Difendere la Terra di Mezzo: l’intervista

Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.
J.R.R. Tolkien

Il padre del fantasy secondo tantissimi (ma l’heroic fantasy esisteva anche da prima di lui) colui che ha letteralmente definito il concetto di fantastico creando non solo una delle saghe più amate (e lette) nell’ultimo secolo, ma un autore in grado di realizzare un vero e proprio mondo ed epopea è senza dubbio J.R.R. Tolkien, un autore infinito che non si terminerà mai di leggere, amare e in alcuni casi studiare. Il professore di Oxford difatti è un caso unico nella storia della letteratura e proprio per moltissimi motivi, che si trovano all’interno della nuova edizione del libro scritto da Wu Ming 4, merita di essere studiato con serietà nel giusto quadro critico. Se da tempo sono numerosi a livello internazionale i saggi sulle sue opere, in Italia solo negli ultimi anni è arrivato il momento di fare un bilancio per trovare un nuovo modo di raccontare un autore fondamentale, che va ben oltre il genere fantasy in cui troppo spesso viene relegato. Il titolo dell’opera per molti tolkieniani non è nuova, “Difendere la Terra di Mezzo” di Wu Ming 4, si tratta una critica militante nella quale si cerca di analizzare, studiare, e in questo caso difendere appunto, uno dei mondi più straordinari creati dalla penna di uno scrittore.
Wu Ming 4 DifendereQuesto testo in uscita il 30 agosto per Bompiani è una terza edizione, ovviamente ampiamente rivista, del primissimo saggio dall’omonimo titolo uscito in Italia nel 2013. Si legge, dall’introduzione dello stesso Wu Ming 4, che la rivisitazione di questo testo ha permesso di offrire una panoramica sull’opera divenuta ormai un classico del Novecento, come in molti casi ha permesso di realizzare una riflessione critica che privilegi la contestualizzazione storica e le suggestioni letterarie rispetto ad altri tipi di approcci e infine, con l’occasione del cinquantenario della morte, ha offerto l’occasione per riproporlo alla Bompiani con una rivisitazione del testo e le citazioni aggiornate alle ultime traduzioni. “Difendere la Terra di Mezzo” è diviso in due parti: la prima è incentrata sul fenomeno letterario e sui suoi echi negli adattamenti cinematografici; la seconda, che entra nel vivo dei testi, è dedicata alla poetica di Tolkien ed è proprio grazie allo studio e analisi del professore come scrittore e uomo, che Wu Ming 4 riesce a raccogliere ed ampliare il proprio contributo alla riscoperta dell’autore de Il Signore degli Anelli, sempre in sintonia con i maggiori esperti in materia.

A: Leggendo il tuo libro sembra che Tolkien sia un autore strutturato quasi a livelli (proprio come Minas Tirith), in Difendere la Terra di Mezzo qual è il vero albero bianco da difendere?

Wu MIng 4WM4: È una bella immagine questa. È vero che Tolkien è un autore a strati, ma soprattutto è in movimento. La sua opera-mondo è in divenire, perché è talmente complessa e stratificata, appunto, ed è ormai raccontata ed espansa attraverso una tale varietà di mezzi narrativi, che di volta in volta offre spunti nuovi a vecchi e nuovi lettori. Questo significa che non c’è un albero bianco, cioè un cuore di verità, da difendere, perché quella verità è sempre parziale e sempre ridefinita. L’albero bianco è il punto all’orizzonte verso cui indirizziamo la nostra ricerca, e si sposta insieme a noi. Casomai la Terra di Mezzo va difesa dagli approcci semplicistici, dalle letture sbrigative e superficiali, che sono sempre state una iattura per Tolkien, ma anche dalla tentazione di chiuderla dentro un confine una volta per tutte, di trasformarla in una zona di comfort per eletti difensori dell’ortodossia tolkieniana, magari facendo di Tolkien un guru filosofico-spirituale. Bisogna essere capaci di mantenere aperto quel confine. Oggi il titolo Difendere la Terra di Mezzo, più che come una chiamata alle armi, a me suona come un riferimento manualistico, nel senso di “Curare la Terra di Mezzo”, prendersene cura.

A: Che cosa è cambiato nel tempo nelle varie edizioni del libro?

Libro: "Difendere la Terra di Mezzo" di Wu Ming 4WM4: Dalla prima edizione del 2013 alla seconda del 2018 sostanzialmente era cambiata la copertina (in peggio), ed è stata aggiunta una seconda appendice. Questa nuova edizione con un nuovo editore invece ha subito una discreta risistemazione. Non solo ho migliorato alcune formulazioni, ma soprattutto ho aggiunto qua e là diverse cose e ne ho tolte altre, perché nel frattempo, trascorsi gli anni, molto è cambiato e c’era bisogno di aggiornamenti. Così come dovevano essere aggiornate tutte le citazioni dai testi di Tolkien che nel frattempo sono stati ritradotti. Ci sono poi cose che mi sono venute in mente o mi si sono meglio chiarite in questi dieci anni, discutendo con altri, e le ho quindi inserite nel testo. E ovviamente anche in questo caso c’è una nuova copertina. Nelle prime due edizioni in copertina c’erano spade e scudi. Si intendevano gli attrezzi per difendere la Terra di Mezzo. Ora, in questa edizione definitiva, in copertina c’è un Ent che avanza minaccioso. È la stessa Terra di Mezzo che si muove in propria difesa. Ai tolkieniani dovrebbe evocare le famose parole di Barbalbero: «È assai probabile che andiamo incontro alla nostra fine: l’ultima marcia degli Ent. Ma se restassimo a casa senza fare niente, la sorte giungerebbe comunque, prima o poi.» In questo caso il riferimento è alla nostra Terra, al mondo primario che stiamo uccidendo, del quale la Terra di Mezzo diventa una metafora. Parlerò proprio di questo il 2 settembre a Dozza, alle celebrazioni di Tolkien 50.

A: Sei uno dei saggisti tolkieniani più noti in Italia, hai scritto numerosi testi sul Professore, ma trovi sempre un nuovo spunto per raccontare questo autore così grande. Da dove nasce il tuo stimolo di ricerca?

WM4: Credo dal fatto che Tolkien è una miniera inesauribile. Non si finisce mai di scoprirlo. Quando credi d’averlo inquadrato, salta fuori un dettaglio che offre uno spunto di rilettura. Più volte in questi dieci anni ho frenato il mio interesse per Tolkien, convinto di avere dato quello che potevo dare. Ma dopo un po’, per qualche motivo, mi sono sempre trovato a riprenderlo in mano e a scovarci qualcosa di nuovo. A questo punto credo di dovermici rassegnare.

A: Ti è capitato in varie occasioni di essere coinvolto in dispute sulle riletture politiche dell’opera di Tolkien. Perché secondo te soprattutto in Italia Tolkien viene da sempre politicizzato?

WM4: Bisognerebbe chiederlo a quei politici italiani che nel corso dei decenni lo hanno sbandierato come fonte d’ispirazione politica, buon’ultima l’attuale presidente del consiglio. Per certi versi sarebbe solo auspicabile che i politici, di qualunque colorazione, leggessero Tolkien. Magari per trovarci qualche spunto di riflessione critica sull’attuale modello di sviluppo, che invece si accaniscono a difendere con le unghie e con i denti, oppure sulla corruzione morale indotta dall’esercizio del potere, al quale però paiono affezionatissimi. Francamente, al di là delle dichiarazioni e degli slogan, mi pare che le fonti d’ispirazione della nostra classe politica non siano proprio letterarie, per così dire. Io credo che gli studi tolkieniani abbiano tutto da perdere nel lasciarsi mettere il cappello in testa da costoro. Ma si sa che l’Anello della Visibilità è forte e più di uno ne rimarrà irretito.

GUARDA L’INTERVISTA DI PAOLO NARDI

 

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Estate 2023: un’ondata di libri su JRR Tolkien!!!
– Leggi l’articolo Difendere la Terra di Mezzo: il nuovo libro di Wu Ming 4
– Leggi l’articolo Torna in libreria Il Fabbro di Oxford di WM4
– Leggi l’articolo Odoya pubblica Wu Ming 4. Un altro libro su Tolkien?

LINK ESTERNI:
– Vai al sito dell’Wu Ming Foundation
.

Tre anni con Fatica… Lost in translation

«Forse si potrebbe continuare a tradurre all’infinito lo stesso libro…»
(Ottavio Fatica, intervista a “Il Venerdì”, 03/02/2023)

Tre anni vissuti pericolosamente

Stand BompianiSono passati più di tre anni dalla pubblicazione del primo volume del Signore degli Anelli nella nuova traduzione di Ottavio Fatica. Tre anni durante i quali non solo il dibattito si è infiammato tra sostenitori della traduzione precedente e sostenitori della nuova, ma si è anche finalmente iniziato a discutere di come Tolkien scriveva. Possiamo dire che se anche la nuova traduzione avesse questo unico merito – averci fatto tornare all’originale e averci fatto accorgere di qual è lo stile del Signore degli Anelli – sarebbe sufficiente per esserne grati. Del resto, lo stesso Tolkien la pensava in questo modo circa il ritradurre i classici: «Lo sforzo per tradurre o per migliorare una traduzione ha un valore non tanto per la versione che produce, quanto piuttosto per la comprensione dell’originale che risveglia» (Tradurre Beowulf, 1940).
È noto che a suo tempo, quando Bompiani decise di ritradurre il masterpiece tolkieniano, l’AIST ha avuto un ruolo nel suggerire il nome di Fatica e nel fornire consulenza al traduttore durante il lavoro (il merito va soprattutto al nostro socio Giampaolo Canzonieri). È noto che dopo la pubblicazione dei tre volumi, l’AIST ha raccolto le segnalazioni di errori o imprecisioni dai lettori e le ha trasmesse al traduttore, che le ha integrate nell’edizione del volume unico; si è così realizzata una sinergia tra lettori, traduttore ed editore che per accuratezza e rapidità non ha precedenti. Ed è altrettanto noto che per l’AIST, al di là del gusto personale, delle riserve su singole scelte, o dell’affetto per la traduzione con cui siamo cresciuti, i meriti del lavoro di Fatica sul Signore degli Anelli sono oggettivi: il romanzo ha finalmente una traduzione letteraria all’altezza della sua prosa.
Ottavio FaticaCiò nonostante, nelle interviste di tre anni or sono, Fatica ostentava una certa insofferenza nei confronti dei tolkieniani, spendeva qualche espressione iperbolica poco elegante, rendendosi antipatico al fandom (oltre a subire una querela da parte della traduttrice storica, finita in nulla, com’era ampiamente prevedibile). Soprattutto agli occhi dei fan lo ha compromesso il fatto di non essere un tolkieniano di stretta osservanza, e di non amare Tolkien al di là di ogni ragionevole dubbio. Anzi, in una delle suddette interviste si spingeva a rivendicare che «un conto è amarlo, un altro leggerlo correttamente» (“Il Venerdì”, 29/11/2019). Come a dire che il sentimento serve a poco senza la capacità di cogliere gli aspetti più profondi della lingua letteraria.
A tratti è sembrato che contro Fatica si ergesse proprio un muro di amore incondizionato e di fede nel genio autoriale, riconosciuti come unico metro per cogliere lo spirito di un’opera (qualunque cosa significhi) al di là dello stile letterario. Per altri versi è venuto perfino il sospetto che l’atteggiamento “laico” di Fatica disturbasse i fan in cerca di assolute conferme: «La non unanimità del suffragio è l’ossigeno dell’arte. Mai pensare di un libro: qui sta la Verità, più tutte le altre maiuscole di rito. Una verità è tale nella misura in cui soddisfa chi la formula. Non sarà questo o quel libro a dare la Risposta. Né è fatto per darla. E lascia spazio ad altre verità manchevoli, altri libri. L’incompiuto è l’unico infinito alla portata» (O. Fatica, I Quaderni di Arda n. 2, 2021). Come incompiuto è l’universo inventato da J.R.R.Tolkien, che oggi milioni di lettori, spettatori, giocatori, cosplayer, ecc., abitano ed espandono in molti modi diversi.

