Tolkien, gli esperantisti e il sonno di Omero

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Come sempre, la dialettica porta dibattito e nuove riflessioni. Avevamo già annunciato l’uscita del volume J.R.R.Tolkien l’esperantista – prima dell’arrivo di Bilbo Baggins curato da Oronzo Cilli (Cafagna Editore, 2015), pubblicando la prefazione che ne aveva scritto lo studioso inglese John Garth, che potete leggere qui. Ora eccovi una recensione ad opera di Wu Ming 4, socio fondatore Aist e noto scrittore del collettivo omonimo e soprattutto, in questa sede, autore di diverse pubblicazioni dedicate a J.R.R. Tolkien (oltre che di un romanzo Stella del mattino), l’ultimo dei quali Difendere la Terra di Mezzo in cui è riuscito brillantemente, come scrive lui stesso, a «divulgare alcune tesi e punti di vista sull’opera di Tolkien che sono soprattutto patrimonio della comunità degli studiosi e di renderli accessibili a una platea più vasta», oltre a presentare acute analisi su temi e personaggi delle opere di Tolkien. È per questo motivo che siamo lieti di proporre ai lettori una recensione di chi i libri li legge e analizza in profondità. Buona lettura!

TOLKIEN, GLI ESPERANTISTI E IL SONNO DI OMERO
di Wu Ming 4

1. Avvertenza: scrivere con pregiudizio

Libri: Oronzo CIlli "Esperanto"La recensione che segue nasce all’ombra di un pregiudizio culturale. Pregiudizio sulla cultura di destra – per come la intendeva Furio Jesi – e sul nicodemismo di certi suoi esponenti a caccia di accreditamento, alcuni dei quali, com’è noto, in anni passati hanno fatto gran danno alla ricezione dell’opera di Tolkien in Italia. Il curatore e co-autore di J.R.R.Tolkien l’esperantista è Oronzo Cilli, definito da Gianfranco De Turris «tra i più importanti giovani studiosi italiani di Tolkien» (Il Giornale 27/06/2014). Non meraviglia l’affinità tra i due, se si tiene conto qual è il milieu da cui provengono entrambi, vale a dire gli ambienti dell’estrema destra politica e culturale italiana. Ma a differenza degli omologhi che l’hanno preceduto, Oronzo Cilli non si presenta al pubblico ignorando completamente il dibattito nel mondo anglosassone. Al contrario, si dota di tutti i contatti utili a qualificare un libro su Tolkien. In J.R.R.Tolkien l’esperantista sono dichiarate corrispondenze con noti studiosi della materia, con la Tolkien Estate, vi compaiono come coautori due esperti di lingue elfiche americani – A.R. Smith e P.H. Wynne – e il volume porta la prefazione del britannico John Garth, attualmente il più importante biografo tolkieniano. Alla prefazione però si arriverà alla fine, perché l’andamento di questa recensione sarà inverso: dal fondo alla cima. L’importante è che il lettore sia avvertito. Al suo giudizio spetterà poi raffrontare – se ne avrà voglia – il contenuto della critica e quello del libro.

