Tolkien and the Mystery of Literary Creation. La Recensione

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Lo scorso 3 Luglio 2025 è stato pubblicato per la Cambridge University Press il saggio di Giuseppe Pezzini Tolkien and the Mystery of Literary Creation. Pezzini è Fellow e Tutor presso il Corpus Christi College di Oxford e Professore Associato di Lingua e Letteratura Latina all’Università di Oxford. Classicista di formazione, ha pubblicato ampiamente sulla lingua e letteratura latina, sulla commedia romana, sulla filosofia antica del linguaggio e sulla teoria della narrativa, antica e moderna. Con ulteriori interessi nella critica testuale e nelle discipline umanistiche digitali, è anche un importante studioso tolkieniano; ha ricevuto nel 2021 il Philip Leverhulme Prize ed è attualmente Tolkien Editor per il Journal of Inklings Studies.

Di seguito pubblichiamo la recensione del saggio di Giuseppe Pezzini redatta da Claudio Antonio Testi, saggista e socio AIST.

Contenuto

In questo pregevole studio l’autore si pone il “semplice” problema di capire cosa Tolkien intende dire quando afferma:

I am interested in mythological ‘invention’, and the mystery of literary creation (or sub-creation as I have elsewhere called it) and I am the most readily available corpus vile for experiment or observation. (Tolkien, Lettera n. 180, enfasi aggiunte)

Il libro si struttura in una introduzione e sette capitoli di cui riportiamo brevemente i titoli:

  • Introduction A Piece of Tolkien Scholarship Structure and Overview
  • I The Cats of Queen Berúthiel: Linguistic Aesthetic and Literature for Its Own Sake
    • I.1 ‘Names Come First’: From Berúthiel to Eärendil
    • I.2 ‘Gratuitous’ Creations and the Re-awakening of Sea-Longing
    • I.3 The Paradox of Creation and the Purpose of Purposeless Beauty
    • I.4 Epilogue: Berúthiel’s Fate
  • II The Authors of the Red Book: Meta-textual Frames and Writing as Discovery and Translation
    • II.1 The Meta-textual Frame of Middle-earth
    • II.2 The (Double) Meaning of the Meta-textual Frame
  • III The Lords of the West: Cloaking, Freedom, and the Hidden ‘Divine’ Narrative
    • III.1 The Unnamed Authority in The Lord of the Rings
    • III.2 Secondary Meanings: Cloaking and Freedom
    • III.3 Primary Meanings: Cloaking and Sub-creation
  • IV Beren and Frodo: Intratextual Parallels and the Universality of the Particular
    • IV.1 The ‘Seamless Web of Story’: Parallelism in the Secondary World
    • IV.2 Criss-Crossing between Secondary and Primary Planes
    • IV.3 Conclusions: Tolkien and the Universality of the Particular
  • V Gandalf’s Fall and Return: Sub-creative Humility and the ‘Arising’ of Prophecy
    • V.1 Gandalf’s Fall and the Loss of Hope
    • V.2 The Arising of Prophecy
  • VI The Next Stage: The Death of the Author and the Effoliation of Creation
    • VI.1 The Death of the Sub-creator
    • VI.2 The Resurrection of the Author: Taking Up to the Primary Plane
    • VI.3 Explicit
  • VII Epilogue: A Short Introduction to the Ainulindalë
    • VII.1 Textual History
    • VII.2 Structure and Content

Come spiega l’autore:

The book consists of five chapters (I – V), followed by a conclusive, more theoretical chapter (VI) and an epilogue (VII). Each of the main chapters focuses on a formal feature of Tolkien’s literary work: the primacy of language-invention and its integration into the narratives (Chapter I); the extensive use of meta-textual frames (Chapter II); the fondness for lacunae, omission, and allusive language, especially as regards “highest matters” (Chapter III); narrative parallelism and cross-referencing inside (intratextual) and between (intertextual) texts (Chapter IV); and unexplained narrative events, (allegedly) transcending the author’s intentions (Chapter V). In the second part of each chapter, the theoretical implications of these formal features are discussed, through extensive analysis of internal meta-literary references, the editorial history of Tolkien’s texts […]
These five main chapters are followed by the concluding Chapter VI, which offers an overview of the main themes addressed in the book and integrates them into a cohesive, overarching framework : the aesthetic and ‘gratuitous’ dimension of literary inspiration; writing as ‘discovery’ and ‘translation’; the poetics of cloaking and its relation with the freedom of literature (in all senses); the writer as a co-author contributing to a single, polyphonic Story criss-crossing the primary and secondary worlds, and ultimately converging on the Resurrection (“the greatest ‘eucatastrophe’ possible in the greatest Fairy Story”, Letters 89 : 142 [100]); the ‘death’ of the sub-creator as an unavoidable step in any successful sub-creation. (Pezzini 2025 p. 12, 19)

Già da queste indicazioni si può ben capire la vastità dei temi toccati da Pezzini. Il “modo” in cui li tocca, tuttavia, è molto omogeneo, nel senso che l’autore cerca di concentrarsi principalmente sugli aspetti letterari dell’opera tolkieniana, e lo fa con grande chiarezza, anche perché il lettore ideale di Pezzini è:

the educated reader of English literature, who might have read The Hobbit and/or The Lord of the Rings in their youth but has strong doubts and biases about the literary merits and sophistication of Tolkien’s enterprise, and may even belittle the genres with which it is often (inappropriately) associated, namely ‘fantasy’ and ‘children’s literature’. (Pezzini 2025 p. 2)

Pregi

I pregi di questo volume sono molti e rilevanti. Prima di tutto, il saggio riguarda essenzialmente l’aspetto letterario dell’opera di Tolkien, e su questo versante gli studi tolkieniani sono curiosamente pochi. Come Scrivono Drout e Wynne:

Un tema che ad oggi non è ancora stato studiato adeguatamente dalla critica tolkieniana è sicuramente l’aspetto letterario e stilistico delle sue opere: «Il maggior limite nella critica tolkieniana, comunque, è la mancanza di discussione sullo stile di Tolkien, sui suoi diversi livelli di scrittura, sulla sua scelta delle parole e della sintassi». (Drout-Wynne 2000, 123)

Quaderni di Arda 3In questo senso il testo si aggiunge ad altri importanti saggi sul medesimo tema, tra i quali ricordo Walker 2009; Simonson 2008; Clark-Timmons 2000, Drout 2004; Sullivan 2008; Bratman 2000; Christopher 2000; Jeffrey 2007; Rosebury 2009, Grybauskas 2021. Sullo stile letterario di Tolkien anche l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani ha dedicato un percorso di studio interno che è poi sfociato nella pubblicazione del volume III dei Quaderni di Arda (rivista dell’Associazione) intitolato Beowulf a Oxford: lo stile di Tolkien.

Altro pregio del volume è a mio avviso l’apparato bibliografico imponente. Qualcuno ha criticato questo eccesso di citazioni, che alle volte sconfinano anche nel corpo del testo, perché in effetti alle volte appesantisce la lettura (“dull to read”: Roberts 2025). Io tuttavia ritengo che questo sia anche un importante valore aggiunto del volume. Con questa ricchezza di riferimenti, infatti, lo studio riesce a fare “il punto della situazione” nella critica tolkieniana su vari aspetti. Aggiungo anche che citare quelli che prima di te hanno studiato i medesimi argomenti è segno non solo di “umiltà”, ma direi anche di correttezza professionale. Gli studi tolkieniani, anche esteri, sono infatti anche troppo pieni di contributi che esaminano un tema senza porsi adeguatamente il problema di leggere quanti prima lo hanno affrontato. Certo, è una via molto comoda e breve per scrivere e dire la propria opinione su qualsiasi tema, ma di certo questo dilettantismo rende un pessimo servizio a Tolkien, che va invece studiato con una modalità adeguata a un vero classico della letteratura.

Lo studio di Pezzini ha inoltre il merito metodologico di basarsi sui testi di Tolkien, partendo sempre da brani letterari che poi vengono “interpretati” alla luce degli scritti più saggistici dell’autore, in primis ovviamente On Fairy Stories e Beowulf: The Monsters and the Critics, ma anche le Lettere e Secret Vice. Ogni capitolo ha infatti una sorta di “brano guida” preso dalla narrativa, che poi viene con rigore e perizia analizzato anche alla luce degli altri scritti. È una impostazione molto chiara e intelligente, perché “si costringe” a stare aderente al testo il più possibile e per questo tende a limitare quei voli pindarici che fanno dire a Tolkien tutto e il contrario di tutto.

Entrando nel merito dei vari temi trattati, il capitolo che ho più apprezzato è stato il secondo, nel quale Pezzini con grande rigore esamina il “gioco” delle cornici e delle tradizioni di traduzioni di tradizioni… tipiche della narrativa tolkieniana e che ci portano a chiederci “chi è l’autore del racconto?” Qui Pezzini alla fine vede che l’autore della narrativa tolkieniana è, alla luce dei saggi critici e delle lettere di Tolkien, Dio stesso

The ultimate Author of Tolkien’s stories is not Tolkien himself, but rather an Unnamed Person, “who is never absent and never named”, as Tolkien puts it in a letter; 131 that is to say, “the Writer of the Story”. The ‘otherness’ of the stories, and the necessary imperfection of Tolkien’s reports, are thus depending on their ultimate Divine (co-)Authorship. Tolkien’s conviction that God is the ultimate source of his own stories, specifically of their ‘otherness’ and ‘truth’, can be traced throughout his fictional works. (Pezzini 2025 p. 144)

At the same time, the meta-textual frame also expresses, in secondary forms, some key aspects of Tolkien’s ‘primary’ perception of his literary activity, and by reflection of his literary theory: the unplanned inspiration of his stories; their organic and independent development; and their inherent ‘otherness’ and ‘truth’, which ultimately derive from a Divine Authorship, and yet are necessarily mediated by a human co-author – the ‘chosen instrument’ who ‘translates’ and ‘edits’ these stories in imperfect, incomplete, and yet indispensable human language. (Pezzini 2025 p. 147)

Questa è in fondo la tesi di tutto il libro: quando Tolkien parla di “mystery of literary creation” allude al fatto che sorgente ultima delle storie non è la cosciente pianificazione dello scrittore, ma una inconscia inspirazione divina che l’autore, scrivendo, “scopre” senza nulla inventare:

Tolkien does not conceive his work as an intellectual act consisting of the assertion of pre-existing convictions under the veil of literary fiction; rather he views it as the artistic (or ‘sub-creative’ , ‘mythological’, ‘literary’) expression of non-rationalised experiences. (Pezzini 2025 p. 117)

This is the reason why Tolkien considered literary creation as a “mystery”: its occurrence and offspring cannot be fully explained, for Tolkien, in rational terms, as purely human activities autonomously performed by individual human beings. (Pezzini 2025 p. 146)

Molto pregevole anche il capitolo quarto, che nella conclusione spiega chiaramente e con dovuti supporti testuali che in Tolkien non vi sono allegorie univoche e meccaniche, perché ogni personaggio è un individuo che però, con la sua storia, i suoi dilemmi e le sue scelte, “incarna” e/o “rappresenta” in sé stesso un problema universale. Questo è vero per ogni personaggio, da Frodo a Beren e Lúthien che, apparentemente, sarebbero ottimi candidati per diventare “allegorie” di J.R.R. Tolkien e sua moglie Edith:

For this reason, the kind of narrative parallels discussed here should not be construed as ‘internal allegories’. Frodo is not an ‘allegorical’ figure for Beren or Bilbo (or vice versa). Frodo’s story is tightly connected with those of Beren and Bilbo, and many others. (Pezzini 2025, p. 231)

Limiti

Il primo limite che mi permetto di rilevare è, per così dire, di natura “logica”, ed è in qualche modo già visibile dal titolo del libro. Mi spiego meglio. L’autore, come si è visto, si pone il problema di capire cosa Tolkien intenda con “mystery of literary creation” e, per farlo, si basa sui testi narrativi di Tolkien che vengono interpretati alla luce degli scritti saggistici del medesimo. Ora, è abbastanza evidente che questo approccio “funziona” (e, intendiamoci, funziona davvero!) perché per spiegare un autore si usa il medesimo autore e dunque la spiegazione non può essere falsa. Esemplificando: se (come teorizza Tolkien) Dio crea l’uomo come sub-creatore di storie allora per forza l’uomo (e Tolkien medesimo) tende a narrare storie; e, d’altra parte, se Tolkien narra un certo tipo di storie, per forza quando cerca di spiegarle lo farà trovando una teoria che calzi perfettamente con ciò che ha narrato. Con questo voglio semplicemente dire che Pezzini, spiegando Tolkien con Tolkien, raggiunge lo scopo che si era prefissato ma, in realtà, non spiega qual è il mistero della creazione letteraria. Ad essere precisi, secondo me Pezzini ha avuto la “giusta” intuizione per spiegarlo, perché alla fine del libro lega questo mistero alla cosiddetta “mistica”:

It would take another book to discuss the many parallels and possible sources of this ‘mystic’ conception of artistic creation, from classical literature and medieval mysticism to romantic and modernist literature. (Pezzini, p. 320).

Io condivido questa intuizione, essendo io stesso arrivato alla medesima conclusione per altre vie, tanto che a breve pubblicherò un saggio proprio su questo. Ma, appunto, il libro che spiega “veramente” il mistero della creazione letteraria dovrebbe iniziare proprio lì dove finisce questo di Pezzini. Si tratterebbe quindi di vedere cosa si intende per mistica in tutte le sue declinazioni e come questa “spieghi” così il mistero della creazione letteraria, ma questo, appunto è un altro libro.

Il secondo “limite” che vedo nel testo è una certa “oscillazione irrisolta” tra due poli:

  •  da un lato l’autore vuole proporre una lettura “non confessionale” di Tolkien facendo ad esempio grande uso del concetto di “inconscio” (“unconsciousness” è usato 31 volte nel libro) e similari (“inspiration”, “not rational”, ecc…);
  • dall’altro, però, usando Tolkien per spiegare Tolkien non può evitare di dire che per Tolkien il mistero della creazione letteraria è sì legato all’inconscio, ma a un inconscio che va oltre la ragione concettuale perché è radicato in Dio; non in un dio qualsiasi, tuttavia, bensì nel Dio specificamente cristiano, come si afferma inequivocabilmente nell’epilogo di Sulle Fiabe e in tanti altri brani (che peraltro Pezzini cita in modo completo).

Questa “oscillazione irrisolta” la si vede anche in alcune analisi testuali operate da Pezzini; ne cito solamente tre:

  1. il capitolo terzo è tutto dedicato a dimostrare (peraltro con argomenti molto solidi) che, quando nel Signore degli Anelli si parla di “Lords of the West” (SDA, Il Ritorno del Re, Libro 6 cap. 5) si devono intendere i Valar stessi e non i semplici signori che si oppongono all’orientale Mordor. Tuttavia, se si resta al testo, questa identificazione non si evince;
  2. in quello stesso capitolo, quando Pezzini “spiega” la scelta di Frodo al Consiglio di Elrond di prendere l’anello, afferma che si tratta di una scelta libera e che la sua volontà è mossa sicuramente dai Valar:

    The first passage is about Frodo’s momentous decision to take the Ring at the end of the Council of Elrond, which Tolkien describes as a free individual choice, and yet involving the participation of “some other will”, to the hobbit’s own wonder. That this is the will of the Valar is suggested by Elrond’s reaction to Frodo’s words (“I think that this task is appointed for you, Frodo”). (Pezzini 2025 p. 165)

    Qui però Pezzini si dimostra poco attento al testo, perché Tolkien scrive diversamente:

    At last with an effort he spoke, and wondered to hear his own words, as if some other will was using his small voice. ‘I will take the Ring,’ he said, ‘though I do not know the way.'[…]

    ‘But if you take it freely, [afferma Elrond] I will say that your choice is right’

    Qui non si dice affatto che qualcuno sta usando la voce di Frodo (e che quindi la sua volontà è mossa da altri), ma solamente che è “come se” questo avvenisse, e questo “as if” apre a diverse possibili opzioni senza indicare qual è quella sicuramente corretta. Similmente, Elrond non afferma affatto che la scelta di Frodo è libera, ma “solo” che “se la scelta è libera allora la tua decisione è giusta”, e questo “if” non è di sicuro introdotto casualmente da Tolkien (su questi punti mi permetto di rimandare al mio contributo);

  3. la medesima oscillazione la si vede anche nel capitolo 5, tutto teso a dimostrare che il ritorno di Gandalf dopo lo scontro col Balrog è una reale resurrezione di Gandalf il Grigio in anima e corpo. Anche qui Pezzini avanza argomenti molto solidi e tuttavia non si premura adeguatamente di dimostrare quello che è il vero punto dirimente della questione, ovvero capire se il corpo di Gandalf il Bianco è lo stesso corpo di Gandalf il Grigio. Solo se la risposta è sì si può “correttamente” parlare di resurrezione, e non di semplice “ricostituzione” come ad esempio è avvenuto per l’altro Maia, Sauron, post “uccisione” da parte di Elendil, o di “reincarnazione” (Pezzini 2005 pp.303, 307). In merito, noto anche che l’autore non tematizza la differenza tra diversi tipi di resurrezione, visto che Tolkien stesso dice che la resurrezione di Lazzaro è diversa da quella di Cristo (Lettera n. 212 in nota, non citata da Pezzini) [Dopo la pubblicazione della recensione l’autore, in un carteggio privato mi fa però presente che la lettera 212 è citata in nota a p.314 del suo saggio].

Questi tre esempi, infine, mi permettono di mettere in luce l’ultimo punto in cui non mi trovo completamente in sintonia con Pezzini. A livello interpretativo, infatti, lo studioso italiano non coglie una cosa molto importante della narrativa di Tolkien, ovvero che il testo tolkieniano (anche al di là di quello che Tolkien stesso può aver poi scritto in altri luoghi, dalle lettere alla History of Middle-earth) in alcuni punti importanti resta aperto a varie letture, e questa apertura è sicuramente voluta da Tolkien stesso. Come noto, infatti, egli quando scrive soppesa ogni singola parola per cui, se avesse voluto inequivocabilmente dire al lettore che Gandalf è risorto, o che la volontà di Frodo è stata mossa dai Valar Signori dell’Ovest, lo avrebbe scritto esplicitamente con chiarezza. Aggiungo poi che queste volute ambiguità sono una delle più distintive caratteristiche dell’opera di Tolkien, che peraltro rendono la sua narrazione molto più intrigante, affascinante, coinvolgente e “cattolica” nel senso di universale. Per questo, quando si incontrano questi passi “aperti” a più letture, vanno semplicemente registrati come tali, senza volerli a tutti costi “risolvere” con certezza.

Conclusione

Il libro di Giuseppe Pezzini è sicuramente un testo pregevolissimo, che si colloca nella fascia “alta” dei Tolkien Studies. Personalmente considero poi questa pubblicazione un evento estremamente positivo anche perché la critica tolkieniana sta attraversando un momento molto scadente a livello qualitativo, con fortissime polarizzazioni ideologiche che non possono giovare alla comprensione di Tolkien. In quest’orizzonte, purtroppo, saggi come questo di Pezzini, così ben articolati e documentati, oggi sono diventati le eccezioni che confermano la regola: anche per questo ne raccomando sicuramente la lettura e lo studio.

Bibliografia

  • BRATMAN DAVID (2000), The Literary Value of The History of Middle-earth, in FLIEGER-HOSTETTER 2000, pp. 69-94
  • CHRISTOPHER JOE R. (2000), Tolkien’s Lyric Poetry, in FLIEGER-HOSTETTER 2000, pp. 143-160.
  • CLARK GEORGE – TIMMONS DANIEL (ed.) (2000), J.R.R. Tolkien and his Literary Resonances, Greenwood Press, Connecticut, London.
  • DROUT MICHAEL (2004b), Tolkien’s Prose Style and its Literary and Rhetorical Effects, «Tolkien Studies» 1 (2004), pp. 139-63.
  • DROUT MICHAEL – WYNNE PATRICK H. (2000), Tom Shippey’s J.R.R. Tolkien: Author of the Century and a Look Back at Tolkien Criticism since 1982, «Envoi» 9/2 (2000), pp. 101-167
  • FLIEGER VERLYN – HOSTETTER CARL (ed.) (2000), Tolkien’s Legendarium, Greenwood Press, USA-London
  • GRYBAUSKAS PETER (2021), A Sense of Tales Untold, Kent State UP, Kent USA
  • HART TREVOR – KHOVACS IVAN (2007), Tree of Tales. Tolkien, Literature and Theology, Baylor University Press, Waco.
  • JEFFREY DAVID LYLE (2007), Tolkien and the Future of Literary Studies, in HART-KHOVACS 2007, pp.55-70
  • PEZZINI GIUSEPPE (2025). Tolkien and the Mystery of Literary Creation, Cambridge University Press, Cambridge (Edizione del Kindle)
  • QUADERNI DI ARDA (2022), Beowulf a Oxford: lo stile di Tolkien, in Quaderni di Arda volume III 2022-23,
  • ROBERTS ADAM, Recensione a Pezzini 2025, disponibile qui
  • ROSEBURY BRIAN (2008), Revenge and Moral Judgment in Tolkien, «Tolkien Studies» 5 (2008), pp. 1-20.
  • SIMONSON MARTIN (2008), The Lord of the Rings and the Western Narrative Tradition,Walking Tree Publishers, Zurich-Berne.
  • SULLIVAN III C.W. (2000), Tolkien the Bard, in CLARK – TIMMONS 2000, pp. 11-20.
  • WALKER STEVE (2009), The Power of Tolkien Prose, Palgrave Macmillan, NewYork

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Saggi AIST: Williams risponde a Flieger

Copertina Saggi AISTA volte succede che un saggio pubblicato da uno studioso susciti la reazione di altri studiosi interessati allo stesso argomento. Questo può tradursi in dibattiti pubblici vis à vis in occasione di meeting o convegni o, come in questo caso, nella produzione di un secondo saggio concepito per rispondere al primo. Nel mese di settembre abbiamo pubblicato il saggio di Verlyn Flieger dal titolo “L’arco e la chiave di volta” (lo trovate qui), nel quale la studiosa statunitense si concentrava sulla personalità del Professore, nella quale trovava, motivandole, delle profonde “contraddizioni”, sostenendo che proprio queste sarebbero state il terreno fertile alla base della sua produzione accademica e letteraria. Ebbene, il Saggio AIST che vi proponiamo questo mese è stato scritto da Donald T. Williams proprio in risposta a quello di Flieger, dal quale lo studioso prende spunto per proporre un punto di vista diverso.

Lo studioso

Donald T. Williams, che come sempre ringraziamo per la disponibilità dimostrata consentendoci di tradurre e pubblicare il suo saggio, è professore emerito del Toccoa Falls College, un’istituzione accademica statunitense di ispirazione cristiana (nota anche come “The Christian College of Georgia”) fondata nel 1907. I suoi campi di studio sono la teologia e la letteratura, con particolare riferimento, per quanto riguarda la seconda, alle opere di C.S. Lewis e J.R.R. Tolkien. Tra le sue pubblicazioni nel campo che ci interessa possiamo ricordare Deeper Magic: The Theology behind the Writings of C.S. Lewis (Square Halo Books, 2016) e “An Encouraging Thought”: The Christian Worldview in the Writings of J.R.R. Tolkien (Christian Publishing House, 2018).

Il Saggio

Pietra d'angoloIl saggio del 2021 che vi proponiamo, del quale come sempre trovate nell’allegato il link all’originale inglese, è stato pubblicato sulla rivista Mythlore come “Keystone or Cornerstone? A Rejoinder to Verlyn Flieger on the Alleged ‘Conflicting Sides’ of Tolkien’s Singular Self”. Già dal titolo è possibile comprendere la materia del contendere, con Flieger che dipinge Tolkien come una “chiave di volta”, il blocco che tiene insieme l’arco equilibrando le spinte contrapposte dei due lati (le “contraddizioni”), e Williams che chiama in causa la “pietra d’angolo”, l’elemento della costruzione (il “solido fondamento”) che ne regge il peso. Non sfugge naturalmente il riferimento biblico (Salmi 118, 22), che lascia trasparire con chiarezza come la risposta di Williams riguardo alla personalità di Tolkien sia incentrata sulla dichiarata fede del Professore e su quell’elemento religioso che, pur reso deliberatamente invisibile agli occhi dei lettori, rimane tuttavia «insito nella storia», come l’autore stesso ci fa sapere.

Buona Lettura!

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Il nuovo numero di «ContactZone» dedicato allo Hobbit

Giunge alle stampe il nuovo numero (2, 2024) di «ContactZone», con una ricca selezione monografica di articoli interamente dedicati allo Hobbit. Il volume, intitolato Nel tempo di Bilbo Baggins: (ri)leggere The Hobbit di J.R.R. Tolkien, è curato da Oriana Palusci (Università “l’Orientale” di Napoli) e Giuseppe Pezzini (Corpus Christi College di Oxford) e ospita i saggi di alcuni tra i più importanti Tolkien scholars della scena internazionale.

La rivista

Pubblicata da Paolo Loffredo Editore, «ContactZone» è una rivista scientifica digitale peer-reviewed  a diffusione internazionale specializzata nello studio della fantascienza, del fantastico e della rappresentazione di mondi immaginari e/o alternativi in questi ambiti letterari. Legata all’Associazione italiana per lo studio della fantascienza e del fantastico, copre vaste aree di ricerca, dalla letteratura al cinema, dai fumetti ai videogame, toccando un ampio spettro di approcci critici che riguardano la critica letteraria in senso stretto ma anche la linguistica, la traduzione, gli studi culturali, etc.

Il numero 2, 2024 di «ContactZone» prende le mosse dagli interventi proposti alla giornata di studi dedicata allo Hobbit tenutasi a Milano il 13 novembre 2023, presso la Biblioteca Comunale di Palazzo Sormani, in occasione dei cinquant’anni dalla morte dell’autore e dalla prima traduzione italiana del romanzo. Tuttavia, solo una parte degli interventi milanesi sono confluiti in questa sede, mentre altri ne sono stati aggiunti per completare e confermare la scientificità dell’approccio. L’idea dei due curatori del numero è chiara: «Affrontare Tolkien seriamente, accademicamente, come si studiano Shakespeare, Dante o Virgilio, non solo è possibile, ma è un dovere, ed è infatti ormai una pratica diffusa in tutto il mondo che piano piano sta arrivando in Italia, grazie anche al contributo e alla competenza di molti pionieri in questo campo» (Introduzione, p. 4). Certo: nel nostro Paese, a dispetto degli studi che procedono pressoché ininterrotti da oltre un quarantennio, l’opinione pubblica sembra ancora faticare a ravvisare in Tolkien qualcosa di più che un autore di “fantasy” – peraltro fatto proprio da una parte politica e a lungo trascurato da un’altra – o tutt’al più un autore per ragazzi. Se l’autore inglese rimane, per molti versi, estraneo al mondo universitario italiano, le eccezioni esistono e sono sempre più notevoli. Non per caso, l’obiettivo di questo volume di «ContactZone» è proprio «dare un contributo in questa direzione, presentando una raccolta di saggi con un taglio prettamente scientifico, scritti da studiosi appartenenti al mondo accademico» (p. 5).

L’indice di questo numero

Articoli

Oriana Palusci e Giuseppe Pezzini, Introduzione: The Hobbit entra all’università.
Piero Boitani, Tolkien e i mostri.
Carlo Pagetti, A.D. 1937: Bilbo Baggins va alla guerra.
Giuseppe Pezzini, The Memoirs of Bilbo Baggins: finzione metatestuale e hobbito-centrismo in The Hobbit.
Mark Atherton, L’Arkenstone e l’interpretazione di The Hobbit.
John Garth, La mira di Tolkien e la morte di Smaug.
Oriana Palusci, “Dreaming of eggs and bacon”: il pasto dello hobbit.
Paolo Pizzimento, Le pipe, il tabacco e l’imagery del “fumo lento” in The Hobbit.

Recensioni

Paolo Pizzimento, recensione a Paolo Nardi e Nicola Nannerini, Guardare verso Occidente. Tempo, trascendenza e destino nell’opera di J.R.R. Tolkien. Verona: Fede & Cultura, 2024.
Matteo Sanfilippo, recensione a Rossana Morriello, Gino Roncaglia e Federico Meschini (a cura di), Le biblioteche nella fantascienza. Utopie, distopie, intelligenze artificiali. Milano: Editrice Bibliografica, 2024.
Giulia Iannuzzi, recensione a Riccardo Gramantieri, Presagi di postumanesimo. Dal romanzo vittoriano all’epoca dei pulp. Milano: Mimesis, 2024.

Il volume, in formato digitale, è acquistabile online sul sito dell’editore e consultabile sulla piattaforma Torrossa.

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Saggi AIST: Flieger, L’Arco e la Chiave di Volta

Copertina Saggi AISTDopo la pausa agostana, proseguendo una tradizione rinverdita da qualche tempo a questa parte, proponiamo ai nostri lettori un nuovo “Saggio AIST”. Per questo mese di settembre è ancora la volta di Verlyn Flieger, che come sempre ringraziamo, che ci parla stavolta dell’autore anziché dell’opera – o meglio dell’autore attraverso l’opera – riuscendo, con il consueto inimitabile stile, nella non trascurabile impresa di offrire una lettura profondamente interessante partendo dalla premessa, peraltro del tutto veritiera per chi abbia davvero studiato un po’ Tolkien, “di qui in avanti non vi dirò nulla che non sappiate già”.