Niente sarà più come prima

Cover Compagnia dell’AnelloL’accusa più circostanziata mossa a Fatica in questi anni è piuttosto quella di avere usato termini troppo ricercati nel tradurre l’inglese di Tolkien, sacrificando la fruibilità alla fedeltà all’originale, o perfino spingendosi oltre l’originale stesso; quindi, in altre parole, di avere fatto sfoggio del proprio mestiere con una certa autoindulgenza. Ne accenna Fatica stesso in un’intervista recentissima: «Se c’era scritto “pigro” e io mettevo “infingardo” diventava un tradimento» (Tradurre è un corpo a corpo, in “Il Venerdì” 03/02/2023).
Va detto che il grande Saba Sardi non fu certo da meno nel dare un personalissimo imprinting (con tanto di clamorose sviste) a un’opera come Il Silmarillion. Può ben darsi che l’estro del traduttore famoso tenda a trasparire sulla pagina, e che questo sia il prezzo da pagare per avere la traduzione di un professionista noto, appunto, che solitamente è tale perché è bravo. Valeva per Saba Sardi e vale per Fatica, con tutto che Il Signore degli Anelli è un testo più complesso di qualunque altra cosa Tolkien abbia scritto, ovvero, nella sua stessa definizione, «un saggio di estetica linguistica» (Lettera 165, 1955), pieno zeppo di estrosità da filologi.
Resta il fatto che, a prescindere dal suo approccio idiosincratico, Fatica, con il suo lavoro e il suo parere, ha avuto un peso determinante nel riscattare le quotazioni letterarie di Tolkien oltre i confini del fandom. In interviste e interventi pubblici, il traduttore ha accostato Tolkien a Shakespeare, Melville, Kipling. Ha detto che è uno scrittore «solidissimo. Ogni capitolo è compiuto, non deraglia mai» e che «questa è la sua vera forza» (“Il Venerdì”). Ha scritto che Tolkien è uno scrittore fallibile, come tutti gli scrittori (e ne ha elencato i difetti), ma che sopperisce con «le qualità che non gli mancano: fantasia, visionarietà, ritmo narrativo incalzante, senso animistico della natura, solida tenuta nei passi di crescendo epico, e molto altro ancora» (I Quaderni di Arda n.2, 2021).
Ipse dixit. Certe castronerie su Tolkien come scrittore per ragazzini mai cresciuti non si sentiranno più, indietro non si torna. E c’è da sperare che per certi fan il problema non sia proprio questo, cioè il fatto che oggi Il Signore degli Anelli non sia più il romanzo culto di una sottocultura nerd (absit iniuria verbis), ma abbia guadagnato la dignità di un classico della letteratura, come merita. Un fandom che si lamentasse del fatto che finalmente anche la cosiddetta cultura alta, dopo anni di snobismo, è disposta a riconoscere il valore letterario di Tolkien, sarebbe un fandom incontentabile, per non dire puerile.

Sulla vetta

Lost in traslation - Ottavio FaticaFatica di certo non dissimula la consapevolezza delle proprie capacità e del proprio ruolo, dando alle stampe un libretto – atteso a scaffale per il 10 febbraio – dal titolo non troppo originale, Lost in translation, dove parla del proprio mestiere attraverso il rapporto con alcuni grandi autori che ha tradotto. Si tratta di una raccolta di sei brevi ficcanti riflessioni, che cercano la metafora del tradurre – prosa o poesia – in altrettante opere letterarie. Il traduttore cerca se stesso nel testo e ci si perde, come dev’essere, riflettendo con estremo acume e in punta acuminata di penna sul proprio mestiere ingrato e magico al tempo stesso. La traduzione è sempre una mancanza, ovvero, direbbe Fatica, la traduzione non esiste, esistono solo cose da tradurre. Ed è l’attività che dalla notte dei tempi consente agli umani di comunicare oltre le proprie diversità culturali, di superare le divisioni, di costruire ponti nella Babele linguistica della specie. Una riflessione che quando viene letta sulla pagina colpisce come una folgorazione.
Tra queste riflessioni letterarie, accanto a Kipling, Céline, Yeats e altri, la seconda in indice riguarda Il Signore degli Anelli, e in particolare il personaggio di Sam. Sono quelle sette paginette del formato Adelphi tra le più belle mai scritte in lingua italiana su quel personaggio, per il quale rappresentano una dichiarazione d’amore.
Sam è il fedele che sale sul Monte Carmelo, è San Cristoforo che si carica Gesù sulle spalle per fargli guadare il fiume, è il servitore disposto a prendere su di sé il fardello del padrone. «Così facendo, Sam avrà compiuto il più nobile dei gesti: assumere spontaneamente una sofferenza vicaria. E, con questa semplice sostituzione, senza saperlo avrà riassunto in sé il riscatto di tutti gli animali, delle piccole persone, delle grandi, che volenti o nolenti ci hanno sempre servito, e di ogni altro animale, dell’animale in noi, dell’animale che in fondo a noi noi sempre siamo».
E il più grande omaggio a queste «piccole persone» Fatica lo legge nella scena degli onori concessi agli Hobbit dal nuovo re Aragorn, il quale si inginocchia: «In quel momento forse Il Signore degli Anelli tocca e fa vibrare di struggente letizia la nota del più alto pathos epico di tutta la vicenda, che ne annovera non pochi, forse mai così alti e puri».
Sam è l’eroe della storia, lo sappiamo, lo stesso Tolkien lo considerava tale. Sam è colui che ha seguito, poi accudito, poi preso per mano, poi vegliato e trasportato Frodo.
Secondo Fatica, nel personaggio di Sam, Tolkien «senza volerlo ha tratteggiato come meglio non si può l’inedito ritratto del traduttore come sherpa», ovvero «un montanaro che si è messo al servizio dello straniero da tradurre», nel senso letterale, cioè da trasportare, da condurre, armi e bagagli, in cima alla montagna. Lasciando sempre all’autore “padrone” il merito di conficcare la bandiera sulla vetta, cioè senza mai sostituirsi a lui, ma servendolo sempre. Come Sam, appunto.
Chapeau. Se mai c’è stato un commiato perfetto di un traduttore da un autore è questo.

Matematica

Cover IsdA in economicaIn conclusione, a mo’ di postilla, rimarrebbe da fare i conti con la materialità dei numeri. I duri numeri che regolano il mercato librario e ci dicono se un’operazione editoriale ha avuto successo oppure no presso il pubblico. Ebbene i dati delle rilevazioni editoriali parlano chiaro. Nel periodo immediatamente precedente la pubblicazione della nuova traduzione, cioè nel triennio 2016-18, Il Signore degli Anelli, in tutte le sue varie edizioni, aveva venduto all’incirca 74.000 copie. Dal 2019 al 2022, nella nuova traduzione (e con la vecchia ritirata dal commercio), ne ha vendute circa 112.000. E l’edizione economica (25 euro), quella per così dire definitiva, è ancora fuori dal conteggio, essendo arrivata in libreria da pochi giorni con una tiratura di partenza di dodicimila copie. In buona sostanza nel passaggio da una traduzione all’altra le medie di vendita annue sono state non solo confermate, ma anzi, sono leggermente aumentate.
A quanto pare il grande flame sui social non ha funzionato per scoraggiare i lettori, o forse addirittura ha funzionato al contrario, aumentando la curiosità per il romanzo nella sua nuova traduzione. Very good.

Wu Ming 4

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Da Bompiani l’economica in volume unico
– Leggi l’articolo Tolkien e le mappe de Il Signore degli Anelli
– Leggi l’articolo Appunti sul discorso di Ottavio Fatica a Trento
– Leggi l’articolo Traduzione, archiviata la querela di Alliata
– Leggi l’articolo A Trento scendono in campo i traduttori
– Leggi l’articolo A Trento un convegno: Tolkien e la traduzione
– Leggi l’articolo Tolkien e l’arcaismo nel Signore degli Anelli (2)
– Leggi l’articolo Tolkien e l’arcaismo nel Signore degli Anelli (1)
– Leggi l’articolo Quante storie dietro il vico Scarcasacco!
– Leggi l’articolo Modena, Fatica: Tolkien, uno scrittore coerente
– Leggi l’articolo Aragorn il Forestale, uno studio filologico
– Leggi l’articolo Alliata contro Bompiani: ritiro la mia traduzione
– Leggi l’articolo A Giardini Naxos il 19/9 Vicky Alliata e Tolkien
– Leggi l’articolo Come ascoltare il suono delle poesie in Tolkien
– Leggi l’articolo Fatica: «Tolkien come Kipling e Shakespeare»
– Leggi l’articolo La versione di Fatica: contributo per una messa a fuoco
– Leggi l’articolo Ancora uno sforzo se volete essere tolkieniani
– Leggi l’articolo Esce oggi la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello
– Leggi l’articolo Bompiani: le novità tolkieniane ottobre 2019
– Leggi l’articolo La traduzione della Compagnia a ottobre
– Leggi l’articolo Ritradurre Il Signore degli Anelli: l’intervista

LINK ESTERNI:
– Vai al sito di L’editore Bompiani: «Nessuna lettura ideologica di J.R.R. Tolkien»

 

.

Arthuan Rebis, l’Arpa e la Terra di Mezzo

«Se in sogno o no non lo sapeva, Frodo sentì un canto soave nella testa: una canzone che sembrava giungere come una fioca luce dietro una grigia cortina di pioggia e diventare poi sempre più forte, in modo da trasformare tutto quel velame in vetro e argento finché, quando fu riavvolto, una campagna verdeggiante si schiuse in lontananza innanzi a lui sotto una repentina aurora.»
(J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli)

La musica di Arthuan Rebis è come il sogno ricorrente di Frodo: apre il velo su un altrove. Con grazia ed energia. La citazione da Tolkien non è arbitraria perché Arthuan Rebis è stato ospite al primo Tolkien Studies Day di Sarzana il 29-30 luglio 2022. Ha tenuto un emozionante concerto sabato sera, e nel pomeriggio dello stesso giorno ha inaugurato la manifestazione insieme al direttore artistico, Valentino Giannini, con letture dalle opere del professore di Oxford e l’esecuzione con l’arpa celtica di composizioni originali del musicista sulla poesia di Tolkien, è il caso di “Elbereth” cantata in Sindarin, e su altri temi e culture vicini allo scrittore.
Arthuan Rebis è uno straordinario musicista: la qualità creativa, tecnica, e culturale della sua musica è molto alta, ma è altrettanto vero che è una musica dell’anima.
Benché ci siano generi musicali di riferimento (ad esempio, l’ampio spettro del folk moderno), le sue composizioni scaturiscono dalla sua ricerca culturale e spirituale.
Arthuan Rebis è il nome d’arte di Alessandro Arturo Cucurnia, compositore e concertista internazionale, dottore in Musica all’università di Pisa, musicista polistrumentista, tra gli strumenti che suona: arpa celtica, nyckelharpa, esraj, hulusi, bouzouki, chitarra, flauti, cornamuse, percussioni, tastiere e anche la sua stessa voce, che modula nel canto armonico. Dal 2007 gestisce il proprio studio di registrazione.
Arthuan Rebis è anche uno studioso di tradizioni musicali e spirituali d’Oriente e d’Occidente, in particolare sciamanesimo e Buddhismo tibetano (traducendo gli insegnamenti del Lama Lodro Tulku Rinpoche), di miti delle culture antiche europee ed extraeuropee (collabora con il grecista Angelo Tonelli). Sono frutto di questi studi anche la sua attività di operatore sonoro attraverso trattamenti con il letto armonico, e il libro Musica e Sapienza, antiche tradizioni musicali e spiritualità (ed. Agorà&Co, 2013).
Dopo una lunga stagione di concerti in Italia e in Europa, abbiamo l’occasione di intervistare Arthuan Rebis.

L’intervista

Iniziamo proprio da Tolkien. Durante l’inaugurazione del Tolkien Studies Day hai presentato Elbereth, una poesia elfica che si trova nel Signore degli Anelli e parla della dea che accende le stelle. L’hai musicata con l’arpa e la canti nella versione “originale” in Sindarin (quella che Frodo ascolta nella Sala del Fuoco a Rivendell). Vuoi parlarci della tua connessione con Tolkien, come lettore e come artista?
«Ho incoronato “Elbereth” come canzone prosecutrice tra una dozzina di musiche che ho composto per uno spettacolo da me ideato (“L’Arpa e la Terra di Mezzo”). La maggior parte di quei brani sono rimasti confinati in quell’evento, per il quale erano perfetti, ma mi trovo spesso a dover selezionare, perciò a mettere da parte. In questi casi “Il cestino è uno dei miei migliori amici” come mi disse un giorno il grande cantautore Claudio Rocchi.
“Elbereth” è uno di quei pezzi che suono quasi sempre. Quando l’ho musicata ho cercato di raccogliere una devota malinconia, a cavallo tra l’eccitazione dell’incanto e la calma di un respirare profondo, una sorta di celtitudine ancestrale, una saudade elfica. Gli armonici delle corde, assieme al paesaggio sonoro, tentano di rappresentare lo scintillio delle stelle e la loro accensione per mano della più amata tra i Valar, colei che è Semprebianca.
Sarebbe altisonante da parte mia tentare di descrivere la grandezza di Tolkien in qualunque modo, specialmente in questa sede, ma credo di comprenderla affondo. Relativamente all’universo tolkieniano e alle connessioni che genera mi sento di dire questo: chiaramente è un grande faro, e le persone che hanno una certa sensibilità, e che si sono nutrite profondamente da questa fonte, si riconoscono subito, hanno una risonanza speciale, una sensibilità per l’appunto endemica».