2. Il fondo

Esperanto02Il saggio più lungo del volume è l’ultimo, quello del medesimo Oronzo Cilli, Tolkien e il movimento esperantista inglese, nel quale il curatore-autore illustra e contestualizza la sua scoperta: la firma di Tolkien in calce a un documento che proverebbe l’organicità dello scrittore al movimento esperantista. In quelle 44 pagine il lettore viene informato che Tolkien fece il boy scout; che il fondatore dei Boy Scout, Baden-Powell, aveva consigliato di utilizzare l’esperanto come lingua franca tra i gruppi delle varie nazionalità e questo potrebbe essere stato l’entry point di Tolkien a quella lingua; che nel 1930 si tenne a Oxford un congresso internazionale esperantista, al quale non risulta che Tolkien abbia partecipato, ma siccome vi partecipò un suo collega, è probabile che i due “ne abbiano discusso” (p. 93); che i partecipanti al Congresso erano… (segue un’intera pagina di nomi); che Tolkien venne nominato consigliere onorario del Comitato per l’educazione della British Esperanto Association e questo è “a oggi, il primo documento attestante la sua partecipazione al movimento esperantista inglese” (pag. 97); che tra gli aderenti al congresso esperantista britannico del 1933 sempre a Oxford compare il nome di Tolkien, ma “a oggi, della partecipazione di Tolkien al Congresso non vi è certezza” (p. 102) e anzi le ricerche bio-bibliografiche di Hammond e Scull lo escluderebbero; che la timeline della giornata del congresso era… (segue timeline); che la firma di Tolkien compare in calce a un documento del suddetto congresso intitolato Il valore educativo dell’esperanto, nel quale si sostiene l’adozione dell’esperanto nelle scuole come seconda lingua, per i seguenti motivi: Manuale dei boy-scout di Baden Powellvelocità dell’apprendimento, aiuto nella valutazione dell’apprendimento linguistico, facilitazione nell’uso delle parole, stimolo all’interdisciplinarità, possibilità di leggere la letteratura esperantista (segue una pagina e mezzo di firme).
Il saggio di Cilli si conclude menzionando sbrigativamente il fatto che nella seconda parte della sua vita Tolkien cambiò posizione rispetto all’esperanto, fino a definirlo una lingua morta. Tuttavia secondo Cilli “il proseguimento dei rapporti con molti protagonisti del movimento non esclude del tutto un suo interessamento anche limitato” (p. 112). Certo, niente può escludere un interessamento limitato. Perfino chi scrive questa recensione, in questo momento si sta, in qualche modo, interessando all’esperanto. Le ultime parole del saggio fanno riferimento a un fantomatico “grande quadro che ancora deve essere svelato” (p. 113). E su questa nota di mistero si passa agli allegati documentali.