Non è da tutti.

Il Saggio

Verlyn Fliger nel corso di una presentazione“L’arco e la chiave di volta” non è in realtà un vero e proprio saggio, ma il (lungo) discorso di apertura della seconda giornata di lavori della cinquantesima edizione della Mythcon Conference, organizzata dalla Mythopoeic Society nel 2019 a San Diego, California. La lectio magistralis, tenuta da Verlyn Flieger il 3 agosto in qualità di Scholar Guest of Honor, fu successivamente trascritta e pubblicata sul numero 135, Fall/Winter 2019, della rivista Mythlore come The Arch and the Keystone. Come sempre, nell’allegato è disponibile il link all’originale inglese.
Il contenuto del discorso ruota attorno all’interrogativo: “chi è esattamente J.R.R. Tolkien?”. Verlyn Flieger propone la domanda e la motiva, per poi darle risposta con dovizia di argomenti in un percorso in crescendo che, iniziando dai saggi “Beowulf: mostri e critici” e “Sulle Fiabe”, si sposta quindi sulle contraddizioni insite in due affermazioni fatte da Tolkien in una lettera e in un’intervista, prosegue con le due opere “minori” Foglia di Niggle e Fabbro di Wootton Major, e infine si conclude con lo stesso Signore degli Anelli.

Buona Lettura!

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Saggi AIST, Janet Croft: Il Nome dell’Anello

La pubblicazione dei Saggi AIST prosegue con un prezioso contributo di Janet Brennan Croft dedicato a un tema assai caro all’autrice, ovvero il rapporto tra le potenze del male e del linguaggio inquadrate nella loro degradazione lungo il corso delle Ere di Arda. Si tratta di un aspetto vitale del Legendarium tolkieniano, nel quale la questione linguistica acquisisce, com’è noto, un’importanza centrale e procede di pari passo con la grande tematica della “Luce frantumata” già oggetto degli studi di Verlyn Flieger nel seminale saggio Schegge di Luce. Croft analizza la questione con la competenza e l’attenzione al dettaglio che da sempre la contraddistinguono, offrendo riflessioni preziose su aspetti relativamente poco considerati dell’opera di Tolkien.

L’autrice

Janet Brennan Croft è responsabile dei Servizi di Accesso presso le biblioteche della Rutgers University di New Brunswick (NJ). È autrice di importanti saggi che si concentrano in particolar modo sul ruolo della Grande Guerra come generatrice di immaginario fantastico. A questo tema ha dedicato la monografia War in the Works of J.R.R. Tolkien (2004), opera vincitrice del Mythopoeic Society Award for Inklings Studies, e la raccola di saggi da lei curata Baptism of Fire: The Birth of the British Fantastic in World War I (2015). Croft è curatrice o co-curatrice di diverse raccolte tra cui Tolkien on Film: Essays on Peter Jackson’s Lord of the Rings (2004), Tolkien in the New Century: Essays in Honor of Tom Shippey (2014), Perilous and Fair: Women in the Work and Life of J.R.R. Tolkien (2015). Ha inoltre pubblicato numerosi articoli scientifici su Tolkien e su altri argomenti in varie riviste accademiche.

Il saggio

Il saggio del 2017 che proponiamo in traduzione, del quale trovate nell’allegato il link all’originale inglese, è stato pubblicato nella rivista «Mythlore» col titolo The Name of the Ring; Or, There and Back Again. Partendo dall’affermazione di Tolkien secondo cui «tutta la Terra di Mezzo era l’Anello di Morgoth», Croft afferma che il potere del Vala caduto era disperso nella materia stessa di Arda: non concentrato in un oggetto singolo, dunque, ma onnipresente e invisibile sebbene in nessun luogo assoluto. L’Anello di Sauron, invece, contiene un potere minore ma concentrato e fisicamente localizzabile. Il male nella Terra di Mezzo, dunque, segue una traiettoria discendente: da Morgoth che permea di sè tutto il mondo a Sauron che confina la propria forza in un oggetto, fino a Saruman e Gollum che rappresentano forme sempre più degradate e impotenti di malvagità. Croft adopera efficacemente il modello ermeneutico di Northrop Frye, che descrive quattro fasi del linguaggio: metaforico, metonimico, demotico e ricorso. Questo schema viene applicato alla storia dell’Anello e alla sua decadenza: così, Morgoth incarna la fase metaforica del linguaggio, nella quale nominare qualcosa equivale a possederla e trasformarla, Sauron la fase metonimica in cui soggetto e oggetto iniziano a separarsi, Saruman e Gollum la fase demotica, razionale, debole e descrittiva, in cui il linguaggio ha perso la magia originaria. Gli hobbit (Bilbo, Frodo, Sam) interrompono un ciclo apparente destinato a una coazione a ripetersi, evitando che il potere dell’Anello torni a uno stadio mitico e totalizzante (il ricorso). Infine, il saggio collega questi concetti alla riflessione sul potere delle parole nel legendarium di Tolkien: il linguaggio, nella sua fase originaria, ha una forza creativa e pericolosa, capace di plasmare il mondo. Ma nel corso della storia di Arda, questa potenza si affievolisce. Tuttavia, la letteratura e la poesia – sulla scorta di Frye e di Barfield – hanno il compito di conservare e rievocare quella fase primigenia del linguaggio, potente e mitica, che può ancora illuminare la realtà se usata con consapevolezza.

Buona Lettura!

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SAGGI AIST PRECEDENTI:
– Leggi Saggi AIST: Flieger, Lúthien ed Edith
– Leggi Saggi AIST: Drout su Beowulf: Mostri e Critici
– Leggi Saggi AIST: Le due visioni di Tolkien sul Beowulf di Tom Shippey
– Leggi Saggi AIST: Tolkien e il pensiero dialogico
– Leggi Saggi AIST: «Non c’è bisogno di eroi» di Thomas Honegger
– Leggi Saggi AIST: le fonti per fare ricerca su Tolkien
– Leggi Saggi AIST: «Cultura di massa ed escatologia tolkieniana ne Il Signore degli Anelli»
– Leggi Saggi: «Ariosto e C.S. Lewis» di Edoardo Rialti
– Leggi Lewis e Tokien come li ho conosciuti (mai bene) di Eric Stanley
– Leggi I saggi dell’AIST: La Contea di Saruman
– Leggi I saggi dell’AIST: Tolkien e Platone
– Leggi Bilbo uno sbandato? Per la Contea era così
– Leggi Il perfetto gentilhobbit di Wu Ming 4
– Leggi Mito e verità in Tolkien di Verlyn Flieger
– Leggi Saggi AIST: Noblesse oblige: Immagini di classe in J.R.R. Tolkien di Tom Shippey
– Leggi Saggi AIST: Éowyn di Rohan e Dolasilla di Fanes
– Leggi La catabasi: Tolkien e l’antica tradizione

LINK ESTERNI:
– Vai al sito di Janet Brennan Croft presso academia.edu

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JTR 2025 #2 : un dossier su psicologia e Tolkien

Un numero speciale

Il numero speciale del Journal of Tolkien Research, il secondo dell’anno in corso, a cura di Kristine Larsen, Sara Brown e Christopher Vaccaro, ha un tema accattivante: le possibili letture psicologiche dell’opera di Tolkien. Opera il cui successo duraturo non può certo essere spiegato solo dalla vastità di costruzione del mondo immaginario o dalla potenza del suo epos. Per quanto una parte della critica letteraria si accanisca a ignorarlo, è nelle pieghe dell’animo umano, nelle dinamiche psicologiche e morali, che il Legendarium tolkieniano rivela la sua forza più penetrante. Infatti i saggi di questo numero della rivista mettono in luce aspetti profondamente umani e moderni dei personaggi, capaci di interagire con le categorie della psicologia, della percezione, dell’etica linguistica e dell’identità.

Gli articoli

Riviste: Journal of Tolkien ResearchNel saggio Fears and Pains and Rages: The Psychology of Gandalf’s Anger, Nicholas Birns prende in considerazione il sentimento della rabbia, ovvero le reazioni irose di alcuni personaggi tolkieniani, e in particolare di Gandalf, una figura positiva e altruista, ma anche piuttosto irascibile. La sua collera – che emerge in alcuni momenti chiave, come con Saruman, Denethor e Pippin – si carica di ambiguità morali e sociali, riconducibili sia alla tradizione classica del thumos greco e della saeva indignatio latina, sia a una forma moderna e “professorale” di frustrazione in cui Tolkien doveva riconoscersi. In Gandalf, Tolkien ridefinisce l’archetipo del vecchio mentore saggio e del mago buono, mettendo in scena una mascolinità complessa, un soggetto affettuoso ma severo, che accoglie e punisce, guida e giudica. Insomma un personaggio davvero complesso e non facile da maneggiare.
L’esplorazione psicologica ovviamente si estende anche a personaggi secondari. Nel loro saggio The Only Thriller J.R.R. Tolkien (Never) Wrote: Jungian Shapes of Evil in “The New Shadow”, Martin Hauberg-Lund Laugesen e Bo Kampmann Walther prendono in esame “The New Shadow”, il sequel incompiuto del Signore degli Anelli, ambientato nella Quarta Era, dove Tolkien sembra abbandonare i conflitti epici per esplorare un male interiore, propriamente psicologico. In quelle poche pagine presto abbandonate la tensione generazionale e il senso di disillusione post-bellica diventano protagonisti. Il male non è più rappresentato da orchi, spettri e stregoni, ma dall’apatia, dal vuoto, dalla malinconia generazionale. Viene davvero da chiedersi cosa Tolkien sarebbe riuscito a dire se avesse voluto proseguire il romanzo.
La dimensione emotiva si intreccia poi con i temi importanti del lutto e della perdita. Nel Signore degli Anelli e nel Silmarillion, la morte è onnipresente e mai neutrale. Come sottolineano Ali Mirzabayati, nel suo articolo Mourning and Melancholia in The Lord of the Rings, e Dawn Walls-Thumma in Grief, Grieving, and Permission to Mourn in the Quenta Silmarillion, le reazioni al dolore – da Denethor che cede alla follia, a Théoden che invece riscopre la speranza – non solo definiscono i loro rispettivi caratteri, ma propongono visioni contrastanti dell’umano. Inoltre, il narratore stesso nel Quenta Silmarillion racconta il lutto da un punto di vista morale, che esalta certe morti e ne silenzia altre, contribuendo a costruire una gerarchia affettiva e simbolica della memoria.
Ma l’analisi psicologica si spinge oltre. Il saggio di Sara Brown, “Restless and uneasy… thin and stretched”: The Ring, The Ringbearers, and Bodies in Psychological Crisis in Tolkien’s The Lord of the Rings, esplora le crisi psicofisiche che l’Anello scatena nei suoi portatori. Frodo, Bilbo e Gollum mostrano sintomi di alienazione profonda: sono irrequieti, introflessi, svuotati da un potere che devasta la mente e il corpo. La dipendenza dall’Anello diventa così una metafora della dipendenza emotiva, una forma distorta di attaccamento che rivela la fragilità della volontà umana.
La teoria dell’attaccamento, appunto, è quello di cui parla Lelie Bremont in Tolkien and Attachment Theory: a Theory to Bind Them All?, che propone una lettura sistematica delle relazioni nei romanzi tolkieniani. Da Frodo e Sam a Merry e Pippin, la forza dei legami primari è ciò che permette ai personaggi di sopravvivere alla paura, alla solitudine e alla guerra. L’universo narrativo di Tolkien, in questa prospettiva, si presenta come un laboratorio narrativo di resistenza emotiva e coesione affettiva, che evidentemente nasce dall’esperienza vissuta al fronte.
Non è solo la psiche a parlare nel Legendarium: è anche il linguaggio, e con esso la percezione morale. Mareike Huber, in The Moral Function of Invented Languages in J.R.R. Tolkien’s Legendarium, mostra come le lingue inventate da Tolkien – dal suono melodioso del Quenya al minaccioso Linguaggio Nero – trasmettano già di per sé un giudizio morale, attraverso le loro qualità fonoestetiche. Tuttavia, queste associazioni, lungi dall’essere oggettive, riflettono codici culturali e aspettative personali, dimostrando quanto l’etica linguistica faccia parte integrante della complessità del mondo secondario.
A proposito di percezione, l’indagine di Cameron Bourquein in Perceiving the Perceiver: “Viewing” Sauron Through the Gestalt Theory of Perception, utilizza la teoria psicologica della Gestalt per mostrare come Sauron nel Signore degli Anelli agisca più come una costruzione mentale che come un personaggio definito. La sua presenza – sempre fuori scena, ambigua, frammentaria – obbliga il lettore a “completarlo” cognitivamente, a metterci del suo. Questo meccanismo percettivo si estende anche agli adattamenti visivi (Gli Anelli del Potere, ad esempio), in cui la figura di Sauron diventa una “scatola di Schrödinger”: presente e assente, vero e falso al tempo stesso.
Infine, la complessità dei ruoli di genere in Tolkien viene evidenziata nel saggio di Kristine Larsen, The Mariner and his Astronomer Father: Victorian Masculinities in Númenor, che nel rapporto tra Aldarion e il padre Tar-Meneldur individua un’allegoria del conflitto tra mascolinità vittoriane. Il re astronomo e il figlio marinaio rappresentano due ideali maschili opposti: il sapere contemplativo e domestico da un lato, l’avventura coloniale dall’altro. Tolkien, attento osservatore dei cambiamenti storici e culturali, tratteggia così un dramma familiare che riflette le tensioni di un’intera epoca.

Conclusioni

In conclusione, le letture critiche contenute nell’ultimo numero del Journal of Tolkien Research dimostrano che la forza dell’opera di Tolkien non risiede solo nei suoi aspetti mitici e avventurosi, e nemmeno soltanto nella grandiosità e complessità degli scenari evocati, come qualcuno potrebbe credere. La narrativa tolkieniana è anche una lente attraverso cui esplorare l’interiorità umana, le costruzioni sociali e le ambiguità morali. Come ogni grande autore, Tolkien ci parla tanto della Terra di Mezzo quanto del nostro stesso mondo e, soprattutto, della nostra psiche.

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Saggi AIST: Flieger, Lúthien ed Edith

Scrivere saggiProseguiamo la pubblicazione dei Saggi AIST con un contributo di Verlyn Flieger, la cui vicinanza alla nostra Associazione non smette di inorgorglirci. Il saggio in questione è stato scelto per noi dalla stessa Flieger, fatto che interpretiamo come indicativo del trattarsi di una riflessione cui l’autrice tiene particolarmente.

 

 

La studiosaFoto di Verlyn Flieger

Di Verlyn Flieger abbiamo già scritto molte volte, quindi non possiamo che ripeterci brevemente a vantaggio degli eventuali lettori che la scoprissero per la prima volta in questa occasione. Fra i maggiori studiosi di Tolkien a livello mondiale, Verlyn Flieger ha curato Sulle FiabeIl fabbro di Wootton Major, ha diretto per ventidue anni la rivista accademica Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review, ha vinto ben due Mythopoeic Award per i suoi studi e ha dato alle stampe una raccolta di suoi saggi (Green Suns and Faerie) e il suo secondo romanzo, The Inn at Corbies’ Caww. Prima di ritirarsi, è stata per anni docente al Dipartimento d’Inglese della University of Maryland.

Il saggio

JRR Tolkien ed Edith BrattIl saggio del 2024 che vi proponiamo, del quale trovate nell’allegato il link all’originale inglese, è stato pubblicato nella rivista Mythlore come “Tolkien’s Lúthien: From Life to Art to Life as Art”. Partendo dalla nota e toccante affermazione di Tolkien secondo cui “lei era (e sapeva di essere) la mia Lúthien” (Lettere n. 340), l’autrice costruisce un’analisi del rapporto tra Tolkien e la moglie a partire dalla domanda “Edith era la Lúthien di Tolkien, ma lui, era il suo Beren?”. Nasce così un ritratto biografico/letterario dei due coniugi, sfrondato quando necessario dell’alone romantico che la loro vicenda, anche giustamente, ha assunto col passare del tempo agli occhi dei lettori. Quello che incontriamo nelle pagine è così un matrimonio reale tra persone reali, con gli alti e i bassi che qualsiasi relazione, anche la più profonda, inevitabilmente comporta.

Buona Lettura!

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– Vai al sito di Verlyn Flieger

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David Bratman sulla Christopher Tolkien Conference

Locandina Christopher Tolkien Centenary ConferenceDopo quello di Verlyn Flieger sulla potenza letteraria degli Hobbit proseguiamo nella pubblicazione di articoli a firma di esperti tolkieniani internazionali. È ora la volta di David Bratman, che ringraziamo per la gentile concessione. L’articolo che segue (in calce il link all’originale) è il breve resoconto di alcuni interventi presentati alla Christopher Tolkien Centenary Conference, organizzata congiuntamente dalla Tolkien Society e dalla Mythopoeic Society e tenutasi il 23 e 24 novembre 2024 in occasione del centenario della nascita di Christopher Tolkien.

L’AutoreFoto di David Bratman

Bibliotecario universitario e studioso statunitense, David Bratman è noto in particolare per essere stato fra i curatori della rivista Mythprint pubblicata dalla Mythopoeic Society e per la sua appartenenza all’editorial board di Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review, rivista fondata da Douglas A. Anderson, Michael D. C. Drout e Verlyn Flieger e universalmente riconosciuta come la più prestigiosa al mondo nel campo degli studi tolkieniani. È anche autore di numerosissimi articoli, recensioni, bibliografie e guide alla lettura.

“La Christopher Tolkien Conference”

Giovedì (21/11/2024 N.d.T.) cadeva il centenario della nascita di Christopher Tolkien, figlio ed esecutore letterario di J.R.R. Tolkien nonché responsabile – direttamente o indirettamente – di tutti i libri con quel nome sopra pubblicati nei cinquant’anni trascorsi dalla morte. La quantità di materiale inedito, spesso di grande interesse, lasciata dietro di sé da Tolkien è enorme, forse senza pari tra i grandi autori, e il livello di dedizione mostrato da Christopher nei confronti di tale materiale non ha decisamente eguali.

È per questo motivo che la scorsa settimana la Tolkien Society ha tenuto una conferenza online su Zoom. Di base nel Regno Unito, la conferenza aveva da queste parti orari piuttosto particolari, iniziando alle due o tre di notte e terminando intorno a mezzogiorno. Trovandomi spesso in piedi a metà nottata ho sentito alcuni dei primi interventi, ma poi sono tornato a letto e sono più quelli che ho perso. Delle ventotto presentazioni previste, ne ho sentite in tutto o in parte solo diciassette.

Più della metà delle presentazioni che ho sentito erano testimonianze personali del genere “come ho lavorato con Christopher Tolkien”. Qualcuno lo descriveva come un “curatore in capo”, ed è vero che lui subappaltava all’esterno gran parte del lavoro. Persone come Christopher Gilson, che ha curato il materiale linguistico, o Christina Scull e Wayne G. Hammond, che hanno curato di tutto, hanno raccontato pressoché la stessa storia: come la corrispondenza o le conversazioni con Christopher abbiano spinto quest’ultimo a suggerire che forse sarebbe loro piaciuto occuparsi della curatela di una certa cosa, o almeno fornire qualche suggerimento riguardo a come quella cosa potesse essere presentata in stampa, e come questo abbia portato a una lunga collaborazione nel corso della quale Christopher mandava fotocopie di carte in suo possesso, annotate con cura (questa pagina è il verso di quell’altra; questa parte è in inchiostro rosso, etc.), e mostrava infinita pazienza e tolleranza per i dettagli nel rispondere alle domande, ma anche una determinazione inflessibile nel pretendere che il lavoro fosse fatto nel modo giusto.

Di presentazioni di questo genere ve n’erano un certo numero, e lo stesso principio si applicava ai discorsi di artisti che avevano illustrato le opere (Alan Lee e Ted Nasmith), a quello del curatore dello stesso Christopher presso la sua casa editrice e, cosa interessantissima, a quello dell’archivista della Marquette University, cui Tolkien aveva venduto molti dei suoi manoscritti già negli anni ’50. Gran parte di quel discorso consisteva in un resoconto storico. A quelle carte non fu prestata molta attenzione fino a che Christopher non iniziò ad aver bisogno di consultarle per il suo lavoro, ed egli aveva stabilito un buon rapporto con l’allora archivista. Ciò di cui Christopher aveva davvero bisogno, tuttavia, specialmente in considerazione del suo crescente concentrarsi sul materiale della Marquette, era un assistente dedicato e competente che avesse il tempo e le energie per fare il lavoro con riscontro immediato. E ne ricevette uno: il compianto Taum Santoski. Conoscevo Taum di persona, pur se non bene come altri, e ho trovato delizioso che abbia ricevuto quest’attenzione in un discorso che riguardava quasi più lui che Christopher.

Foto di Sara BrownAltri interventi riguardavano il lavoro compiuto da Christopher Tolkien; alcuni trattando solo in modo generale della sua esistenza e attribuendo implicitamente l’importanza di Christopher al fatto di averlo prodotto, ma altri concentrandosi sul lavoro che egli faceva e sulla complessa stratificazione di scritti originali di Tolkien, commenti di Tolkien a questi, commenti di Christopher agli uni e agli altri, lavoro di messa in ordine del materiale e selezioni effettuate sullo stesso. (Si stima che i quattro ponderosi volumi sulla stesura del Signore degli Anelli [Volumi VI, VII, VIII e IX della Storia della Terra di Mezzo N.d.T.] contengano solo circa il quaranta per cento di quanto scritto da Tolkien). C’era poi la complessità dell’opera di Tolkien – i cambi di personaggi, le revisioni e cancellature, le storie dove i personaggi fraintendono il sapere loro narrato, le parti dove Tolkien stesso non era sicuro di quale fosse la Foto di Kristine Larsenrisposta … e l’attenta presentazione da parte di Christopher di tutto ciò. Due interventi, uno di Sara Brown (foto a sinistra) e l’altro di Kristine Larsen (foto a destra), hanno trattato dell’Athrabeth, un testo chiave del Legendarium, analizzando tutti gli strati della stesura e le scelte comportate dal lavoro di curatela delle stesse; entrambe, insieme a Verlyn Flieger, hanno poi enfatizzato finanche il coraggio di Christopher nel pubblicare tale testo, che incideva fino all’osso l’universo della narrazione e toccava le più profonde convinzioni religiose dello stesso autore. Ascoltando le parole di Sara e Kris e leggendo la chat ho avuto l’impressione che la mera esistenza dell’Athrabeth fosse una novità per molti dei partecipanti. C’è ancora molta esplorazione da fare, quindi andiamo avanti e facciamola.

David Bratman, Martedì 26 Novembre 2024

Traduzione di Giampaolo Canzonieri

Articolo originale: Christopher Tolkien conference

ARTICOLI PRECEDENTI:

– Leggi l’articolo Flieger: gli Hobbit? Sono una potenza letteraria

LINK ESTERNI:

– Vai al sito di David Bratman
– Vai al sito della Christopher Tolkien Centenary Conference
– Vai alla pagina di Tolkien Gateway su Taum Santoski
– Vai alla pagina di Tolkien Gateway sull’“Athrabeth Finrod ah Andreth”

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Flieger: gli Hobbit? Sono una potenza letteraria

Four HobbitsPer gentile concessione dell’autrice pubblichiamo la traduzione italiana dell’articolo comparso sulla rivista online LitHub il 24 giugno 2024 sulla tarda aggiunta dei personaggi più iconici di Tolkien (link all’articolo originale in calce). La professoressa statunitense, fra i maggiori studiosi di Tolkien a livello mondiale insieme a Tom Shippey, ha curato Sulle FiabeIl fabbro di Wootton Major, ha diretto per ventidue anni la rivista accademica Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review, ha vinto ben due Mythopoeic Award per i suoi studi e ha dato alle stampe una raccolta di suoi saggi (Green Suns and Faerie) e il suo secondo romanzo, The Inn at Corbies’ Caww.

“La potenza letteraria degli Hobbit: come J.R.R. Tolkien ha dato forma al Fantasy moderno”

Quando lessi per la prima volta Il Signore degli Anelli nel 1957 ebbi l’occasione, oggi impossibile, di sperimentare la lettura di un libro che non avevo mai sentito nominare, scritto da un autore sconosciuto. Fu un’esperienza indimenticabile e irripetibile, e non ho mai smarrito la sensazione di assoluta meraviglia prodotta da quella scoperta, paragonata da C.S. Lewis a un fulmine a ciel sereno. Invidio ancora la me stessa del passato, in procinto di leggere Tolkien per la prima volta. Potessi rivivere da capo un evento della mia vita, sarebbe quello.
Non potendo farlo, ho optato per la seconda scelta migliore: l’ho letto ai miei figli. In seguito, fresca di rientro da assistente in un corso di specializzazione post-laurea, l’ho letto ai miei studenti e ho trovato in loro un pubblico pronto, in attesa di quel che Tolkien aveva da offrire. In faccia allo scetticismo dell’Accademia ho scritto la mia tesi di Dottorato su Tolkien, e sono stata abbastanza fortunata da insegnare, tenere conferenze e scrivere di Tolkien per gli ultimi cinquant’anni. Lo faccio ancora.
L’opinione comune è che J.R.R. Tolkien abbia trasformato da solo il genere del fantasy moderno. Questo è del tutto errato. Tolkien non ha trasformato il fantasy moderno; lo ha inventato.
Si può affermare con sicurezza che nessun genere formalmente riconosciuto come tale era popolare prima dei suoi scritti. Quel che passava per fantasy prima del 1954 era opera di autori di nicchia quali Lord Dunsany, E.R. Eddison, William Morris e Mervyn Peake [1]. I loro scritti fantastici – quelli di Dunsany erano bizzarri racconti brevi (a volte molto brevi) – erano opere di natura culturalmente derivativa (quelle di Dunsany di radici irlandesi, quelle di Morris norrene) o dal peculiare stampo personale (la concezione di Eddison secondo cui tutti i suoi personaggi principali erano avatar l’uno dell’altro e il suo stile letterario alla Re Giacomo I, il grottesco mondo-castello rinchiuso in se stesso di Peake). La comparsa del Signore degli Anelli fu per la cultura popolare un evento sismico, che non diede solo origine a generazioni di imitatori di second’ordine (sebbene abbia fatto anche quello), ma creò un pubblico mai esistito prima. Il marketing, da allora, non ha conosciuto pause né si è fatto troppi scrupoli.
Di recente, da uno scaffale del reparto fantasy della mia libreria di quartiere, ho preso un libro sulla cui copertina compariva “Tolkien”. Nulla nel libro era di suo pugno. Si trattava di una raccolta di mappe disegnate da mani altrui sulla base di descrizioni del suo mondo fornite da Tolkien.
Se da un lato il libro che Tolkien presentò al pubblico dei lettori nel 1956 [2] attingeva senza esitazioni dal grande tesoro della mitologia nordeuropea, dall’altro era qualcosa di più grande della somma delle sue parti.
Ai lettori fu presentato un mondo che avevano sempre desiderato ma non avevano mai sognato di poter avere; un mondo chiamato Terra di Mezzo (in antico inglese Middangeard, in antico islandese Myðgard) nel quale il fantastico incontrava il mondano, dove elfi e maghi e alberi parlanti e il terrificante perché non ben definito Oscuro Signore – in breve, il fantasy al massimo della sua espressione – condividevano lo spazio con pub e uffici postali, birra e pane e formaggio e funghi.
Questa vasta narrazione, variamente chiamata romanzo, trilogia o saga (non era niente di tutto questo) era un unicum, un’opera senza precedenti che istituì un nuovo genere letterario e generò come funghi un esercito di imitatori. Essa diede origine a una quantità di sottocategorie quali l’urban fantasy, ed è di frequente legata a doppio filo alla fantascienza, come nelle opere di Ursula Le Guin. Pochi fra gli epigoni di Tolkien in settant’anni e passa hanno colto la forma di quel che Tolkien chiamava Mondo Secondario, mentre i più (Le Guin è un’eccezione) ne hanno mancato l’essenza.
Tolkien non si limitò a scrivere opere fantasy, ma scrisse su di esso. Il suo seminale saggio Sulle Fiabe è una delle grandi discussioni teoretiche sulla tecnica e il contenuto del fantasy, all’altezza di Spenser e Coleridge [3].
Per lui il fantasy non era solo un genere letterario, né solo un tipo particolare di narrativa: era un Mondo Secondario con leggi e convenzioni sue proprie, e imponeva la Credenza Secondaria. Era un mondo in cui potevi entrare, un mondo che, se ne avevi l’immaginazione, il desiderio e la capacità, potevi anche creare.
Questo mondo egli lo chiamava Faërie, e nel suo vocabolario non c’è nome o verbo (poiché esso è entrambi) che sia più importante. Faërie (egli lo scriveva anche fayery, come cookery o witchery) vuol dire “incantesimo”, il processo o la pratica dell’incantare, e lo stato alterato dell’essere incantato, sottoposto al sortilegio delle parole.
Non era magia, che Tolkien rifiutava in quanto artificio, manipolazione del mondo reale; era quel che egli chiamava “sub-creazione”, l’imitazione da parte dei mortali dell’opera di Dio, il Creatore originale, nell’ambito della quale, come inequivocabilmente affermato: «Per diritto creiam, che ci ha creato» [4].
Qualificare la capacità di creare come “legge” la fa suonare una cosa ineludibile, come la gravità o la regola del tre; essa tuttavia non è tale, né Tolkien pensava che fosse una cosa facile. Per lui essa richiedeva quel che chiamava “perizia elfica”, e l’“intima consistenza della realtà”. In altre parole, non puoi solo dire “C’era una volta” e chiuderla lì; il tuo mondo fantasy deve mantenersi fedele alle proprie regole.
Se dai al tuo Mondo Secondario un sole verde, tutti i suoi colori saranno corrispondentemente differenti da quelli del nostro mondo. Se i tuoi Hobbit sono alti tre piedi, non vivranno in dimore elevate: le loro case troveranno posto in buche nel terreno e avranno soffitti bassi.
Molto del successo del mondo di Tolkien è dovuto alla purezza del suo intento originale, che non era scrivere fantasy ma creare una cosiddetta mitologia per l’Inghilterra, un sostituto narrativo di un presunto mito inglese perduto, scalzato dal Cristianesimo.
Egli chiamò il proprio mito Il Silmarillion, dai Silmaril, artefatti ad esso centrali, tre gioielli il cui possesso fu la causa prima della guerra che nel mito è consumatrice di tutto. Il suo mondo era chiamato Arda, i suoi dèi Valar, i suoi abitanti annoveravano Elfi e in ultimo Uomini (umani) e, piuttosto malvolentieri, Nani. La storia è una storia di guerra, ed è la prima e più persuasiva prova che Tolkien può legittimamente essere definito uno scrittore di guerra tanto quanto uno scrittore di fantasy.
Gli Hobbit non erano parte del piano originario di Tolkien. Vi entrarono piuttosto tardi e da una porta laterale, da inaspettati personaggi centrali di una storia per bambini, Lo Hobbit, che Tolkien inventò per i propri figli ma che trovò un pubblico immediato e duraturo a livello mondiale, e della quale Il Signore degli Anelli fu il seguito commissionato, desiderato, atteso e dal successo triplicato.
L’immaginario popolare riguardante la persona di Tolkien (un genere di cui egli stesso fu padre e promotore) vuole che in un momento di pausa egli abbia scarabocchiato «In a hole in the ground there lived a hobbit» sull’ultima pagina bianca di un compito d’esame che stava valutando, e abbia quindi inventato una storia che si accompagnasse alla frase. Questo non è del tutto vero. Che la storia sia genuina o no, infatti, la parola hobbit era in sé preesistente; pur se l’oracolare Oxford English Dictionary continua ad attribuirla a Tolkien, essa compare in una raccolta del XIX secolo di scritti sul folklore chiamata The Denham Tracts.
Furono l’ordinarietà e la comune umanità degli Hobbit a ridimensionare l’alquanto elevato mondo elfico del Silmarillion e a renderlo accessibile. Furono anche, e quasi involontariamente, gli Hobbit a dargli faërie. Nella loro commistione di piccolo ma non elfico (quel che gli inglesi chiamano twee [5]) e di pub, fuochi d’artificio e treni espressi c’era qualcosa di paradossalmente incantato. Non era magia e non avrebbe dovuto funzionare. Ma lo fece. Il mondo può esserne grato.