L’8 gennaio 1944, in una delle numerose lettere che scrisse al figlio Christopher al fronte (lettera n.54), Tolkien riporta alcuni versi dal Libro di Exeter (un codice del X secolo): «Meno sarà tormentato dal desiderio, colui che conosce molti canti, o che con le sue mani può toccare l’arpa: il suo bene è un dono di “gioia” (= musica e/o poesia), che Dio gli ha donato».
Sono versi molto belli e molto potenti che ci portano a chiederti come hai intrapreso la via della musica, e cosa rappresenta per te l’arpa celtica.
«Ho la fortuna di ricevere spesso gratitudine e calore dalle persone che assistono ai concerti o che ascoltano i miei dischi. Ultimamente una persona, dopo una mia esibizione, mi ha dato una lettera confidandomi quanto la mia musica (e ciò di cui è stata tramite) l’abbia accompagnata in un momento tremendo quale la perdita del compagno. Questi episodi danno un senso a quello che faccio, specialmente quando incontro ostacoli dentro o fuori di me.
Nei momenti difficili a volte ho smesso di suonare l’arpa per un po’, ma poi rimettendo le mani sullo strumento mi sono reso conto di quanto sia terapeutico anche per me, specialmente quando c’è un pubblico. Questa condivisione è per me una vocazione; alcuni direbbero “missione”, ma io non lo dico, perché preferisco esaltarmi del beneficio altrui, cercando di evitare sovrastrutture che mettono al centro il mio ego. Però mi piace intendermi come veicolo o fucina.
L’arpa celtica per me è inscindibile dalla dimensione bardica. Da un lato è uno strumento molto “spirituale” che può far cantare gli Elementi o mettere in connessione con dimensioni meno materiche (molti arpisti erano ciechi e chiaroveggenti), e che può narrare, evocare e incantare. D’altro canto è storicamente uno strumento di Resistenza, che implicava una vita dura e coraggiosa; a tal proposito si tenga presente che gli arpisti irlandesi sono stati a lungo perseguitati, con la pena di morte in alcuni casi. Le origini di questo strumento in realtà hanno radici in Egitto e a Babilonia. La tecnica che uso, con le unghie lunghe, non è molto comune, e neanche comoda. Con il tempo si sviluppa una vera mindfulness dell’unghia nelle faccende più banali del vivere quotidiano. Ma questa presenza mentale a volte viene a mancare e l’unghia si rompe accidentalmente. Il taglio dell’unghia è stato a lungo una punizione per i bardi, quando questi sono stati integrati e strumentalizzati nelle corti.
La musica la intendo da sempre come dimensione di elaborazione interiore finalizzata alla condivisione.
La musica è quintessenziale, immateriale ma sostenuta dagli elementi. L’essenza bardica a mio parere sta nell’ereditare linguaggi artistici e simbolici, ma tutto deve essere rielaborato e riportato all’esperienza trasformativa dell’attuale esistenza».

“Elbereth” si trova nell’album Sacred Woods (2021), “Boschi Sacri” (e quanti boschi e quanti alberi anche in Tolkien!). Dal primo brano, “Albero Sacro”, ci conduci lungo un percorso di conoscenza attraverso la sapienza antica in Oriente (Danzatrice del Cielo) e in Occidente: in Scandinavia (Runar) nel Mediterraneo (Driade) e nelle terre celtiche (Kernunnos). Un percorso mirabilmente armonioso e naturale all’ascolto, e allo stesso tempo con una gamma di stimoli emotivi diversi. Ci vuoi parlare dell’ispirazione di Sacred Woods?
«È infatti un concept album in cui fiorisce questo atlante simbolico che intreccia entità spirituali e dimensione arborea. Ogni brano attinge da mitologie o suggestioni differenti. Ci sono brani che raccontano più o meno velatamente e astrattamente una storia (Come foglie sospese, “Diana”, “Driade”) ed altri più evocativi o celebrativi. C’è una vasta varietà di stili e di influenze che ho cercato di mettere insieme in maniera dinamica, con momenti contemplativi ed episodi più scatenati. La mia volontà era di mescolare mistero, dimensione del sacro, amore, malinconia, trance, panteismo al confine tra visibile e invisibile, tempo e non-tempo.
Nell’album figurano molti ospiti internazionali quali Vincenzo Zitello (il padre dell’arpa in Italia) Glen Velez (il maestro dei tamburi a cornice), Paolo Tofani (il chitarrista dei leggendari Area), o la cantante danese Mia Guldhammer, Giada Colagrande (regista e cantautrice), Federico Sanesi, Nicola Caleo, Gabriele Gasparotti ed Emanuele Milletti. L’album è prodotto dalla Black Widow Records, storica etichetta nei circuiti prog/dark/folk/metal».

Da Sacred Woods hai tratto quattro video, girati presso un albero monumentale, la cosiddetta Quercia delle Streghe, una grande farnia che si trova vicino Capannori (Lucca). È un essere vivente che accoglie molte forme di vita grandi e piccole intorno a sé, e che trasmette una sensazione di pace ed energia. I brani che hai trasposto nei video sono “Driade”, “Elbereth”, “Fairy Dance” e la struggente ballata “Come foglie sospese”.
La presenza di questo essere secolare, la modulazione diversa dei colori nei quattro video, i tuoi testi – “Come foglie sospese” in particolare – fanno percepire che un tema ricorrente nella tua musica è il Tempo.
«Hai ragione, ed è un tempo che si scioglie. I greci lo chiamavano Kairos, un tempo qualitativo più che quantitativo, che fa percepire una dimensione non sequenziale e non cronologica, e che in qualche modo è un passo al di là della dimensione grossolana dei regni di esistenza. Una sorta di collante immateriale.
Il brano “Come foglie sospese” narra di un uomo in una foresta. D’improvviso la cortina che cinge il mondo si svela e un attimo che sembra eternarsi apre uno squarcio in un’altra dimensione. Dall’altra parte del velo questa persona scorge una creatura femminina, una sorta di dea mortale (che si può immaginare soggettivamente come un Deva femmina o una dama elfica), la quale sta morendo. In un baleno egli realizza di esserne stato l’amante, e di esser poi rinato tra gli uomini. In questa sua presente forma umana egli ha già vissuto lunghe decadi, ma dall’altra parte sono passati pochi istanti. Lei lo sta per seguire, convinta che stanno morendo insieme, ignara del fatto che in pochi istanti lui ha già vissuto decenni in una nuova esistenza in un altro mondo. Lui la osserva, lei non può vederlo, sono vicini e lontanissimi, ma il sentimento di connessione trascende il tempo e lo spazio ordinari proprio grazie al potere della memoria del cuore. Qui l’immaginario tolkieniano e quello romantico occidentale si fondono con la visione cosmogonica Buddhista. Tutto questo non si coglie facilmente nel brano, perché mi piace l’essenziale e preferisco lasciare spazio alla fantasia dell’ascoltatore.
Relativamente agli alberi, di cui tento di tracciare una lode archetipica nel primo brano dell’album, vorrei ricordare che hanno camminato su tutta la superficie del mondo, dopo cicli di glaciazioni e desertificazioni, di seme in seme, eppure sono lì, immobili testimoni, primevo rifugio e ispiratori di tutte le qualità positive. La quercia di cui parli impatta la vista come un cosmo, come un cervello cosmico, madre e padre ad un tempo. Le sue radici, come si intuisce a colpo d’occhio, sono altrettanto maestose. Capovolgendola forse apparirebbe simile. L’Albero Celeste platonico del resto ha radici nei piani superiori (sarebbe meglio dire più sottili) e ramifica nel mondo della manifestazione, dove ci ritroviamo anche oggi, questa volta con sembianze umane (ed è comunque un gran privilegio)».

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 2020 esce La Primavera del Piccolo popolo, la tua fiaba musicale, come l’hai definita. Termine quanto mai corretto perché la protagonista è una fata e perché i temi sono eterni (la Natura, l’Amore, la Ricerca). Ad un livello più profondo, La Primavera sembra un racconto di guarigione, con una sonorità cristallina e rinfrancante, e un passo meditativo. È significativo che sia nata durante il primo lockdown, che per molti è stato invece un periodo di grande ansia e “sconcerto”.
«È stato un momento di forte scossa collettiva, e contrariamente a quanto rappresentato dalle serie tv distopiche, gli esseri umani nel momento di crisi collettiva non tendono sempre a mangiarsi la testa a vicenda come zombies. Spesso quando l’ego vacilla e le certezze crollano, essi manifestano spontaneamente le naturali inclinazioni positive della mente, come la compassione e l’altruismo, che alimentano un loop virtuoso nel quale il cuore si scalda riscaldando altri cuori. Qualche anno fa a Carrara ci fu una terribile alluvione, e mai ho visto tanta solidarietà e gentilezza: c’era bisogno di ritrovarsi nella merda fino al collo.
Similmente nel primo lockdown molte persone erano ispirate dalla possibilità di un cambiamento, dall’illusione che certe urgenze ecologiche avrebbero avuto una concreta e sincera attenzione. Non sapevamo cosa c’era alle porte. Quando la frustrazione si cristallizza nel tempo e viene pilotata dai media e dai governanti allora sì che le persone danno il peggio di sé mettendosi l’una contro l’altra per un pezzo di carta. Questo avviene quando la crisi viene inglobata dai tratti inquietanti dell’ordinario.
Ad ogni modo, nell’equinozio di primavera del 2020, mi sono chiuso in casa qui a Luni (non potendo andare in studio) e ho ideato questa “Fiaba Sonora”. Mi è arrivata questa ispirazione, cercando il lato positivo del momento. È un album da ascoltare tutto d’un fiato, molto diverso da “Sacred Woods”; è una sinfonia minimale, con tanti movimenti. Il viaggio sonoro è guidato dall’arpa, che ha intessuto la cartografia delle trame armoniche, poi vi sono strumenti come la nyckelharpa (una sorta di viola scandinava) e l’esraj (viola indiana) che colorano con pennellate ben dosate i paesaggi boscosi. Altri suoni rappresentano le ali della fata, le varie essenze in gioco e le transizioni di ambienti esteriori ed interiori.
Questa fata è uno spirito guida, alla ricerca di un’umanità scomparsa, in cui lei crede ancora, mentre gli altri del Piccolo Popolo si godono l’assenza degli umani nelle foreste. E questo è stato il mio pensiero mentre eravamo chiusi in casa: “Chissà come se la spassano i faeries allo scoperto.”
Sia la musica che le suggestioni narrative lasciano ampio spazio all’immaginazione dell’ascoltatore, che ha tutto il potere di vivere il viaggio in maniera ri-creativa. Ci sono molti inputs meditativi: la fata durante il viaggio medita sull’impermanenza, sull’interdipendenza, attraverso simboli e immagini che può cogliere anche un bambino, ma che non escludono una profondità, anzi.
Il legame con l’Oriente, in questa mia rielaborazione essenziale di un immaginario europeo quale quello dei Faeries, non ha solo originazioni filosofiche, ma anche estetiche: in quei giorni mi sono riguardato numerose produzioni di Myiazaki, così incredibilmente gentili, prive di volgarità, magicamente pure, essenziali, soavemente formative, e soprattutto capaci di ridonarci, da mani giapponesi, la natura più pura di estetica e simbolismo occidentali… Incroyable!».

Curi personalmente le illustrazioni e la grafica dei tuoi album. Sulla copertina di Sacred Woods c’è l’icona molto suggestiva del grande albero, incorniciato da intrecci quasi celtici che verso l’alto diventano spirali di aria o motivi vegetali in stile liberty. Sulla copertina della Primavera del Piccolo Popolo vediamo la silhouette della fata Alidoro contro la luna piena, con un’arpa tra le mani. Si tratta sempre di immagini notturne.
Ci racconti le radici del tuo immaginario, e in particolare della fata?
«Questo stile grafico delle silhouette e dei notturni accomuna l’artwork questi due album, ma l’ho proposto in certa misura nei dischi delle mie bands. Tendenzialmente tendo a curare tutti i processi artigianali, dalla fase compositiva alle registrazioni, dal missaggio alle grafiche e ai videoclips.
Quando ero bambino sono stato folgorato dalla lettura quotidiana di una rivista di Tradizioni magiche ed esoterismo. La fascinazione per i contenuti testuali era potenziata dalla presenza di opere di straordinari pittori del Fantastico, penso a Ernst Fuchs, M.C. Escher, Salvador Dali, Salvator Rosa, René Magritte, H. R. Giger, Victor Cupsa, ma soprattutto penso al dipinto di Peter Proksch: “Il Palazzo delle Sette Saggezze”, vera ossessione visiva della mia infanzia.
Io non sono affatto un illustratore, ho semplicemente imparato ad arrangiarmi perché so esattamente cosa voglio da una copertina. Per me è importante che rispecchi la mia visione del contenuto.
La mia “Fata” ha tratti del principio “volatile e sfuggente” femminile di cui parlano gli Alchimisti. È un po’ l’Anima nella visione junghiana. Allo stesso tempo ha il ruolo di uno Spirto Guida, quindi desidera farsi inseguire, per guidare, ma opportunamente viene anche in soccorso. Allo stesso tempo è simile a quella che per i tibetani è una Dakini, avendo la capacità di padroneggiare l’elemento Aria/Vento. È la Musa ed ha infinite forme e manifestazioni. Il mio motto personale in questo caso è: UNA MUSA REGIT – Una sola Musa impera».