3. Esperantisti tengwarologi

Studiosi: Arden R. SmithLa parte centrale del libro coincide con il saggio dei due studiosi di lingue elfiche Arden R. Smith e Patrick H. Wynne, intitolato Tolkien e l’esperanto (pubblicato su una rivista americana nel 2000). La prima parte dell’articolo consiste nella disamina filologica di una pagina di taccuino scritta in esperanto da Tolkien all’età di diciassette anni. Dopodiché gli autori arrivano al celebre saggio del 1931 Un vizio segreto, nel quale Tolkien parlava della propria passione per le lingue artificiali e dichiarava anche di avere “una particolare predilezione per l’esperanto”.
Il motivo di tale predilezione, nelle parole di Tolkien, era fondamentalmente teorico: “si tratta in ultima analisi della creazione di un solo uomo, un non filologo, e di conseguenza mi appare come un ‘linguaggio umano scevro delle complicazioni dovute all’opera dei troppi cuochi che rovinano la minestra’: e questa è per me la miglior descrizione della lingua artificiale ideale” (citato a pag. 52).
Di seguito, Smith e Wynne riportano un lettera scritta da Tolkien al Comitato per l’educazione della British Esperanto Association di cui era stato nominato consigliere onorario, nella quale, a mo’ di excusatio non petita, lui stesso dichiara di avere soltanto una conoscenza basilare dell’esperanto:
“Non sono un esperantista pratico […]. Non posso né leggere né scrivere questa lingua. La conosco, come direbbe un filologo, in quanto 25 anni fa ne ho studiato la grammatica e la struttura e non l’ho dimenticata, e un tempo leggevo un buon quantitativo di cose scritte in questa lingua” (citato a pag. 53).
La lettera è del 1932, quando Tolkien aveva quarant’anni, e si colloca tra i due congressi esperantisti oxfordiani di cui sopra. Le parole di Tolkien sul fatto che da un quarto di secolo (cioè dall’adolescenza) non studiava più l’esperanto, e che non era più in grado di parlarlo o scriverlo, avendo smesso di leggere letteratura in esperanto da molti anni, bastano di per sé a ridimensionare la portata della scoperta di Cilli e rendono tanto più ridicola l’evocazione di chissà quali scenari.
Zamenhof: "Fundamento de Esperanto"La firma di Tolkien a favore dell’introduzione dell’esperanto nelle scuole – negli anni in cui si batteva per una riforma degli studi linguistici anche all’università – era evidentemente dovuta alla sua fiducia nel fatto che lo studio di un idioma artificiale potesse aprire la mente degli studenti alla riflessione e all’invenzione linguistica, com’era successo a lui.
Per altro, dopo gli anni Trenta, Tolkien cambiò radicalmente idea sulle lingue artificiali, anche se Smith e Wynne preferiscono dirlo con un eufemismo: “Sembra che in questo periodo l’opinione di Tolkien sulle lingue internazionali come l’esperanto fosse meno favorevole” (p. 59).
Nella bozza per la revisione di Un vizio segreto Tolkien dichiarava di non essere “più tanto convinto che [una lingua artificiale] sia cosa buona” (citato a p. 59-60). In una lettera degli anni Cinquanta il suo giudizio è ancora più duro. Parlando delle lingue artificiali, scrive che sono idiomi morti, “molto più morti di altre antiche lingue non più usate, perché i loro autori non hanno mai inventato delle leggende in esperanto” (lettera del 1956, citata a p. 60).
A questo punto i due studiosi americani non possono esimersi dall’affrontare la teoria linguistica a cui Tolkien approdò, fondata sulla coincidenza tra mitologia e linguaggio, e che rappresenta l’architrave della sua attività di narratore e filologo creativo. Per Tolkien non può esistere una lingua senza storie, il mito è linguaggio e il linguaggio è mito, si tratta di aspetti sincronici e coincidenti dell’attività umana. Una lingua senza storie è una lingua morta, in questo caso artificiale nel senso deteriore del termine. Tanto è vero che per dare spessore e credibilità alla propria invenzione linguistica, Tolkien si impegnò nella costruzione di un intero legendarium, dalla cosmogonia all’avvento del tempo storico.
Smith e Wynne però non sembrano cogliere la radicalità di questa teoria o forse proprio perché la colgono sono costretti a rigettarla per salvare l’esperanto:
“Le lingue come l’esperanto, create per uso pratico e quotidiano nel mondo reale, non hanno bisogno di generare storie; nel tempo, se riusciranno a sopravvivere e prosperare, acquisiranno le proprie storie e le proprie leggende, esattamente come il greco e un’infinità di altre lingue esistenti hanno fatto”. (p.63)
Contro la concezione mitolinguistica tolkieniana i due americani da un lato si appellano alla praticità tecnica della lingua, dall’altro lato affermano che le storie e le leggende verranno col tempo, come conseguenze diacroniche del linguaggio. Tolkien avrebbe trovato del tutto falso questo discorso ed è precisamente il motivo per cui finì per rigettare l’esperanto [1].