 

Traduzione di Giampaolo Canzonieri

 

Note del Traduttore


[1] Autori rispettivamente, tra le altre opere, de La Figlia del Re degli Elfi, Il Serpente Ouroboros, La Fonte ai Confini del Mondo e la trilogia di Gormenghast.

[2] Anno di pubblicazione del Ritorno del Re, e quindi di disponibilità dell’opera completa.

[3] Riguardo a Coleridge si veda il saggio (in inglese) pubblicato dal socio AIST Paolo Pizzimento sulla rivista Between: “Suspension of disbelief” vs. “Secondary Belief”: fictional worlds in Coleridge and Tolkien

[4] “We make still by the law in which we’re made”, “Mitopoeia” v. 70, traduzione nostra.

[5] Verlyn Flieger usa qui elfin e non elvish, a significare che non sta facendo riferimento agli Elfi di Tolkien ma alle minuscole (e twee, ossia “leziose”) creature alate della tradizione inglese più recente, che Tolkien affermava di detestare.

Articolo originale: The Literary Power of Hobbits: How JRR Tolkien Shaped Modern fantasy

 

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Saggi AIST: Drout su Beowulf: Mostri e Critici

Scrivere saggiDopo aver ripreso la pubblicazione dei Saggi AIST nel gennaio scorso con il saggio di Tom Shippey dal titolo Le due visioni di Tolkien sul Beowulf, una osannata, l’altra ignorata. Ma abbiamo davvero capito?, proseguiamo ora con un saggio dello studioso statunitense Michael D.C. Drout, che chiude il cerchio aperto con il precedente. In realtà sarebbe il contrario, nel senso che nella realtà è il saggio di Drout che precede quello di Shippey, come testimoniato dal fatto che quest’ultimo cita Drout più volte, ma nel nostro caso è stato l’interesse suscitato dal saggio di Shippey a farci decidere di tradurre questo, così possiamo dire che sì, è questo saggio a chiudere il cerchio.

Lo studioso statunitense

Se Tom Shippey non aveva bisogno di presentazioni, essendo molto conosciuto da appassionati e studiosi del Studiosi: Michael D.C. Drout nostro paese per via delle sue ben quattro partecipazioni a eventi tolkieniani italiani organizzati dall’AIST in collaborazione con altre realtà (vedi ancora l’articolo precedente), Michael Drout richiede qualche riga in più, essendo notissimo fra gli studiosi ma forse meno fra il pubblico più generale. Nato il 3 maggio del 1968 negli USA, Michael Drout è al momento docente d’inglese presso il Wheaton College di Norton, Massachusetts, dove ricopre anche la carica di Chair of the English Department. In campo tolkieniano la sua fama, oltre che ai corsi tenuti come docente, è legata alla pubblicazione dei volumi Beowulf and the Critics (2002) e J.R.R. Tolkien Encyclopedia: Scholarship and Critical Assessment (2006), ma soprattutto al suo ruolo di co-fondatore, insieme a Verlyn Flieger e Douglas A. Anderson, della collana Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review,  probabilmente la più prestigiosa rivista di studi tolkieniani al mondo, giunta ormai al ventesimo volume con il ventunesimo in preparazione. Il primo titolo in particolare, Beowulf and the Critics, è un’edizione annotata del ciclo di lezioni tenuto da Tolkien sul Beowulf, ed è da esso che si originano i contenuti trattati nel saggio qui presentato.

Cover Sulle FiabeIl saggio

Il saggio del 2010 che vi proponiamo si focalizza, come quello di Tom Shippey, sull’attività accademica di Tolkien e, in particolare, sugli studi sul Beowulf. Anche in questo caso vengono trattati gli “effetti collaterali” imprevisti della conferenza “Beowulf: i mostri e i critici” del 1936, disponibile in italiano nel volume Il Medioevo e il Fantastico (Bompiani), chiedendosi se Tolkien, viste le sue profonde convinzioni sull’argomento, ne sarebbe lusingato o orripilato. Particolarmente interessante, e per nulla noiosa come si potrebbe pensare a prima vista, è la trattazione delle problematiche di datazione del poema e di come Tolkien le risolse, così come il profilo, potremmo dire “psicologico”, del poeta anonimo, che Tolkien elaborò per giustificare la datazione proposta.

Buona Lettura!

Scarica il saggio di Michael D.C. Drout

SAGGI AIST PRECEDENTI:
– Leggi Saggi AIST: Le due visioni di Tolkien sul Beowulf di Tom Shippey

– Leggi Saggi AIST: Tolkien e il pensiero dialogico
– Leggi Saggi AIST: «Non c’è bisogno di eroi» di Thomas Honegger
– Leggi Saggi AIST: le fonti per fare ricerca su Tolkien
– Leggi Saggi AIST: «Cultura di massa ed escatologia tolkieniana ne Il Signore degli Anelli»
– Leggi Saggi: «Ariosto e C.S. Lewis» di Edoardo Rialti
– Leggi Lewis e Tokien come li ho conosciuti (mai bene) di Eric Stanley
– Leggi I saggi dell’AIST: La Contea di Saruman
– Leggi I saggi dell’AIST: Tolkien e Platone
– Leggi Bilbo uno sbandato? Per la Contea era così
– Leggi Il perfetto gentilhobbit di Wu Ming 4
– Leggi Mito e verità in Tolkien di Verlyn Flieger
– Leggi Saggi AIST: Noblesse oblige: Immagini di classe in J.R.R. Tolkien di Tom Shippey
– Leggi Saggi AIST: Éowyn di Rohan e Dolasilla di Fanes
– Leggi La catabasi: Tolkien e l’antica tradizione

LINK ESTERNI:
– Vai alla pagina dedicata a Michael D.C. Drout su Tolkien Gateway

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Saggi AIST: le due visioni di Tolkien sul Beowulf

Scrivere saggiPer la delizia di quei lettori appassionati di J.R.R. Tolkien che hanno finito i suoi romanzi e vogliono approfondire sempre più le loro tematiche, dopo una “pausa” piuttosto lunga, riprendiamo i Saggi AIST, ovvero quei contributi di soci, non-soci ed esperti italiani o quelle traduzioni di saggi inglesi, francesi o tedeschi che hanno lo scopo di far conoscere sempre più la grandezza dello scrittore inglese, che l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani pubblica su questo sito web a carattere aperiodico. L’elenco dei saggi si può trovare in calce all’articolo.
Tom ShippeyTom Shippey non ha bisogno di presentazioni; insieme a Verlyn Flieger è universalmente riconosciuto come il più autorevole esperto di Tolkien a livello internazionale ed è autore, tra innumerevoli altri tutti di altissimo livello, dei notissimi saggi J.R.R. Tolkien: la via per la Terra di Mezzo (Marietti 1820, tradotto e curato da un team che comprendeva molti odierni soci AIST) e J.R.R. Tolkien: autore del secolo (Simonelli Editore, fuori catalogo), due pietre miliari imprescindibili per chiunque voglia studiare, o anche semplicemente approfondire, la figura e le opere di Tolkien. Tom è anche un amico di vecchia data dell’Istituto Filosofico Studi Tomistici di Modena, dell’Università di Trento e dell’AIST, che in collaborazione lo hanno condotto in Italia per ben quattro volte tra il 2010 e il 2022.

Il Saggio

Cover Sulle FiabeIl saggio del 2010 che vi proponiamo, il cui titolo completo è “Le due visioni di Tolkien sul Beowulf, una osannata, l’altra ignorata. Ma abbiamo davvero capito?”, non tratta per una volta delle opere riguardanti la Terra di Mezzo; si focalizza invece sull’attività accademica di Tolkien e, in particolare, sugli studi sul Beowulf – l’antico poema medievale inglese dell’VIII secolo – e la famosa “rivoluzionaria” conferenza “Beowulf: i mostri e i critici” del 1936, poi pubblicata dall’autore e disponibile in italiano nel volume Il Medioevo e il Fantastico (Bompiani). Shippey, con la caratteristica originalità e arguzia, non ci ammannisce la consueta agiografica esposizione dell’osannata conferenza ma offre, con quel che definiremmo un esempio di “pensiero laterale”, un’analisi critica, se non della conferenza stessa, almeno di alcuni suoi “effetti collaterali” più o meno imprevisti che Tolkien stesso non avrebbe gradito.

 

Buona Lettura!

Scarica il saggio di Tom Shippey

SAGGI AIST PRECEDENTI:
– Leggi Saggi AIST: Tolkien e il pensiero dialogico
– Leggi Saggi AIST: «Non c’è bisogno di eroi» di Thomas Honegger
– Leggi Saggi AIST: le fonti per fare ricerca su Tolkien
– Leggi Saggi AIST: «Cultura di massa ed escatologia tolkieniana ne Il Signore degli Anelli»
– Leggi Saggi: «Ariosto e C.S. Lewis» di Edoardo Rialti
– Leggi Lewis e Tokien come li ho conosciuti (mai bene) di Eric Stanley
– Leggi I saggi dell’AIST: La Contea di Saruman
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– Leggi Saggi AIST: Noblesse oblige: Immagini di classe in J.R.R. Tolkien di Tom Shippey
– Leggi Saggi AIST: Éowyn di Rohan e Dolasilla di Fanes
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– Vai al sito di Tom Shippey
– Vai al sito dell’Istituto Filosofico Studi Tomistici
– Vai al sito dell’Università di Trento

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Tutto il Fantasy che abbiamo letto nel 2024

conferenzaGiunge la fine dell’anno, è tempo di tirare le somme. E si scopre che il genere fantasy è in controtendenza rispetto al mercato del libro, che nei primi dieci mesi dell’anno ha registrato un leggero calo di vendite. Il fantasy invece è cresciuto del 26% circa, superando il milione di libri venduti (1.060.000). L’Associazione Italiana Editori ha dedicato una ricerca al mercato del fantasy, continuando la tradizione di fare un approfondimento diverso ogni anno all’interno del variegato mondo editoriale italiano.

Il rapporto sul mercato italiano

Spesa fantasy 2024Nel mese di dicembre, l’AIE (Associazione Italiana Editori) ha presentato l’indagine sull’andamento del mercato del libro tra gennaio e ottobre 2024. Quest’anno, l’approfondimento è dedicato al genere fantastico, nel senso più vasto dell’accezione – includendo fantasy epico-eroico, dark fantasy, fantasy storico, fantasy romantico, urban fantasy, fantascienza, perfino realismo magico!
I dati dell’AIE sul fantasy sono stati esposti a chiusura degli incontri professionali in programma nell’ultima fiera “Più Libri Più Liberi” a Roma. Gli addetti ai lavori si sono confrontati non solo sul mercato del fantasy ma anche sulle linee editoriali italiane del momento, sulle proposte che arrivano dall’estero, e sul rapporto tra editori e librai.
L’AIE dichiara che «Il fantasy è uno dei generi che ha mostrato nel 2024 un andamento positivo». Sono aumentati i titoli ma, soprattutto, sono aumentati gli acquisti dei lettori. È importante sottolineare che i dati sono probabilmente sottostimati perché «non sono comprese le vendite effettuate al di fuori dei canali rappresentati dal panel NielsenlQ-GfK, ossia quelle in librerie specializzate, in occasione di fiere, vendite dirette, vendite temporanee, in stazioni di servizio, grandi magazzini, giocherie, cartolerie, edicole…». Questi luoghi rappresentano importanti occasioni di movimento di libri di genere fantastico, pensiamo solo a quante manifestazioni e fiere specializzate si tengono annualmente in Italia, da Montelago a FantastikA a Lucca Comics and Games, solo per citare alcune di quelle che vedono anche la partecipazione di AIST.
Dall’estero sono arrivate molte proposte di fantasy romantico e di distopie. La valutazione dei titoli distopici è particolarmente difficile da parte degli editori perché il rischio è che tali storie invecchino nel giro di pochi mesi; gli eventi degli ultimi anni (la pandemia e le guerre) hanno sorpreso il mondo e si sono succeduti con tanta rapidità da superare l’immaginazione degli scrittori che non siano in grado di dare profondità e prospettiva alle loro storie. È anche vero che l’aria dei tempi ha spinto verso il fantasy lettori che prima non si sarebbero avvicinati al genere, e ha portato i lettori di fantasy tradizionale verso romanzi dal tono distopico post apocalittico, come La strada di Cormac McCarthy (6° in classifica) che forse qualche anno fa non sarebbe rientrato nel genere.

I primi dieci libri fantasy del 2024

NClassifica libri fantasyella classifica dei primi 10 titoli fantasy venduti nel 2024, all’ottavo posto troviamo Lo Hobbit, ancora nella vecchia traduzione dato che quella firmata da Wu Ming 4 è uscita per Bompiani proprio alla fine di ottobre. Lo Hobbit è preceduto (settimo posto) e seguito (nono posto) dai primi due titoli della saga di Dune, un revival dovuto ai recenti film. Nel suo insieme, la classifica mostra titoli recenti insieme ai “classici” che abbiamo già citato. Questo indica sia l’importanza di mantenere il catalogo da parte degli editori (ma non entriamo qui in questioni tecniche) sia che il genere fantasy può essere considerato un crossover generazionale, forse proprio perché ormai è così articolato.
Nel corso dell’incontro è emerso che la classificazione dei titoli per generi letterari non sarebbe di fatto stringente all’interno delle redazioni editoriali: autori divenuti classici (come Tolkien) hanno “sdoganato” il fantastico, e le proposte (in italiano o in traduzione) sono così tante che si potrebbe scegliere in base alla qualità – un buon libro è un buon libro! La cura redazionale che si deve prestare a un testo “di genere”, ad esempio per quanto riguarda la traduzione, non è minore (e questo dovrebbe essere un criterio utile anche da parte dei lettori). Tuttavia le librerie, fisiche o digitali che siano, richiedono che il libro venga etichettato per essere collocato in uno “spazio” specifico; inoltre la maggior parte dei distributori, in fase di presentazione, richiedono che venga indicato il “libro gemello”, un’abitudine che si è consolidata in rete (se ti è piaciuto quello, potrebbe piacerti questo). Infatti, la classifica dell’AIE indica che i lettori sono affezionati alla serialità: ben quattro titoli appartengono a due distinte serie.
La risposta alla domanda sul perché si legga più fantasy in questi ultimi mesi, forse non è ancora matura. Certo il fantasy non è semplicemente un rifugio in un momento storico di seria crisi. Il passato e alcuni illustri scrittori ci hanno già mostrato che anzi il fantastico può essere una lente per leggere il presente. La scrittura del fantastico, al meglio, è una sperimentazione, una interpretazione e una riorganizzazione del mondo.

Cecilia Barella

LINK ESTERNI:
– Vai al sito dell’AIE
– Vai al sito della ricerca AIE

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I Collected Poems di Tolkien: la recensione

Collected PoemsGiunge alle stampe The Collected Poems of J.R.R. Tolkien, in un’edizione curata da Christina Scull e Wayne G. Hammond; un’opera – certamente tra le più importanti degli ultimi anni nel panorama tolkieniano – attesa a lungo dagli studiosi e dagli appassionati. Tre corposi volumi, per un totale di 1500 pagine, presentano gran parte dell’opera poetica dello scrittore inglese con un ricco apparato di annotazioni storico-biografiche. I pregi sono evidenti; non mancano, tuttavia, alcuni aspetti che lasciano perplessi.

Premessa: Tolkien come poeta

Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli accolgono al loro interno quasi un centinaio di poesie che, cantate o recitate dai personaggi a beneficio di un’audience specifica, rappresentano un aspetto persino preponderante dell’interazione comunicativa e, in senso metanarrativo, paiono spesso riconducibili a specifiche tradizioni poetiche del Mondo Primario. Alcune, infatti, richiamano metri e stilemi dell’antica poesia anglosassone, altre ripropongono forme tradizionali del folklore inglese, altre ancora esprimono più di una complanarità con la lirica romantica, per la loro capacità di suggerire esperienze interiori o trascendentali. L’aspetto più interessante, in ogni caso, è la forte connessione che, nei romanzi, la poesia intrattiene con la prosa: «the characters do not just recite or listen to poetry, they usually set about commenting on it or interpreting it. Their interpretations do not primarily consist in elucidating the meaning; indeed, sometimes uncertainties are left as they are. What interests the characters more is the provenance of these poetic texts. The poems and songs of The Lord of the Rings have a history which is often discussed by the listeners and sometimes proves to be relevant to the plot; […] they also appear to be part of a living tradition, as some of the characters are shown as being engaged in translating and communicating ancient as well as more recent poetry» (Kullmann e Siepmann 2021: 240). Si direbbe, dunque, che la poesia costituisca un elemento fondamentale nel worldbuiling tolkieniano e contribuisca a creare quel senso di antichità e profondità storica perseguito dall’autore. Eppure, a dispetto di tanta importanza, molti lettori dello Hobbit e del Signore degli Anelli tendono ancora oggi a trascurare o persino a saltare le parti in versi per non interrompere il ritmo del racconto, perdendo così elementi integrali che illuminano di senso le trame e rimarcano gli stati d’animo dei personaggi, spesso più di quanto non faccia la prosa stessa. Tutto ciò costituisce uno strano paradosso, di cui lo scrittore inglese in persona ebbe modo di lamentarsi: «La mia “poesia” è stata poco apprezzata: i commenti, anche di alcuni ammiratori, sono più che altro sdegnosi (mi riferisco alle recensioni di tizi che si dicono letterati). Forse in gran parte perché nel clima contemporaneo, in cui la “poesia” deve riflettere solo l’agonia personale della mente o dell’anima, e le cose esteriori hanno valore solo per le loro “reazioni”, non si riconosce mai che i versi nel S.d.A. sono tutti drammatici: non esprimono la ricerca dell’anima del povero vecchio professore, ma sono adatti nello stile e nel contenuto ai personaggi della storia che li recitano o li cantano, e alla situazione in cui si trovano» (Lettere: n. 306).

Collected PoemsOccorre sottolineare che, a differenza di quanto potrebbe evincersi dalla lettura (distratta) delle sue “opere maggiori”, l’importanza della poesia di Tolkien non dipende solo da una pretesa funzione ancillare nei confronti della prosa; ciò è peraltro dimostrato dal fatto che gli interessi poetici dello scrittore inglese hanno inizio già negli anni alla King Edward’s School di Birmingham, dove le lingue e le letterature classiche venivano studiate come preparazione a Oxford e Cambridge. Il giovane Ronald, a dire il vero, aveva già appreso i primi rudimenti di latino dalla madre ma in questo periodo ebbe modo di approfondire la poesia inglese, da Beowulf ai Racconti di Canterbury, fino alle opere di autori moderni come Tennyson, Swinburne, Hardy, Kipling e i poeti georgiani; è noto, inoltre, che egli soleva «intrattenere gli amici recitando passi del Beowulf, da Pearl e Sir Gawain and the Green Knight; raccontava episodi terrificanti tratti dalla nordica Völsungasaga, e già che c’era prendeva in giro Wagner, del quale disprezzava l’interpretazione dei miti» (Carpenter 2009: 77). A quegli anni risale anche la prima poesia scritta da Tolkien di cui si abbia notizia, Morning / Morning Song (Collected Poems, n. 1), acclusa in una lettera all’amata Edith Bratt datata 28 marzo 1910. Di un anno dopo è The Battle of the Eastern Field (n. 6), cronaca di una partita scolatica di rugby in uno stile che riprende, parodiandolo, quello di The Battle of Lake Regillus di Macaulay; si tratta del primo testo pubblicato da Tolkien, che vide la luce nel numero 26 della King Edward’s School Chronicle (1911). Fu, però, l’incontro col Kalevala ad accendere la fantasia del giovane: oltre a ispirare una riscrittura del poema stesso, The Story of Kullervo (n. 17), esso lo incoraggiò a comporre versi propri che a posteriori possono considerarsi a buon diritto l’inizio letterario del Legendarium: The Grimness of the Sea, poi sviluppatasi in The Horns of Ylmir (n. 13), e The Voyage of Éarendel the Evening Star (n. 16). Nel giro di un anno, i testi poetici dedicati alla nascente mitologia di Arda arrivarono a venticinque, tra cui You and Me and the Cottage of Lost Play (n. 28), Kôr: In a City Lost and Dead (n. 30) e The Shores of Faery (n. 31). Occorre dunque considerare due elementi di notevole rilevanza: anzitutto che il Tolkien ventitreenne «embraced poetry as a favoured mode of expression» (Scull, Hammond 2024: xvii) e inoltre che la ricerca di una cifra poetica procedette, almeno in questa fase, di concerto al primo sviluppo del Legendarium. L’opera certamente più nota di questa fase giovanile è Goblin Feet (n. 27), che comparve nel numero del 1915 di Oxford Poetry e nel successivo Book of Fairy Poetry curato da Dora Owen e illustrato da Warwick Goble (Londra, Longmans, Green & Co. 1920). Incoraggiato dalla stessa Owen, Tolkien provò persino a pubblicare un intero volume di poesie, intitolato The Trumpets of Faërie, ma la sua proposta alla casa editrice londinese Sidgwick and Jackson ricevette un garbato rifiuto. Ulteriori tentativi presso la Swann Press di Leeds e Blackwell ad Oxford non avrebbero avuto, d’altro canto, maggior fortuna (Anderson 2006: 549).

Collected PoemsIniziava, frattanto, la carriera accademica di Tolkien: a Leeds, egli lavorò a importanti traduzioni – Beowulf, Sir Gawain – e pubblicò varie poesie in giornali locali e riviste universitarie; insieme al collega E.V. Gordon, inoltre, egli «encouraged students to sing verses in Old, Middle, and Modern English, Gothic, Old Norse, and Latin at social gatherings, at which they also read sagas and drank beer» (Scull, Hammond 2024: xxxi), dimostrando una volta ancora la sua spiccata propensione per gli aspetti performativi e musicali della poesia. Risalgono al 1921 circa diversi poemi del “Silmarillion”, come The Lay of the Fall of Gondolin (n. 66), The Children of Húrin (n. 67), il Lay of Leithian (n. 92), The Flight of the Noldoli e un lai su Earendel (questi ultimi non sono stati inclusi nei Collected Poems ma erano stati già pubblicati in I lai del Beleriand). Di poco successivi sono The Lay of Aotrou and Itroun (n. 116), The Homecoming of Beorhtnoth Beorhthelm’s Son (n. 129), i “nuovi lai” sulla Völsungasaga (n. 131), la fondamentale Mythopoeia (n. 136) e The Fall of Arthur (n. 140), oltre a varie poesie per l’Oxford Magazine come The Adventures of Tom Bombadil ed Errantry. Anche questa seconda fase poetica non trovò un felice esito: il Lay of Leithian fu, com’è noto, respinto dalla Allen & Unwin, pur desiderosa di pubblicare altre opere del fortunato autore dello Hobbit, col risultato che Tolkien dovette attendere ancora a lungo perché un suo libro di poesie fosse finalmente pubblicato. Si tratta di The Adventures of Tom Bombadil and Other Verses from the Red Book, che vide la luce solo nel 1962 e solo grazie all’enorme successo del Signore degli Anelli, del quale era stato presentato al pubblico come “appendice” poetica.

poesieInsomma, la vicenda compositiva dell’opera di Tolkien appare paradossale non solo sul versante narrativo del Legendarium, ma anche su quello specificamente poetico: anni di scritture e riscritture mai coronati da una completa pubblicazione che, vivente l’autore, ne avrebbe espresso appieno la volontà ultima. Del resto, a dispetto dell’impegno profuso dallo scrittore inglese nella sua produzione poetica, il responso della critica è stato tutt’altro che entusiastico. Ne è un esempio eclatante Brian Rosebury, il quale ha lamentato lo stile eccessivamente derivativo della produzione giovanile dello scrittore (cfr. Rosebury 1992: 82) e l’ha squalificata come l’opera di un talento genuino ma limitato, incapace di conciliarsi con il gusto del ventesimo secolo (cfr. Ivi: 84). Allo stesso modo, lo studioso ha espresso un parere tranchant su The Adventures of Tom Bombadil (con l’eccezione di The Sea-Bell) e su Mythopoeia, a suo parere niente più che un «semi-pastiche» (cfr. Ivi: 110). Certo: da allora gli studiosi hanno espresso pareri più equilibrati, ma hanno anche manifestato la tendenza a lavorare su campioni ristretti e consolidati del corpus poetico tolkieniano – «evidently a zone of comfort», dicono Scull e Hammond, «even after other verse was published by Christopher Tolkien in The History of Middle-earth» (2024: lv) –.  Proprio qui si gioca la battaglia dei due editori dei Collected Poems: offrire un’ampia visuale della poesia tolkieniana che possa essere utile tanto ai lettori e agli appassionati quanto agli studiosi.

 

Cosa c’è nei Collected Poems (e cosa manca)

La storia dei Collected Poems è raccontata nella lunga introduzione al testo e ha inizio molto tempo fa. Già nell’aprile del 2016, infatti, Christina Scull e Wayne C. Hammond ricevettero un invito dalla HarperCollins per discutere sulla realizzabilità di uno o più volumi che raccogliessero le poesie di Tolkien. Gli interessi della casa editrice convergevano felicemente con quelli della Tolkien Estate, ansiosa (ça va sans dire) di pubblicare nuove opere dello scrittore inglese, e con quelli di Christopher Tolkien, il quale ambiva a rivelare una volta per tutte il talento poetico del padre di fronte al grande pubblico. La scelta era ricaduta su Scull e Hammond in quanto biografi e bibliografi di Tolkien (cfr. Hammond e Anderson 1993, Scull e Hammond 1995 e 2017) nonché curatori delle sue opere (cfr. Tolkien 1998, 2004 e 2014a) e autori di saggi (Scull e Hammond 2005). I due, inoltre, si erano già confrontati con la poesia tolkieniana curando The Adventures of Tom Bombadil (Tolkien 2014b) in un’edizione ampliata con prime versioni dei testi e note storico-biografiche.

Le fonti più importanti a disposizione degli editori consistevano in due raccolte in possesso della Bodleian Library di Oxford, i Blue Poetry Books I and II, contenenti i versi giovanili di Tolkien (dagli anni Dieci agli anni Trenta), e i Verse Files I and II, comprendenti riscritture e testi della maturità (dagli anni Trenta agli anni Sessanta). La Bodleian Library, inoltre, fornì agli editori scansioni ad alta risoluzione di altre poesie provenienti dai suoi archivi tolkieniani, mentre altri materiali giungevano dall’Archival Collections and Institutional Repository della Marquette University di Milwaukee e dall’E.V. and Ida Gordon Archive dell’Università di Leeds. Ulteriori ricerche avrebbero dovuto concentrarsi sui materiali in possesso di Christopher Tolkien, ma la morte di quest’ultimo rese impossibile ogni iniziativa in tal senso.