Negli anni hai dato vita a diversi progetti musicali, The Magic Door per esempio, e Antiqua Lunae. Dal 2011 componi e suoni anche con il gruppo di folk medievale In Vino Veritas. Cosa cambia nello spirito creativo quando componi per il gruppo e quando sai di lavorare per un progetto solista?
«Ci sono state esperienza di collaborazione molto stimolanti, come in The Magic Door, con le menti di Giada Colagrande e Vincenzo Zitello. Rispondendo in maniera generale: per me la condizione ideale nel comporre per un gruppo è quando gli altri cercano di stimolare e valorizzare la mia creatività, consci del fatto che posso essere in grado di partorire molte idee concrete per stili e generi molto diversi. Non è scontato, poiché spesso tra musicisti può generarsi una dannosa competitività. Ho una tendenza un po’maniacale nel voler gestire i processi creativi, ma quando trovo persone che hanno più esperienza e capacità di me sono strafelice di imparare e delegare, come ad esempio quando abbiamo messo il mix di The Magic Door nelle mani di Pino Pischetola, fonico di Battiato, che ha lavorato a pietre miliari come “Violator” dei Depeche Mode, tanto per citare un disco. Nel caso di In Vino Veritas, mi sono trovato quasi sempre a scrivere brani tenendo conto delle caratteristiche dei particolari strumenti musicali, delle qualità dei singoli membri, dei contesti danzerecci Medieval e Pagan folk, e del sound evoluto coralmente nel progetto».

Cecilia Barella

GUARDA IL VIDEO

youtube placeholder image

Discografia solista:
– Spells, Spirits and Spirals (giugno 2016)
– La Primavera del Piccolo Popolo (maggio 2020)
– Sacred Woods (maggio 2021)

Altri progetti discografici:
come Autore, Compositore, Cantante, Esecutore, Fonico, Grafico e Produttore Artistico
– Antiqua Lunae, Il Regno di Flora (2012)
– In Vino Veritas, Baccabundi (2014)
– In Vino Veritas, Ludicantigas (2016)
– The Magic Door, The Magic Door (2018)
– In Vino Veritas, Grimorium Magi (2019)
– In Vino Veritas, Arawn (singolo, 2021)
– Paolo Tofani ft. Arthuan Rebis, La Tempesta/Non è possibile (singolo, dicembre 2022)

Bibliografia:
– Alessandro A. Cucurnia, Musica e Sapienza, antiche tradizioni musicali e spiritualità, Agorà&Co ed. 2013

LINK ESTERNI
– Vai al sito ufficiale di Arthuan Rebis

.

Ubaldini, l’uomo che portò Tolkien in Italia

Entrata AstrolabioMilioni di lettori italiani hanno letto Il Signore degli Anelli negli ultimi 50 anni, da quando venne reso disponibile nella nostra lingua a oggi, avendo così la possibilità di conoscere la Terra di Mezzo e seguire le avventure dei suoi protagonisti. Aragorn, Gandalf, Éowyn, Legolas, Gimli e tutti gli altri eroi scaturiti dalla fervida immaginazione di J.R.R. Tolkien sono stati conosciuti anche nel Bel Paese e, dopo le trilogie cinematografiche di Peter Jackson, sono personaggi noti praticamente a tutti. Ma all’origine di tutto questo c’è un nome
che in Mario Ubaldinipochissimi conoscono, quello di un uomo che lesse e credette in quel sogno portato su carta e volle farlo tradurre per pubblicarlo in italiano. Per conoscere questa storia bisogna risalire molto indietro nel tempo, tornando addirittura alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso. E si può farlo anche grazie a chi lo conobbe bene e ci ha aperto le porte della sua casa editrice. È ora di conoscere meglio Mario Ubaldini.

Un pioniere in molti campi

Necrologio UbaldiniMario Ubaldini (1908-1984) è stato, come recita il suo necrologio sui quotidiani del 4 maggio 1984, «uno dei più coraggiosi editori romani, lanciò nella cultura italiana il pensiero psicoanalitico, a lungo dimenticato e ignorato. “L’interpretazione dei sogni” di Freud uscì nell’immediato dopoguerra e presto ad esso si affiancarono opere fondamentali nella cultura psicoanalitica del Novecento: Adler, Fenichel, Jung, oltre a una ricca produzione di orientalistica, pensiero indiano, buddista e cultura orientale in genere». Potremmo fermarci qui, ma per conoscere meglio l’uomo bisogna recarsi nella casa editrice da lui fondata, la Astrolabio-Ubaldini appunto, che ha sede in un edificio di tardo Ottocento nell’elegantissimo quartiere Parioli a Roma. È lì che riceviamo maggiori informazioni da chi lo ha conosciuto bene e ci ha lavorato insieme, la figlia Giovanna Meschini Ubaldini.
Visita in redazioneCi può raccontare un po’ di suo padre? «Mio padre era un uomo d’altri tempi, un intellettuale che andava pazzo per le Ferrari. Se vuole un po’ di biografia: nacque nel 1908 a Pesaro, visse quattro anni a Nizza lavorando come giornalista, si laureò nel 1937 in Letteratura francese con Carlo Bo a Urbino e venne qui a Roma. Erano i tempi del regime fascista, ma lui con altri aprì una rivista e ne fu il direttore fin quasi alla fine della guerra. Con lui scrissero grandi intellettuali come Carlo Cassola, Carlo Ludovico Ragghianti e Giuseppe Dessì e più tardi collaboratori destinati a divenire dirigenti di rilievo nel Partito Comunista».
Come si chiamava la rivista, non lo ha detto mi pare. «Ah, sì giusto. La rivista si chiamava La Ruota».
Passiamo alla fondazione della casa editrice: come avvenne? «Beh, nel 1943 abbandonò il suo incarico ed entrò in clandestinità. Mio padre, in realtà, trovò rifugio in un appartamento a Roma e soprattutto conforto nella traduzione del Dizionario filosofico di Voltaire. Dopo la liberazione della capitale nel giugno 1944 fu naturale che questa divenisse poi la prima pubblicazione della casa editrice che egli stesso fondò. Di questo episodio e della figura di mio padre in quel periodo si può leggere anche un interessante capitolo che Enzo Frustaci inserì nel suo libro Un episodio letterario dell’Italia fascista [Bulzoni editore, 1980, pp. 71-84, ndr]».
UbaldiniQuale identità diede Mario Ubaldini alla neonata casa editrice? «Mio padre è sempre stato appassionato di filosofia e logica, temi principali anche dei suoi studi. Poi da subito si è aggiunta la psicoanalisi. La prima collana Psiche e coscienza è del 1946, mi pare, ed era diretta da Ernst Bernhard con collaboratori del calibro di Bobi Bazlen ed Edoardo Weiss. Mio padre mi disse poi a proposito di Bernhard che quella fu una direzione di collana veramente efficace, tale che da solo non avrebbe potuto fare: “Non avrei saputo mettere le mani come lui, tanto più che era stato allievo sia di Freud che di Jung e conosceva tutti in quel mondo”. In due, tre anni furono pubblicate le prime edizioni italiane di testi di Freud, Jung e Adler… grazie soprattutto a Emilio Servadio, vennero pubblicati gli scritti di allievi di Freud, come quelli di Balint, Alexander e Horney. Per l’epoca era l’apice degli studi in questo campo al punto che, come mi raccontò mio padre, Cesare Pavese aveva fatto pressione su Einaudi per “seguire le orme di Astrolabio” con la psicoanalisi e che Cesare Musatti, il leader del movimento psicoanalitico italiano di quegli anni, pubblicò con Einaudi il suo Trattato di psicoanalisi nel 1949. Fu la sua paura che proprio Astrolabio riuscisse ad ottenere i diritti di traduzione che spinse Musatti a insistere con Boringhieri per un accordo con gli eredi e gli editori di Freud, cosa che poi andò a buon fine facendo di lui il curatore unico della edizione italiana delle Opere di Sigmund Freud».
Libri Astrolabio UbaldiniTorniamo ad Astrolabio, però. Quando avvenne “la divisione in due colori”? «Quella avvenne verso la fine degli anni ’50 e dalla collaborazione con Giuseppe Tucci, il più famoso orientalista del XX secolo. C’era inizialmente il progetto di una enciclopedia storica, letteraria, filosofico-religiosa e artistica diretta da Tucci, intitolata Civiltà dell’Oriente. Il progetto non si realizzò, ma nel 1960 questo diverrà il nome della seconda collana cardine, anch’essa tuttora attiva, della casa editrice, in cui vengono raccolti testi relativi alle filosofie e religioni dell’estremo oriente».
La grafica della casa editrice conserva un’identità assolutamente unica che è stata citata anche da Gian Carlo Ferretti, nella sua Storia dell’editoria letteraria in Italia (Einaudi, 2004, pag. 263). Qual è il segreto? «Sì, l’idea viene sempre da mio padre ed è quel che lei ha chiamato la divisione in due colori. In pratica, dal 1960 l’azzurro  è dedicato alla psicoanalisi e alle discipline affini mentre l’ocra è dedicato a tutte le filosofie orientali. Si può dire che Astrolabio è strettamente legata, anzi coincide, fino al 1984, con la figura di mio padre».