4. Storia ridicola dell’esperanto

Congresso internazionale sull'Esperanto a Oxford nel 1930In effetti è la vicenda stessa dell’esperanto a dimostrare che Tolkien aveva ragione. Lo si evince dai primi due contributi del volume, rispettivamente a cura di Tim Owen, della Esperanto Association of Britain, e di Renato Corsetti, della Federazione Esperantista Italiana.
Queste due brevi panoramiche sulle vicissitudini dell’esperanto in Gran Bretagna e in Italia dimostrano perché un idioma inventato a tavolino, con moventi di ordine ideale o tecnico-pratico, senza alcun retroterra storico, risulterà sempre artificioso e fragile. Ovvero sarà soggetto ai ghiribizzi della sorte, alle idiosincrasie del singolo linguista, agli scismi, alle decisioni burocratiche delle organizzazioni internazionali, alle pressioni politiche.
Una lingua con una profondità storica, una lingua che racconta storie e coincide con le storie che racconta, ha un metabolismo e una vita diversi, è connessa agli eventi mondiali e alle generazioni, a spostamenti di popoli, guerre, commerci, rapporti di forza e di interscambio. E’ così che le lingue vivono e muoiono, o piuttosto si trasformano. Il greco e il latino non sono lingue morte, diceva una professoressa di lettere classiche, sopravvivono nelle lingue romanze; così come non era morto l’antico inglese per il professor Tolkien.
E qui sarà anche il caso di fare le pulci al propagandismo esperantista che connota il saggio di Corsetti e che rivela molto del vero intento di questo libro:
“Nato da un ideale di pace, collaborazione e intercomprensione tra gli uomini, l’esperanto si pone al di sopra di ogni differenza etnica, politica, religiosa, e – proprio perché lingua propria di nessuna nazione e insieme accessibile a tutti su una base di uguaglianza – tutela contro il predominio culturale ed economico dei più forti e contro i rischi di una visione monoculturale del mondo” (p. 26).
A Philologist for EsperantoNon c’è bisogno di mettere in discussione i nobili ideali che mossero Zamenhof per affermare che – da figlio del proprio tempo qual era – ideò una lingua al 100% “bianca”, elaborata sulla base di una mescolanza di radici e parole europee. Guardando l’esperanto dall’Africa, dall’Asia o dall’Oceania, diventa ben difficile capire come una lingua franca ultraeuropea dovrebbe tutelare dal predominio di quella parte del mondo sulle altre o da una visione monoculturale.
Da questo punto di vista Tolkien, anche nella sua fase di ammirazione per le lingue artificiali era assai più consapevole di quali fossero i loro confini impliciti. Infatti si diceva entusiasta di quegli idiomi “quanto meno per l’Europa” e li auspicava “come presupposto possibile e necessario all’unificazione dell’Europa prima che venga fagocitata dalla non Europa” (citato a pag. 51). Queste parole da affezionato conservatore del Vecchio Mondo dimostrano quanto fosse lontano dalla concezione della lingua artificiale come strumento neutrale e universalistico espressa da Corsetti.

5. Mr. Garth e gli scienziati

Studiosi: John Garth (foto © Erin Beck)Eccoci infine al principio. Cioè alla firma più illustre che compare nel volume, quella di John Garth.
La prima cosa che salta agli occhi nella sua prefazione è l’insistenza su una condivisione di “ideali” da parte di Zamenhof e Tolkien, senza però che questo aspetto sia mai approfondito. Garth si spinge poi a un parallelo tra le vicende dell’esperanto e quelle narrate nel Silmarillion (sic!), cerca labili coincidenze cronologiche (l’anno in cui la BBC rifiuta di trasmettere un programma sul cinquantenario dell’esperanto è anche l’anno di pubblicazione de Lo Hobbit… e quindi?), ovviamente cita tutti i documenti attestati sull’adesione di Tolkien all’esperanto, ma poi non può glissare sul suo cambio di rotta. E quando deve tirare le fila lo fa in maniera impacciata e contraddittoria. Alla fine si limita a concludere che “se l’esperanto inizialmente contribuì ad alimentare l’aspirazione di Tolkien a creare linguaggi propri, questa è di certo un’influenza importante. Se poi Tolkien divenne profondamente consapevole dei limiti di ciò che vide, questo è ancor più importante – poiché il suo tentativo di superare quei limiti portò alla creazione dell’Elfico e della Terra di Mezzo” (p. 12).
Tutto qui, dunque. Garth suggerisce una funzione dialettica dell’esperanto, che avrebbe fornito al Tolkien maturo la consapevolezza del limite da superare.
Per dire questo c’era bisogno di un libro pretestuoso e pretenzioso al tempo stesso, dal titolo fuorviante, e argomentato in maniera così maldestra? C’era bisogno di aggiungere gli esperantisti al novero di quelli che tirano Tolkien per la giacca?
Anche no.
Monti Buzzetti: Julius EvolaIl libro inaugura una collana curata da Cilli per l’editore Cafagna, intitolata “Il mondo di Tolkien”, nel cui comitato scientifico compaiono i nomi delle persone coinvolte a vario titolo nel volume. Gli autori stessi; la traduttrice Greta Bertani, già autrice di un libro su Tolkien e la Sacre Scritture pubblicato dalla casa editrice Il Cerchio; Adriano Monti Buzzetti, giornalista radiotelevisivo, ma qui in veste di autore dell’illustrazione di copertina (che fa il paio con un suo ritratto di Julius Evola “esposto” sul sito della Fondazione omonima: il già menzionato John Garth; e in cima alla lista, Roberto Arduini, presidente dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Lascia parecchio perplessi il fatto che un libro di così poco momento e una così male assortita compagnia includano la firma del biografo di Tolkien e quella del più infaticabile studioso e organizzatore di attività tolkieniane in Italia. Verrebbe da dire, per usare una lingua (mai) morta: Quandoque bonus dormitat Homerus. L’importante è che poi si svegli.