Ma veniamo, finalmente, ai Collected Poems. L’opera che è giunta alle stampe nel settembre 2024 (mi riferisco, nello specifico, all’edizione inglese) si presenta in tre corposi volumi stampati dall’italiana Rotolito con carta FSC Mix e una robusta rilegatura cartonata (ma non rivestita in tela). Ciascuno di essi presenta piatti color crema, impreziositi dai disegni di Tolkien, e dorsi di un blu intenso; negli uni e negli altri sono presenti impressioni dorate, mentre all’interno un segnalibro in seta blu conferisce un tocco di classe all’insieme. I volumi non hanno sovraccoperta ma sono raccolti in un cofanetto robusto e ben realizzato che riprende il design delle copertine. Ci troviamo, insomma, di fronte a un bell’oggetto, certamente pensato anche per far felici i collezionisti e i bibliofili.

Quanto ai contenuti, i tre volumi coprono rispettivamente gli anni 1910-1919, 1919-1931 e 1931-1967 e, come affermano Scull e Hammond, includono «the earliest and latest versions of each poem, if extant and legible, as well as any significant intermediate texts, either in full or in summary, as seemed best for each individual work» (Scull e Hammond 2024: lxiii). E non c’è che dire, il materiale è abbondante: parliamo di 195 testi (senza contare le prime versioni e le intermedie), tra cui si contano anzitutto ben 77 poesie inedite, come Morning / Morning Song (n. 1), The Dale-lands (n. 2), A Fragment of an Epic: Before Jerusalem Richard Makes an End of Speech (n. 7), The New Lemminkainen (n. 8) e Lemminkainen Goeth to the Ford of Oxen (n. 9) nonché poesie della Grande Guerra come The Thatch of Poppies (n. 49), I Stood upon an Empty Shore (n. 57), e Build Me a Grave beside the Sea / Brothers-in-Arms (n. 58). Ad esse si aggiungono non poche poesie finora pubblicate solo in parte, come Wood-sunshine (n. 4), fuori catalogo da tempo, come quelle del ciclo Songs for the Philologists, edite in versioni non originali, come The Complaint of Mîm the Dwarf (n. 185) o già diffuse ma adesso corredate da versioni alternative, come The Battle of the Eastern Field (n. 6); né mancano versioni inedite dei poemi del Legendarium, ad esempio The Grey Bridge of Tavrobel (n. 56) o l’incompiuto The Children of Húrin (n. 130) in metro allitterativo. Inoltre, le Appendici contengono limerick, clerihew e adagi in latino (I e II) nonché la gustosa Bealuwérig,  una traduzione in Antico Inglese della celebre Jabberwocky di Lewis Carroll (V). Particolarmente preziose anche le Appendici III e IV, contenenti rispettivamente degli elenchi delle poesie tolkieniane stesi dall’autore stesso ed una “lista di parole” tratte da opere antiche e moderne (con una sorprendente presenza di Shakespeare!) che egli approntò da studente universitario in vista di futuri utilizzi. Tuttavia, il metodo di lavoro di Scull e Hammond – di cui parlerò tra poco – impone alcune economie di spazi: così, i Collected Poems accolgono solo una ristrettissima selezione di testi dallo Hobbit e dal Signore degli Anelli e pochi estratti dei poemi del ‘Silmarillion’ già disponibili nella History of Middle-earth o in altre opere. Così, ad esempio, gli editori ammettono che «The Children of Húrin cannot be printed here in its entirety» (Scull e Hammond 2024: 487) in quanto già pubblicato altrove: ma ciò, a ben vedere, varrebbe anche per la maggior parte delle poesie incluse nei Collected Poems; dunque, non ci troviamo di fronte a una scelta editoriale oggettiva e perseguita in maniera omogenea all’interno dell’opera. Altre omissioni riguardano testi che «for one reason or another are problematic» (Ivi: lxi) e un numero imprecisato di poesie giovanili perdute o ancora sconosciute, presumibilmente contenute nelle carte in possesso di Christopher Tolkien al momento della sua morte. Ciò considerato, gli editori ribadiscono che «The Collected Poems of J.R.R. Tolkien is not a Complete Poems, though it represents most of the works of poetry Tolkien is known to have written» (Scull, Hammond 2024: lxi).

Veniamo, dunque, alla filosofia editoriale e al metodo di lavoro di Scull e Hammond: i Collected Poems raccolgono le poesie in voci identificate da un numero, un titolo (o, quando non ve ne sia uno, dal primo verso) e un intervallo cronologico che individua le date di composizione, revisione o pubblicazione del testo. All’interno di ogni voce, inoltre, è fornita ogni versione disponibile del testo, identificata da una lettera. Così, ad esempio, la voce n. 1 è Morning / Morning Song (1910-15) ed accoglie le versioni A, B, C e D della poesia, ciascuna con un commento degli editori che riguarda per lo più il Sitz im Leben del testo e le principali variazioni tra una versione e l’altra; quasi inesistente, invece, è l’analisi metrica (ridotta, per lo più, all’individuazione dello schema di rime) e contenutistica. Ne consegue che ogni voce costituisca essenzialmente una sequenza cronologica dalla prima versione di una poesia alla più recente: un approccio che, dunque, ripropone grossomodo quello adottato da Christopher Tolkien nella Storia della Terra di Mezzo. Gli stessi editori ammettono che non si tratta di un metodo perfetto, dal momento che poche poesie, se non pochissime, possono essere datate con assoluta certezza; tuttavia, giustificano la propria scelta sostenendo che l’ordine cronologico «best serves to illustrate Tolkien’s development as a poet, rather than, say, arranging his works by subject or theme» (Ivi: lxii). I Collected Poems assumono perciò un taglio più storico-biografico che letterario, rispetto al quale Scull e Hammond prevengono le critiche ammettendo candidamente: «We have not analysed every poem in this collection according to its metre, lest our book become overly technical. No doubt there will be readers eager to do that work for themselves. It has already been done for selected poems» (Ivi: xlviii). Così, si limitano a restituire lo stato dell’arte citando studi immancabili ma parziali come quelli di Deyo (1986), Russom (2000), Eilmann e Turner (2013), Lee e Solopova (2015), Cawsey (2017) etc. ma di fatto non offrono interpretazioni dei testi se non nel quadro della parabola biografica di Tolkien.

 

Pregi e difetti di quest’edizione

Alcuni libri, forse la maggior parte, devono “lottare” per conquistarsi un pubblico ma di certo i Collected Poems non hanno bisogno di affrontare una simile difficoltà: il nome di Tolkien è sufficiente a garantire a un’opera certamente non economica un sicuro riscontro di vendite presso gli studiosi, i lettori vecchi e nuovi, gli appassionati e i collezionisti bibliofili. Non solo: rende accettabile l’evidente, e per certi versi necessaria, provvisorietà del testo proposto da Scull e Hammond. Non è difficile prevedere, considerando anche l’andamento recente delle pubblicazioni tolkieniane, che nei prossimi anni saranno pubblicate versioni aggiornate ed ampliate dei Collected Poems o che ne saranno estratte singole sezioni in volumi tematici (un po’ come dal Signore degli Anelli, dal Silmarillion, dai Racconti incompiuti e dalla Storia della Terra di Mezzo è stato ricavato, ad esempio, The Fall of Númenor). A pensar male si fa peccato, diceva qualcuno, ma…

Eppure, i Collected Poems non costituiscono solo un’abile mossa commerciale. Fino ad oggi, l’accesso alla poesia di Tolkien è stato relativamente limitato e il lavoro di Scull e Hammond offre certamente uno strumento essenziale per averne una maggior comprensione. Sotto questo profilo, i due studiosi hanno il chiarissimo merito di rendere disponibili a uno sguardo d’insieme testi inediti, pubblicati solo in parte o fuori catalogo; l’approccio cronologico permette, inoltre, di entrare nel “laboratorio” di Tolkien e di appurare come le sue poesie siano cambiate nel tempo. Il lettore ne trae così l’idea – interessante anche in chiave performativa – che il “processo” sia in fin dei conti più importante del “prodotto”, a dispetto della rassicurante evidenza di quest’ultimo. Se da questo punto di vista la filosofia editoriale di Scull e Hammond appare stimolante – e lo è senz’altro – i risultati non sembrano tuttavia pienamente convincenti. Il principale limite dei Collected Poems, infatti, risiede nel fatto che essi non costituiscono né una normale raccolta di poesie, comprendente solo i testi finiti in ordine di pubblicazione, né un’edizione critica in senso stretto, volta a ristabilire per via congetturale la forma originale o ottimale delle opere e, con essa, la volontà ultima dell’autore. Ne consegue un’identità stranamente ibridata che si traduce in una difficoltà a comprendere con esattezza a quale pubblico sia destinata un’opera così imponente. In aggiunta, occorre constatare come i Collected Poems risentano negativamente di una notevole ripetitività, assommando versioni su versioni sulla sola base della disponibilità di testimoni da chiamare in causa. Considerando quante delle 1500 pagine dei tre volumi sono dedicate alla riproposizione di versioni anche solo leggermente diverse della medesima poesia, appare decisamente strano che le opere più lunghe (come le traduzioni di Sir Gawain, Pearl, Beowulf e i grandi poemi del Legendarium) finiscano per non trovarvi posto se non patendo un’indebita mutilazione. Per il lettore interessato solo al piacere della poesia, la presenza di più versioni e il commento incorniciato rendono la lettura decisamente ardua; per lo studioso, la frammentarietà dei testi più importanti rende i Collected Poems gravemente lacunosi.

Eppure, con una diversa filosofia editoriale – e senza riempire così tanto spazio con infinite varianti di poesie interessanti ma francamente minori – si sarebbero potute includere tutte le opere per intero. In generale, sarebbe stato auspicabile che Scull e Hammond operassero una scelta editoriale “forte”: o favorire il piacere della lettura approntando dei Complete Poems che presentassero il testo “pulito” e leggermente annotato di tutte le poesie note di Tolkien in ordine cronologico, oppure prediligere le esigenze dello studio scientifico e fornire un’edizione critica degna di questo nome, con tanto di presentazione dei testimoni, analisi degli aspetti tecnici (linguistici, metrici, retorici etc.) dei testi e via dicendo. Certo: considerando che Tolkien revisionò molto pesantemente molte delle sue poesie, spesso nel corso di decenni, sarebbero state necessarie delle decisioni editoriali abbastanza arbitrarie per scegliere solo una versione delle poesie inedite. Perciò, credo che la seconda opzione sarebbe risultata vincente: ad esempio, si sarebbero potuti presentare i testi nella loro versione definitiva (o, in assenza di quest’ultima, in una ritenuta dagli editori artisticamente compiuta), presentando le varianti – aggiunte, sostituzioni, permutazioni e soppressioni – in un apposito apparato a pie’ di pagina o a fondo testo (un po’ come avviene, ad esempio, nei Meridiani Mondadori, che non sacrificano la leggibilità all’attrezzatura critica nè viceversa). Il rischio, adombrato da Scull e Hammond, di ottenere un volume troppo tecnico sarebbe stato minimo: il lettore interessato esclusivamente ai testi li avrebbe letti nella versione fissata dagli editori, lo studioso avrebbe potuto spingersi oltre consultando l’apparato critico.

In definitiva, Collected Poems non sono un’edizione perfetta – posto che ciò sia possibile – della poesia di Tolkien. Nonostante ciò, costituiscono un’impresa editoriale necessaria che, al netto dei molti limiti, potrà favorire una generale (e auspicabile) riconsiderazione del talento poetico di Tolkien e costituire nel tempo il punto di partenza di ricerche e studi. Anzi, a dire il vero, qualcosa già si muove: infatti, il Digital Tolkien Project, un progetto accademico di digital humanities, ha da poco lanciato una sezione sulla poesia tolkieniana che, mettendo a frutto i dati raccolti nei Collected Poems, permetterà in futuro di avere informazioni sulla metrica di ciascuna poesia e di catalogare le poesie per tema.

 

Bibliografia

Anderson, D.C. 2006. ‘Publishing History’. In M.C. Drout, J.R.R. Tolkien Encyclopedia. New York-London: Routledge, pp. 549-50.

Carpenter, H. 2009. J.R.R. Tolkien. La biografia. Torino: Lindau.

Cawsey, K. 2017. ‘Could Gollum Be Singing a Sonnet?:The Poetic Project of The Lord of the Rings’. Tolkien Studies, 14, pp. 53–69.

Deyo, S.M. 1986. ‘Niggle’s Leaves: The Red Book of Westmarch and Related Minor Poetry of J.R.R. Tolkien’. Mythlore 12, no. 3, 45 (Spring 1986), pp. 28-31, 34-37.

Eilmann, J. e Turner, A. (eds.) 2013. Tolkien’s Poetry. Zollikofern: Walking Tree Publishers.

Hammond, W.G. e Anderson, D.G. 1993. J.R.R. Tolkien. A Descriptive Bibliography. New Castle, DE: Oak Knoll Press.

Kullmann, T. e Siepmann, D. 2021. Tolkien as a Literary Artist: Exploring Rhetoric, Language and Style in The Lord of the Rings, London: Palgrave Macmillan.

Lee, S.D. e Solopova, E. 2015. The Keys of Middle-earth: Discovering Medieval Literature through the Fiction of J.R.R. Tolkien, 2nd ed. London: Palgrave Macmillan.

Rosebury, B. 1992. Tolkien. A Critical Assessment. London: Palgrave Macmillan.

Russom, G. 2000. ‘Tolkien’s Versecraft in The Hobbit and The Lord of the Rings’. in G. Clark e D. Timmons (eds.), J.R.R. Tolkien and His Literary Resonances. Santa Barbara, CA: Praeger, pp. 53-70.

Scull, C. e Hammond, W.G. 1995. J.R.R. Tolkien. Artist and Illustrator. London: HarperCollins.

Scull, C. e Hammond, W.G. 2005. The Lord of the Rings. A Reader’s Companion. London: HarperCollins.

Scull, C. e Hammond, W.C. 2017. The J.R.R. Tolkien Companion and Guide, 2nd ed. London: Harper Collins.

Tolkien, J.R.R. 1998. Roverandom. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

Tolkien, J.R.R. 2004. The Lord of the Rings, 50th anniversary edition. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

Tolkien, J.R.R. 2014a. Farmer Giles of Ham, 50th anniversary edition. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

Tolkien, J.R.R. 2014b. The Adventures of Tom Bombadil. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

 

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– Leggi l’articolo Nuovo libro a settembre le Poesie di Tolkien
– Leggi l’articolo Come ascoltare il suono delle poesie in Tolkien
– Leggi l’articolo All’asta libro raro con tre poesie di Tolkien
– Leggi l’articolo Non sono perdute le due poesie «ritrovate» a Oxford
– Leggi l’articolo Scoperta una poesia di Tolkien sconosciuta

LINK ESTERNI:
– Vai al blog di Wayne Hammod e Christina Scull : Too Many Books and Never Enough
– Vai al sito ufficiale di Harper Collins: The Collected Poems of J. R. R. Tolkien

 

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Parole dipinte: dialogo tra arte e letteratura

Parole DipinteDal vocabolario Treccani: “ècfraṡi (o ècfraṡis; anche èkphrasis) s. f. [adattamento, o traslitterazione, del greco ἔκϕρασις, derivato da ἐκϕράζω «esporre, descrivere; descrivere con eleganza»]. – Nome che i retori greci davano alla descrizione di un oggetto, di una persona, o all’esposizione circostanziata di un avvenimento, e più in particolare alla descrizione di luoghi e di opere d’arte fatta con stile virtuosisticamente elaborato in modo da gareggiare in forza espressiva con la cosa stessa descritta”.
La formula che è venuta in mente a Ivan Cavini, uno dei più noti e capaci illustratori tolkieniani italiani, socio fondatore dell’AIST, è proprio l’ecfrasi. È il progetto “Parole Dipinte”, che ha visto la luce durante l’ultima edizione di FantastikA, la biennale di illustrazione fantasy, che si è svolta a Dozza (BO) lo scorso settembre, e di cui Cavini è ideatore e direttore artistico fin dal 2014.
Tre soggetti, tre personaggi dell’universo tolkieniano, e altrettanti commenti a opera di due studiose e uno studioso dell’AIST, che hanno fatto dialogare le opere di Cavini con le pagine di Tolkien. Si tratta di una formula modulare, perché può essere riproposta per tanti dei ritratti di Cavini, e chissà che questo non accada nel prossimo futuro, visto il successo riscontrato durante FantastikA.

Galadriel, Melkor e Gollum

Galadriel appare come una sacerdotessa circondata da gigli bianchi, nel gesto di invitare chi osserva a guardare nello specchio. Impossibile non ritrovarci un riferimento ai personaggi femminili di Alfons Mucha (1860-1939), dell’Art Nouveau e dei pittori Preraffaeliti di metà Ottocento. Elisabetta Marchi indaga le fonti di ispirazione del ritratto, ma soprattutto coglie i tanti dettagli che compongono un’illustrazione complessa per i suoi rimandi interni ed esterni rispetto al testo letterario:

«Ivan Cavini ha realizzato un’opera in cui l’arte si riflette nell’Arte. Lo specchio di Galadriel, la sua magia elfica, intreccia le immagini  mostrandoci cose che furono, cose che sono e cose che potrebbero essere. Per questo lo specchio è il vero protagonista. Perché in questo modo l’artista riesce a dare spazio ai cambiamenti nell’arco narrativo e nelle intenzioni di Tolkien sulla questione Galadriel, intreccia mondo primario e secondario inserendo rimandi all’universo jacksoniano, a Mucha, e come vedremo a Waterhouse, rimodellando ogni flusso d’informazione attraverso il suo personale punto di vista». 

Melkor si presenta in una triplice veste: in primissimo piano, con il viso coperto da una maschera di ferro; poi a viso scoperto, un viso anziano e serafico; ma anche in campo lungo, nel momento di accettare la sfida a duello del re elfico Fingolfin. Barbara Sanguineti legge nei tratti del viso, nello sguardo del personaggio, nel grande cranio oblungo, sopra il quale spicca il Silmaril, la natura ingannatrice del maggiore nemico dei Valar, un «essere ancor più mostruoso perché dotato di volto saggio e giusto»:

«L’aspetto più inquietante ed evidente di questa testa, ovvero l’elongazione del cranio, potrebbe in chiave positiva alludere a una conoscenza, volontà e consapevolezza superiori. In negativo ciò si ribalta in prevaricazione e controllo mentale: un potere che può superare l’inespressività della maschera e arrivare alle menti dei suoi sudditi, o schiavi. Ivan Cavini afferma di essersi ispirato alla mitra, copricapo tipico del clero, ricordando che nella Terra di Mezzo è esistito un unico culto ‘formale’, che si afferma a Númenor nella Seconda Era, in cui Sauron proponeva al popolo Morgoth come dio, con tutto il conseguente apparato di riti e sacrifici umani. Se la guardiamo con i nostri occhi da mondo primario questa caratteristica, cioè la sproporzione della fronte, può anche suggerire la superbia e orgoglio smisurati che caratterizzano il  personaggio. Nel nostro mondo la superbia è stigmatizzata come gravissimo peccato capitale».

Il terzo ritratto è quello di Gollum, in una veste particolarmente umana, da uomo anziano, appassito, e dallo sguardo azzurro e profondo, con il viso tra le mani. Wu Ming 4 lo racconta così, esaltando gli aspetti del personaggio letterario colti dall’artista:

«Se il Gollum iconico e ormai celeberrimo di Peter Jackson e di Andy Serkis era smilzo, glabro, viscido, con la pelle diafana… questo Gollum è quasi l’opposto. La vecchiaia la porta incisa in un corpo che non è animalesco, ma normale, almeno per quanto ne vediamo. Questo è un volto molto più umano rispetto a come siamo abituati a vedere Gollum. L’artista qui ci sta dicendo qualcosa di diverso rispetto a quello che ci è stato detto finora dalle trasposizioni audiovisive. O meglio, sta esaltando un aspetto del personaggio letterario. Se Jackson calcava la mano sulla mostruosità deforme di Gollum, qui noi lo vediamo in tutta la sua umanità… vediamo il vecchio Sméagol. Che ci guarda, o meglio, ci sbircia».

Tre letture che si sono tenute dal vivo, durante il festival, e che vengono qui riproposte in altrettanti pdf scaricabili per chi fosse interessato e non avesse potuto partecipare a FantastikA.

Buona lettura.

L’INTERVENTO DI ELISABETTA MARCHI

L’INTERVENTO DI BARBARA SANGUINETI

L’INTERVENTO DI WU MING 4

 

LINK ESTERNI:
– Vai al sito ufficiale di Fantastika
– Vai alla pagina facebook Centro Studi – la Tana del Drago
– Vai al sito ufficiale della Fondazione Dozza Città d’Arte
– Vai al sito di Ivan Cavini

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– Leggi l’articolo Fantastika – la forma del fantastico: il resoconto
– Leggi l’articolo A Fantastika usciranno I Quaderni di Arda #4
– Leggi l’articolo Dozza, ecco il programma di Fantastika
– Leggi l’articolo ozza, c’è FantastikA il 21-22 settembre

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Le mappe di Tolkien in vendita tra i Rare Books

Mappa-TdM«I wisely started with a map, and made the story fit (generally with meticulous care for distances). The other way about lands one in confusions and impossibilities, and in any case it is weary work to compose a map from a story – as I fear you have found».

«Saggiamente sono partito da una mappa, e ho fatto in modo che la storia le si adattasse (in genere con una meticolosa attenzione alle distanze). Fare le cose al contrario porta a confusione e impossibilità, e ad ogni modo trarre una mappa da un racconto è un lavoro faticoso, come temo lei abbia scoperto».

J.R.R. Tolkien, Lettere n. 144, 25/4/1954

In principio era una mappa

Foto di Naomi MitchisonCome Tolkien stesso spiega alla scrittrice Naomi Mitchison (a destra) nella lettera sopra citata, il primo passo nella stesura del Signore degli Anelli fu la redazione di una mappa. Tolkien la abbozzò inizialmente egli stesso, per poi passarla al figlio Christopher perché ne creasse una versione esteticamente più attraente – quella che tutti conosciamo – che fosse degna di essere allegata al romanzo per far da guida ai lettori così come aveva fatto da guida all’Autore. Successivamente, e a stretto contatto con il Professore di Oxford, una nuova e ancor più attraente mappa fu redatta dall’illustratrice e scrittrice Pauline Baynes. Anche in questo Tolkien fu un precursore, come testimoniato dal fatto che una saga fantasy che non abbia ad accompagnarla una mappa più o meno dettagliata è oggi praticamente inconcepibile.

Luoghi reali e luoghi immaginari (e birra)

Sede Daniel Crouch Rare Books, LondraFacciamo ora un piccolo salto e spostiamoci da Oxford a Londra, e precisamente al n. 4 di Bury Street nel St James’s district. Tra le tantissime cose che rendono affascinante la capitale del Regno Unito vi è di sicuro l’abbondanza di librerie antiquarie, e fra queste una che occupa una posizione sicuramente speciale è la Daniel Crouch Rare Books. Peculiare fra le peculiari librerie della capitale, DCRB – fondata nel 2010 da Daniel Crouch e Nick Trimming – è specializzata in «mappe rare, atlanti antichi, piante, carte nautiche e libri di viaggi d’antiquariato del periodo compreso tra il XV e il XIX secolo». Dalle immagini in mostra sul sito si intuisce facilmente che non si tratta di un luogo per tutti, ma bisogna anche ammettere che è proprio questo quel che la rende un luogo dal fascino così speciale, quasi un museo piuttosto che una semplice attività commerciale. Daniel Crouch Rare Books mapsAccade tuttavia che, tra un portolano e una planimetria, padre e figlia proprietari della libreria si ritrovino in un pub davanti a una pinta di birra e inizino a discutere del fatto che “tutti i libri migliori iniziano con una mappa”. Da cosa nasce cosa, ed eccoli mettere insieme, e in vendita, una collezione di mappe di “luoghi mai esistiti”, carte fra le più disparate che tracciano luoghi fantastici e bizzarri distribuiti nell’arco di 2.700 anni, tra cui anche quella particolarmente singolare del Poyais, nazione inventata di sana pianta da un truffatore per pagarsi la pensione – tra l’altro con successo – a scapito di tanto sfortunati quanto incauti “investitori”.

«Madamina il catalogo è questo»

Copertina catalogo Daniel Crouch Rare BooksIn una collezione siffatta Tolkien naturalmente non poteva mancare, così, tra Narnia e Atlantide, Inferno Dantesco e Oz, Asterix (sì, anche lui!) e Dune, non solo troviamo le mappe del Signore degli Anelli (sia quella di Christopher Tolkien sia quella di Pauline Baynes), dello Hobbit e del Silmarillion, ma vediamo Tolkien stesso onorato addirittura del titolo del catalogo che, riprendendo il passo della Lettera sopra citata, recita “Saggiamente sono partito da una mappa!” (punto esclamativo aggiunto dai curatori).
La cattiva notizia è che la collezione si vende in blocco per il modico prezzo di 1,1 milioni di sterline; la buona, tuttavia, è che il catalogo, di cui a sinistra potete ammirare la bellissima copertina, ha il prezzo molto più abbordabile di 50 sterline più spese di spedizione, e la buonissima è che il suddetto catalogo è scaricabile gratuitamente qui.

Buon divertimento!

 

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– Leggi l’articolo Con Il Ritorno del Re anche 2 mappe “inedite”
– Leggi l’articolo Tolkien e le mappe del Signore degli Anelli
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito della libreria antiquaria Daniel Crouch Rare Books

 

Difendere la Terra di Mezzo: l’intervista

Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.
J.R.R. Tolkien

Il padre del fantasy secondo tantissimi (ma l’heroic fantasy esisteva anche da prima di lui) colui che ha letteralmente definito il concetto di fantastico creando non solo una delle saghe più amate (e lette) nell’ultimo secolo, ma un autore in grado di realizzare un vero e proprio mondo ed epopea è senza dubbio J.R.R. Tolkien, un autore infinito che non si terminerà mai di leggere, amare e in alcuni casi studiare. Il professore di Oxford difatti è un caso unico nella storia della letteratura e proprio per moltissimi motivi, che si trovano all’interno della nuova edizione del libro scritto da Wu Ming 4, merita di essere studiato con serietà nel giusto quadro critico. Se da tempo sono numerosi a livello internazionale i saggi sulle sue opere, in Italia solo negli ultimi anni è arrivato il momento di fare un bilancio per trovare un nuovo modo di raccontare un autore fondamentale, che va ben oltre il genere fantasy in cui troppo spesso viene relegato. Il titolo dell’opera per molti tolkieniani non è nuova, “Difendere la Terra di Mezzo” di Wu Ming 4, si tratta una critica militante nella quale si cerca di analizzare, studiare, e in questo caso difendere appunto, uno dei mondi più straordinari creati dalla penna di uno scrittore.
Wu Ming 4 DifendereQuesto testo in uscita il 30 agosto per Bompiani è una terza edizione, ovviamente ampiamente rivista, del primissimo saggio dall’omonimo titolo uscito in Italia nel 2013. Si legge, dall’introduzione dello stesso Wu Ming 4, che la rivisitazione di questo testo ha permesso di offrire una panoramica sull’opera divenuta ormai un classico del Novecento, come in molti casi ha permesso di realizzare una riflessione critica che privilegi la contestualizzazione storica e le suggestioni letterarie rispetto ad altri tipi di approcci e infine, con l’occasione del cinquantenario della morte, ha offerto l’occasione per riproporlo alla Bompiani con una rivisitazione del testo e le citazioni aggiornate alle ultime traduzioni. “Difendere la Terra di Mezzo” è diviso in due parti: la prima è incentrata sul fenomeno letterario e sui suoi echi negli adattamenti cinematografici; la seconda, che entra nel vivo dei testi, è dedicata alla poetica di Tolkien ed è proprio grazie allo studio e analisi del professore come scrittore e uomo, che Wu Ming 4 riesce a raccogliere ed ampliare il proprio contributo alla riscoperta dell’autore de Il Signore degli Anelli, sempre in sintonia con i maggiori esperti in materia.

A: Leggendo il tuo libro sembra che Tolkien sia un autore strutturato quasi a livelli (proprio come Minas Tirith), in Difendere la Terra di Mezzo qual è il vero albero bianco da difendere?

Wu MIng 4WM4: È una bella immagine questa. È vero che Tolkien è un autore a strati, ma soprattutto è in movimento. La sua opera-mondo è in divenire, perché è talmente complessa e stratificata, appunto, ed è ormai raccontata ed espansa attraverso una tale varietà di mezzi narrativi, che di volta in volta offre spunti nuovi a vecchi e nuovi lettori. Questo significa che non c’è un albero bianco, cioè un cuore di verità, da difendere, perché quella verità è sempre parziale e sempre ridefinita. L’albero bianco è il punto all’orizzonte verso cui indirizziamo la nostra ricerca, e si sposta insieme a noi. Casomai la Terra di Mezzo va difesa dagli approcci semplicistici, dalle letture sbrigative e superficiali, che sono sempre state una iattura per Tolkien, ma anche dalla tentazione di chiuderla dentro un confine una volta per tutte, di trasformarla in una zona di comfort per eletti difensori dell’ortodossia tolkieniana, magari facendo di Tolkien un guru filosofico-spirituale. Bisogna essere capaci di mantenere aperto quel confine. Oggi il titolo Difendere la Terra di Mezzo, più che come una chiamata alle armi, a me suona come un riferimento manualistico, nel senso di “Curare la Terra di Mezzo”, prendersene cura.