Una parentesi fallimentare

redazioneFin qui abbiamo parlato di iniziative editoriali di successo, ma per gli appassionati di Tolkien il nome di Mario Ubaldini rappresenta la prima pubblicazione seppur parziale de Il Signore degli Anelli. Ecco, in tutto questo non si capisce la scelta di un romanzo di narrativa così particolare. È un po’ un unicum nella produzione Astrolabio, non crede? «In realtà, no. La casa editrice ha sempre sperimentato, soprattutto negli anni Sessanta. All’inizio di quel decennio si era conclusa una lunga e complessa ristrutturazione che aveva portato proprio alla razionalizzazione di molte collane: alcune furono unificate, altre soppresse e altre ancora aperte. In questa prospettiva, furono introdotti per la prima volta in Italia autori prestigiosi di filosofia analitica, linguistica, logica e filosofia della matematica. Una nuova collana era dedicata alla ricerca spirituale del cristianesimo. Proprio il 1967 vide l’esordio e il successo strepitoso della collana di testi divulgativi Che cosa hanno veramente detto che giunse in pochi anni a ben 80 titoli. Un’altra collana di quegli anni fu quella divulgativa I libri dell’introspezione. Insomma, la casa editrice sperimentava moltissimo in quel periodo».
Mi permetta, però, di dire che sempre di saggistica si trattava. C’era altra narrativa? «In effetti, credo che quello fu il primo e ultimo tentativo. Dopo la sua prima telefonata sono andata a recuperare gli archivi su Il Signore degli Anelli e qualcosa ho ricostruito da ricordi di quello che mi raccontò molti anni più tardi mio padre. Sa, in casa non si parlava di lavoro né tantomeno del suo unico vero fallimento… Pensi che per molti anni proibì ai suoi redattori di anche solo nominare Tolkien! Ci aveva creduto tanto, ci perse tanto».
redazioneQuindi, ci fu una volontà di pubblicare narrativa da parte di Ubaldini? «Io credo di sì. In quegli anni, nei mercati esteri stava nascendo un genere, quello della science fiction. Intendo dal punto di vista del successo editoriale, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna era un continuo di autori e pubblicazioni, con un pubblico in continua crescita. Mio padre era un attento lettore e sapeva che presto anche l’Italia avrebbe seguito questa tendenza. In quegli anni, fantascienza e fantasy non erano generi nettamente divisi, anzi venivano letti dal medesimo pubblico».
E in questo come si è inserito il capolavoro di Tolkien? «Le ripeto, mio padre era un lettore attento alle dinamiche editoriali all’estero. Nel 1967 Il Signore degli Anelli iniziava a far parlare di sé nei campus statunitensi. Ma non fu questo il dato determinante. Lo furono di più i rapporti stretti dalla casa editrice con gli omologhi anglosassoni, tra cui proprio la Allen & Unwin, l’editore inglese di Tolkien. Furono questi ultimi a proporre il libro a mio padre…».
Non capisco, si spieghi meglio? «Sono andata a consultare l’archivio e ci sono una decina di lettere di corrispondenza tra Astrolabio e l’editore inglese. Ma i rapporti erano consolidati da tanti altri libri che erano stati presi proprio dall’editore londinese. C’è anche un baule pieno di documenti, bozze, prove di stampa e altro materiale relativo a quegli anni che però è in casa nostra. Mio padre si fidava del giudizio di alcuni suoi collaboratori esteri e seguiva i loro consigli. C’è una lunga lettera in cui i responsabili inglesi descrivono le molte qualità del romanzo. Fu lo stesso Rayner Unwin a far suggerire di pubblicare il volume in tre parti separate, come era avvenuto inizialmente nella stessa Gran Bretagna».
Quindi Ubaldini colse il suggerimento e tentò la strada della narrativa. Come può dirlo? «Me lo raccontò mio padre anni dopo, quando iniziò il periodo delle interviste sulla prima traduzione italiana. Le avevo detto che normalmente non ne voleva parlare… Ma c’è anche un’altra prova. Mio padre scelse di inaugurare una nuova collana con La Compagnia de l’Anello: il “Fuori Collana”. Visto il nome, è chiaramente un esperimento e non è un caso che questa collana vide soltanto un altro volume stampato prima di essere chiusa: Che cosa è la fantascienza di Franco Ferrini. La direzione era la narrativa fantastica, ma l’insuccesso di vendite del primo volume de Il Signore degli Anelli mise fine a questo esperimento. La crisi petrolifera di poco successiva fece sì che questo tipo di volumi non potesse più essere proponibile perché avrebbe avuto un costo eccessivo e fu la fine. Il pubblico da Astrolabio si aspettava saggistica».
AstrolabioMi piacerebbe conoscere di più su questa storia. «La storia è ormai nota da qui in poi e c’è anche un libro di qualche anno fa che ne parla, ma non ricordo il titolo (forse il riferimento è a Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli, ndr): mio padre pagò i diritti, la traduzione e la pubblicazione, ma non rientrò nemmeno di un quarto dei costi sostenuti. La Compagnia dell’Anello, la prima parte de Il Signore degli Anelli, venne pubblicata, ma non ebbe un grande successo. In realtà, mio padre aveva fatto già tradurre anche la seconda parte e avevano anche ricevuto le prime bozze di stampa, ma fu tutto inviato al macero. Gli andò male: poche centinaia di copie vendute, nonostante il libro fosse un best seller mondiale e ormai un oggetto di culto. Per recuperare un po’ di soldi, qualche anno dopo fu costretto a cederlo a Rusconi».
Mi sembra un po’ reticente sulla vicenda. Se ha qualche altro dettaglio, ora potrebbe rivelarcelo? «No, nessuna reticenza. Soltanto che credo che voi conosciate la storia meglio di me! E poi, non ho ancora finito di svuotare il baule di mio padre. Le prometto che se troverò qualcosa, vi farò sapere».
Va Bene. Grazie per la pazienza e l’attenzione.

 

ARTICOLI PRECEDENTI
– Leggi l’articolo Edizione Astrolabio, ecco la tabella dei nomi

.

I Racconti Incompiuti: intervista agli artisti

Unfinished TalesGiovedì 1 ottobre è stata ufficialmente pubblicata in inglese la nuova edizione dei Racconti Incompiuti di Númenor e della Terra di Mezzo, a segnare il quarantesimo anniversario della sua prima apparizione nel 1980 per la George Allen & Unwin. È la prima volta che il libro viene pubblicato in edizione illustrata, e l’editrice HarperCollins ha ingaggiato per l’occasione tre dei più grandi nomi nel campo artistico tolkieniano. Ted Nasmith, Alan Lee e John Howe hanno già illustrato opere di Tolkien fra cui Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion e, ovviamente, molti calendari. Trovarli tutti e tre in questa nuova edizione dei Racconti Incompiuti è un regalo speciale e le loro nuove illustrazioni sono meravigliose. Spero vi piacciano le mie conversazioni (leggermente rivedute per questioni di chiarezza) con questi artisti, che hanno tutti trovato il tempo per chiacchierare con me nonostante i loro impegni.

Ted Nasmith

Ted NasmithCiao Ted, e benvenuto! Hai già dipinto scene dai Racconti Incompiuti per la HarperCollins – com’è stato rivederli, e su cosa non vedevi l’ora di lavorare stavolta?
«Tornare su questo libro è stato davvero d’ispirazione. Già solo rileggere alcuni estratti dei Racconti ha riportato alla mia immaginazione loro la bellezza, profondità e ricchezza. Avevo da tempo raccolto schizzi e prove di colore nell’eventualità di rivisitarlo, e la notizia che avrei lavorato a parte delle sue illustrazioni è stata una bellissima sorpresa. Tra i vari racconti presenti nel libro, Aldarion ed Erendis si è sempre distinto, essendo l’unico blocco narrativo completo dei racconti di Númenor. Tuttavia le avventure di Tuor, nel complesso delle loro descrizioni, come pure i fenomenali dettagli rivelati nei Narn, mi hanno rapito più di tutte assieme alla deliziosa storia di Galadriel e Celeborn, che pure è tra le prime della lista».

Qual è stato il processo che ti ha portato a scegliere quali scene illustrare?
«Il mio editor di HarperCollins ha creato una lista di illustrazioni da soggetti che gli avevo fornito settimane prima, e sui quali avevo lavorato intensamente, in modo da rivederne alcuni e aggiungerne di nuovi. Si tratta di un blocco di schizzi che misi insieme attorno al 2000, quando fu proposta per la prima volta una versione illustrata dei Racconti Incompiuti».

Illustrare le scene dai Racconti Incompiuti e da Il Silmarillion presenta sfide diverse rispetto ai racconti di Tolkien più famosi?
«Da molto tempo ero interessato a raffigurare scene dal Quenta Silmarillion o dai Racconti Incompiuti, tanto da aggiungerne un paio in ogni nuovo calendario. Ho notato che c’è bisogno di un approccio ad hoc per il tono del libro: le opere non devono risultare stilisticamente troppo diverse da quelle ne Il Signore degli Anelli o Lo Hobbit, ma il contenuto tende a influenzare le immagini in modo da riflettere con autenticità un’estetica più sobria e tragica. È stato altrettanto importante studiare le immagini classiche di quel che ritengo appartenga al mondo delle fate, in tutta la loro bellezza».

Ci sono state scene che hanno rappresentato sfide particolari nella rappresentazione o nella bozza, sulle quali hai dovuto lavorare?
Unfinished Tales 40th anniversary«All’inizio della mia carriera editoriale dipinsi “Il Giuramento di Cirion ed Eorl”, ma non fu il successo che speravo. Ho accettato la sfida con grande serietà quando mi è stato chiesto di rifarlo e ho lavorato in particolare su alcuni elementi in modo tale che la resa fosse più fedele all’idea che avevo della scena. È stato fondamentale spostare la prospettiva in modo da guardare verso ovest, e poi ho affrontato il problema di come ritrarre gli uomini riuniti, con al centro Cirion le cui vesti venivano investite dal sole d’occidente come se “fossero in fiamme”. È stato complicato fare i conti con la geografia, poiché sapevo che le montagne viste a sud-ovest dovevano essere “meno bianche”, dato che era estate, e il loro impiego è stata un’occasione per aggiungere un po’ di epicità, per rendere più teatrale un momento piuttosto statico, ma comunque di interesse chiave per la storia dei Reami di Gondor e Rohan. Ho cambiato i capelli di Eorl quattro volte, stabilendo infine che il sole doveva riflettersi sui suoi lunghi capelli biondi, per farlo corrispondere all’epiteto “il Giovane”».

Hai dichiarato più volte che ti sarebbe piaciuto creare un artbook. Ci sono stati progressi per quanto riguarda quest’idea?
«Giace ancora nel reame delle possibilità, ma non ho alcun piano concreto al momento. In ogni caso, sto considerando quale sarebbe l’approccio migliore in modo da essere in regola con gli aspetti legali della pubblicazione di materiale coperto da copyright».

Hai di fatto avuto modo di tenere una corrispondenza con J.R.R. Tolkien quando cominciasti. Com’è stato, e come questa cosa ha influenzato la tua arte?
«Ha motivato un giovane artista adolescente e illustratore in erba a continuare la sua ricerca per l’affermazione di un crescente corpus illustrativo che fosse degno del fantasy ricco e profondamente stimolante che il professor Tolkien ci ha donato».

La Barriera e il Castello Nero - di Ted NasmithCon quali mezzi ti piace lavorare di più? Usi mai computer o strumenti digitali?
«Uso un po’ di software nelle prime fasi, in modo da provare le variazioni di tono e fare esperimenti, per lo più. Non mi sono mai davvero interessato alla creazione di opere completamente in digitale. Il mio strumento principale per i dipinti continua a essere la tempera, per quanto i lavori per Il Trono di Spade (edizione deluxe da collezione) mi abbiano riportato alle matite, in particolar modo all’uso della grafite su carta grigia risaltata da punti di luce bianchi».

Ti piacerebbe parlare di altri progetti che hai concluso di recente, o sui quali stai ancora lavorando?
«Tra la primavera e l’estate ho consegnato tre commissioni private. La prima è un’immagine dell’Ithilien, con Samwise che cucina conigli accanto a uno stagnetto; la seconda è la copertina per un romanzo fantasy-epico intitolato A Seat for the Rabble (Un Seggio per la Plebaglia), raffigurante un enorme tempio in fiamme che si profila minacciosamente su un villaggio medievale dal quale fugge una ragazza; la terza è stata una copertina per un CD e un vinile, con illustrazione di un paesaggio marino con scogli neri, mare grigio, onde spumose e un debole sole, e un gruppo di maghi ammantati di bianco in conclave accanto all’acqua. Al momento sto lavorando a una commissione dal Silmarillion raffigurante Glorfindel e il Balrog nella scena sul Passo delle Aquile».

Avevi già dipinto la scena intitolata “Tuor raggiunge la Città Nascosta di Gondolin” per il calendario della HarperCollins del 1996, ma per questo libro hai ridipinto la scena.
«Mentre rileggevo un estratto dai Racconti Incompiuti, in cui Tolkien scrive che Tuor “poté vedere Gondolin tra la bianca neve”, e raccoglievo le idee per lavorare, sono stato colpito dalla parola “neve”. “Ma certo che è inverno”, ho pensato, eppure, a basarsi sul testo del Silmarillion non si riesce ad apprezzare questo dettaglio. Ovviamente Tuor e Voronwë passano accanto alle ghiacciate Pozze di Ivrin durante il loro viaggio verso Gondolin… Consideratemi un artista felice per aver avuto modo di correggere quest’aspetto con l’illustrazione di questi Racconti Incompiuti, e usare uno schema di colori invernale per offrire una magica visione della città condannata. E naturalmente ho prestato molta più attenzione alla descrizione delle porte e delle personalità lì riunite! Tutta questa situazione è stata molto complessa da risolvere. Rendere giustizia a quel raduno avrebbe richiesto un dipinto a parte, davvero (le Sette Porte sono un invito per un artista!), ma per questa illustrazione c’era bisogno di scorgerne almeno una parte. Quindi ecco Echtelion, con il suo cavallo e scudiero, e il Capitano della Guardia, Elemmakil, accanto a Voronwë e Tuor».

Alan Lee

Alan LeeCiao Alan, grazie per aver trovato un po’ di tempo per chattare. Hai trascorso decenni a illustrare i libri di Tolkien. Cosa ti ha attirato nella Terra di Mezzo, di preciso?
«Storie e racconti geniali, il cui argomento è quello che più mi attrae – il mito e il romanzo epico – ambientati in una terra che è sia vera che immaginaria e meravigliosamente evocata. Una delle cose migliori per un illustratore, però, è che la descrizione dei luoghi e dei personaggi è piuttosto sommaria e lascia ampio spazio all’immaginazione dei lettori».

Hai un bel rapporto con la HarperCollins e la Tolkien Estate, avendo illustrato Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli e i tre “Grandi Racconti” dei giorni degli Eldar. Christopher, soprattutto, apprezzava la tua visione della Terra di Mezzo.
«La cosa più bella che Christopher ha detto circa le mie interpretazioni è stata che esse non cambiavano la visione di suo padre della Terra di Mezzo, ma la ingrandivano».

Qual è stato il processo che ti ha portato a scegliere quali scene illustrare?
«Dipende dal processo di stampa. Se le tavole a colori sono stampate su carta artistica, allora possono essere collocate solo in posti particolari, a causa della rilegatura, ma se sono stampati sulla stessa carta su cui è stampato il testo, possono trovarsi ovunque. Quindi si tratta di una combinazione tra questi fattori e il punto in cui starebbe meglio un’illustrazione. Per me la cosa principale è il rispetto del testo, senza entrare in competizione con esso – decidere una scena e provare a creare un’atmosfera. Mi concentro più sui paesaggi e i luoghi che sui personaggi e l’azione».