 

[1] Altri due studiosi che cercano di smussare questa evidenza sono Dimitra Fimi e Andrew Higgins, che nell’introduzione all’edizione filologica di A Secret Vice (2016) – dove, non a caso, vengono citati sia il lavoro di Smith e Wynne sia le scoperte documentali di Cilli – scrivono: “The fact that Esperanto has allowed a shared tradition and culture to ‘breed’ among its speakers, makes it more sympathetic to Tolkien’s ideals for invented languages than the older Tolkien is willing to admit.” (pag. 48).

Recensione a J.R.R.Tolkien l’esperantista – prima dell’arrivo di Bilbo Baggins
(a cura) di O. Cilli, Cafagna Editore, 2015

LINK ESTERNI
– Vai al sito della della casa editrice Cafagna
– Vai al Blog di Oronzo Cilli
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3 Comments to “Tolkien, gli esperantisti e il sonno di Omero”

  1. Oronzo Cilli ha detto:

    Sono contento e onorato che un autore impegnato come Wu Ming 4 abbia trovato il tempo di leggere e recensire il nostro volume e al contempo sono in forte imbarazzo per non aver ancora letto nulla di quanto lui ha scritto su Tolkien in questi anni (cosa che mi riprometto di fare al più presto, almeno per ricambiare la cortesia). Ho letto il pensiero (perchè chiamarla recensione appare un tantino azzardato) e prometto di commentarlo a breve (i passaggi che mi riguardano ovviamente), anche se rispondere a chi manifesta un pregiudizio e lo utilizza fino all’ultima parola non è semplice. Per adesso confermo il mio compiacimento nell’apprendere che un apprezzato e importante autore abbia dedicato attenzione al nostro lavoro. A presto.