A: Che cosa è cambiato nel tempo nelle varie edizioni del libro?

Libro: "Difendere la Terra di Mezzo" di Wu Ming 4WM4: Dalla prima edizione del 2013 alla seconda del 2018 sostanzialmente era cambiata la copertina (in peggio), ed è stata aggiunta una seconda appendice. Questa nuova edizione con un nuovo editore invece ha subito una discreta risistemazione. Non solo ho migliorato alcune formulazioni, ma soprattutto ho aggiunto qua e là diverse cose e ne ho tolte altre, perché nel frattempo, trascorsi gli anni, molto è cambiato e c’era bisogno di aggiornamenti. Così come dovevano essere aggiornate tutte le citazioni dai testi di Tolkien che nel frattempo sono stati ritradotti. Ci sono poi cose che mi sono venute in mente o mi si sono meglio chiarite in questi dieci anni, discutendo con altri, e le ho quindi inserite nel testo. E ovviamente anche in questo caso c’è una nuova copertina. Nelle prime due edizioni in copertina c’erano spade e scudi. Si intendevano gli attrezzi per difendere la Terra di Mezzo. Ora, in questa edizione definitiva, in copertina c’è un Ent che avanza minaccioso. È la stessa Terra di Mezzo che si muove in propria difesa. Ai tolkieniani dovrebbe evocare le famose parole di Barbalbero: «È assai probabile che andiamo incontro alla nostra fine: l’ultima marcia degli Ent. Ma se restassimo a casa senza fare niente, la sorte giungerebbe comunque, prima o poi.» In questo caso il riferimento è alla nostra Terra, al mondo primario che stiamo uccidendo, del quale la Terra di Mezzo diventa una metafora. Parlerò proprio di questo il 2 settembre a Dozza, alle celebrazioni di Tolkien 50.

A: Sei uno dei saggisti tolkieniani più noti in Italia, hai scritto numerosi testi sul Professore, ma trovi sempre un nuovo spunto per raccontare questo autore così grande. Da dove nasce il tuo stimolo di ricerca?

WM4: Credo dal fatto che Tolkien è una miniera inesauribile. Non si finisce mai di scoprirlo. Quando credi d’averlo inquadrato, salta fuori un dettaglio che offre uno spunto di rilettura. Più volte in questi dieci anni ho frenato il mio interesse per Tolkien, convinto di avere dato quello che potevo dare. Ma dopo un po’, per qualche motivo, mi sono sempre trovato a riprenderlo in mano e a scovarci qualcosa di nuovo. A questo punto credo di dovermici rassegnare.

A: Ti è capitato in varie occasioni di essere coinvolto in dispute sulle riletture politiche dell’opera di Tolkien. Perché secondo te soprattutto in Italia Tolkien viene da sempre politicizzato?

WM4: Bisognerebbe chiederlo a quei politici italiani che nel corso dei decenni lo hanno sbandierato come fonte d’ispirazione politica, buon’ultima l’attuale presidente del consiglio. Per certi versi sarebbe solo auspicabile che i politici, di qualunque colorazione, leggessero Tolkien. Magari per trovarci qualche spunto di riflessione critica sull’attuale modello di sviluppo, che invece si accaniscono a difendere con le unghie e con i denti, oppure sulla corruzione morale indotta dall’esercizio del potere, al quale però paiono affezionatissimi. Francamente, al di là delle dichiarazioni e degli slogan, mi pare che le fonti d’ispirazione della nostra classe politica non siano proprio letterarie, per così dire. Io credo che gli studi tolkieniani abbiano tutto da perdere nel lasciarsi mettere il cappello in testa da costoro. Ma si sa che l’Anello della Visibilità è forte e più di uno ne rimarrà irretito.

GUARDA L’INTERVISTA DI PAOLO NARDI

 

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– Leggi l’articolo Estate 2023: un’ondata di libri su JRR Tolkien!!!
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– Leggi l’articolo Torna in libreria Il Fabbro di Oxford di WM4
– Leggi l’articolo Odoya pubblica Wu Ming 4. Un altro libro su Tolkien?

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Tre anni con Fatica… Lost in translation

«Forse si potrebbe continuare a tradurre all’infinito lo stesso libro…»
(Ottavio Fatica, intervista a “Il Venerdì”, 03/02/2023)

Tre anni vissuti pericolosamente

Stand BompianiSono passati più di tre anni dalla pubblicazione del primo volume del Signore degli Anelli nella nuova traduzione di Ottavio Fatica. Tre anni durante i quali non solo il dibattito si è infiammato tra sostenitori della traduzione precedente e sostenitori della nuova, ma si è anche finalmente iniziato a discutere di come Tolkien scriveva. Possiamo dire che se anche la nuova traduzione avesse questo unico merito – averci fatto tornare all’originale e averci fatto accorgere di qual è lo stile del Signore degli Anelli – sarebbe sufficiente per esserne grati. Del resto, lo stesso Tolkien la pensava in questo modo circa il ritradurre i classici: «Lo sforzo per tradurre o per migliorare una traduzione ha un valore non tanto per la versione che produce, quanto piuttosto per la comprensione dell’originale che risveglia» (Tradurre Beowulf, 1940).
È noto che a suo tempo, quando Bompiani decise di ritradurre il masterpiece tolkieniano, l’AIST ha avuto un ruolo nel suggerire il nome di Fatica e nel fornire consulenza al traduttore durante il lavoro (il merito va soprattutto al nostro socio Giampaolo Canzonieri). È noto che dopo la pubblicazione dei tre volumi, l’AIST ha raccolto le segnalazioni di errori o imprecisioni dai lettori e le ha trasmesse al traduttore, che le ha integrate nell’edizione del volume unico; si è così realizzata una sinergia tra lettori, traduttore ed editore che per accuratezza e rapidità non ha precedenti. Ed è altrettanto noto che per l’AIST, al di là del gusto personale, delle riserve su singole scelte, o dell’affetto per la traduzione con cui siamo cresciuti, i meriti del lavoro di Fatica sul Signore degli Anelli sono oggettivi: il romanzo ha finalmente una traduzione letteraria all’altezza della sua prosa.
Ottavio FaticaCiò nonostante, nelle interviste di tre anni or sono, Fatica ostentava una certa insofferenza nei confronti dei tolkieniani, spendeva qualche espressione iperbolica poco elegante, rendendosi antipatico al fandom (oltre a subire una querela da parte della traduttrice storica, finita in nulla, com’era ampiamente prevedibile). Soprattutto agli occhi dei fan lo ha compromesso il fatto di non essere un tolkieniano di stretta osservanza, e di non amare Tolkien al di là di ogni ragionevole dubbio. Anzi, in una delle suddette interviste si spingeva a rivendicare che «un conto è amarlo, un altro leggerlo correttamente» (“Il Venerdì”, 29/11/2019). Come a dire che il sentimento serve a poco senza la capacità di cogliere gli aspetti più profondi della lingua letteraria.
A tratti è sembrato che contro Fatica si ergesse proprio un muro di amore incondizionato e di fede nel genio autoriale, riconosciuti come unico metro per cogliere lo spirito di un’opera (qualunque cosa significhi) al di là dello stile letterario. Per altri versi è venuto perfino il sospetto che l’atteggiamento “laico” di Fatica disturbasse i fan in cerca di assolute conferme: «La non unanimità del suffragio è l’ossigeno dell’arte. Mai pensare di un libro: qui sta la Verità, più tutte le altre maiuscole di rito. Una verità è tale nella misura in cui soddisfa chi la formula. Non sarà questo o quel libro a dare la Risposta. Né è fatto per darla. E lascia spazio ad altre verità manchevoli, altri libri. L’incompiuto è l’unico infinito alla portata» (O. Fatica, I Quaderni di Arda n. 2, 2021). Come incompiuto è l’universo inventato da J.R.R.Tolkien, che oggi milioni di lettori, spettatori, giocatori, cosplayer, ecc., abitano ed espandono in molti modi diversi.

Niente sarà più come prima

Cover Compagnia dell’AnelloL’accusa più circostanziata mossa a Fatica in questi anni è piuttosto quella di avere usato termini troppo ricercati nel tradurre l’inglese di Tolkien, sacrificando la fruibilità alla fedeltà all’originale, o perfino spingendosi oltre l’originale stesso; quindi, in altre parole, di avere fatto sfoggio del proprio mestiere con una certa autoindulgenza. Ne accenna Fatica stesso in un’intervista recentissima: «Se c’era scritto “pigro” e io mettevo “infingardo” diventava un tradimento» (Tradurre è un corpo a corpo, in “Il Venerdì” 03/02/2023).
Va detto che il grande Saba Sardi non fu certo da meno nel dare un personalissimo imprinting (con tanto di clamorose sviste) a un’opera come Il Silmarillion. Può ben darsi che l’estro del traduttore famoso tenda a trasparire sulla pagina, e che questo sia il prezzo da pagare per avere la traduzione di un professionista noto, appunto, che solitamente è tale perché è bravo. Valeva per Saba Sardi e vale per Fatica, con tutto che Il Signore degli Anelli è un testo più complesso di qualunque altra cosa Tolkien abbia scritto, ovvero, nella sua stessa definizione, «un saggio di estetica linguistica» (Lettera 165, 1955), pieno zeppo di estrosità da filologi.
Resta il fatto che, a prescindere dal suo approccio idiosincratico, Fatica, con il suo lavoro e il suo parere, ha avuto un peso determinante nel riscattare le quotazioni letterarie di Tolkien oltre i confini del fandom. In interviste e interventi pubblici, il traduttore ha accostato Tolkien a Shakespeare, Melville, Kipling. Ha detto che è uno scrittore «solidissimo. Ogni capitolo è compiuto, non deraglia mai» e che «questa è la sua vera forza» (“Il Venerdì”). Ha scritto che Tolkien è uno scrittore fallibile, come tutti gli scrittori (e ne ha elencato i difetti), ma che sopperisce con «le qualità che non gli mancano: fantasia, visionarietà, ritmo narrativo incalzante, senso animistico della natura, solida tenuta nei passi di crescendo epico, e molto altro ancora» (I Quaderni di Arda n.2, 2021).
Ipse dixit. Certe castronerie su Tolkien come scrittore per ragazzini mai cresciuti non si sentiranno più, indietro non si torna. E c’è da sperare che per certi fan il problema non sia proprio questo, cioè il fatto che oggi Il Signore degli Anelli non sia più il romanzo culto di una sottocultura nerd (absit iniuria verbis), ma abbia guadagnato la dignità di un classico della letteratura, come merita. Un fandom che si lamentasse del fatto che finalmente anche la cosiddetta cultura alta, dopo anni di snobismo, è disposta a riconoscere il valore letterario di Tolkien, sarebbe un fandom incontentabile, per non dire puerile.

Sulla vetta

Lost in traslation - Ottavio FaticaFatica di certo non dissimula la consapevolezza delle proprie capacità e del proprio ruolo, dando alle stampe un libretto – atteso a scaffale per il 10 febbraio – dal titolo non troppo originale, Lost in translation, dove parla del proprio mestiere attraverso il rapporto con alcuni grandi autori che ha tradotto. Si tratta di una raccolta di sei brevi ficcanti riflessioni, che cercano la metafora del tradurre – prosa o poesia – in altrettante opere letterarie. Il traduttore cerca se stesso nel testo e ci si perde, come dev’essere, riflettendo con estremo acume e in punta acuminata di penna sul proprio mestiere ingrato e magico al tempo stesso. La traduzione è sempre una mancanza, ovvero, direbbe Fatica, la traduzione non esiste, esistono solo cose da tradurre. Ed è l’attività che dalla notte dei tempi consente agli umani di comunicare oltre le proprie diversità culturali, di superare le divisioni, di costruire ponti nella Babele linguistica della specie. Una riflessione che quando viene letta sulla pagina colpisce come una folgorazione.
Tra queste riflessioni letterarie, accanto a Kipling, Céline, Yeats e altri, la seconda in indice riguarda Il Signore degli Anelli, e in particolare il personaggio di Sam. Sono quelle sette paginette del formato Adelphi tra le più belle mai scritte in lingua italiana su quel personaggio, per il quale rappresentano una dichiarazione d’amore.
Sam è il fedele che sale sul Monte Carmelo, è San Cristoforo che si carica Gesù sulle spalle per fargli guadare il fiume, è il servitore disposto a prendere su di sé il fardello del padrone. «Così facendo, Sam avrà compiuto il più nobile dei gesti: assumere spontaneamente una sofferenza vicaria. E, con questa semplice sostituzione, senza saperlo avrà riassunto in sé il riscatto di tutti gli animali, delle piccole persone, delle grandi, che volenti o nolenti ci hanno sempre servito, e di ogni altro animale, dell’animale in noi, dell’animale che in fondo a noi noi sempre siamo».
E il più grande omaggio a queste «piccole persone» Fatica lo legge nella scena degli onori concessi agli Hobbit dal nuovo re Aragorn, il quale si inginocchia: «In quel momento forse Il Signore degli Anelli tocca e fa vibrare di struggente letizia la nota del più alto pathos epico di tutta la vicenda, che ne annovera non pochi, forse mai così alti e puri».
Sam è l’eroe della storia, lo sappiamo, lo stesso Tolkien lo considerava tale. Sam è colui che ha seguito, poi accudito, poi preso per mano, poi vegliato e trasportato Frodo.
Secondo Fatica, nel personaggio di Sam, Tolkien «senza volerlo ha tratteggiato come meglio non si può l’inedito ritratto del traduttore come sherpa», ovvero «un montanaro che si è messo al servizio dello straniero da tradurre», nel senso letterale, cioè da trasportare, da condurre, armi e bagagli, in cima alla montagna. Lasciando sempre all’autore “padrone” il merito di conficcare la bandiera sulla vetta, cioè senza mai sostituirsi a lui, ma servendolo sempre. Come Sam, appunto.
Chapeau. Se mai c’è stato un commiato perfetto di un traduttore da un autore è questo.

Matematica

Cover IsdA in economicaIn conclusione, a mo’ di postilla, rimarrebbe da fare i conti con la materialità dei numeri. I duri numeri che regolano il mercato librario e ci dicono se un’operazione editoriale ha avuto successo oppure no presso il pubblico. Ebbene i dati delle rilevazioni editoriali parlano chiaro. Nel periodo immediatamente precedente la pubblicazione della nuova traduzione, cioè nel triennio 2016-18, Il Signore degli Anelli, in tutte le sue varie edizioni, aveva venduto all’incirca 74.000 copie. Dal 2019 al 2022, nella nuova traduzione (e con la vecchia ritirata dal commercio), ne ha vendute circa 112.000. E l’edizione economica (25 euro), quella per così dire definitiva, è ancora fuori dal conteggio, essendo arrivata in libreria da pochi giorni con una tiratura di partenza di dodicimila copie. In buona sostanza nel passaggio da una traduzione all’altra le medie di vendita annue sono state non solo confermate, ma anzi, sono leggermente aumentate.
A quanto pare il grande flame sui social non ha funzionato per scoraggiare i lettori, o forse addirittura ha funzionato al contrario, aumentando la curiosità per il romanzo nella sua nuova traduzione. Very good.

Wu Ming 4

ARTICOLI PRECEDENTI:
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– Leggi l’articolo Tolkien e le mappe de Il Signore degli Anelli
– Leggi l’articolo Appunti sul discorso di Ottavio Fatica a Trento
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– Leggi l’articolo A Trento scendono in campo i traduttori
– Leggi l’articolo A Trento un convegno: Tolkien e la traduzione
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito di L’editore Bompiani: «Nessuna lettura ideologica di J.R.R. Tolkien»

 

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Arthuan Rebis, l’Arpa e la Terra di Mezzo

«Se in sogno o no non lo sapeva, Frodo sentì un canto soave nella testa: una canzone che sembrava giungere come una fioca luce dietro una grigia cortina di pioggia e diventare poi sempre più forte, in modo da trasformare tutto quel velame in vetro e argento finché, quando fu riavvolto, una campagna verdeggiante si schiuse in lontananza innanzi a lui sotto una repentina aurora.»
(J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli)

La musica di Arthuan Rebis è come il sogno ricorrente di Frodo: apre il velo su un altrove. Con grazia ed energia. La citazione da Tolkien non è arbitraria perché Arthuan Rebis è stato ospite al primo Tolkien Studies Day di Sarzana il 29-30 luglio 2022. Ha tenuto un emozionante concerto sabato sera, e nel pomeriggio dello stesso giorno ha inaugurato la manifestazione insieme al direttore artistico, Valentino Giannini, con letture dalle opere del professore di Oxford e l’esecuzione con l’arpa celtica di composizioni originali del musicista sulla poesia di Tolkien, è il caso di “Elbereth” cantata in Sindarin, e su altri temi e culture vicini allo scrittore.
Arthuan Rebis è uno straordinario musicista: la qualità creativa, tecnica, e culturale della sua musica è molto alta, ma è altrettanto vero che è una musica dell’anima.
Benché ci siano generi musicali di riferimento (ad esempio, l’ampio spettro del folk moderno), le sue composizioni scaturiscono dalla sua ricerca culturale e spirituale.
Arthuan Rebis è il nome d’arte di Alessandro Arturo Cucurnia, compositore e concertista internazionale, dottore in Musica all’università di Pisa, musicista polistrumentista, tra gli strumenti che suona: arpa celtica, nyckelharpa, esraj, hulusi, bouzouki, chitarra, flauti, cornamuse, percussioni, tastiere e anche la sua stessa voce, che modula nel canto armonico. Dal 2007 gestisce il proprio studio di registrazione.
Arthuan Rebis è anche uno studioso di tradizioni musicali e spirituali d’Oriente e d’Occidente, in particolare sciamanesimo e Buddhismo tibetano (traducendo gli insegnamenti del Lama Lodro Tulku Rinpoche), di miti delle culture antiche europee ed extraeuropee (collabora con il grecista Angelo Tonelli). Sono frutto di questi studi anche la sua attività di operatore sonoro attraverso trattamenti con il letto armonico, e il libro Musica e Sapienza, antiche tradizioni musicali e spiritualità (ed. Agorà&Co, 2013).
Dopo una lunga stagione di concerti in Italia e in Europa, abbiamo l’occasione di intervistare Arthuan Rebis.

L’intervista

Iniziamo proprio da Tolkien. Durante l’inaugurazione del Tolkien Studies Day hai presentato Elbereth, una poesia elfica che si trova nel Signore degli Anelli e parla della dea che accende le stelle. L’hai musicata con l’arpa e la canti nella versione “originale” in Sindarin (quella che Frodo ascolta nella Sala del Fuoco a Rivendell). Vuoi parlarci della tua connessione con Tolkien, come lettore e come artista?
«Ho incoronato “Elbereth” come canzone prosecutrice tra una dozzina di musiche che ho composto per uno spettacolo da me ideato (“L’Arpa e la Terra di Mezzo”). La maggior parte di quei brani sono rimasti confinati in quell’evento, per il quale erano perfetti, ma mi trovo spesso a dover selezionare, perciò a mettere da parte. In questi casi “Il cestino è uno dei miei migliori amici” come mi disse un giorno il grande cantautore Claudio Rocchi.
“Elbereth” è uno di quei pezzi che suono quasi sempre. Quando l’ho musicata ho cercato di raccogliere una devota malinconia, a cavallo tra l’eccitazione dell’incanto e la calma di un respirare profondo, una sorta di celtitudine ancestrale, una saudade elfica. Gli armonici delle corde, assieme al paesaggio sonoro, tentano di rappresentare lo scintillio delle stelle e la loro accensione per mano della più amata tra i Valar, colei che è Semprebianca.
Sarebbe altisonante da parte mia tentare di descrivere la grandezza di Tolkien in qualunque modo, specialmente in questa sede, ma credo di comprenderla affondo. Relativamente all’universo tolkieniano e alle connessioni che genera mi sento di dire questo: chiaramente è un grande faro, e le persone che hanno una certa sensibilità, e che si sono nutrite profondamente da questa fonte, si riconoscono subito, hanno una risonanza speciale, una sensibilità per l’appunto endemica».

L’8 gennaio 1944, in una delle numerose lettere che scrisse al figlio Christopher al fronte (lettera n.54), Tolkien riporta alcuni versi dal Libro di Exeter (un codice del X secolo): «Meno sarà tormentato dal desiderio, colui che conosce molti canti, o che con le sue mani può toccare l’arpa: il suo bene è un dono di “gioia” (= musica e/o poesia), che Dio gli ha donato».
Sono versi molto belli e molto potenti che ci portano a chiederti come hai intrapreso la via della musica, e cosa rappresenta per te l’arpa celtica.
«Ho la fortuna di ricevere spesso gratitudine e calore dalle persone che assistono ai concerti o che ascoltano i miei dischi. Ultimamente una persona, dopo una mia esibizione, mi ha dato una lettera confidandomi quanto la mia musica (e ciò di cui è stata tramite) l’abbia accompagnata in un momento tremendo quale la perdita del compagno. Questi episodi danno un senso a quello che faccio, specialmente quando incontro ostacoli dentro o fuori di me.
Nei momenti difficili a volte ho smesso di suonare l’arpa per un po’, ma poi rimettendo le mani sullo strumento mi sono reso conto di quanto sia terapeutico anche per me, specialmente quando c’è un pubblico. Questa condivisione è per me una vocazione; alcuni direbbero “missione”, ma io non lo dico, perché preferisco esaltarmi del beneficio altrui, cercando di evitare sovrastrutture che mettono al centro il mio ego. Però mi piace intendermi come veicolo o fucina.
L’arpa celtica per me è inscindibile dalla dimensione bardica. Da un lato è uno strumento molto “spirituale” che può far cantare gli Elementi o mettere in connessione con dimensioni meno materiche (molti arpisti erano ciechi e chiaroveggenti), e che può narrare, evocare e incantare. D’altro canto è storicamente uno strumento di Resistenza, che implicava una vita dura e coraggiosa; a tal proposito si tenga presente che gli arpisti irlandesi sono stati a lungo perseguitati, con la pena di morte in alcuni casi. Le origini di questo strumento in realtà hanno radici in Egitto e a Babilonia. La tecnica che uso, con le unghie lunghe, non è molto comune, e neanche comoda. Con il tempo si sviluppa una vera mindfulness dell’unghia nelle faccende più banali del vivere quotidiano. Ma questa presenza mentale a volte viene a mancare e l’unghia si rompe accidentalmente. Il taglio dell’unghia è stato a lungo una punizione per i bardi, quando questi sono stati integrati e strumentalizzati nelle corti.
La musica la intendo da sempre come dimensione di elaborazione interiore finalizzata alla condivisione.
La musica è quintessenziale, immateriale ma sostenuta dagli elementi. L’essenza bardica a mio parere sta nell’ereditare linguaggi artistici e simbolici, ma tutto deve essere rielaborato e riportato all’esperienza trasformativa dell’attuale esistenza».

“Elbereth” si trova nell’album Sacred Woods (2021), “Boschi Sacri” (e quanti boschi e quanti alberi anche in Tolkien!). Dal primo brano, “Albero Sacro”, ci conduci lungo un percorso di conoscenza attraverso la sapienza antica in Oriente (Danzatrice del Cielo) e in Occidente: in Scandinavia (Runar) nel Mediterraneo (Driade) e nelle terre celtiche (Kernunnos). Un percorso mirabilmente armonioso e naturale all’ascolto, e allo stesso tempo con una gamma di stimoli emotivi diversi. Ci vuoi parlare dell’ispirazione di Sacred Woods?
«È infatti un concept album in cui fiorisce questo atlante simbolico che intreccia entità spirituali e dimensione arborea. Ogni brano attinge da mitologie o suggestioni differenti. Ci sono brani che raccontano più o meno velatamente e astrattamente una storia (Come foglie sospese, “Diana”, “Driade”) ed altri più evocativi o celebrativi. C’è una vasta varietà di stili e di influenze che ho cercato di mettere insieme in maniera dinamica, con momenti contemplativi ed episodi più scatenati. La mia volontà era di mescolare mistero, dimensione del sacro, amore, malinconia, trance, panteismo al confine tra visibile e invisibile, tempo e non-tempo.
Nell’album figurano molti ospiti internazionali quali Vincenzo Zitello (il padre dell’arpa in Italia) Glen Velez (il maestro dei tamburi a cornice), Paolo Tofani (il chitarrista dei leggendari Area), o la cantante danese Mia Guldhammer, Giada Colagrande (regista e cantautrice), Federico Sanesi, Nicola Caleo, Gabriele Gasparotti ed Emanuele Milletti. L’album è prodotto dalla Black Widow Records, storica etichetta nei circuiti prog/dark/folk/metal».

Da Sacred Woods hai tratto quattro video, girati presso un albero monumentale, la cosiddetta Quercia delle Streghe, una grande farnia che si trova vicino Capannori (Lucca). È un essere vivente che accoglie molte forme di vita grandi e piccole intorno a sé, e che trasmette una sensazione di pace ed energia. I brani che hai trasposto nei video sono “Driade”, “Elbereth”, “Fairy Dance” e la struggente ballata “Come foglie sospese”.
La presenza di questo essere secolare, la modulazione diversa dei colori nei quattro video, i tuoi testi – “Come foglie sospese” in particolare – fanno percepire che un tema ricorrente nella tua musica è il Tempo.
«Hai ragione, ed è un tempo che si scioglie. I greci lo chiamavano Kairos, un tempo qualitativo più che quantitativo, che fa percepire una dimensione non sequenziale e non cronologica, e che in qualche modo è un passo al di là della dimensione grossolana dei regni di esistenza. Una sorta di collante immateriale.
Il brano “Come foglie sospese” narra di un uomo in una foresta. D’improvviso la cortina che cinge il mondo si svela e un attimo che sembra eternarsi apre uno squarcio in un’altra dimensione. Dall’altra parte del velo questa persona scorge una creatura femminina, una sorta di dea mortale (che si può immaginare soggettivamente come un Deva femmina o una dama elfica), la quale sta morendo. In un baleno egli realizza di esserne stato l’amante, e di esser poi rinato tra gli uomini. In questa sua presente forma umana egli ha già vissuto lunghe decadi, ma dall’altra parte sono passati pochi istanti. Lei lo sta per seguire, convinta che stanno morendo insieme, ignara del fatto che in pochi istanti lui ha già vissuto decenni in una nuova esistenza in un altro mondo. Lui la osserva, lei non può vederlo, sono vicini e lontanissimi, ma il sentimento di connessione trascende il tempo e lo spazio ordinari proprio grazie al potere della memoria del cuore. Qui l’immaginario tolkieniano e quello romantico occidentale si fondono con la visione cosmogonica Buddhista. Tutto questo non si coglie facilmente nel brano, perché mi piace l’essenziale e preferisco lasciare spazio alla fantasia dell’ascoltatore.
Relativamente agli alberi, di cui tento di tracciare una lode archetipica nel primo brano dell’album, vorrei ricordare che hanno camminato su tutta la superficie del mondo, dopo cicli di glaciazioni e desertificazioni, di seme in seme, eppure sono lì, immobili testimoni, primevo rifugio e ispiratori di tutte le qualità positive. La quercia di cui parli impatta la vista come un cosmo, come un cervello cosmico, madre e padre ad un tempo. Le sue radici, come si intuisce a colpo d’occhio, sono altrettanto maestose. Capovolgendola forse apparirebbe simile. L’Albero Celeste platonico del resto ha radici nei piani superiori (sarebbe meglio dire più sottili) e ramifica nel mondo della manifestazione, dove ci ritroviamo anche oggi, questa volta con sembianze umane (ed è comunque un gran privilegio)».