I Figli di Húrin - copertina di Alan LeeCi sono sei tuoi dipinti in questa nuova edizione dei Racconti Incompiuti – Quanti sono nuovi?
«Ci sono sei illustrazioni a colori all’interno e una per la copertina, inclusa come stampa nell’edizione deluxe. Ho anche lavorato a tre piccole vignette a matita. Una delle illustrazioni nel libro è stata fatta per I Figli di Hurin nel 2007, ma non era mai stata usata».

A cosa ti sei ispirato per lo stile della nave nell’illustrazione che compare sulla sovraccoperta della nuova edizione dei Racconti Incompiuti?
«Nel testo ci sono pochi dettagli sull’aspetto delle navi: sono alte, e con molti alberi. Ho pensato che dovessero avere la vela latina, e che fossero riccamente decorate, e ho provato a introdurre alcuni elementi di connessione con le navi romane ed egiziane, in modo da creare un miscuglio di varie influenze senza essere la copia di quanto ci ha tramandato l’archeologia».

Quale scena non vedevi l’ora di illustrare?
«Sono stato piuttosto colpito dalla storia di Amroth e Nimrodel».

Ci sono state scene che hanno rappresentato sfide particolari nella rappresentazione o nella bozza, sulle quali hai dovuto lavorare?
«La battaglia ai Guadi dell’Isen è stata un soggetto importante – forse meglio gestita come paesaggio – e l’ho dipinta in grande scala, poiché desideravo dipingere i personaggi in una dimensione a me congeniale. Ho finito col passarci una marea di tempo».

Ti piacerebbe parlare di altri progetti che hai concluso di recente?
«C’è una bellissima lettura de Lo Hobbit a opera di Andy Serkis che è stata pubblicata come audiolibro, e ho lavorato alla sua copertina».

John Howe

Artisti: John HoweCiao John, grazie per la partecipazione. Noto che hai creato sei nuove tavole per la nuova edizione illustrata dei Racconti Incompiuti. Qual è stato il processo per scegliere quale scena illustrare?
«Dividere le Tre Ere tra i tre illustratori dev’essere stato un bel rompicapo editoriale da risolvere! Ognuno di noi ha ricevuto la lista di potenziali soggetti e ne abbiamo forniti a nostra volta, e l’editore ha trovato la soluzione migliore. (Non vedevo l’ora di fare gli Stregoni Blu, per esempio, ma Ted ha avuto la meglio.) Parimenti, ero impaziente di lavorare a una scena marina, considerando tutte le bellissime coste della Nuova Zelanda che avevo scalato nei mesi precedenti. Ho scelto una scena che mi ha permesso di usare le foto che avevo scattato a Wistman’s Wood, nel Devon. Devo confessare che mi sono davvero tolto degli sfizi per almeno metà delle illustrazioni. Per le altre tre, visto che le scelte si assottigliavano, si è davvero solo trattato di analisi del testo e di mandare le bozze all’editore».

Hai una scena preferita che non vedevi l’ora di illustrare?
«Farò comunque quegli Stregoni Blu, credo. Ci sono così tante scene nei Racconti Incompiuti che mi piacerebbe ancora illustrare».

Nirnaeth Arnoediad - John HoweCi sono state scene che hanno rappresentato sfide particolari nella rappresentazione o nella bozza, sulle quali hai dovuto lavorare?
«L’ampio raggio della Terra di Mezzo, combinato al relativamente piccolo numero di illustrazioni, ha proposto una larga scelta di soggetti e metodi di lavorazione. Mi è piaciuto davvero dipingere la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, anche se, a dir la verità, potrei tornarci su e rifarla un’altra dozzina di volte, scegliendo angolazioni diverse o soffermandomi sui vari episodi. Suppongo che la sfida più grande consista nello scremare la moltitudine di opzioni e sceglierne solo una.
Visualizzare Tolkien, credo sinceramente, è un processo non dissimile dalla trascrizione del suo mondo, col vantaggio di potersi appoggiare ai suoi testi per lavorare. Significa illustrare tra le righe, spingersi un po’ più a fondo, cercare l’attendibilità caratteristica del suo lavoro, con lo svantaggio di non lasciare sempre tutto all’immaginazione. Detto ciò, ogni illustrazione dovrebbe essere un invito, che permetta allo spettatore di portare la sua esperienza personale, sia essa in relazione alla lettura che a un più ampio contesto, a completare il quadro».

Ti sei immerso nella Terra di Mezzo per la maggior parte degli ultimi due decenni (o anche più). Su che altro hai lavorato per evitare di scoppiare?
«Sono poche le cose a cui doversi attenere per coerenza nelle illustrazioni, e di conseguenza i personaggi “consolidati” e le scene sono soggette di continuo a nuove interpretazioni. Non esiste una versione “ufficiale”, grazie al cielo!

Artisti: John HoweI lavori su Tolkien hanno sempre presentato delle sfide. La ricchezza e la complessità dei suoi riferimenti spingono un illustratore attento non solo lontano nelle indagini storiche, ma anche nel profondo, in quello spazio interiore in cui risiede l’ispirazione. Ho sempre affermato che ispirazione e informazione vanno mano nella mano, per quanto possano prendere strade diverse e richiedere un diverso tipo d’impegno. L’informazione è una sorta di ricerca eterna per tutto. Qualsiasi creatore di immagini è aperto al mondo, perché è lì che le immagini risiedono. L’ispirazione è quel che nasce quando spegni ogni pensiero cosciente e dai modo all’arte di affluire. È già lì, ovviamente, assieme a un numero infinito di possibilità, solo che la tua matita non l’ha ancora scoperta.
Ho fatto molte ricerche per individuare con precisione le “fonti” di Tolkien, come se potessi davvero trovare su mappa ogni singola cosa di cui abbia scritto. Per quanto sia tentato di collegare ogni cosa a un posto e una data (e i riferimenti a luoghi specifici nella vita di Tolkien sono moltissimi, basti pensare alle sue escursioni in Svizzera), e per quanto non sia abbastanza, credo che sia da considerarsi un omaggio indiretto alla coerenza e all’incredibile accuratezza della costruzione del suo mondo fantasy. Tutto quello che descrive sembra così vero che dev’essere per forza basato su esperienze personali. Tolkien riesce a coinvolgerci emotivamente, non intellettualmente. Raramente descrive, tranne alcune eccezioni degne di nota, i tratti distintivi di uno scenario o di una città. Ci fornisce, invece, una finestra sulle menti dei suoi protagonisti, e descrive le loro sensazioni davanti a esse.

Allo stesso modo, voler ricollegare tutto a una mappa o alle sue peregrinazioni equivale a rigettare la ricerca perpetua di Tolkien per archetipi, caratteristiche, creature e personaggi che incarnino qualità che vanno oltre quelle del singolo e che ci indirizzano verso un’esperienza collettiva. Tolkien è una via per l’universalità attraverso l’aneddoto.

Questo saggio utilizzo dei riferimenti lascia molta interpretazione al lettore, e un ampio terreno all’illustratore in cui vagare a piacimento. In queste circostanze e in tale stimolante compagnia è difficile stufarsi, e stancarsi dell’universo di Tolkien significherebbe mostrare i propri limiti, non un’intrinseca monotonia del materiale…

John HoweLa cosa migliore dell’ispirazione è che se da una parte richiede un contesto per sbocciare, dall’altra possiede poca logica. Tolkien ha inventato linguaggi che sono una dilettevole combinazione di rigore filologico e coerenza accademica e per le parole che più gli piacevano ha piegato le regole, pur di farvele entrare. Creare un’immagine mentale segue lo stesso procedimento di rigida prigionia e puro caso. C’è molto della Nuova Zelanda nelle mie opere, da quando vi ho trascorso del tempo, così come c’è molto della Svizzera. Altri elementi al di fuori della mia esperienza personale sono il risultato di letture casuali sulla rete. Ho imparato che se c’è qualcosa che mi piace a livello visivo, scavando più a fondo troverò molti altri livelli d’interesse storici e culturali. Sono felice di essere un illustratore che incoraggia questo tipo di ricerca visiva».

Hai collaborato per molto tempo a vari film e con team televisivi. Credi che quelle esperienze abbiano influenzato il tuo approccio all’illustrazione della Terra di Mezzo?
«Film e progetti cinematografici mi hanno di sicuro lasciato la passione per i paesaggi! Inoltre, dato che molti degli aspetti dell’illustrazione completa – allestimento, luce, costumi, accessori, architettura, armature, regia degli attori, trucco e dozzine di altre cose, tutte le cose che si danno per scontate come parte dell’illustrazione – sono assegnati a più divisioni come compiti separati, e ogni lavoro di design di un film risulta alla fine una sorta di vacanza-studio pagata, dove ci si aspetta tu ingrandisca i tuoi orizzonti, ricerchi nuove idee, e fronteggi le sfide con originalità e pensiero trasversale. È un qualcosa che arricchisce, ed è intensamente cooperativo. L’illustrazione è più simile a una caccia solitaria. È meraviglioso avere l’opportunità di passare da una cosa all’altra».

Con quali mezzi ti piace lavorare di più? Usi mai computer o strumenti digitali?
«Preferisco gli inchiostri e gli acquerelli, ma faccio anche una buona dose di lavori in digitale. La maggior parte del lavoro negli ampi progetti corali, come nei film, è in digitale. Per contro, preferisco i metodi più classici quando si tratta di illustrare».

UMAN · John Howe Artist Series The Witch King StatueTi piacerebbe parlare di altri progetti che hai concluso di recente, o sui quali stai ancora lavorando?
«Credo tu ti sia perso la statua del Re Stregone!!! Ho lavorato con una compagnia di Beijing per produrre una serie di statuette da collezione a tema tolkieniano dalle mie opere. La prima statua è stata messa online in preordine un mese fa circa: un’edizione limitata di 300 copie, è andata esaurita letteralmente in un secondo. (Devono esserci state un sacco di persone con le dita pronte sul pulsante “invia”.) Stiamo ora lavorando sulla seconda e sulla terza.
Ho anche iniziato una collaborazione assai eccitante e stimolante con Jaquet-Droz, una compagnia di orologi del posto. Tutto incredibilmente miniaturizzato e preciso, è un altro pianeta. Lavorare su temi fantasy con i limiti dell’orologeria è davvero appagante.
Inoltre, sono stato molto attivo nella regione dell’Alsazia, in Francia, per un programma di promozione del loro ricco patrimonio culturale di castelli e rovine (ci sono 500 siti in Alsazia). Implica uno sviluppo crossmediale, nuove app e trovare un modo per rendere la visita di quei luoghi eccitante e istruttiva. Sono stato coinvolto anche in alcuni progetti di urbanistica e architettura, sia qui che all’estero.
Sto anche lavorando su un paio di libri, quindi per il prossimo anno avrò molto di cui scrivere e dipingere».

 

Vorrei ringraziare ancora tutti e tre gli artisti per il loro tempo e per l’impegno profuso nel rispondere ad alcune domande sul loro lavoro. Se siete interessati alla nuova edizione, sotto ci sono alcune informazioni sulle edizioni della HarperCollins e un paio di link dai quali ordinare. La maggior parte delle librerie dovrebbe averle, e le edizioni per le altre nazioni dovrebbero arrivare presto.

(questo articolo è la traduzione di quello originale in inglese pubblicato sul sito web Tolkien Guide e firmato da Jeremy Edmonds, che ringraziamo.
La traduzione in italiano è di Nunzia Paola Iandiorio)

 

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Lucca Changes: l’AIST a colloquio con Alan Lee
– Leggi l’articolo Il nuovo artbook di Alan Lee, dedicato a Lo Hobbit
– Leggi l’articolo Tre deluxe e tre cover inglesi per J.R.R. Tolkien
– Leggi l’articolo Quanti libri su J.R.R. Tolkien questo autunno!

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della HarperCollins
– Vai al sito Tolkien Guide

 

.

Fatica: «Tolkien come Kipling e Shakespeare»

Tolkien è un classico della letteratura del Novecento e la nuova traduzione lo dimostra. Il lavoro di Ottavio Fatica, che ha ritradotto Il Signore degli Anelli per Bompiani, di cui è appena uscito il primo volume, mette in evidenza tutta la forza della narrazione dello scrittore inglese. È il traduttore stesso a rivelarlo in un’intervista su Il Venerdì di Repubblica.