  2. Oronzo Cilli ha detto:

    Ho letto con attenzione quanto scritto sul nostro lavoro dedicato a Tolkien e l’esperanto e, con molta sincerità, confermo il piacere di apprendere che un autore impegnato come Wu Ming 4 abbia trovato il tempo di leggere e scriverne su un sito che ritengo tra i più importanti e seri del panorama tolkinieniano.
    Non amo molto recensire le recensioni ma visto che questa non la ritengo tale, penso sia giusto precisare alcuni punti partendo dalla “Avvertenza” che apre, e in realtà chiude e anima, lo scritto.
    Per l’autore è giusto avvertire che scrive “all’ombra di un pregiudizio culturale”, e questo è un avvertimento non rivolto solo a chi leggerà il seguito del suo ragionamento, ma soprattutto a chi leggerà in futuro, o ha già letto, il libro. E qui mi viene in mente la definizione che vuole il pregiudizio “nel diritto romano, l’azione giuridica precedente al giudizio, e tale da influire talvolta sulle decisioni del giudice competente”. Nel qual caso, il lettore presente e futuro. Il pregiudizio, sarebbe quello sulla cultura di destra e sul mio (sono l’unico autore italiano in quel volume) non manifestare pubblicamente la fede politica. E qui penso al secondo significato del termine pregiudizio che vuole una “opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinonimo, in questo significato, di preconcetto)”. Come se chiunque scrivesse romanzi o saggi o altro ancora dovesse presentarsi al lettore dicendo per chi ha votato nei precedenti anni o in quale luogo di culto si reca a pregare. Forse Wu Ming 4 l’ha fatto nelle sue pubblicazioni, ma ammetto ancora una volta, però, di non aver avuto ancora il piacere di leggere nulla di quanto ha scritto ripromettendomi di colmare questa mia lacuna al più presto. Ma una cosa è certa, avendo letto in queste ore diversi articoli di Wu Ming4 in rete, che come certe trasmissioni televisive dall’indubbia veridicità storico-scientifica dove non mancano mai i Templari e gli UFO, anche qui l’autore non manca di citare Jesi, de Turris ed Evola che, sinceramente, con il nostro lavoro non hanno assolutamente nulla a che fare. Da precisare che de Turris non compare in nessuna delle 160 pagine del volume, ma è tirato in ballo solo per una sua frase, che può essere condivisa o no, in un articolo di oltre due anni fa e questo mi lusinga ancora perché vuol dire che l’autore ha letto sul mio conto più di quanto io possa meritare.
    L’autore però, ammette che a “differenza degli omologhi” (omologhi?) che mi hanno preceduto, io mi presenti al lettore non “ignorando completamente il dibattito nel mondo anglosassone”. Ho pensato si riferisse alla conoscenza dei testi e degli studi compiuti oltre il suolo italico e invece per Wu Ming 4 i miei sarebbero solo limitati ai “contatti utili a qualificare un libro su Tolkien”. Come se gli altri autori, Garth, Wynne, Smith, Corsetti e Owen, hanno deciso di pubblicare con il sottoscritto non s’intuisce per quale oscura ragione, se non quella di aver apprezzato il lavoro di ricerca che mi appresto a spiegare tra poco. È come se accusassi lo stesso Wu Ming 4 di aver inserito uno scritto di Tom Shippey in un suo libro solo perché aveva la sua mail e non per il valore di quanto aveva scritto. Ma questo è puro provincialismo italiota che non appartiene a chi scrive né tanto meno, lo speso, allo stesso Wu Ming 4.