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 2020 esce La Primavera del Piccolo popolo, la tua fiaba musicale, come l’hai definita. Termine quanto mai corretto perché la protagonista è una fata e perché i temi sono eterni (la Natura, l’Amore, la Ricerca). Ad un livello più profondo, La Primavera sembra un racconto di guarigione, con una sonorità cristallina e rinfrancante, e un passo meditativo. È significativo che sia nata durante il primo lockdown, che per molti è stato invece un periodo di grande ansia e “sconcerto”.
«È stato un momento di forte scossa collettiva, e contrariamente a quanto rappresentato dalle serie tv distopiche, gli esseri umani nel momento di crisi collettiva non tendono sempre a mangiarsi la testa a vicenda come zombies. Spesso quando l’ego vacilla e le certezze crollano, essi manifestano spontaneamente le naturali inclinazioni positive della mente, come la compassione e l’altruismo, che alimentano un loop virtuoso nel quale il cuore si scalda riscaldando altri cuori. Qualche anno fa a Carrara ci fu una terribile alluvione, e mai ho visto tanta solidarietà e gentilezza: c’era bisogno di ritrovarsi nella merda fino al collo.
Similmente nel primo lockdown molte persone erano ispirate dalla possibilità di un cambiamento, dall’illusione che certe urgenze ecologiche avrebbero avuto una concreta e sincera attenzione. Non sapevamo cosa c’era alle porte. Quando la frustrazione si cristallizza nel tempo e viene pilotata dai media e dai governanti allora sì che le persone danno il peggio di sé mettendosi l’una contro l’altra per un pezzo di carta. Questo avviene quando la crisi viene inglobata dai tratti inquietanti dell’ordinario.
Ad ogni modo, nell’equinozio di primavera del 2020, mi sono chiuso in casa qui a Luni (non potendo andare in studio) e ho ideato questa “Fiaba Sonora”. Mi è arrivata questa ispirazione, cercando il lato positivo del momento. È un album da ascoltare tutto d’un fiato, molto diverso da “Sacred Woods”; è una sinfonia minimale, con tanti movimenti. Il viaggio sonoro è guidato dall’arpa, che ha intessuto la cartografia delle trame armoniche, poi vi sono strumenti come la nyckelharpa (una sorta di viola scandinava) e l’esraj (viola indiana) che colorano con pennellate ben dosate i paesaggi boscosi. Altri suoni rappresentano le ali della fata, le varie essenze in gioco e le transizioni di ambienti esteriori ed interiori.
Questa fata è uno spirito guida, alla ricerca di un’umanità scomparsa, in cui lei crede ancora, mentre gli altri del Piccolo Popolo si godono l’assenza degli umani nelle foreste. E questo è stato il mio pensiero mentre eravamo chiusi in casa: “Chissà come se la spassano i faeries allo scoperto.”
Sia la musica che le suggestioni narrative lasciano ampio spazio all’immaginazione dell’ascoltatore, che ha tutto il potere di vivere il viaggio in maniera ri-creativa. Ci sono molti inputs meditativi: la fata durante il viaggio medita sull’impermanenza, sull’interdipendenza, attraverso simboli e immagini che può cogliere anche un bambino, ma che non escludono una profondità, anzi.
Il legame con l’Oriente, in questa mia rielaborazione essenziale di un immaginario europeo quale quello dei Faeries, non ha solo originazioni filosofiche, ma anche estetiche: in quei giorni mi sono riguardato numerose produzioni di Myiazaki, così incredibilmente gentili, prive di volgarità, magicamente pure, essenziali, soavemente formative, e soprattutto capaci di ridonarci, da mani giapponesi, la natura più pura di estetica e simbolismo occidentali… Incroyable!».

Curi personalmente le illustrazioni e la grafica dei tuoi album. Sulla copertina di Sacred Woods c’è l’icona molto suggestiva del grande albero, incorniciato da intrecci quasi celtici che verso l’alto diventano spirali di aria o motivi vegetali in stile liberty. Sulla copertina della Primavera del Piccolo Popolo vediamo la silhouette della fata Alidoro contro la luna piena, con un’arpa tra le mani. Si tratta sempre di immagini notturne.
Ci racconti le radici del tuo immaginario, e in particolare della fata?
«Questo stile grafico delle silhouette e dei notturni accomuna l’artwork questi due album, ma l’ho proposto in certa misura nei dischi delle mie bands. Tendenzialmente tendo a curare tutti i processi artigianali, dalla fase compositiva alle registrazioni, dal missaggio alle grafiche e ai videoclips.
Quando ero bambino sono stato folgorato dalla lettura quotidiana di una rivista di Tradizioni magiche ed esoterismo. La fascinazione per i contenuti testuali era potenziata dalla presenza di opere di straordinari pittori del Fantastico, penso a Ernst Fuchs, M.C. Escher, Salvador Dali, Salvator Rosa, René Magritte, H. R. Giger, Victor Cupsa, ma soprattutto penso al dipinto di Peter Proksch: “Il Palazzo delle Sette Saggezze”, vera ossessione visiva della mia infanzia.
Io non sono affatto un illustratore, ho semplicemente imparato ad arrangiarmi perché so esattamente cosa voglio da una copertina. Per me è importante che rispecchi la mia visione del contenuto.
La mia “Fata” ha tratti del principio “volatile e sfuggente” femminile di cui parlano gli Alchimisti. È un po’ l’Anima nella visione junghiana. Allo stesso tempo ha il ruolo di uno Spirto Guida, quindi desidera farsi inseguire, per guidare, ma opportunamente viene anche in soccorso. Allo stesso tempo è simile a quella che per i tibetani è una Dakini, avendo la capacità di padroneggiare l’elemento Aria/Vento. È la Musa ed ha infinite forme e manifestazioni. Il mio motto personale in questo caso è: UNA MUSA REGIT – Una sola Musa impera».

Negli anni hai dato vita a diversi progetti musicali, The Magic Door per esempio, e Antiqua Lunae. Dal 2011 componi e suoni anche con il gruppo di folk medievale In Vino Veritas. Cosa cambia nello spirito creativo quando componi per il gruppo e quando sai di lavorare per un progetto solista?
«Ci sono state esperienza di collaborazione molto stimolanti, come in The Magic Door, con le menti di Giada Colagrande e Vincenzo Zitello. Rispondendo in maniera generale: per me la condizione ideale nel comporre per un gruppo è quando gli altri cercano di stimolare e valorizzare la mia creatività, consci del fatto che posso essere in grado di partorire molte idee concrete per stili e generi molto diversi. Non è scontato, poiché spesso tra musicisti può generarsi una dannosa competitività. Ho una tendenza un po’maniacale nel voler gestire i processi creativi, ma quando trovo persone che hanno più esperienza e capacità di me sono strafelice di imparare e delegare, come ad esempio quando abbiamo messo il mix di The Magic Door nelle mani di Pino Pischetola, fonico di Battiato, che ha lavorato a pietre miliari come “Violator” dei Depeche Mode, tanto per citare un disco. Nel caso di In Vino Veritas, mi sono trovato quasi sempre a scrivere brani tenendo conto delle caratteristiche dei particolari strumenti musicali, delle qualità dei singoli membri, dei contesti danzerecci Medieval e Pagan folk, e del sound evoluto coralmente nel progetto».

Cecilia Barella

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Discografia solista:
– Spells, Spirits and Spirals (giugno 2016)
– La Primavera del Piccolo Popolo (maggio 2020)
– Sacred Woods (maggio 2021)

Altri progetti discografici:
come Autore, Compositore, Cantante, Esecutore, Fonico, Grafico e Produttore Artistico
– Antiqua Lunae, Il Regno di Flora (2012)
– In Vino Veritas, Baccabundi (2014)
– In Vino Veritas, Ludicantigas (2016)
– The Magic Door, The Magic Door (2018)
– In Vino Veritas, Grimorium Magi (2019)
– In Vino Veritas, Arawn (singolo, 2021)
– Paolo Tofani ft. Arthuan Rebis, La Tempesta/Non è possibile (singolo, dicembre 2022)

Bibliografia:
– Alessandro A. Cucurnia, Musica e Sapienza, antiche tradizioni musicali e spiritualità, Agorà&Co ed. 2013

LINK ESTERNI
– Vai al sito ufficiale di Arthuan Rebis

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Il Silmarillion, scoperto un manoscritto inedito

Asta Heritage Auctions È stato ritrovato un importante manoscritto di Tolkien, di cui si sapeva pochissimo e i cui contenuti erano solo stati descritti in maniera sommaria. E un grosso contributo al ritrovamento è stato dato anche dall’AIST. Il manoscritto ha il titolo di Concerning … ‘The Hoard’, era stato visto solo per un’asta negli anni Ottanta, e che potrebbe cambiare la visione che si ha di un capitolo del Silmarillion e del popolo dei Nani della Terra di Mezzo. Ma è meglio cominciare dal principio!

La composizione de Il Silmarillion

Copertina del SilmarillionAlla morte di J.R.R. Tolkien, il figlio Christopher si prese la responsabilità di proseguirne l’opera, giungendo a pubblicare nel 1977 la sua grande incompiuta, Il Silmarillion. Già dall’inizio aveva dovuto mettere in fila l’immensa mole di manoscritti inediti, cercando una coerenza quasi impossibile da raggiungere. Ma già all’epoca, Christopher era consapevole di quale tipo di operazione stava facendo e in maniera intellettualmente onesta, così scrisse nell’introduzione al Silmarillion: «… Mi è risultato evidente che lo sforzo inteso a presentare, in un unico volume, materiali così disparati – di offrire Il Silmarillion quale è in realtà, un atto di creazione continua, la cui evoluzione è durata oltre mezzo secolo — non avrebbe che ingenerato confusione, obnubilando quanto vi è di essenziale. Ragion per cui mi sono accinto a elaborare un testo unico, scegliendo e ordinando i materiali in modo tale da attribuire loro l’aspetto di una narrazione più coerente e priva di contraddizioni…». E poi ancora: «Il lettore non si aspetti di trovare un’assoluta coerenza (né nell’ambito del Il Silmarillion stesso, né tra questo e altri scritti di mio padre dati alle stampe), che del resto potrebbe essere raggiunta, semmai, soltanto a prezzo assai caro e oltretutto inutile».
Fu un lavoro notevole realizzato in pochi anni (1973-77) e il risultato è stato dare ai lettori la terza grande opera di Tolkien, quella che è alla base delle altre due e si pone come sfondo mitologico ed epico di tutta la Terra di Mezzo. Il volume è ottimo, ma già da tempo la critica accademica ha mostrato quanto Il Silmarillion in realtà sia in gran parte frutto di scelte fatte dallo stesso Christopher: tagli pesanti di personaggi (specie delle figure femminili), delle titolazioni dei capitoli, degli annali, e esclusione di intere parti che invece dovevano far parte (secondo Tolkien) de Il Silmarillion (la storia-cornice del marinaio Eriol, la storia di Earendil, un finale troppo frettoloso e senza la Dagor Dagorath). Infatti, salvo qualche accenno qua e là, Christopher per lo più non mostra il passaggio finale: la sua creazione effettiva dell’opera pubblicata, con l’assistenza di Guy Gavriel Kay (che allora era uno studente laureato, ma sarebbe poi diventato un autore fantasy di successo a pieno titolo). Lo stesso Christopher ammette il suo errore: «L’opera pubblicata non ha “cornice”, né suggerimenti sulla propria natura e su come sia venuta a crearsi (entro il mondo immaginato). Ora penso che questo sia stato un errore» (Il libro dei Racconti perduti, Vol.1, p.11).
Quindi, come spiega Christopher nella Prefazione a The War of Jewels [WotJ] (il secondo dei due volumi della Storia della Terra di Mezzo che copre il “Silmarillion successivo”), «l’opera pubblicata non è comunque un completamento, ma una costruzione concepita con i materiali esistenti. Nuovi materiali sono ora messi a disposizione […] e con essi diventa possibile una critica al Silmarillion “costruito”» (WotJ X).
Molte delle differenze tra Il Silmarillion rielaborato da Christopher e la History non sarebbero esistite se – afferma Christopher – egli fosse venuto prima a conoscenza dell’esistenza di questi scritti.

Il manoscritto ritrovato

Ted_Nasmith_-_The_NauglamirIn uno dei capitoli finali del Quenta Silmarillion, il XX “Della rovina del Doriath”, non più toccato dall’inizio degli anni ’30, Christopher dovette costruire una narrazione praticamente partendo da zero (The War of Jewels, parte 3, cap. 5 “Il racconto degli anni”). È a questo livello che si può ora contestualizzare la scoperta del manoscritto Concerning … ‘The Hoard’ che tratta proprio degli argomenti della rovina del Doriath. Si tratta di un manoscritto di J.R.R. Tolkien, allegato da lui in una lettera a Eileen Elgar del 1964 (insieme alla tabella Kinship of the Half-elven). Il manoscritto, composto da nove pagine, fornisce uno schema de Il Silmarillion collegandolo alla sua poesia ‘The Hoard’ (Il Tesoro). Tolkien aveva risposto a una missiva in cui Elgar aveva fatto diverse osservazioni sulla poesia, pubblicata ne Le Avventure di Tom Bombadil nel 1962. L’argomento della poesia è l’avidità: un vecchio tesoro elfico viene preso da un nano, un drago e un uomo. Ognuno di loro è consumato dall’avidità di possedere il tesoro finché a sua volta non viene ucciso e anche il proprietario successivo viene consumato dall’avidità finché non è ucciso a sua volta. La storia riecheggia eventi della Prima Era della Terra di Mezzo, in particolare la storia di Túrin Turambar, Glaurung e Mîm nel Nargothrond. Tolkien risponde nella lettera: «… ‘The Hoard’ pretende di raccontare in breve la storia di uno dei “tesoreggiamenti” della leggenda. […]». Infatti, il testo contiene diversi ammonimenti: «I Silmaril erano diventati per Fëanor, simboli e strumenti di potere: si definiva “Il Signore delle Luci”»; «i Figli dei Valar aiutati dai resti degli Elfi e dei Dúnedain (o Uomini dell’alleanza elfica), sconfissero il Signore Oscuro in quella che fu chiamata l’“Ultima battaglia”».
Presumibilmente Tolkien non fece una copia di questo manoscritto, e per il resto non lasciò traccia nelle sue carte per assistere Christopher nel suo lavoro su Il Silmarillion. L’esistenza stessa di questo manoscritto era sconosciuta almeno finché un suo estratto non è apparso in Sotheby’s English Literature and English History, il 6-7 dicembre 1984. Le uniche informazioni disponibili erano quelle disponibili sul catalogo e riprodotte su Beyond Bree nel maggio 1985 : il manoscritto era stato venduto per circa duemila sterline a un non meglio identificato “Chris J Sawyer”, presumibilmente un libraio. Scrivendo del manoscritto, Wayne G. Hammond e Christina Scull avevano commentato che quest’ultima esaminò il manoscritto in uno dei giorni di visione prima dell’asta da Sotheby’s, e scoprì che «fornisce qualche indicazione dei pensieri attuali di Tolkien su alcune parti del Silmarillion». Aveva appena letto The Book of Lost Tales, Part Two (pubblicato il 16 agosto 1984) e l’aveva recensito per Beyond Bree, quindi quel testo le era ben presente; e in relazione a esso, aveva notato gli sviluppi di Tolkien dai Racconti Perduti così come le differenze dal Silmarillion pubblicato. Per quanto riguarda la rovina del Doriath, la storia raccontata nel manoscritto del 1964 è in realtà più vicina alla Quenta Noldorinwa (non pubblicata fino al 1986) che a quella The Nauglafring in The Book of Lost Tales, ma differisce per alcuni aspetti da qualsiasi versione pubblicata: ad esempio, prima di iniziare a lavorare sul tesoro, i Nani accettano il pagamento di un decimo dei metalli grezzi. Thingol, tuttavia, è ancora ucciso fuori Menegroth, con Tolkien che fornisce due possibili ragioni per cui i Nani sono stati in grado di passare la Cintura di Melian.
NauglamirChristopher Tolkien nei “Vagabondaggi di Húrin”, scritto della fine degli anni ’50 e uno dei capitoli più interessanti della “Guerra dei Gioielli” e di tutta la Storia della Terra di Mezzo, scriveva: «Mio padre non tornò mai più a raccontare gli ulteriori vagabondaggi di Húrin. Siamo arrivati qui al punto più lontano della narrazione dei Giorni Antichi che raggiunse con il suo lavoro sul Silmarillion, a seguito della Seconda Guerra Mondiale e de Il Signore degli Anelli». «Per la storia della Nauglamir e la distruzione del Doriath, la caduta di Gondolin e l’attacco ai Rifugi, dobbiamo tornare a più di un quarto di secolo prima alla Quenta Noldorinwa o prima». Nel 1990 Christopher era quindi convinto nessuno scritto del padre successivo alla Quenta Noldorinwa, scritta negli anni 30, raccontasse la storia di come la collana dei Nani e la maledizione del drago, portarono alla Caduta del Doriath.

Un cambio di prospettiva

Con le poche informazioni dell’asta del 1984, durante le vacanze di Natale 2021, un socio AIST – Valerio Merenda – si è messo alla ricerca di Chris J. Sawyer per poi scoprire che si trattava del proprietario della libreria antiquaria Chas J Sawyer, che nel 1984 era a Londra e si trasferì nel Kent, nel 1986. Qualche mese dopo, a febbraio 2022, queste ricerche lo hanno portato a contattare la biblioteca Grolier Club’s librarian che gentilmente ha fornito i registri di vendita della libreria antiquaria e a sorpresa si è potuto sapere per certo che il manoscritto era stato acquistato da una famosa libreria antiquaria di Santa Barbara: Maurice F. Neville – Rare Books. Purtroppo Maurice F. Neville chiuse nel 1987 e la maggior parte dei suoi libri fu messa all’asta negli anni proprio da Sotheby’s. Grazie all’aiuto di Jeremy Edmonds di TolkienGuide e poi anche Pieter Collier, si è riusciti a contattare lo stesso Neville, che ha rivelato di aver comprato il manoscritto per un cliente privato. Sempre a febbraio Collier è riuscito a contattare l’acquirente (che sfortunatamente è poi morto un paio di settimane dopo). Collier stava per acquistare il documento, ma esso fa parte di un fondo e con la sua morte, questa eredità è finita direttamente all’asta. I legali della famiglia si sono rifiutati di toglierlo dal fondo che alla fine andrà in vendita su Heritage Auctions, che ha deciso, per la felicità di tutti i lettori del professore, di rendere disponibile le scansioni ad alta risoluzione di questo manoscritto in rete.
AuthorIl ritrovamento di questo splendido manoscritto è fondamentale perché se Christopher lo avesse avuto in mano durante la stesura de Il Silmarillion, avrebbe modificato radicalmente il capitolo “Sulla Caduta del Doriath”. Questo capitolo, come ci mostra in modo dettagliato Arda Reconstructed, è quello che si discosta maggiormente dai manoscritti originali di Tolkien (per ragioni all’epoca validissime). Lo stesso Christopher ne spiega i motivi in The War of Jewels: «Questa storia non è stata concepita alla leggera o facilmente, ma è stato il risultato di una lunga sperimentazione tra concezioni alternative. In questo lavoro Guy Kay ha avuto un ruolo importante e il capitolo che ho finalmente scritto deve molto alle mie discussioni con lui. È, ed era, ovvio che si stava compiendo un passo di un ordine diverso da qualsiasi altra “manipolazione” della scrittura di mio padre nel corso del libro… Sembrava a quel tempo che ci fossero elementi inerenti alla storia della Rovina del Doriath così com’era che erano radicalmente incompatibili con Il Silmarillion come previsto, e che qui ci fosse una scelta inevitabile: o abbandonare quella concezione oppure alterare la storia. Penso ora che questa fosse una visione errata, e che le indubbie difficoltà avrebbero potuto, e avrebbero dovuto essere, superate senza oltrepassare così tanto i limiti della funzione editoriale».
E ancora successivamente: «Nel Silmarillion pubblicato ho escluso La storia dei briganti e del Tesoro del drago… Inserirla, come mi sembrava, avrebbe comportato una riduzione enorme, anzi un’intera rivisitazione di un genere che non volevo intraprendere; e poiché la storia è intricata, temevo che ciò avrebbe prodotto un fitto groviglio di affermazioni narrative senza tutte le sottigliezze, e soprattutto che avrebbe sminuito la spaventosa figura del vecchio, il grande eroe, Thalion l’Incrollabile, portando ancora più lontano gli scopi di Morgoth, come era destinato a fare. Ma mi sembra ora, molti anni dopo, un’eccessiva manomissione del pensiero e delle intenzioni effettive di mio padre: sollevando così la questione se si sarebbe dovuto intraprendere il tentativo di fare un Silmarillion “unificato”».
La storia degli anni ’30, così come concepita da Tolkien non dava alcuna giustificazione sul come l’esercito dei Nani avesse potuto superare la cintura di Melian. La soluzione scelta da Christopher fu quella di abbandonare la versione del tesoro maledetto portato dai fuorilegge nel Doriath e di semplificarla facendo portare da Hùrin una collana forgiata per Finrod Felagund, facendo morire Thingol da solo ucciso dai Nani incaricati di unire la collana al Silmaril e facendo arrivare l’esercito dei Nani solo successivamente.
La storia raccontataci da Tolkien in Concerning … ‘The Hoard’ è molto più vicina a quella degli anni 30, ma ci fornisce un motivo molto semplice per il non funzionamento della Cintura: «Tornati nelle loro roccaforti sulle montagne, complottarono vendetta, e non molto tempo dopo scesero con un grande esercito e invasero il Doriath. Questo prima era stato impossibile, a causa della Cintura di Melian, un recinto invisibile mantenuto dal suo potere e dalla sua volontà, attraverso il quale nessuno con intenzioni malevoli sarebbe potuto passare. Ma o questo recinto era stato derubato del suo potere dal male interiore, o Melian lo aveva rimosso per il dolore e l’orrore per le azioni che erano state compiute. L’esercito dei Nani entrò nel Doriath e la maggior parte dei guerrieri di Thingol morirono. Le sue sale furono violate e lui stesso ucciso».
Tutto questo Christopher non poteva sapere nel ’77, ma se avesse avuto il documento avrebbe cambiato un intero capitolo del Silmarillion
Quindi, se si avesse avuta traccia molto prima di Concerning … ‘The Hoard’, l’unico errore dichiarato come tale da Christopher nel Silmarillion sarebbe stato corretto e ci sarebbero state frasi come questa: «A difesa dell’onestà dei Nani, tuttavia, si può dire che nulla fu sottratto da tutti i suoi tesori tranne il tesoro di Nargothrond».
Per la cronaca, l’asta si svolgerà a Dallas il 16 luglio presso Heritage Auctions e la base da cui si parte per le offerte è di 15mila dollari. Il lotto include la rara tabella genealogica intitolata “La parentela dei mezzelfi” (Kinship of the Half-elven), la lettera firmata alla signora Eileen Elgar nella trasmissione del manoscritto, e il manoscritto stesso. [Aggiornamento: l’intero lotto è stato poi comprato da un privato anonimo per 150mila dollari il 16 luglio 2022].

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Ubaldini, l’uomo che portò Tolkien in Italia

Entrata AstrolabioMilioni di lettori italiani hanno letto Il Signore degli Anelli negli ultimi 50 anni, da quando venne reso disponibile nella nostra lingua a oggi, avendo così la possibilità di conoscere la Terra di Mezzo e seguire le avventure dei suoi protagonisti. Aragorn, Gandalf, Éowyn, Legolas, Gimli e tutti gli altri eroi scaturiti dalla fervida immaginazione di J.R.R. Tolkien sono stati conosciuti anche nel Bel Paese e, dopo le trilogie cinematografiche di Peter Jackson, sono personaggi noti praticamente a tutti. Ma all’origine di tutto questo c’è un nome
che in Mario Ubaldinipochissimi conoscono, quello di un uomo che lesse e credette in quel sogno portato su carta e volle farlo tradurre per pubblicarlo in italiano. Per conoscere questa storia bisogna risalire molto indietro nel tempo, tornando addirittura alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso. E si può farlo anche grazie a chi lo conobbe bene e ci ha aperto le porte della sua casa editrice. È ora di conoscere meglio Mario Ubaldini.

Un pioniere in molti campi

Necrologio UbaldiniMario Ubaldini (1908-1984) è stato, come recita il suo necrologio sui quotidiani del 4 maggio 1984, «uno dei più coraggiosi editori romani, lanciò nella cultura italiana il pensiero psicoanalitico, a lungo dimenticato e ignorato. “L’interpretazione dei sogni” di Freud uscì nell’immediato dopoguerra e presto ad esso si affiancarono opere fondamentali nella cultura psicoanalitica del Novecento: Adler, Fenichel, Jung, oltre a una ricca produzione di orientalistica, pensiero indiano, buddista e cultura orientale in genere». Potremmo fermarci qui, ma per conoscere meglio l’uomo bisogna recarsi nella casa editrice da lui fondata, la Astrolabio-Ubaldini appunto, che ha sede in un edificio di tardo Ottocento nell’elegantissimo quartiere Parioli a Roma. È lì che riceviamo maggiori informazioni da chi lo ha conosciuto bene e ci ha lavorato insieme, la figlia Giovanna Meschini Ubaldini.
Visita in redazioneCi può raccontare un po’ di suo padre? «Mio padre era un uomo d’altri tempi, un intellettuale che andava pazzo per le Ferrari. Se vuole un po’ di biografia: nacque nel 1908 a Pesaro, visse quattro anni a Nizza lavorando come giornalista, si laureò nel 1937 in Letteratura francese con Carlo Bo a Urbino e venne qui a Roma. Erano i tempi del regime fascista, ma lui con altri aprì una rivista e ne fu il direttore fin quasi alla fine della guerra. Con lui scrissero grandi intellettuali come Carlo Cassola, Carlo Ludovico Ragghianti e Giuseppe Dessì e più tardi collaboratori destinati a divenire dirigenti di rilievo nel Partito Comunista».
Come si chiamava la rivista, non lo ha detto mi pare. «Ah, sì giusto. La rivista si chiamava La Ruota».
Passiamo alla fondazione della casa editrice: come avvenne? «Beh, nel 1943 abbandonò il suo incarico ed entrò in clandestinità. Mio padre, in realtà, trovò rifugio in un appartamento a Roma e soprattutto conforto nella traduzione del Dizionario filosofico di Voltaire. Dopo la liberazione della capitale nel giugno 1944 fu naturale che questa divenisse poi la prima pubblicazione della casa editrice che egli stesso fondò. Di questo episodio e della figura di mio padre in quel periodo si può leggere anche un interessante capitolo che Enzo Frustaci inserì nel suo libro Un episodio letterario dell’Italia fascista [Bulzoni editore, 1980, pp. 71-84, ndr]».
UbaldiniQuale identità diede Mario Ubaldini alla neonata casa editrice? «Mio padre è sempre stato appassionato di filosofia e logica, temi principali anche dei suoi studi. Poi da subito si è aggiunta la psicoanalisi. La prima collana Psiche e coscienza è del 1946, mi pare, ed era diretta da Ernst Bernhard con collaboratori del calibro di Bobi Bazlen ed Edoardo Weiss. Mio padre mi disse poi a proposito di Bernhard che quella fu una direzione di collana veramente efficace, tale che da solo non avrebbe potuto fare: “Non avrei saputo mettere le mani come lui, tanto più che era stato allievo sia di Freud che di Jung e conosceva tutti in quel mondo”. In due, tre anni furono pubblicate le prime edizioni italiane di testi di Freud, Jung e Adler… grazie soprattutto a Emilio Servadio, vennero pubblicati gli scritti di allievi di Freud, come quelli di Balint, Alexander e Horney. Per l’epoca era l’apice degli studi in questo campo al punto che, come mi raccontò mio padre, Cesare Pavese aveva fatto pressione su Einaudi per “seguire le orme di Astrolabio” con la psicoanalisi e che Cesare Musatti, il leader del movimento psicoanalitico italiano di quegli anni, pubblicò con Einaudi il suo Trattato di psicoanalisi nel 1949. Fu la sua paura che proprio Astrolabio riuscisse ad ottenere i diritti di traduzione che spinse Musatti a insistere con Boringhieri per un accordo con gli eredi e gli editori di Freud, cosa che poi andò a buon fine facendo di lui il curatore unico della edizione italiana delle Opere di Sigmund Freud».
Libri Astrolabio UbaldiniTorniamo ad Astrolabio, però. Quando avvenne “la divisione in due colori”? «Quella avvenne verso la fine degli anni ’50 e dalla collaborazione con Giuseppe Tucci, il più famoso orientalista del XX secolo. C’era inizialmente il progetto di una enciclopedia storica, letteraria, filosofico-religiosa e artistica diretta da Tucci, intitolata Civiltà dell’Oriente. Il progetto non si realizzò, ma nel 1960 questo diverrà il nome della seconda collana cardine, anch’essa tuttora attiva, della casa editrice, in cui vengono raccolti testi relativi alle filosofie e religioni dell’estremo oriente».
La grafica della casa editrice conserva un’identità assolutamente unica che è stata citata anche da Gian Carlo Ferretti, nella sua Storia dell’editoria letteraria in Italia (Einaudi, 2004, pag. 263). Qual è il segreto? «Sì, l’idea viene sempre da mio padre ed è quel che lei ha chiamato la divisione in due colori. In pratica, dal 1960 l’azzurro  è dedicato alla psicoanalisi e alle discipline affini mentre l’ocra è dedicato a tutte le filosofie orientali. Si può dire che Astrolabio è strettamente legata, anzi coincide, fino al 1984, con la figura di mio padre».