L’intervista su Il Venerdì

Cover Venerdì di RepubblicaIn due pagine nella sezione speciale dedicata ai libri, a recensioni e interviste, si svolgono una decina di domande al traduttore di autori del livello di Rudyard Kipling, Herman Melville, Jack London, Robert Louis Stevenson e Joseph Conrad, ai quali, dato il contesto, è il caso di aggiungere Wystan Hugh Auden, che conosceva personalmente Tolkien per cui nutriva grande ammirazione al punto di farsene entusiasta sponsor nei confronti di lettori ed editori statunitensi. Nell’intervista si scopre che anche per un traduttore doc come Fatica tradurre Tolkien è stato difficile: «È un lavoro per masochisti». «Tolkien è un ottimo scrittore anglofono del Novecento – rivela il traduttore – un conto è amarlo, un altro leggerlo correttamente. Sul piano linguistico lo si conosce ancora troppo poco. Tolkien è capace di antichizzare la lingua in modi medioevali o anche antecedenti». Qui Fatica cita proprio l’italiano del Duecento e i poemi cavallereschi di Ariosto e Tasso: «c’è qualcosa di infantile e di violento che è proprio di quel filone, anche se in lui la resa è più nordica», dice riferendosi alle epiche germaniche ancora più antiche. Continuando la lettura si scopre come l’autore del Signore degli Anelli quando si esalta ricorda maestri come Kipling, Melville e Shakespeare. «Quando si esalta, Tolkien somiglia a Kipling – dice ancora Fatica – All’improvviso si mette a scrivere in versi. Ho anche pensato che Il ritorno di Puck di Kipling possa averlo influenzato direttamente. Si infiamma e scarica versi, per altro in perfetti endecasillabi. E poi in lui ho ritrovato anche Melville». La Compagnia dell'Anello - Tolkien - Nuova traduzione, FaticaIl traduttore spiega come l’inizio di Moby Dick sia nei toni molto simile a quello de Il Signore degli Anelli, con situazioni molto comiche. «Poi l’avventura decolla e… in certi momenti diventa shakespeariano». L’intervista continua affrontando il tema dei registri linguistici. E qui, come da noi più volte evidenziato, il traduttore spiega come Tolkien sia sempre attento a usare espressioni coerenti al rango di chi parla: «È un problema nel problema, spesso antichizza parole e toni». Giunto a questo punto Fatica si lascia andare sul suo lavoro di traduzione rivelando appunto la vera e propria lotta avuta con il testo per renderlo al meglio. Ma così emerge un’altra delle qualità nascoste dello scrittore inglese: «Tolkien non esce mai dalle rotaie, è solidissimo. Ogni capitolo è compiuto, non deraglia mai. Credo che questa sia la sua vera forza. Non è per niente sgangherato, come lo è stato tanta letteratura fantasy. Tolkien è davvero un’altra cosa».

Le polemiche

Ottavio FaticaAlla fine dell’intervista è inevitabile un accenno alle polemiche scatenate intorno alla sua traduzione. Polemiche che sono esplose addirittura un anno prima della pubblicazione del volume, con accuse preventive, due convegni di cui uno in Senato a Roma, interventi sui quotidiani da parte della casa editrice e anche delle querele lanciate dalla traduttrice della precedente versione, Vittoria Alliata di Villafranca. Il tutto prima ancora di aver potuto leggere una sola riga della nuova traduzione. Con l’uscita poi de La Compagnia dell’Anello, si sono aggiunte anche le lamentele di moltissimi lettori e appassionati di Tolkien, affezionati soprattutto alla vecchia nomenclatura. In alcuni casi a ragione, le critiche si sono concentrate su quei nomi cui i lettori erano abituati da 50 anni e che trovano la comprensione dello stesso traduttore. Vorrei che anche il fan più tradizionalista possa dire: «si capisce, è ben tradotta, il libro scorre. Anche se conserva e ama la sua vecchia versione, perché questa qui dovrebbe continuare a dispiacergli?».

Redazione

ARTICOLI PRECEDENTI:

– Leggi l’articolo La versione di Fatica: contributo per una messa a fuoco
– Leggi l’articolo Ancora uno sforzo se volete essere tolkieniani
– Leggi l’articolo Esce oggi la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello
– Leggi l’articolo Bompiani: le novità tolkieniane ottobre 2019
– Leggi l’articolo La traduzione della Compagnia a ottobre
– Leggi l’articolo Ritradurre Il Signore degli Anelli: l’intervista

LINK ESTERNI:
– Vai al sito di L’editore Bompiani: «Nessuna lettura ideologica di J.R.R. Tolkien»

.

Esclusiva AIST: intervista a Cate Blanchett/Galadriel

Roma: red carpet ad AuditoriumCome sempre per amore dei suoi lettori l’AIST coglie ogni occasione per incontrare i protagonisti delle opere derivate o legate a J.R.R. Tolkien, soprattutto quando si tratta degli attori delle due trilogie di Peter Jackson! Questa volta il 19 ottobre abbiamo seguito la bellissima Cate Blanchett alla Festa del Cinema di Roma 2018 e siamo riusciti lungo l’arco della giornata a strapparle alcune risposte dedicate alla sua esperienza con Tolkien e le riprese dei film. Nella seconda giornata della Festa del Cinema, l’attrice premio oscar si è resa protagonista di due incontri.
Cate BlanchettIl primo è stato la conferenza stampa del film Il mistero della casa del tempo, regia di Eli Roth, in cui è in coppia con l’attore Jack Black. E dopo il red carpet, la sua giornata si è conclusa con l’incontro con il pubblico. L’attrice due volte premio Oscar è stata salutata con particolare calore da un pubblico giovane e per lo più femminile. Sorridente e con un’ironia mai sopra le righe e sempre in equilibrio con la sua eleganza, ha parlato di cinque dei film da lei interpretati: Bandits (2001), Diario di uno scandalo (2006), Io non sono qui (2007), Il curioso caso di Benjamin Button (2008), Carol (2015).

Due passioni: la magia e gli horror

Cate BlanchettIl mistero della casa del tempo racconta l’avventura, magica e misteriosa, di Lewis, un ragazzino di 10 anni che si trasferisce a vivere nella casa dell’eccentrico zio Jonathan, una casa che nasconde un mondo segreto ricco di magie, streghe e misteri. Presto, Lewis scoprirà che lo zio e la sua migliore amica (Mrs Zimmerman interpretata da lei) sono due potenti maghi che lo coinvolgeranno in una missione segreta: scoprire l’origine del ticchettio di un orologio nascosto da qualche parte nei muri di casa. Il fantasy thriller per famiglie è tratto dal romanzo per ragazzi del 1973 La pendola magica (in italiano anche La pendola stregata) di John Bellairs e uscirà nelle sale italiane dal 31 ottobre.
«Mi è piaciuta molto la sceneggiatura – ha detto Blanchett – perché il messaggio per i ragazzi è molto positivo. Non vuole fare sermoni, ma trasmette il messaggio che non devi farti sopraffare dalle etichette che ti mettono addosso, puoi reagire». A questo punto l’attrice australiana ha rivelato una passione segreta: sin da quando era bambina ama la «magia». Con voce e costumi di Mrs Zimmerman, la strega buona ha ripetuto che «la magia è dentro di noi». Interrogata sulla sua idea a riguardo, è sembrata sincera nel crederci con tutte le sue forze, naturali e soprannaturali: «Da sempre, dall’epoca degli sciamani, la magia ha a che fare con la trasformazione. Vuol dire cambiare il piombo in oro, non restare al proprio posto, dove siamo, ma sentire che possiamo evolvere, reagire, non lasciarci identificare, etichettare. Un messaggio gentile e importante. Per i ragazzi, per noi tutti».
Cate Blanchett«Il mistero della casa del tempo nasce dal desiderio di tornare ai tempi d’oro della casa di produzione Amblin, che ha realizzato tanti film per bambini e ragazzi che trasmettevano un senso di reale pericolo, con vera suspense. Pensi a titoli ormai classici come Poltergeist, Gremlins e ovviamente E.T. In anni recenti, l’idea del film per bambini è stata spesso “igienizzata”, semplificata. Allora, hanno chiamato come regista Eli Roth, che è un maestro dell’horror. Eli è regista e attore, una persona molto brillante e creativa. È figlio di uno psicoanalista freudiano: non stupisce che si sia dato all’horror! Ci siamo divertiti parecchio». L’attrice passa poi a raccontare le scelte che l’hanno portata ad accettare il ruolo della coprotagonista del film: «Ero ossessionata dall’horror, e lo sono ancora. Avrei potuto guardare film horror ogni giorno. Per questo ero interessata all’idea di lavorare con Eli Roth, e il fatto che il film contenesse specialmente contenuti per ragazzi mi attraeva ancora di più. Attraverso i miei figli vivo le loro paure, e questo mi ha aiutato a sentirmi ancor più parte del progetto».
A chi le ha chiesto come si sia preparata per interpretare l’eccentrica maga e se abbia attinto alla sua esperienza di madre adottiva (nel film il piccolo protagonista viene adottato da lei e dallo zio), l’attrice ha sorpreso tutti rivelando: Cate Blanchett«Contrariamente a quanto si crede, come attrice non penso a me quando creo un personaggio. Io sono annoiata da me stessa, non voglio portare la mia esperienza sullo schermo. Voglio portare l’esperienza di altri». E sulla reazione agli insuccessi, l’attrice ha regalato una splendida lezione: «Quando arrivi alla mia età e sei così fortunato da avere dei premi, capisci che ciò che ti rende indomito sono i fallimenti, non i successi. Non impari dal successo, è il fallimento che ti indica i varchi, le strade nuove da seguire, perché la vera sfida è rafforzarti, imparare ad avere coraggio, ma non perdere il cuore».