    Dopo le avvertenze, l’autore inizia, finalmente, a parlare del nostro libro, partendo dal mio contributo, dimenticando di precisare che il testo rappresenta la più completa raccolta d’informazioni oggi disponibile sul rapporto intercorso tra Tolkien e il movimento esperantista britannico sulla base di documenti. Wu Ming 4 cita, sembra quasi perché costretto, che nel mio saggio il sottoscritto “illustra e contestualizza la sua scoperta: la firma di Tolkien in calce a un documento che proverebbe l’organicità dello scrittore al movimento esperantista”. E quest’appare poco? Chiedo, quanti studiosi o divulgatori italiani hanno trovato un qualcosa d’inedito sulla vita di Tolkien o, come in questo caso, legato al grande interesse che l’ha accompagnato per l’intera esistenza come la costruzione di linguaggi? Wu Ming 4 non aggiunge altro commento a questo, come se non arrivasse a comprendere quale lavoro di ricerca e studio ci possa essere dietro il ritrovamento di uno o più documenti che riguardino direttamente uno degli autori più amati e studiati negli ultimi decenni. Una scoperta che ha trovato interesse oltre le mura di Roma al punto da essere citato e inserito in un testo postumo di Tolkien quale “A Secret Vice. Tolkien on invented languages” di Dimitra Fimi e Andrew Higgins. A memoria non ricordo di altri italiani che possono sentirsi onorati per questo. Ma per Wu Ming 4 è solo un dettaglio da citare en passant, in maniera accidentale. Come di poco conto, per l’autore, il fatto che si sia spiegato il nesso tra alcuni scritti giovanili di Tolkien contenuti nel Book of Foxrook del 1909 e la partecipazione, mai studiata a fondo prima, di Tolkien al movimento Scout di Baden Powell. È probabile che se avessi scritto nella mia biografia l’iscrizione a qualche idea cara a Wu Ming 4, con molta probabilità questo mio scritto sarebbe iniziato con un “grazie per le meravigliose parole, forse non meritavo tanto”. E invece mi ritrovo qui a dover spiegare cose che agli studiosi non italiani sono apparse chiare fin da subito. Si cita la mia supposizione che Tolkien prese in qualche modo, parte al Congresso del 1930 perché uno dei partecipanti fu un suo caro amico (spesso presente alle riunioni degli Inklings) R. B. McCallum, tutor di storia al Pembroke College dove Tolkien era associato. Ebbene, a Wu Ming 4, nella sua analisi, è sfuggito che quella che poteva sembrare una supposizione strampalata ha trovato conferma pochi mesi dopo la pubblicazione del nostro libro. E a confermarlo è stato lo “stesso” J.R.R. Tolkien nel citato “A Secret Vice” che contiene le bozze preparatorie della conferenza “Un vizio segreto” nelle quali cita letteralmente “Some of you may have heard that there was a year or more ago a Congress in Oxford, an Esperanto Congress; or you may not have heard. I heard – because I was invited to it by a certain Mr McCallum or Macallumo to see a performance of La Onklino de Charlie” (A secret Vice, 2016 pp. 4-5). Questo Wu Ming 4 l’avrebbe potuto leggere se non si fosse fermato alla sola introduzione del testo curato dalla Fimi e da Higgins. A dimostrazione che il sottoscritto non ha citato a caso la partecipazione di McCallum né ha inserito il programma del Congresso solo per far aumentare le pagine del suo scritto, giacché la rappresentazione che cita Tolkien fu uno degli eventi promossi durante il Congresso esperantista.
    Wu Ming 4 procede nel rilevare, forse con una certa velata ironia che non ho colto a fondo, che nel mio saggio, si citano nomi, eventi e luoghi di quel periodo dimenticando che non si tratta di un romanzo, ma di una ricerca che punta a essere utile per chiunque voglia approfondire o conoscere quell’aspetto che vide protagonista Tolkien. E la posizione di Wu Ming 4 mi ricorda alcuni curatori di un Codice Diplomatico che nel trascrivere la diversa documentazione appartenuta ai Conventi del ‘500, quando si arrivava agli oggetti elencati ci si limitava a scrivere “segue elenco di oggetti e paramenti sacri” oppure, se si trattava di dispute “seguono i nomi dei presenti alla risoluzione”. Senza specificare cosa, di quale natura, foggia o materiale fossero fatti gli oggetti, come se non sapessero che quelle informazioni potessero valere nulla per lettori distratti ma sarebbero diventate fondamentali per gli studiosi più seri (da quelli sui materiali, a quelli religiosi eccetera) o per chi ricostruiva la vita di questo o quella persona in un determinato periodo storico. L’autore dello scritto poi, sembra far passare in secondo piano, non tanto il mio lavoro di ricerca, ma il fatto che si sia trovato un documento “nel quale si sostiene l’adozione dell’esperanto nelle scuole come seconda lingua, per i seguenti motivi: velocità dell’apprendimento, aiuto nella valutazione dell’apprendimento linguistico, facilitazione nell’uso delle parole, stimolo all’interdisciplinarità, possibilità di leggere la letteratura esperantista”. E che in calce a questo documento vi era la firma di un certo Tolkien che a memoria non ricordo fosse noto nel firmare a casaccio appelli o manifesti come certi intellettuali nostrani.
    Wu Ming 4 mi dice che ho finito “menzionando sbrigativamente il fatto che nella seconda parte della sua vita Tolkien cambiò posizione rispetto all’esperanto, fino a definirlo una lingua morta”. Non è facile in un lavoro, dove si presentano principalmente documenti, citare cose non scritte e dette da Tolkien poiché, ma questo Wu Ming 4 dovrebbe saperlo molto bene, della sua posizione sull’esperanto se ne ha traccia solo in una lettera del 14 gennaio 1956 a un tale sig. Thompson che io riporto giustamente nel mio lavoro. E questo perché a oggi, ancora, non si hanno altre testimonianze o documentazione e visto che il mio studio, come quello compiuto da Smith e Wynne nel 2000 (sedici anni fa), non ha la presunzione né la saccenteria di ritenersi esaustivo o concluso, che alla fine termino il mio lavoro con l’affermazione che “grande quadro che ancora deve essere svelato” che non è assolutamente fantomatico ma la speranza che altri studi si possano condurre a riguardo. Ma questo sfugge a Wu Ming 4 ma non a chi studia le lingue e la biografia di Tolkien. E di questi ultimi m’interessava sinceramente il pensiero e, fortunatamente, non è tardato ad arrivare ed è stato molto lusinghiero (cito Dimitra Fimi, Andrew Higgins, Arden Smith, Patrick Wynne, Christina Scull e Wayne Hammond… e scusate se è poco)