Una parentesi fallimentare

redazioneFin qui abbiamo parlato di iniziative editoriali di successo, ma per gli appassionati di Tolkien il nome di Mario Ubaldini rappresenta la prima pubblicazione seppur parziale de Il Signore degli Anelli. Ecco, in tutto questo non si capisce la scelta di un romanzo di narrativa così particolare. È un po’ un unicum nella produzione Astrolabio, non crede? «In realtà, no. La casa editrice ha sempre sperimentato, soprattutto negli anni Sessanta. All’inizio di quel decennio si era conclusa una lunga e complessa ristrutturazione che aveva portato proprio alla razionalizzazione di molte collane: alcune furono unificate, altre soppresse e altre ancora aperte. In questa prospettiva, furono introdotti per la prima volta in Italia autori prestigiosi di filosofia analitica, linguistica, logica e filosofia della matematica. Una nuova collana era dedicata alla ricerca spirituale del cristianesimo. Proprio il 1967 vide l’esordio e il successo strepitoso della collana di testi divulgativi Che cosa hanno veramente detto che giunse in pochi anni a ben 80 titoli. Un’altra collana di quegli anni fu quella divulgativa I libri dell’introspezione. Insomma, la casa editrice sperimentava moltissimo in quel periodo».
Mi permetta, però, di dire che sempre di saggistica si trattava. C’era altra narrativa? «In effetti, credo che quello fu il primo e ultimo tentativo. Dopo la sua prima telefonata sono andata a recuperare gli archivi su Il Signore degli Anelli e qualcosa ho ricostruito da ricordi di quello che mi raccontò molti anni più tardi mio padre. Sa, in casa non si parlava di lavoro né tantomeno del suo unico vero fallimento… Pensi che per molti anni proibì ai suoi redattori di anche solo nominare Tolkien! Ci aveva creduto tanto, ci perse tanto».
redazioneQuindi, ci fu una volontà di pubblicare narrativa da parte di Ubaldini? «Io credo di sì. In quegli anni, nei mercati esteri stava nascendo un genere, quello della science fiction. Intendo dal punto di vista del successo editoriale, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna era un continuo di autori e pubblicazioni, con un pubblico in continua crescita. Mio padre era un attento lettore e sapeva che presto anche l’Italia avrebbe seguito questa tendenza. In quegli anni, fantascienza e fantasy non erano generi nettamente divisi, anzi venivano letti dal medesimo pubblico».
E in questo come si è inserito il capolavoro di Tolkien? «Le ripeto, mio padre era un lettore attento alle dinamiche editoriali all’estero. Nel 1967 Il Signore degli Anelli iniziava a far parlare di sé nei campus statunitensi. Ma non fu questo il dato determinante. Lo furono di più i rapporti stretti dalla casa editrice con gli omologhi anglosassoni, tra cui proprio la Allen & Unwin, l’editore inglese di Tolkien. Furono questi ultimi a proporre il libro a mio padre…».
Non capisco, si spieghi meglio? «Sono andata a consultare l’archivio e ci sono una decina di lettere di corrispondenza tra Astrolabio e l’editore inglese. Ma i rapporti erano consolidati da tanti altri libri che erano stati presi proprio dall’editore londinese. C’è anche un baule pieno di documenti, bozze, prove di stampa e altro materiale relativo a quegli anni che però è in casa nostra. Mio padre si fidava del giudizio di alcuni suoi collaboratori esteri e seguiva i loro consigli. C’è una lunga lettera in cui i responsabili inglesi descrivono le molte qualità del romanzo. Fu lo stesso Rayner Unwin a far suggerire di pubblicare il volume in tre parti separate, come era avvenuto inizialmente nella stessa Gran Bretagna».
Quindi Ubaldini colse il suggerimento e tentò la strada della narrativa. Come può dirlo? «Me lo raccontò mio padre anni dopo, quando iniziò il periodo delle interviste sulla prima traduzione italiana. Le avevo detto che normalmente non ne voleva parlare… Ma c’è anche un’altra prova. Mio padre scelse di inaugurare una nuova collana con La Compagnia de l’Anello: il “Fuori Collana”. Visto il nome, è chiaramente un esperimento e non è un caso che questa collana vide soltanto un altro volume stampato prima di essere chiusa: Che cosa è la fantascienza di Franco Ferrini. La direzione era la narrativa fantastica, ma l’insuccesso di vendite del primo volume de Il Signore degli Anelli mise fine a questo esperimento. La crisi petrolifera di poco successiva fece sì che questo tipo di volumi non potesse più essere proponibile perché avrebbe avuto un costo eccessivo e fu la fine. Il pubblico da Astrolabio si aspettava saggistica».
AstrolabioMi piacerebbe conoscere di più su questa storia. «La storia è ormai nota da qui in poi e c’è anche un libro di qualche anno fa che ne parla, ma non ricordo il titolo (forse il riferimento è a Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli, ndr): mio padre pagò i diritti, la traduzione e la pubblicazione, ma non rientrò nemmeno di un quarto dei costi sostenuti. La Compagnia dell’Anello, la prima parte de Il Signore degli Anelli, venne pubblicata, ma non ebbe un grande successo. In realtà, mio padre aveva fatto già tradurre anche la seconda parte e avevano anche ricevuto le prime bozze di stampa, ma fu tutto inviato al macero. Gli andò male: poche centinaia di copie vendute, nonostante il libro fosse un best seller mondiale e ormai un oggetto di culto. Per recuperare un po’ di soldi, qualche anno dopo fu costretto a cederlo a Rusconi».
Mi sembra un po’ reticente sulla vicenda. Se ha qualche altro dettaglio, ora potrebbe rivelarcelo? «No, nessuna reticenza. Soltanto che credo che voi conosciate la storia meglio di me! E poi, non ho ancora finito di svuotare il baule di mio padre. Le prometto che se troverò qualcosa, vi farò sapere».
Va Bene. Grazie per la pazienza e l’attenzione.

 

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Edizione Astrolabio, ecco la tabella dei nomi

Studiare«La precisione è la farina senza la quale non si ottengono né pane né dolci», recita un vecchio adagio. E visto che, da piccoli Hobbit appassionati delle opere di J.R.R. Tolkien, vogliamo avere sia il pane sia i dolci per le nostre numerose colazioni e merende di ogni giorno, ecco che dobbiamo essere per forza precisi al punto che di noi il buon Bilbo Baggins potrebbe dire: «È un Hobbit che non lascia passare una mosca davanti al naso!!!» Questo è il motivo per cui l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani vuol fare un servizio ai lettori e ha realizzato delle tabelle con tutta la nomenclatura presente nel volume Astrolabio e che vuole aiutare i lettori che possiedono una delle successive edizioni Rusconi o Bompiani con la traduzione di Vittoria Alliata di Villafranca,
Scrivaniai possessori dell’Atlante della Terra di Mezzo (di imminente ripubblicazione) che presenta stranamente i toponimi nelle mappe mantenuti in inglese, o anche per i lettori che hanno comprato la nuova edizione tradotta da Ottavio Fatica e si chiedono a cosa corrisponda un dato nome nelle edizioni precedenti.

Un’usanza consolidata

LibriÈ un po’ una nostra tradizione iniziata ormai tre lustri fa quella di raccogliere le tabelle sinottiche e gli elenchi di possibili refusi e proposte di modifica. Tutto parte dalla constatazione che ben 18 traduttori per 8 diversi editori si sono occupati delle opere di Tolkien. Già questo dato può far intuire come siano stati trattati i testi dello scrittore, visto che ovviamente non c’è mai stato alcun tentativo di armonizzazione dei termini più usati. Caso eclatante è sempre stato quello dei toponimi, come ad esempio: l’inglese Rivendell tradotto Forraspaccata, Granburrone, Gran Burrone e Valforra, Hobbiton tradotto Hobbiville, Hobbitopoli e Hobbiton, e ancora Mirkwood tradotto Bosco Atro, Bosco Tetro e Boscuro. Già in passato abbiamo fornito numerose tabelle, creando gli elenchi dei possibili errori ed eventuali proposte di modifica che troverete in fondo alla pagina. Tali elenchi non sono una raccolta sistematica, ma una collezione di errori trovati nel tempo da diversi appassionati lettori. Tali raccolte non hanno mai mirato a biasimare o sbeffeggiare i traduttori, le cui scelte sono dettate da molti fattori, anche teorici, come si è cercato di spiegare in questo articolo, ma solo consentire all’appassionato italiano di notare alcuni particolari che la traduzione in italiano a volte non rivela appieno. Con l’uscita della nuova traduzione de Il Signore degli Anelli, sul sito web sono state messe a disposizione ben tre tabelle relative alle mappe che consentono ai lettori di destreggiarsi tra il testo in inglese (e le sue mappe) e le traduzioni in italiano: Traduttoreuna tabella basata sui nomi in inglese, una basata sulla traduzione Alliata/Principe e una basata sulla traduzione Fatica. In occasione, infine, della pubblicazione dell’edizione deluxe illustrata de Il Signore degli Anelli a ottobre 2020, è stata pubblicato l’elenco delle modifiche apportate rispetto all’edizione in tre volumi, che può essere scaricata qui.

L’edizione Astrolabio e la sua tabella

AstrolabioSi parla sempre del 1970 e dell’edizione Rusconi del Signore degli Anelli. In effetti, quella fu la prima edizione integrale, che poi nei successivi 50 anni fu rimaneggiata in varie occasioni (ci sono stati almeno tre interventi) fino al suo ritiro all’inizio del 2020. Ma tutto era in realtà iniziato tre anni prima, nel 1967, con la pubblicazione da parte di Astrolabio del primo volume, La Compagnia dell’Anello. La casa editrice purtroppo non riuscì a proseguire l’operazione editoriale e dovette cedere i diritti. L’edizione Astrolabio, però, aveva moltissime qualità. Era un’edizione di pregio per l’epoca, con copertina rigida, sopraccoperta e mappa generale della Terra di Mezzo. I collezionisti sanno benissimo di cosa si tratta. Se volgiamo lo sguardo alle edizioni italiane fino al 2019, l’edizione Astrolabio è praticamente l’unica ad avere la mappa della Contea realizzata da Tolkien (quella introdotta da Bompiani nel 2003 è la versione disegnata da Francesco Bisaro). Ecco la prima particolarità presente anche nella tabella: ben 16 toponimi sono presenti solo nella mappa della Contea e quindi solo nella colonna dell’edizione Astrolabio e non in quelle delle edizioni Rusconi e Bompiani dal 1970 al 2003! Solo con l’edizione Bompiani con la nuova traduzione di Fatica i lettori italiani hanno potuto di nuovo leggere quei toponimi. Del resto, ci sono anche alcuni casi in cui Fatica è più simile (perfino uguale) ad Alliata più che a Principe. Nella lista ci sono luoghi importanti, come ad esempio Deephollow, cioè Finfosso (tradotto Concafonda da Fatica) che segnava il confine settentrionale del regno elfico perduto del Hollin, dalle cui alture la Compagnia poté vedere le montagne di Moria in lontananza.
Vittoria AlliataCome è noto, l’edizione Astrolabio fu tradotta dall’allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca e, pur con qualche inesattezza, presenta numerose scelte notevoli. Prima dell’ormai famosa “incursione” di Quirino Principe che la modificò radicalmente, se in meglio o in peggio ancora si discute, la traduzione originale risulta in un testo pregevole per l’epoca. Alliata cercò di applicare le indicazioni compilate da Tolkien stesso a uso dei traduttori del romanzo, laddove ad esempio l’autore suggeriva di rendere nelle lingue locali i nomi degli Hobbit. Così in quel volume pionieristico comparivano Frodo Sacconi (Frodo Baggins), Samio Gamigi (Samwise Gamgee), Felice Brandibucco (Merry Brandibuck), la famiglia Borsi-Sacconi (Sackville-Baggins), Thorinio Ochenscudo (Thorin Scudodiquercia), ecc. I termini per gli Elfi, Elf/Elves, sono tradotti con Gnomo/Gnomi. Come si può ora vedere bene nella tabella questa scelta però produce simpatiche conseguenze perché nella poesia dell’Anello, oltre a Nani e Uomini, sono i Re Gnomici (Elf-kings) a cui vanno i tre anelli; queste creature vivono in un Reame Gnomico (Elvendom) e parlano una lingua gnomica (Elven-tongue) e la loro stirpe più nobile è quella – con effetti anche comici – degli Alti Gnomi (High Elves). Inoltre, Elrond oltre che Signore di Gran Burrone (Rivendell) è conosciuto anche come Gnomezzo (Half-elven, cioè “Mezzelfo”). Bisognerà aspettare non il 1970, ma addirittura quella l’edizione in tre volumi del Signore degli Anelli per Rusconi nel 1974 per vedere finalmente Elfi sostituirsi a Gnomi, come aveva sempre chiesto Tolkien ai suoi traduttori.
Edizione AstrolabioIn termini di titoli, si trovano altre scelte particolari come il Commissario di Gondor (per l’inglese Steward, poi tradotto Sovrintendente in Rusconi e Castaldo da Fatica) o il Maggiore di Pietraforata (per l’inglese Mayor Of The Shire, poi tradotto Sindaco della Contea in Rusconi e da Fatica), mentre il famoso giardiniere Tobaldo – a cui si deve la varietà molto pregiata di erba piperina (la Vecchio Tobia!) – è chiamato incomprensibilmente “il Conquistatore” (per l’inglese Hornblower, poi tradotto Tobaldo Soffiatromba in Rusconi e Soffiacorno da Fatica), ed infine Cirdan è chiamato correttamente Il Costruttore di navi (per l’inglese the Shipwright, poi tradotto in maniera poco appropriata Il Timoniere in Rusconi e Il Maestro d’ascia da Fatica). È interessante poi leggere come erano resi altri termini che poi l’edizione Rusconi ha cambiato, come ad esempio Orienteni per gli Easterling, Vagabondi per Troll (ma in una occasione vengono tradotto incomprensibilmente cannoni (a pag. 15), Tuchilia per Tookland (poi tradotta Tuclandia e Terra di Took) e Dunlandio per la regione del Dunland. Ci sono ancora la Gente Pulchra per Fair Folk (poi i Luminosi) e i Venusti per i Fairbairns (cioè il nome della famiglia dei discendenti di Sam Gamgee). E infine il vecchio Maggot era trasformato in Signor Maggiotti! Queste e altre curiosità si possono trovare nella tabella dei nomi della prima traduzione della Alliata de Il Signore degli Anelli per l’edizione Astrolabio del 1967.

SCARICA LA TABELLA QUI

 
TABELLE
– Scarica la tabella dei Nomi in base all’originale inglese di Tolkien
– Scarica la tabella dei Nomi in base alla traduzione di Alliata/Principe
– Scarica la tabella dei Nomi in base alla traduzione di Ottavio Fatica
– Scarica la tabella delle Modifiche alla nuova traduzione del Signore degli Anelli
– Scarica la tabella dei Possibili errori nelle traduzioni italiane
 
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– Leggi l’articolo Editori e traduttori: gli errori in Tolkien
– Leggi l’articolo Possibili errori nelle traduzioni italiane

 

 

 

Volume unico, ecco la tabella delle modifiche

Volume unico FaticaAlla fine di ottobre 2020 è stata pubblicata l’edizione illustrata in volume unico del Signore degli Anelli, nella traduzione di Ottavio Fatica. La notizia non avrebbe interessato più di tanto la storia a venire né meritato più di una postilla nei lunghi annali della editoria italiana, se non fosse per un fatto. Tale nuova edizione è il frutto di una cooperazione come, a mia memoria, mai è accaduto nella storia dell’editoria – italiana, quantomeno.
Gli appassionati, quelli interessati ad avere una traduzione del Signore degli Anelli sempre migliore, hanno analizzato la prima edizione annotando sviste, incomprensioni, mancate concordanze e tutti i tipi i tipi di errore che possono finire in un testo, segnalandoli all’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, nella persona di Giampaolo Canzonieri, già consulente tolkieniano per la traduzione. Canzonieri li ha trasmessi a Ottavio Fatica, che con estrema professionalità e umiltà ha analizzato tutte le segnalazioni che gli sono state inviate, accettato una percentuale elevatissima (superiore ai tre quarti) delle proposte. Bompiani Giunti, l’editore, infine, si e resa disponibile a modificare il testo seguendo le indicazioni del traduttore. Sono state così apportate svariate piccole migliorie. Alcune di queste derivano anche da ripensamenti del traduttore. Ma la maggior parte riguarda sviste e refusi.
E tutto questo impegno per fornire ai lettori un testo il più possibile privo di errori. Quanta differenza dalla precedente gestione Bompiani che ci mise quasi 10 anni a correggere un piccolo errore tipografico, l’accidentale perdita di 20 righe alla fine del primo capitolo del secondo libro.

Cover Volume unico FaticaTutto questo lavoro, lo sottolineiamo, è stato possibile grazie al contributo di moltissimi e volenterosi lettori. Le centinaia di segnalazioni che sono giunte dagli appassionati tolkieniani e sono stati raccolti dall’AIST sono un caso virtuoso nella storia editoriale. Si è trattato di un’attività dettata dalla passione, dall’amore per le opere di Tolkien, dal senso di comunità che ha spinto moltissimi lettori a spendere il loro tempo libero alla ricerca certosina delle inesattezza tra l’originale inglese e la traduzione italiana. È una cosa che nessuno aveva mai fatto in Italia per nessun altro autore e dimostra una volta di più quanto il senso di appartenenza alla comunità tolkieniana possa contribuire ad avere l’opera di Tolkien sempre più vicina e fedele al testo inglese. A tutti i lettori che hanno contribuito va il nostro più sentito ringraziamento.
L’elenco delle modifiche apportate, che speriamo sia completo, lo potete scaricare qui. E a proposito di lavori di appassionati a favore degli altri appassionati, vi segnaliamo le tabelle sinottiche dei nomi in inglese, nella traduzione Fatica e nella traduzione Alliata/Principe. Tali tabelle, che potete trovare alla fine dell’articolo sulle mappe consentono a chi lo desideri di destraggiarsi tra il testo in inglese (e le sue mappe) e le traduzioni in italiano e potranno essere particolarmente utili agli acquirenti della prossima edizione italiana dell’Atlante della Terra di Mezzo di Katrin W. Fonstad.

Redazione

Aggiornamento del 31 dicembre 2020

Disponibile la versione 1.01 della tabella, che comprende alcune correzioni e numerose aggiunte (tra le altre le Cronaca degli Anni mutata in Conta degli Anni), riguardanti principalmente il primo volume La Compagnia dell’Anello.

Aggiornamento del 6 gennaio 2021

Disponibile la versione 2.00 della tabella, che comprende tutte le correzioni note, e la correzione di qualche errore.

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ARTICOLI PRECEDENTI
– Leggi l’articolo Il Signore degli Anelli, le edizioni in tre volumi
– Leggi l’articolo Il Signore degli Anelli, quale edizione leggere?
– Leggi l’articolo Tolkien e le mappe de Il Signore degli Anelli

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I Racconti Incompiuti: intervista agli artisti

Unfinished TalesGiovedì 1 ottobre è stata ufficialmente pubblicata in inglese la nuova edizione dei Racconti Incompiuti di Númenor e della Terra di Mezzo, a segnare il quarantesimo anniversario della sua prima apparizione nel 1980 per la George Allen & Unwin. È la prima volta che il libro viene pubblicato in edizione illustrata, e l’editrice HarperCollins ha ingaggiato per l’occasione tre dei più grandi nomi nel campo artistico tolkieniano. Ted Nasmith, Alan Lee e John Howe hanno già illustrato opere di Tolkien fra cui Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion e, ovviamente, molti calendari. Trovarli tutti e tre in questa nuova edizione dei Racconti Incompiuti è un regalo speciale e le loro nuove illustrazioni sono meravigliose. Spero vi piacciano le mie conversazioni (leggermente rivedute per questioni di chiarezza) con questi artisti, che hanno tutti trovato il tempo per chiacchierare con me nonostante i loro impegni.

Ted Nasmith

Ted NasmithCiao Ted, e benvenuto! Hai già dipinto scene dai Racconti Incompiuti per la HarperCollins – com’è stato rivederli, e su cosa non vedevi l’ora di lavorare stavolta?
«Tornare su questo libro è stato davvero d’ispirazione. Già solo rileggere alcuni estratti dei Racconti ha riportato alla mia immaginazione loro la bellezza, profondità e ricchezza. Avevo da tempo raccolto schizzi e prove di colore nell’eventualità di rivisitarlo, e la notizia che avrei lavorato a parte delle sue illustrazioni è stata una bellissima sorpresa. Tra i vari racconti presenti nel libro, Aldarion ed Erendis si è sempre distinto, essendo l’unico blocco narrativo completo dei racconti di Númenor. Tuttavia le avventure di Tuor, nel complesso delle loro descrizioni, come pure i fenomenali dettagli rivelati nei Narn, mi hanno rapito più di tutte assieme alla deliziosa storia di Galadriel e Celeborn, che pure è tra le prime della lista».

Qual è stato il processo che ti ha portato a scegliere quali scene illustrare?
«Il mio editor di HarperCollins ha creato una lista di illustrazioni da soggetti che gli avevo fornito settimane prima, e sui quali avevo lavorato intensamente, in modo da rivederne alcuni e aggiungerne di nuovi. Si tratta di un blocco di schizzi che misi insieme attorno al 2000, quando fu proposta per la prima volta una versione illustrata dei Racconti Incompiuti».

Illustrare le scene dai Racconti Incompiuti e da Il Silmarillion presenta sfide diverse rispetto ai racconti di Tolkien più famosi?
«Da molto tempo ero interessato a raffigurare scene dal Quenta Silmarillion o dai Racconti Incompiuti, tanto da aggiungerne un paio in ogni nuovo calendario. Ho notato che c’è bisogno di un approccio ad hoc per il tono del libro: le opere non devono risultare stilisticamente troppo diverse da quelle ne Il Signore degli Anelli o Lo Hobbit, ma il contenuto tende a influenzare le immagini in modo da riflettere con autenticità un’estetica più sobria e tragica. È stato altrettanto importante studiare le immagini classiche di quel che ritengo appartenga al mondo delle fate, in tutta la loro bellezza».

Ci sono state scene che hanno rappresentato sfide particolari nella rappresentazione o nella bozza, sulle quali hai dovuto lavorare?
Unfinished Tales 40th anniversary«All’inizio della mia carriera editoriale dipinsi “Il Giuramento di Cirion ed Eorl”, ma non fu il successo che speravo. Ho accettato la sfida con grande serietà quando mi è stato chiesto di rifarlo e ho lavorato in particolare su alcuni elementi in modo tale che la resa fosse più fedele all’idea che avevo della scena. È stato fondamentale spostare la prospettiva in modo da guardare verso ovest, e poi ho affrontato il problema di come ritrarre gli uomini riuniti, con al centro Cirion le cui vesti venivano investite dal sole d’occidente come se “fossero in fiamme”. È stato complicato fare i conti con la geografia, poiché sapevo che le montagne viste a sud-ovest dovevano essere “meno bianche”, dato che era estate, e il loro impiego è stata un’occasione per aggiungere un po’ di epicità, per rendere più teatrale un momento piuttosto statico, ma comunque di interesse chiave per la storia dei Reami di Gondor e Rohan. Ho cambiato i capelli di Eorl quattro volte, stabilendo infine che il sole doveva riflettersi sui suoi lunghi capelli biondi, per farlo corrispondere all’epiteto “il Giovane”».

Hai dichiarato più volte che ti sarebbe piaciuto creare un artbook. Ci sono stati progressi per quanto riguarda quest’idea?
«Giace ancora nel reame delle possibilità, ma non ho alcun piano concreto al momento. In ogni caso, sto considerando quale sarebbe l’approccio migliore in modo da essere in regola con gli aspetti legali della pubblicazione di materiale coperto da copyright».

Hai di fatto avuto modo di tenere una corrispondenza con J.R.R. Tolkien quando cominciasti. Com’è stato, e come questa cosa ha influenzato la tua arte?
«Ha motivato un giovane artista adolescente e illustratore in erba a continuare la sua ricerca per l’affermazione di un crescente corpus illustrativo che fosse degno del fantasy ricco e profondamente stimolante che il professor Tolkien ci ha donato».

La Barriera e il Castello Nero - di Ted NasmithCon quali mezzi ti piace lavorare di più? Usi mai computer o strumenti digitali?
«Uso un po’ di software nelle prime fasi, in modo da provare le variazioni di tono e fare esperimenti, per lo più. Non mi sono mai davvero interessato alla creazione di opere completamente in digitale. Il mio strumento principale per i dipinti continua a essere la tempera, per quanto i lavori per Il Trono di Spade (edizione deluxe da collezione) mi abbiano riportato alle matite, in particolar modo all’uso della grafite su carta grigia risaltata da punti di luce bianchi».

Ti piacerebbe parlare di altri progetti che hai concluso di recente, o sui quali stai ancora lavorando?
«Tra la primavera e l’estate ho consegnato tre commissioni private. La prima è un’immagine dell’Ithilien, con Samwise che cucina conigli accanto a uno stagnetto; la seconda è la copertina per un romanzo fantasy-epico intitolato A Seat for the Rabble (Un Seggio per la Plebaglia), raffigurante un enorme tempio in fiamme che si profila minacciosamente su un villaggio medievale dal quale fugge una ragazza; la terza è stata una copertina per un CD e un vinile, con illustrazione di un paesaggio marino con scogli neri, mare grigio, onde spumose e un debole sole, e un gruppo di maghi ammantati di bianco in conclave accanto all’acqua. Al momento sto lavorando a una commissione dal Silmarillion raffigurante Glorfindel e il Balrog nella scena sul Passo delle Aquile».

Avevi già dipinto la scena intitolata “Tuor raggiunge la Città Nascosta di Gondolin” per il calendario della HarperCollins del 1996, ma per questo libro hai ridipinto la scena.
«Mentre rileggevo un estratto dai Racconti Incompiuti, in cui Tolkien scrive che Tuor “poté vedere Gondolin tra la bianca neve”, e raccoglievo le idee per lavorare, sono stato colpito dalla parola “neve”. “Ma certo che è inverno”, ho pensato, eppure, a basarsi sul testo del Silmarillion non si riesce ad apprezzare questo dettaglio. Ovviamente Tuor e Voronwë passano accanto alle ghiacciate Pozze di Ivrin durante il loro viaggio verso Gondolin… Consideratemi un artista felice per aver avuto modo di correggere quest’aspetto con l’illustrazione di questi Racconti Incompiuti, e usare uno schema di colori invernale per offrire una magica visione della città condannata. E naturalmente ho prestato molta più attenzione alla descrizione delle porte e delle personalità lì riunite! Tutta questa situazione è stata molto complessa da risolvere. Rendere giustizia a quel raduno avrebbe richiesto un dipinto a parte, davvero (le Sette Porte sono un invito per un artista!), ma per questa illustrazione c’era bisogno di scorgerne almeno una parte. Quindi ecco Echtelion, con il suo cavallo e scudiero, e il Capitano della Guardia, Elemmakil, accanto a Voronwë e Tuor».

Alan Lee

Alan LeeCiao Alan, grazie per aver trovato un po’ di tempo per chattare. Hai trascorso decenni a illustrare i libri di Tolkien. Cosa ti ha attirato nella Terra di Mezzo, di preciso?
«Storie e racconti geniali, il cui argomento è quello che più mi attrae – il mito e il romanzo epico – ambientati in una terra che è sia vera che immaginaria e meravigliosamente evocata. Una delle cose migliori per un illustratore, però, è che la descrizione dei luoghi e dei personaggi è piuttosto sommaria e lascia ampio spazio all’immaginazione dei lettori».

Hai un bel rapporto con la HarperCollins e la Tolkien Estate, avendo illustrato Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e i tre “Grandi Racconti” dei giorni degli Eldar. Christopher, soprattutto, apprezzava la tua visione della Terra di Mezzo.
«La cosa più bella che Christopher ha detto circa le mie interpretazioni è stata che esse non cambiavano la visione di suo padre della Terra di Mezzo, ma la ingrandivano».

Qual è stato il processo che ti ha portato a scegliere quali scene illustrare?
«Dipende dal processo di stampa. Se le tavole a colori sono stampate su carta artistica, allora possono essere collocate solo in posti particolari, a causa della rilegatura, ma se sono stampati sulla stessa carta su cui è stampato il testo, possono trovarsi ovunque. Quindi si tratta di una combinazione tra questi fattori e il punto in cui starebbe meglio un’illustrazione. Per me la cosa principale è il rispetto del testo, senza entrare in competizione con esso – decidere una scena e provare a creare un’atmosfera. Mi concentro più sui paesaggi e i luoghi che sui personaggi e l’azione».

I Figli di Húrin - copertina di Alan LeeCi sono sei tuoi dipinti in questa nuova edizione dei Racconti Incompiuti – Quanti sono nuovi?
«Ci sono sei illustrazioni a colori all’interno e una per la copertina, inclusa come stampa nell’edizione deluxe. Ho anche lavorato a tre piccole vignette a matita. Una delle illustrazioni nel libro è stata fatta per I Figli di Hurin nel 2007, ma non era mai stata usata».

A cosa ti sei ispirato per lo stile della nave nell’illustrazione che compare sulla sovraccoperta della nuova edizione dei Racconti Incompiuti?
«Nel testo ci sono pochi dettagli sull’aspetto delle navi: sono alte, e con molti alberi. Ho pensato che dovessero avere la vela latina, e che fossero riccamente decorate, e ho provato a introdurre alcuni elementi di connessione con le navi romane ed egiziane, in modo da creare un miscuglio di varie influenze senza essere la copia di quanto ci ha tramandato l’archeologia».

Quale scena non vedevi l’ora di illustrare?
«Sono stato piuttosto colpito dalla storia di Amroth e Nimrodel».

Ci sono state scene che hanno rappresentato sfide particolari nella rappresentazione o nella bozza, sulle quali hai dovuto lavorare?
«La battaglia ai Guadi dell’Isen è stata un soggetto importante – forse meglio gestita come paesaggio – e l’ho dipinta in grande scala, poiché desideravo dipingere i personaggi in una dimensione a me congeniale. Ho finito col passarci una marea di tempo».

Ti piacerebbe parlare di altri progetti che hai concluso di recente?
«C’è una bellissima lettura de Lo Hobbit a opera di Andy Serkis che è stata pubblicata come audiolibro, e ho lavorato alla sua copertina».

