Quante ve ne sarebbero di interessanti! Quanti nessi causali da ritrovare! A partire dall’idea del potere di Weber fino a quella dei sistemi di Luhman, ma davvero questa sarebbe un’altra storia. 🙂

  14. Wu Ming 4 ha detto:

    Mi reintrometto per rinnovare i complimenti per la discussione e per ringraziare Elisabetta che ci ha resi partecipi dello scambio con Claudio Testi (alias Istituto Filosofico).
    Devo dire che le argomentazioni di Elisabetta – dopo le debite precisazioni – mi convincono, anche se mi manca un approccio così filosoficamente strutturato. Il mio è piuttosto storico-letterario. In questo senso ho sempre pensato che Bilbo, come tutti gli esseri umani e i personaggi letterari complessi, fosse animato da pulsioni contraddittorie (Claudio non sopporta questo aggettivo, quindi diciamo “contrastanti”, ecco).
    Del resto, se non ricordo male, è stato Tolkien stesso a dire che Bilbo era il personaggio nel quale più si immedesimava. E Tolkien era un piccolo-borghese cattolico che viveva in un paese protestante, dove il capitalismo si era sviluppato più velocemente e capillarmente che altrove.
    Bilbo avverte sia il richiamo dell’amore per l’ozio agreste, per lo studio, per la contemplazione della natura, per gli agi domestici, sia quello dell’etica del lavoro, dell’identificazione di sé con la professione, della razionalizzazione di costi e benefici.
    E’ vero che la società hobbit è pre-industriale, come fa notare Claudio, dunque è una società in cui i ritmi di vita non sono ancora quelli imposti dalla legge del profitto, ma è altrettanto vero che è una società proto-borghese (l’aristocrazia oziosa è decaduta, ovvero ridotta a titoli onorifici, non ci sono più “Sir” e “Lord”, bensì “Mr.”), quindi perfetta per incarnare la contradd… ehm, volevo dire il contrasto di cui sopra.
    Da un punto di vista storico, Bilbo (per metà Tuc e per metà Baggins) è un esponente di quella “landed middle-class” tipica della storia inglese fin dal XVI secolo. La “Gentry”, cioè la piccola nobiltà agraria, poi borghesia di campagna, nata dopo la Guerra delle Due Rose e l’avvento dei Tudor, fu la classe che guidò la prima Rivoluzione inglese (di stampo protestante) e che in seguito sancì il passaggio dall’uso dei terreni per l’agricoltura all’uso intensivo per l’allevamento di pecore finalizzato all’industria laniera.
    La figura di Bilbo è collocabile sul crinale tra due mondi, in una società in cui la grande nobiltà e le grandi tenute non sono già più centrali, ma la piccola nobiltà agraria non si è ancora del tutto borghesizzata, non ha ancora avviato la grande messa a profitto del territorio (che produrrà poi la fine del proletariato agricolo e la nascita del proletariato industriale). In questo senso, a mio avviso, Bilbo si trova *anche* sul crinale tra cattolicesimo e protestantesimo calvinista. Questo contrasto, ai miei occhi, lo rende un personaggio complesso e interessantissimo, soprattutto se si tiene conto che la sua contraddizione interiore (scusa Claudio) ha pure un risvolto freudiano – di cui parla W.H. Green – nel conflitto tra retaggio paterno (il concreto e borghese Bungo) e quello materno (l’avventurosa e aristocratica Belladonna).
    In fin dei conti Bilbo, se considerato in tutta la sua parabola, tra una “festa” e l’altra, come vuole Elisabetta – è uno dei personaggi più complessi che Tolkien abbia messo sulla pagina.

    • Elisabetta ha detto:

      Se lasciamo Bilbo sul crinale dell’irrisolto (eviterò con scrupolo maniacale sia il termine contraddizione che contrasto:-) possiamo secondo me allontanarlo da quello che David Harwey chiama “assioma del progetto dell’Illuminismo”, vale a dire l’idea che il mondo avrebbe potuto essere controllato e ordinato razionalmente se soltanto lo si fosse descritto e rappresentato correttamente. La possibilità di rappresentazione della realtà attraverso sistemi divergenti non solo elimina dal nostro orizzonte interpretativo l’idea che a ogni domanda ci possa essere solo una risposta, ma ci dà l’opportunità di legare questo personaggio ad uno dei concetti più dirompenti del quadro sociale ipotizzato da Goffman. Nel momento in cui si arriva ad un concetto di identità come instabile e frammentario si mette in crisi la concezione stessa che possa esistere un individuo integrato, vale a dire con la duplice caratteristica di essere percepibile come un’unità coerente sia al suo interno che con le norme sociali. Se Bilbo può pensare ad una ridefinizione del sé attraverso un processo storico in cui coscientemente manipola l’interazione sociale, può davvero esistere una identità stabile e definita nel tempo? Se all’interno dello stesso individuo vi è la possibilità della coesistenza di comportamenti diversi e se a questa dimensione aggiungiamo l’espressione dei bisogni erotici, psicologici e irrazionali, allora Bilbo potrebbe davvero essere vicino ad una determinata espressione del modernismo. Secondo me, la complessità derivata dalla non appartenenza ad una singola categoria a volte aiuta nella comprensione più di una risposta univoca, del resto è proprio sul crinale che le figure si stagliano al meglio 🙂

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