    Sulle idee espresse da Wu Ming 4 su Smith, Wynne e Garth lascio eventualmente a loro di commentare qualora lo ritenessero necessario. Ma un’ultima cosa vorrei riportare ed è una postilla al commento conclusivo di Wu Ming 4 sul volume e sulla collana aperta da questo libro e sui membri del comitato scientifico. Per WM4 il libro è “pretestuoso e pretenzioso al tempo stesso, dal titolo fuorviante, e argomentato in maniera così maldestra?”. Forse nella fretta non ha prestato attenzione al sottotitolo che recita “Prima dell’arrivo di Bilbo Baggins” e non a caso giacché i riferimenti documentali che attestano l’adesione di Tolkien al movimento esperantista (e di questo se ne faccia una ragione WM4) si fermano a metà degli anni Trenta poco prima che fosse dato alle stampe The Hobbit. Il volume, cosa che appare non chiara a WM4, non vuole tirare per la giacca Tolkien a favore degli esperantisti, ma solo riportare una sua scelta fatta in modo consapevole e compiuta in un determinato periodo della sua vita perché se è vero che cambiò idea sull’utilità della lingua pianificata da Zamenhof, mai rinnegò quell’esperienza. Ultima cosa. WM4 è perplesso su chi? Su una splendida e professionale traduttrice qual è Greta Bertani solo perché ha avuto l’ardire di pubblicare un libro su Tolkien e la Sacre Scritture e per giunta con il Cerchio? Su un apprezzato giornalista che ama anche l’illustrazione reo forse di essere l’autore di un ritratto di Evola? Se avesse ritratto Vladimir Il’ič Ul’janov o Furio Jesi sarebbe andato meglio? Magari l’ha fatto e WM4 non lo sa. Non capisco cosa porta a sostenere WM4 che il comitato scientifico sia male assortito? Forse perché non sono tutti italiani che se la cantano e se la suonano da soli nelle patrie terre? Smith e Wynne sono studiosi apprezzati e citati nel mondo degli studi tolkieniani per l’immenso lavoro che stanno portando avanti anche assieme a Christopher Tolkien. Garth è tra i più importanti biografi di Tolkien e Arduini uno studioso impareggiabile con una raffinata cultura. Forse il problema è il mio nome? Credo che WM4 non abbia fatto rimostranze quando quest’anno a Dozza nel programma accanto al suo nome c’era il mio. Se così non fosse, non capisco bene quale possa essere il motivo che spinge a un tale pregiudizio sfociando nel più disarmante provincialismo italico fatto di etichette più o meno giuste che lasciano perplessi in molti, e non solo gli stranieri.

  3. Adriano Monti Buzzetti ha detto:

    Per inciso, col suo paradosso l’amico Oronzo si avvicina inconsapevolmente alla verità: ebbene sì, mi è capitato anche di ritrarre Lenin. Non che questo cambi molto le cose. Almeno nell’ottica di chi continua a leggere tutto nella prospettiva – ormai archeologica, se non addirittura fossile – dell’estenuante e rissosa dicotomia compagni-camerati, applicata con molta disinvoltura all’opera di Tolkien. Operazione sbagliata quarant’anni fa, addirittura grottesca nel 2016. Se non altro per il pregiudizio e il disvalore indifferenziati che, a livello internazionale, crea attorno ai contributi italiani sul professore di Oxford.

    My two cents, of course.

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