John Howe

Artisti: John HoweCiao John, grazie per la partecipazione. Noto che hai creato sei nuove tavole per la nuova edizione illustrata dei Racconti Incompiuti. Qual è stato il processo per scegliere quale scena illustrare?
«Dividere le Tre Ere tra i tre illustratori dev’essere stato un bel rompicapo editoriale da risolvere! Ognuno di noi ha ricevuto la lista di potenziali soggetti e ne abbiamo forniti a nostra volta, e l’editore ha trovato la soluzione migliore. (Non vedevo l’ora di fare gli Stregoni Blu, per esempio, ma Ted ha avuto la meglio.) Parimenti, ero impaziente di lavorare a una scena marina, considerando tutte le bellissime coste della Nuova Zelanda che avevo scalato nei mesi precedenti. Ho scelto una scena che mi ha permesso di usare le foto che avevo scattato a Wistman’s Wood, nel Devon. Devo confessare che mi sono davvero tolto degli sfizi per almeno metà delle illustrazioni. Per le altre tre, visto che le scelte si assottigliavano, si è davvero solo trattato di analisi del testo e di mandare le bozze all’editore».

Hai una scena preferita che non vedevi l’ora di illustrare?
«Farò comunque quegli Stregoni Blu, credo. Ci sono così tante scene nei Racconti Incompiuti che mi piacerebbe ancora illustrare».

Nirnaeth Arnoediad - John HoweCi sono state scene che hanno rappresentato sfide particolari nella rappresentazione o nella bozza, sulle quali hai dovuto lavorare?
«L’ampio raggio della Terra di Mezzo, combinato al relativamente piccolo numero di illustrazioni, ha proposto una larga scelta di soggetti e metodi di lavorazione. Mi è piaciuto davvero dipingere la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, anche se, a dir la verità, potrei tornarci su e rifarla un’altra dozzina di volte, scegliendo angolazioni diverse o soffermandomi sui vari episodi. Suppongo che la sfida più grande consista nello scremare la moltitudine di opzioni e sceglierne solo una.
Visualizzare Tolkien, credo sinceramente, è un processo non dissimile dalla trascrizione del suo mondo, col vantaggio di potersi appoggiare ai suoi testi per lavorare. Significa illustrare tra le righe, spingersi un po’ più a fondo, cercare l’attendibilità caratteristica del suo lavoro, con lo svantaggio di non lasciare sempre tutto all’immaginazione. Detto ciò, ogni illustrazione dovrebbe essere un invito, che permetta allo spettatore di portare la sua esperienza personale, sia essa in relazione alla lettura che a un più ampio contesto, a completare il quadro».

Ti sei immerso nella Terra di Mezzo per la maggior parte degli ultimi due decenni (o anche più). Su che altro hai lavorato per evitare di scoppiare?
«Sono poche le cose a cui doversi attenere per coerenza nelle illustrazioni, e di conseguenza i personaggi “consolidati” e le scene sono soggette di continuo a nuove interpretazioni. Non esiste una versione “ufficiale”, grazie al cielo!

Artisti: John HoweI lavori su Tolkien hanno sempre presentato delle sfide. La ricchezza e la complessità dei suoi riferimenti spingono un illustratore attento non solo lontano nelle indagini storiche, ma anche nel profondo, in quello spazio interiore in cui risiede l’ispirazione. Ho sempre affermato che ispirazione e informazione vanno mano nella mano, per quanto possano prendere strade diverse e richiedere un diverso tipo d’impegno. L’informazione è una sorta di ricerca eterna per tutto. Qualsiasi creatore di immagini è aperto al mondo, perché è lì che le immagini risiedono. L’ispirazione è quel che nasce quando spegni ogni pensiero cosciente e dai modo all’arte di affluire. È già lì, ovviamente, assieme a un numero infinito di possibilità, solo che la tua matita non l’ha ancora scoperta.
Ho fatto molte ricerche per individuare con precisione le “fonti” di Tolkien, come se potessi davvero trovare su mappa ogni singola cosa di cui abbia scritto. Per quanto sia tentato di collegare ogni cosa a un posto e una data (e i riferimenti a luoghi specifici nella vita di Tolkien sono moltissimi, basti pensare alle sue escursioni in Svizzera), e per quanto non sia abbastanza, credo che sia da considerarsi un omaggio indiretto alla coerenza e all’incredibile accuratezza della costruzione del suo mondo fantasy. Tutto quello che descrive sembra così vero che dev’essere per forza basato su esperienze personali. Tolkien riesce a coinvolgerci emotivamente, non intellettualmente. Raramente descrive, tranne alcune eccezioni degne di nota, i tratti distintivi di uno scenario o di una città. Ci fornisce, invece, una finestra sulle menti dei suoi protagonisti, e descrive le loro sensazioni davanti a esse.

Allo stesso modo, voler ricollegare tutto a una mappa o alle sue peregrinazioni equivale a rigettare la ricerca perpetua di Tolkien per archetipi, caratteristiche, creature e personaggi che incarnino qualità che vanno oltre quelle del singolo e che ci indirizzano verso un’esperienza collettiva. Tolkien è una via per l’universalità attraverso l’aneddoto.

Questo saggio utilizzo dei riferimenti lascia molta interpretazione al lettore, e un ampio terreno all’illustratore in cui vagare a piacimento. In queste circostanze e in tale stimolante compagnia è difficile stufarsi, e stancarsi dell’universo di Tolkien significherebbe mostrare i propri limiti, non un’intrinseca monotonia del materiale…

John HoweLa cosa migliore dell’ispirazione è che se da una parte richiede un contesto per sbocciare, dall’altra possiede poca logica. Tolkien ha inventato linguaggi che sono una dilettevole combinazione di rigore filologico e coerenza accademica e per le parole che più gli piacevano ha piegato le regole, pur di farvele entrare. Creare un’immagine mentale segue lo stesso procedimento di rigida prigionia e puro caso. C’è molto della Nuova Zelanda nelle mie opere, da quando vi ho trascorso del tempo, così come c’è molto della Svizzera. Altri elementi al di fuori della mia esperienza personale sono il risultato di letture casuali sulla rete. Ho imparato che se c’è qualcosa che mi piace a livello visivo, scavando più a fondo troverò molti altri livelli d’interesse storici e culturali. Sono felice di essere un illustratore che incoraggia questo tipo di ricerca visiva».

Hai collaborato per molto tempo a vari film e con team televisivi. Credi che quelle esperienze abbiano influenzato il tuo approccio all’illustrazione della Terra di Mezzo?
«Film e progetti cinematografici mi hanno di sicuro lasciato la passione per i paesaggi! Inoltre, dato che molti degli aspetti dell’illustrazione completa – allestimento, luce, costumi, accessori, architettura, armature, regia degli attori, trucco e dozzine di altre cose, tutte le cose che si danno per scontate come parte dell’illustrazione – sono assegnati a più divisioni come compiti separati, e ogni lavoro di design di un film risulta alla fine una sorta di vacanza-studio pagata, dove ci si aspetta tu ingrandisca i tuoi orizzonti, ricerchi nuove idee, e fronteggi le sfide con originalità e pensiero trasversale. È un qualcosa che arricchisce, ed è intensamente cooperativo. L’illustrazione è più simile a una caccia solitaria. È meraviglioso avere l’opportunità di passare da una cosa all’altra».

Con quali mezzi ti piace lavorare di più? Usi mai computer o strumenti digitali?
«Preferisco gli inchiostri e gli acquerelli, ma faccio anche una buona dose di lavori in digitale. La maggior parte del lavoro negli ampi progetti corali, come nei film, è in digitale. Per contro, preferisco i metodi più classici quando si tratta di illustrare».

UMAN · John Howe Artist Series The Witch King StatueTi piacerebbe parlare di altri progetti che hai concluso di recente, o sui quali stai ancora lavorando?
«Credo tu ti sia perso la statua del Re Stregone!!! Ho lavorato con una compagnia di Beijing per produrre una serie di statuette da collezione a tema tolkieniano dalle mie opere. La prima statua è stata messa online in preordine un mese fa circa: un’edizione limitata di 300 copie, è andata esaurita letteralmente in un secondo. (Devono esserci state un sacco di persone con le dita pronte sul pulsante “invia”.) Stiamo ora lavorando sulla seconda e sulla terza.
Ho anche iniziato una collaborazione assai eccitante e stimolante con Jaquet-Droz, una compagnia di orologi del posto. Tutto incredibilmente miniaturizzato e preciso, è un altro pianeta. Lavorare su temi fantasy con i limiti dell’orologeria è davvero appagante.
Inoltre, sono stato molto attivo nella regione dell’Alsazia, in Francia, per un programma di promozione del loro ricco patrimonio culturale di castelli e rovine (ci sono 500 siti in Alsazia). Implica uno sviluppo crossmediale, nuove app e trovare un modo per rendere la visita di quei luoghi eccitante e istruttiva. Sono stato coinvolto anche in alcuni progetti di urbanistica e architettura, sia qui che all’estero.
Sto anche lavorando su un paio di libri, quindi per il prossimo anno avrò molto di cui scrivere e dipingere».

 

Vorrei ringraziare ancora tutti e tre gli artisti per il loro tempo e per l’impegno profuso nel rispondere ad alcune domande sul loro lavoro. Se siete interessati alla nuova edizione, sotto ci sono alcune informazioni sulle edizioni della HarperCollins e un paio di link dai quali ordinare. La maggior parte delle librerie dovrebbe averle, e le edizioni per le altre nazioni dovrebbero arrivare presto.

(questo articolo è la traduzione di quello originale in inglese pubblicato sul sito web Tolkien Guide e firmato da Jeremy Edmonds, che ringraziamo.
La traduzione in italiano è di Nunzia Paola Iandiorio)

 

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Lucca Changes: l’AIST a colloquio con Alan Lee
– Leggi l’articolo Il nuovo artbook di Alan Lee, dedicato a Lo Hobbit
– Leggi l’articolo Tre deluxe e tre cover inglesi per J.R.R. Tolkien
– Leggi l’articolo Quanti libri su J.R.R. Tolkien questo autunno!

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della HarperCollins
– Vai al sito Tolkien Guide

 

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Saggi AIST: Tolkien e il pensiero dialogico

Martin BuberPer gli appassionati di J.R.R. Tolkien che hanno letto i suoi romanzi e vogliono approfondire le loro tematiche, ecco un nuovo Saggio AIST, cioè una di quelle traduzioni di saggi inglesi, francesi o tedeschi o studi originali in italiano che hanno lo scopo di far conoscere sempre più la grandezza dello scrittore inglese. L’Associazione Italiana Studi Tolkieniani pubblica i saggi su questo sito web a carattere aperiodico, ma con una cadenza di almeno uno ogni sei mesi. L’elenco dei saggi si può trovare in calce all’articolo.
Alberto QuagliaroliQuesta volta presentiamo il saggio Suggestioni dialogiche da JRR Tolkien di Alberto Quagliaroli. Sacerdote della Congregazione dei Vincenziani, saggista di Piacenza e redattore storico della rivista Endòre, Quagliaroli ha partecipato alla stesura del volume La falce spezzata, per l’editore Marietti 1820 (2009) con “Immortalità elfica come esperimento narrativo-letterario” e ha pubblicato numerosi articoli, tra cui “I requisiti di un racconto fantastico secondo il saggio Sulle Fiabe di Tolkien” nel numero 22 della rivista Endòre, nel marzo 2020, in cui in parte affronta tematiche simili al presente saggio AIST, anzi si può dire che questo saggio sviluppa la stessa linea di pensiero dell’articolo.

Il pensiero dialogico

Martin BuberCome i lettori di Tolkien conoscono benissimo, la passione per le parole e il loro significato è al centro dell’interesse dello scrittore de Il Signore degli Anelli. Una passione che è il movente di tutte le sue opere. Seguendo le teorie linguistiche di Owen Barfield, suo amico, collega e anch’egli membro degli Inklings, Tolkien applicò ai suoi romanzi il concetto di antica unità semantica, che aveva anche modificato il suo modo di vedere il linguaggio. Nell’universo tolkieniano coscienza, linguaggio, mito e leggenda sono interdipendenti e si sostengono a vicenda, nascendo ed esistendo in relazione gli uni agli altri. Di conseguenza si evince che non può esserci mito senza linguaggio che lo possa esprimere, lingua senza esseri umani che possano parlarla, esseri umani senza mito che possa esprimere il loro mondo. Ora Quagliaroli ha colto una consonanza piuttosto forte tra due aspetti (e altri ad essi strettamente correlati, per esempio la parola) sorprendentemente affini del pensiero dialogico e della mitopiesi tolkieniana, cioè le tre sfere della relazione di Buber e le tre facce della fiaba di Tolkien.
Libro BuberLo scrittore inglese non ha mai fatto cenno al pensiero dialogico, ma nell’epoca della sua formazione, il secondo decennio del XX secolo, il pensiero dialogico nasceva nella filosofia di area tedesca. Questa corrente fu fondata contemporaneamente da Martin Buber, Franz Rosenzweig e Ferdinand Ebner, che lo svilupparono come modo ontologico di vedere la realtà. Tutti e tre gli autori del pensiero dialogico individuano nella triade Dio-uomo-mondo la struttura di base della realtà e in particolare nel rapporto io-tu, non solo mediato, ma creato dal linguaggio, il fondamento della realtà umana. Il pensiero dialogico ha tra le sue componenti più innovative: la convinzione che il linguaggio crea e conserva la relazione tra gli esseri umani che sono caratterizzati da un’ineliminabile ontologia relazionale; e la visione della realtà, dal punto di vista dell’uomo, come di un rapporto fondato sulla triade Dio-uomo-mondo. In particolare Martin Buber, in Io e Tu scrive: «Sono tre le sfere in cui si instaura ilo mondo della relazione. La prima è la vita con la natura. […] La seconda è la vita con gli uomini. […] La terza è la vita con le essenze spirituali». La fiaba, quindi, si inserisce nella triade dialogica ‘Dio'(essenze spirituali, soprannaturale)-uomo-mondo, e il linguaggio è per essa il fondamento come lo è per il pensiero dialogico. Una sorprendente vicinanza con le teorie di Barfield che Quagliaroli indaga nel dettaglio soprattutto nel primo capitolo del saggio, mentre i successivi capitoli sono meno collegati a Tolkien. Buona lettura!

SCARICA IL SAGGIO DI ALBERTO QUAGLIAROLI

SAGGI AIST PRECEDENTI:
– Leggi Saggi AIST: «Non c’è bisogno di eroi» di Thomas Honegger
– Leggi Saggi AIST: le fonti per fare ricerca su Tolkien
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– Leggi Saggi: «Ariosto e C.S. Lewis» di Edoardo Rialti
– Leggi Lewis e Tokien come li ho conosciuti (mai bene) di Eric Stanley
– Leggi I saggi dell’AIST: La Contea di Saruman
– Leggi I saggi dell’AIST: Tolkien e Platone
– Leggi Bilbo uno sbandato? Per la Contea era così
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– Leggi Mito e verità in Tolkien di Verlyn Flieger
– Leggi Saggi AIST: Noblesse oblige: Immagini di classe in J.R.R. Tolkien di Tom Shippey
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– Leggi La catabasi: Tolkien e l’antica tradizione

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Tolkien e l’arcaismo nel Signore degli Anelli

1. Hugh Brogan… chi era costui?

Hugh BroganDenis Hugh Vercingetorix Brogan (1936-2019) è stato uno storico, biografo, accademico a Cambridge e all’università dell’Essex. Membro di una famiglia di intellettuali e studiosi – il padre, Sir Denis Brogan, era uno storico americanista; la madre, Lady Olwen Francis Phillis Brogan, era un’archeologa; uno zio e un fratello erano giornalisti – Hugh Brogan è noto anche per essere stato tra i corrispondenti epistolari di J.R.R. Tolkien. Il loro fu un rapporto di penna molto particolare, che durò negli anni. Nell’epistolario tolkieniano pubblicato si trovano sei lettere di risposta a Brogan, tra il 1948 e il 1955. La prima, la n. 114, è datata 7 aprile 1948, quando Brogan aveva dodici anni ed era un lettore entusiasta de Lo Hobbit, intento a scrivere all’autore con la tipica frustrazione del fan che ne vuole ancora. Da quel momento il rapporto epistolare tra lui e Tolkien proseguì in modo molto schietto nonostante la grande differenza d’età e Brogan si rivelò un ammiratore tutt’altro che acritico, cioè uno di quei lettori che a Tolkien piacevano e che incoraggiava con le sue risposte.
Brogan fu uno dei lettori con i quali Tolkien parlò anticipatamente del Signore degli Anelli e con cui discusse delle sorti del romanzo al momento della pubblicazione. Il corpus di lettere a Brogan, all’interno dell’epistolario, contiene in effetti alcune riflessioni importanti sulla creazione della Terra di Mezzo, sull’effetto di profondità temporale, e perfino sagaci sferzate sulle politiche editoriali e i prezzi di copertina. Tra queste, c’è la bozza di una lettera mai spedita, la n. 171, nella quale Tolkien risponde ad alcune osservazioni critiche di Brogan circa lo stile arcaizzante del Signore degli Anelli. Nella bozza, Tolkien utilizza gli stessi esempi portati da Brogan per chiarire il proprio pensiero poetico e fare alcune affermazioni stilistiche piuttosto significative.
Poems of OssianIn una lettera del dicembre 1954, Brogan aveva definito lo stile del Signore degli Anelli «ossianico», cioè artificiosamente arcaico. Il riferimento era al celeberrimo caso del poema pseudo-storico scritto dallo scozzese James Macpherson I Canti di Ossian (1760), che tanta parte aveva avuto nel gettare le basi del romanticismo e della reinvenzione della tradizione europea occidentale. Macpherson aveva mimato lo stile poetico antico attribuendo il poema al leggendario bardo celta Ossian, e riuscendo quasi a far credere che l’opera fosse un autentico ritrovamento (il dibattito sull’autenticità dei materiali utilizzati sarebbe continuato fino al XX secolo). Brogan aveva altresì condiviso il parere di un critico del SdA, che aveva parlato di «abuso di arcaismi». Insomma, il ragazzo riportava le critiche di quei commentatori che avevano impallinato Il Signore degli Anelli per lo stile anacronistico e apparentemente ingenuo in cui era stato scritto.

2. Finto antico, moderno… o tolkieniano

Here be dragonsNella bozza di risposta scritta nel 1955, Tolkien lamenta la tendenza a permettersi qualunque «manomissione» della lingua in nome dell’arte o del gusto personale e proprio per questo dice di disapprovare ogni forma di «arcaismo deliberato», che è soltanto il rovescio della stessa medaglia. E aggiunge:

«Il vero ‘abuso di arcaismi’ è quella roba fintamente ‘medievale’ che tenta (senza alcuna cognizione di causa) di ottenere un presunto effetto temporale inserendo imprecazioni come tush [perdinci], pish [poffare], zounds [perbacco], marry [ohibò] e così via. Ma il vero inglese arcaico è molto più conciso rispetto a quello moderno; inoltre molte delle cose dette non potrebbero esserlo nel nostro idioma fiacco e spesso frivolo». (n. 171)

Tolkien fa notare che l’inglese antico era più diretto di quello moderno, più concentrato, per così dire, e per evocarlo non serve ricorrere a parole-teaser che creino un effetto artificioso. Infatti lui non lavora sulla lingua in questo modo, proprio perché ha nell’orecchio più facilmente strutture sintattiche dell’inglese antico o medio, grazie alla propria formazione e ai propri interessi di studio, e tende a riprodurre quelli.
Per confermarlo, passa ad analizzare l’esempio stigmatizzato da Brogan, vale a dire una battuta di dialogo – tratta dal libro III, “Il re del Palazzo d’Oro” – che re Théoden rivolge al mago Gandalf:

“Nay, Gandalf!” said the King. “You do not know your own skill in healing. It shall not be so. I myself will go to war, to fall in the front of the battle, if it must be. Thus shall I sleep better”.

Secondo Tolkien questo è un buon esempio di «arcaismo moderato o diluito», perché compaiono le forme comuni medio inglesi nay e thus, non così obsolete né auliche da suonare stranianti, e per il resto l’effetto arcaico è dato dal tono e dalla formulazione delle frasi. Non si tratta cioè di arcaismi ostentativi, ma spesi con parsimonia in armonia con il tono del discorso.
Tolkien aggiunge che se avesse voluto far parlare Théoden come una certa vulgata massimalista immagina che debba parlare un re antico, gli avrebbe fatto dire qualcosa tipo:

“Nay, thou (n’)wost not thine own skill in healing. It shall not be so. I myself will go to war, to fall . . .” etc

Cioè avrebbe infarcito la frase con parole gratuitamente arcaiche come thou, wost, thine e con un’astrusa doppia negazione n’ + not. Mentre se Théoden avesse parlato come un inglese moderno avrebbe probabilmente detto:

“Not at all my dear G. You don’t know your own skill as a doctor. Things aren’t going to be like that. I shall go to the war in person, even if I have to be one of the first casualties”.

Ciò che Tolkien intende è che Théoden non può parlare con uno stile arcaico ridondante e ostentato, perché sembrerebbe una caricatura; e non può nemmeno parlare come un uomo moderno, perché sembrerebbe anacronistico rispetto al contesto. In entrambi i casi la lingua sarebbe implausibile.
La via all’arcaismo scelta da Tolkien si sviluppa in una direzione diversa, in cerca di un equilibrio sottile tra sintassi, tono della frase, uso di stilemi e vocaboli arcaici.
Per spiegarsi ancora meglio, Tolkien fa un secondo esempio, scelto tra i bersagli di Brogan. In questo caso non si tratta di una battuta di dialogo, ma di una descrizione, tratta dallo stesso capitolo. È la scena della vestizione di Aragorn, Legolas, Gimli e Gandalf per la guerra, dove si legge:

Helms too they chose, and round shields.

Libro: copertina Lettere 1914-1973Di fronte alla critica di Brogan, che evidentemente considerava l’inversione di verbo e complemento oggetto come un arcaismo forzato, Tolkien difende la propria scelta dicendo che non si tratta di un’inversione, ma di una prolessi enfatica dell’oggetto a cui si vuole dare preponderanza, che è uno stilema dell’inglese antico, a cui lui ricorre perché lo trova efficace. Senz’altro alle orecchie di un lettore odierno suonerebbero più famigliari espressioni come: «They also chose helmets» o «they chose helmets too», o ancora «They also picked out some helmets and round shields». Ma rinunciare a un “trucco” efficace solo perché antico sarebbe un impoverimento, dal suo punto di vista. Bisognerebbe reimparare a usarlo, anzi, quel trucco. «E qualcuno deve iniziare a insegnarlo, dando l’esempio».
Il pregiudizio di cui occorre sbarazzarsi, secondo lui, è che «gli usi odierni abbiano una qualche validità in sé semplicemente in quanto ‘contemporanei’ […], e che quindi siano al di sopra di quelli di ogni altra epoca, tanto che non usarli (anche quando siano inadatti per il tono) diventi un solecismo, una gaffe, un qualcosa che gela o mette in imbarazzo gli amici».
Questa tendenza all’appiattimento su stilemi contemporanei e a un certo conformismo del gusto, Tolkien lo definisce «campanilismo temporale» (parochialism of time). La sua sfida stilistica quindi consiste nel seguire il proprio orecchio, nel quale riecheggiano parole e stilemi provenienti dal passato, e nell’elaborare uno stile neoarcaico efficace per l’effetto di profondità temporale misurato non già sul pregiudizio dominante, bensì sulla plausibilità rispetto al contesto specifico.

3. Suoni, parole… e parole

Snoopy scrittoreDalla lettera n. 171 si evince una cosa molto chiara: le scelte stilistiche di Tolkien furono tanto radicali quanto consapevoli, dichiaratamente in controtendenza rispetto allo stile maggioritario coevo.
Si può dire che lo stile neoarcaico del Signore degli Anelli è definito da almeno due componenti.
La prima è l’uso dell’assonanza e la disposizione dei suoni nella frase. Capita spesso, ad esempio, nelle descrizioni di paesaggi e azioni che Tolkien ricorra all’allitterazione.
Per descrivere ad esempio la caduta di Frodo giù per un’erta scoscesa, Tolkien ricorre all’assonanza e all’onomatopea, reiterando il suono “s”: «He swayed, slipped, and slithered downwards with wailing cry”. Oppure l’atto di inclinarsi ripidamente verso il basso è «slanted steeply down», con tre suoni consonantici che si presentano due volte nella serie slt/stl.
O ancora ecco una serie assonante di due coppie di suoni, a loro volta molto simili l’una all’altra:

«On either side and in front wide fens and mires now lay, stretching away southward and eastward into the dim half-light.»

E poco oltre, nella stessa descrizione, si trovano ben cinque occorrenze del dittongo ou, di cui quattro assonanti:

«Far away, now almost due south, the mountain-walls of Mordor loomed, like a black bar of rugged clouds floating above a dangerous fog-bound sea.»

Beowulf manoscrittoQuesta reiterazione dei suoni rimanda al verso allitterativo anglosassone, tipico della poesia antico inglese e di poemi come il Beowulf, e contribuisce anch’esso a dare un effetto arcaizzante alla prosa del romanzo di Tolkien. Il risultato è ottenuto senza forzature, cioè senza ostentare l’arcaismo in sé, ma in maniera sottile, costellando e permeando la scrittura di effetti impercettibili.
La seconda componente connotativa dell’arcaismo tolkieniano è il recupero o il conio di vocaboli insoliti. Non solo neoarcaismi in senso stretto, vale a dire parole che hanno un’evidente base arcaica che lui modifica o riadatta, come hobbit, ent, orc, eleventy-first, ecc. E non solo prestiti, come quando il racconto giunge nelle terre “germaniche” di Rohan e la prosa si costella di parole prese dall’antico inglese – làthspell, éored, dwimmerlaik, weregild, mearas, ecc. Nel corso dell’intera narrazione si rinvengono parole obsolete più che antiche, o più precisamente termini fuori corso nell’accezione per cui Tolkien li sceglie. Non necessariamente termini della lingua alta, ma più spesso della lingua bassa, d’uso comune in un’altra epoca. È il caso di vocaboli come farthing (quartino, quarto), harrow (tabernacolo, fano), mark (marca, landa), nuncheon (merenda, spuntino), moot (assemblea), ecc. Oppure capita che alcune parole note vengano riproposte in forme arcaiche: anigh (vicino, presso); launds (prato); meads (pascolo), ecc.; inclusi i celebri plurali antichi in -ves: dwarves, turves, scarves, ecc.
Steve Walker (in The Power of Tolkien’s Prose, Palgrave Macmillan, 2009) individua almeno tre modalità di agire sulle parole nella prosa tolkieniana:

«La tendenza all’antico nello stile di Tolkien non si limita a una mescolanza indiscriminata di parole più o meno arcaiche; è piuttosto una questione di movimenti linguistici definiti: parole famigliari assumono un significato arcaico […]. Termini antichi vengono modernizzati […]. Parole che usiamo abitualmente vengono presentate in una forma obsoleta». (p. 153)

È evidente che questi andamenti rappresentano una vera e propria sperimentazione linguistica e stilistica – fondata sull’arcaismo – più di quanto molti critici siano stati disposti a (o capaci di) riconoscere.

Ancora Walker:

«Parole antiche vengono richiamate in servizio dal contesto narrativo, acquisendo un nuovo slancio concettuale in contrappunto all’assunzione neologistica di significati tradizionali. In questo mondo di filologia creativa il passato linguistico e storico diventa immediatamente presente». (p. 154)

Insomma, l’effetto arcaico per Tolkien era qualcosa che andava ricercato con varie modalità e pratiche filologiche, fonetiche e sintattiche. Per lui si trattava di dare l’esempio, come scriveva a Hugh Brogan nel 1955, e se avesse scritto altri romanzi avrebbe potuto proseguire sulla strada di questa sperimentazione, con chissà quali risultati, certamente tanto meno artificiosi quanto più basati sulla filologia creativa.

4. Forma, ombra… e prospettiva

secret-viceSoltanto muovendo dalla prospettiva fin qui accennata è possibile valutare correttamente la celebre definizione che Tolkien diede del Signore degli Anelli come «trattato di estetica linguistica» (lettera 165), considerandola non già come un’iperbole o una provocazione, ma come una chiave interpretativa ineludibile.
Sicuramente in Italia non ci siamo mai soffermati troppo a riflettere su questi aspetti. Benché in ogni introduzione all’opera di Tolkien venga ripetuto che la sua narrativa nasce dalla filologia creativa, molto raramente Tolkien è stato inquadrato come uno sperimentatore linguistico, oltre che come inventore di idiomi e di mondi.
Ci è voluta la nuova traduzione de Il Signore degli Anelli perché qualcosa cambiasse in questo senso. Fino all’ottobre scorso nel nostro paese non si era mai riflettuto e discusso così tanto sullo stile di Tolkien e sul suo lavoro certosino di riscopritore e riforgiatore di parole inglesi per la prosa letteraria. È stata l’occasione per scoprire aspetti che perfino i fan di più antica data ignoravano, nonché l’ennesima dimostrazione che la traduzione dà profondità all’opera letteraria, Quaderni di Ardaperché è l’ombra dell’opera proiettata su un altro contesto linguistico, e il raffronto tra la proiezione e la forma originale mette quest’ultima sotto una nuova luce. Al di là di ogni ulteriore appunto sull’importanza culturale del ritradurre, per cui si rimanda all’ottimo saggio di Andrea Binelli su “I Quaderni di Arda”, il dato di fatto è che paradossalmente in questo momento l’Italia è un luogo privilegiato da cui affrontare la tematica dello stile tolkieniano. Il filtro di una nuova traduzione – che dopo mezzo secolo prova appunto a reinterpretare l’arcaismo stilistico del Signore degli Anelli – ci spinge a tornare all’originale con occhi diversi. C’è da auspicare che gli studiosi italiani non si lascino sfuggire questa opportunità.

 

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