L’intervista

Cate BlanchettDopo 50 film e 20 opere teatrali, l’attrice australiana si sente ancora una persona fortunata. «Non avrei mai pensato di fare cinema, recitavo in teatro ed ero contenta recitando a Sydney nel Australian National Theatre, ma mi dicevano che dovevo sbrigarmi, a 25 anni, se volevo fare un film, perché ormai ero quasi vecchia». L’attrice ha raggiunto un buon successo di critica e pubblico nel 1998 con Elizabeth con cui ha ottenuto il Golden Globe come migliore attrice drammatica e una candidatura all’Oscar.
Come è riuscita a ottenere la parte nella trilogia del Signore degli Anelli?
«Tutto è iniziato un po’ per caso. La mia agenzia aveva fatto domanda per la parte di Galadriel e alla fine fui scelta come miglior candidata per quel ruolo. Però, Peter mi ha confessato che aveva in mente il mio nome come la più adatta per quella parte. Lui e Philippa Boynes avevano fatto una “lista dei desideri” per tutti protagonisti del film e per Galadriel avevano scritto il mio nome! In questo ha aiutato anche il fatto che voleva attori australiani e neozelandesi per molte delle parti, non solo i ruoli secondari ma anche alcuni dei principali».
Cate BlanchettÈ vero che lei era un’appassionata dell’opera prima ancora che partecipasse al casting?
«Devo confessare che non avevo letto il libro, ma conoscevo la storia. Soprattutto, io amavo le opere di Peter Jackson. I film che aveva realizzato erano tutta roba pazza di horror scioccante. Quando ho saputo che lui e la moglie Fran avevano aperto il casting mi sono buttata a capofitto in quell’opportunità. Perché Peter aveva qualcosa, come dire, un senso raffinato del brutto che era così appropriato per Tolkien, era così fatato e giovanile come regista che lo rendeva perfetto per quel grandioso progetto di realizzare tre film dai libri dello scrittore».
Cate BlanchettQuale sensazione ha avuto vestendo i panni di Galadriel?
«Quando ho terminato il prima sessione di riprese del Signore degli Anelli, ho pensato per la prima volta: “Wow, è incredibile, che esperienza stupenda!”. Sapevo ovviamente che le riprese del film sarebbero durate per altri 18 mesi e non avevo alcuna percezione di quel che sarebbe venuto dopo con l’uscita del film e il suo enorme successo, gli Oscar e la promozione in giro per il mondo. Prima del Signore degli Anelli non avevo mai fatto nulla con il blu screen, le protesi o cose simile. È stato come entrare in un videogioco per me. Era davvero un altro mondo. Ma, ad essere onesti, in fondo l’ho fatto soltanto per avere le orecchie a punta!».
Dica la verità, sta scherzando vero?
«Non scherzo! Una parte delle ragioni per cui ho interpretato il ruolo di Galadriel era proprio il fatto di poter indossare le orecchie a punta… ho sempre voluto avere le orecchie a punta. Pensavo che avrebbero funzionato davvero bene con la mia testa nuda! Ed è stato così, al punto che dopo Il Signore degli Anelli ho tenuto le mie orecchie da elfo e le ho fatte ricoprire di bronzo come un trofeo!».
Cate BlanchettÈ stato difficile immedesimarsi in un personaggio irreale come un elfo immortale?
«In un certo senso sì. Interpretare qualcuno di non umano è inizialmente sconcertante: non ci sono appigli per costruire il personaggio. Ma in sostanza i problemi tecnici che un attore deve affrontare nel ritrarre persone reali hanno qualcosa in comune con il ruolo di Galadriel: in fondo, si tratta di un personaggio con le sue paure e le sue debolezze. Dall’altra parte, le legioni degli appassionati del libro mi hanno aiutato, perché non solo sentono di sapere come Galadriel sia in quanto elfa, ma l’hanno fatta propria. Alla fine, è il modo naturale in cui lo fai in quel momento e penso che devi solo fare un respiro profondo e andare avanti. Per me è stato così!».
Ecco, il rapporto con i fan: interpretare Galadriel deve essere stato un’arma a doppio taglio. Alec Guinness odiava essere riconosciuto per strada dalla gente solo per l’attore che aveva interpretato Obi-Wan Kenobi…
«Sai, non ci ho mai pensato molto, soprattutto all’inizio. Volevo lavorare con Peter. Il ruolo era probabilmente secondario e le conseguenze dei film erano fuori dalla mia immaginazione. Riguardo ad Alec Guinness, ero una di quelle bambine per le quali Star Wars era la porta d’ingresso nel suo straordinario universo fatto di libri e film. In realtà, la mia notorietà oscilla molto. Dipende dal giorno. Posso incontrare una studentessa al supermercato che ha appena visto Il Signore degli Anelli e penso: “Wow, ho fatto parte di una favola epica che ha fatto conoscere a questa ragazza il romanzo di Tolkien!”. Quanto è importante? E quanto gratificante. D’altra parte, c’è l’intrusione dei media: a volte sei costretta a rispondere del fatto che per andare a una riunione hai preso un autobus! C’è stato un po’ di scalpore nei media su questo fatto – che ho preso un autobus! E penso: Dio quanto è stupido il mio lavoro».
Cate BlanchettMa ora che la polvere si è calmata, come pensa che la trilogia di Jackson si trovi nella storia del cinema?
«La polvere si deposita mai in questo mezzo? O, più precisamente, dovrebbe mai depositarsi? Non ho fretta perché si depositi su o attorno a me… Ma la trilogia è, anche dopo alcuni anni, un risultato notevolmente singolare. Il Signore degli Anelli era basato su un classico della letteratura, aveva un cast straordinario con persone come Ian McKellen e Christopher Lee e ha vinto 17 Oscar. È più difficile da respingere. In ogni caso, io non sono una di quelle persone che pensa che ogni suo lavoro rimodellerà l’universo. Faccio solo quello che mi piace fare. E finora sono stata fortunata».
Le riprese del Signore degli Anelli sono state notoriamente piene di episodi divertenti, con tutto il tempo passato in Nuova Zelanda…
«Le riprese del Signore degli Anelli di Peter Jackson in Nuova Zelanda sono state per molte persone un’esperienza totalizzante. Per me è stato molto elettrizzante lavorare, come ho detto, con Peter. Le riprese sono durate quasi un anno e mezzo [dall’11 ottobre 1999 al 22 dicembre 2000, ndr] e solo a giugno hanno iniziato a girare scene per il set di Lothlórien, in studio e per le esterne per la sequenza di addio della Compagnia. Io ho quindi girato tutto questo in tre settimane, circa mille anni fa… Beh, gli elfi vivono per molte migliaia di anni quindi probabilmente non è così lontano dalla verità! Ma è stata un’esperienza surreale per me perché giravano da così tanto tempo e avevano ancora molto lavoro da fare, mentre io sono entrata e uscita dal film molto velocemente».
Cate BlanchettDa quel giugno del 2000 è poi tornata a interpretare Galadriel 12 anni dopo, quando Jackson ha realizzato la trilogia de Lo Hobbit. Come si è sentita nel tornare a quel personaggio e quell’universo?
«Ero molto giovane quando ho interpretato Galadriel. Nel 2012 ero più matura come attrice; questo è il motivo che mi ha fatto venir voglia di interpretarla di nuovo. Peter mi ha chiamato e pensava che avrei potuto non accettare il ruolo. Gli ho detto: “Mi stai prendendo in giro? Certo che lo farò!” In realtà, ne Lo Hobbit penso che sia solo presente in un nota alla fine del libro, quindi il fatto che il regista abbia scritto alcune scene mi ha davvero entusiasmato. I miei figli già si lamentavano perché ero apparsa nella prima trilogia solo per 30 secondi! Comunque, spero di essermi evoluta, di essere un’attrice, una persona e una madre migliori. Professionalmente penso di essere molto più flessibile ora e più facile lavorare. So che Peter la pensava così!».
Cosa le ha dato il personaggio di Galadriel?
«Galadriel è un personaggio speciale per me, mitico e affascinante. È stato divertente interpretarlo nel Signore degli Anelli. Quando poi ho indossato di nuovo le orecchie da elfo, ho avuto questa meravigliosa sensazione di dejà vù. Non potevo smettere di ridere. Galadriel però è un personaggio molto importante: ha una su di sé un pericolo supplementare perché è già una portatrice di un anello e suppongo che se avesse preso l’Unico Anello avrebbe avuto il potenziale di trasformarsi anche lei nella forza malvagia di cui è fatto Sauron. Superata la prova, la regina degli Elfi sta passando il testimone agli Uomini. Gli Elfi se ne andranno e inizierà l’Era degli Uomini nella Terra di Mezzo. Tocca a loro adesso proteggere la Natura e i suoi valori. Penso che, in un certo modo, Tolkien stia sfidando anche i lettori e gli spettatori a rispondere alla domanda: “Tu cosa faresti con la Terra di Mezzo?”».
Cate BlanchettSi può concludere quindi che il libro sia un capolavoro?
«Certo, penso che sia particolare in questa periodo in cui tutti sono ossessionati dagli eroi, ma penso che quel che rende dei capolavori senza tempo Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit sia che tutti i protagonisti sono messi alla prova, tutti hanno un’evoluzione, tutti hanno una debolezza nascosta, anche i personaggi più nobili e buoni, anche la stessa regina degli Elfi. Hanno tutti la potenzialità di volgersi verso il Male e penso che sia sempre il rovescio della medaglia che rende qualcuno un eroe forte».

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Esclusiva AIST: intervista a Martin Freeman
– Leggi l’articolo L’AIST intervista Sam Gamgee/Sean Astin

LINK ESTERNI:
– Vai al sito di Festa del Cinema di Roma

.


L’AIST intervista Sam Gamgee/Sean Astin

Sean AstinLa 14esima edizione della Festa dell’Unicorno di Vinci si è conclusa. Ormai da anni un appuntamento imperdibile per gli amanti del fantasy e della letteratura fantastica, quest’anno ha visto ospite Sean Astin, famoso per aver interpretato il ruolo del piccolo Mikey Walsh nel film i Goonies e l’hobbit “Sam Gamgee” nella trilogia del Signore degli Anelli. Recentemente ha recitato nella seconda stagione della serie tv Stranger Things, interpretando la parte di Bob Newby. Sean Astin è figlio d’arte: sua madre era l’attrice Patty Duke (la piccola Anna del film Anna dei miracoli, per cui vinse l’Oscar nel 1962) e suo padre l’attore John Astin (interprete del ruolo di Gomez nella Famiglia Addams). Ha debuttato giovanissimo e nel cinema il suo primo ruolo è stato quello di Mikey Walsh nel cult I Goonies (1985), scritto da Stephen Spielberg e Columbus e diretto da Richard Donner. A Vinci si è sottoposto a una giornata intensa, piena di panel a teatro, foto e autografi per i suoi ammiratori, una chiacchierata sul palco e infine, i momenti esclusivi con 15 appassionati. L’AIST ha avuto l’opportunità di porre alcune domande al famoso attore, e per questo si ringrazia calorosamente l’organizzazione della Festa dell’Unicorno. Buona lettura!

L’intervista di Roberto Arduini

Sean AstinAllora, Sean Astin ci racconti come tutto ha avuto inizio.
«Stavo attraversando in macchina Los Angeles quando il mio cellulare squillò. Era la mia agente e mi disse che Peter Jackson avrebbe fatto dei provini per la trilogia di film tratti dal Signore degli Anelli. Feci subito dietro-front con la macchina e mi precipitai in una libreria, comprai una copia del libro e cominciai a leggere. Mentre organizzavano il provino, mi immersi nella saga di Tolkien e fui sedotto dall’impeto immaginativo della storia. Non sapevo che ci fosse un mondo intero nel quale sarei entrato: sia con l’immaginazione, mentre leggevo il libro, sia poi, fisicamente nel tentativo di dargli vita nel film».
Sean AstinHa ottenuto facilmente la parte?
«Per niente! Dopo l’audizione – era il 1999 – seppi che “un grassone di Londra” era il mio principale concorrente. “Anch’io posso essere grasso!”, mi sono detto: allora pesavo 80 chili e avevo corso la maratona di Los Angeles quell’anno. Ho inviato una nota che diceva: “Sono impegnato a fare tutto ciò che devo fare per interpretare questo personaggio, incluso mangiare come un maiale”. Sono ingrassato di oltre 13 chili, ho ottenuto la parte e mi sono trasferito in Nuova Zelanda nell’ottobre 1999 con mia moglie Christine e mia figlia Alexandra, che allora aveva solo 5 anni».
Quindi è bastato ingrassare per entrare nella parte di Sam Gamgee?
«Eh, è un po’ più complicato… Prima di iniziare le riprese, passai tre settimane in Nuova Zelanda, nell’isola del sud, a impratichirmi con il rafting perché volevo essere pronto e allenato diciamo, in sostanza volevo essere sicuro che, quando sarebbe arrivato il momento, non sarei caduto fuori da una barca. Arrivai a Wellington il giorno prima dell’inizio delle riprese e, sorpresa, avevo perso quasi 10 chili! Quando Peter Jackson e sua moglie mi videro uscire dal gate dell’aeroporto rimasero un po’ sconcertati, in fondo avrei dovuto essere l’hobbit più paffuto! Perciò mi portarono direttamente al KFC a mangiare pollo fritto e mi vietarono qualsiasi esercizio fisico per qualche settimana, finché non sono tornato al “pesoforma hobbit”! Così ho dovuto rimodellare il mio corpo, aumentando il peso proprio di 10 chili…».
Sean AstinCosa le è rimasto di quell’esperienza? Le è piaciuto il periodo delle riprese?
«Se devo dire la verità è stato un periodo orribile per me! Per quindici mesi sono stato in sovrappeso terribile, mi affaticavo molto e tutto il giorno avevo quegli orribili piedi Hobbit!»
Non le piacevano?
«Assolutamente no! Solo noi Hobbit possiamo sapere quanto fosse duro vivere giornalmente prigionieri di quelle appendici che, bagnandosi d’acqua, diventavano trappole gelate. Sul set c’erano sempre 2 pentoloni di un intruglio di lattice e silicone in perenne ebollizione per preparare la gomma necessaria a riparare i nostri piedi. Ne sono stati realizzati tantissimi (ben 2200, ndr) a causa della deperibilità del materiale. Ogni volta ci venivano attaccati con colle resistentissime, era un processo lungo e anche per toglierli ci voleva molto tempo. Inoltre, i piedi hobbit hanno un odore terribile dopo un po’. La gomma si guastava e iniziavano a puzzare terribilmente… Ho dovuto calzare 50 paia di piedi che non sono mai apparse sullo schermo. Posso veramente dire che dopo questo film il feticismo dei piedi ha tutt’altro significato per me!».
Sean AstinNon ci sono buoni ricordi di quel periodo?
«Le riprese sono state faticose e ho cercato di dimenticare tutto quel periodo orribile. Ci sono dei periodi in cui sogno tutta la nostra esperienza, è come un viaggio sotto effetti allucinogeni. Mi ricordo bene soltanto i momenti con la mia famiglia. Alla fine, mia moglie e mia figlia sono state le mie ambasciatrici fuori dal set, perché di quel periodo ricordo poco. Ad esempio, Alexandra – che poi ha interpretato la piccola Elanor Gamgee nell’epilogo dei film – aveva voluto fare la sua festa di compleanno in una busta! Sì, proprio una busta per le lettere. La troupe gli ha così realizzato un’enorme stanza fatta di carta in cui si è tenuta la festa. Tutti i presenti, attori compresi, hanno lasciato una dedica e una firma sulle pareti della busta. Alla fine, la carta è stata piegata e consegnata ad Alexandra in forma di lettera… lei mi ha obbligato a essere socievole!».
Non c’è una scena che le è piaciuto girare?
«Direi che è l’esperienza interpretativa più solenne che io abbia mai avuto si è verificata in cima al monte Ruepahu, con Elijah Wood tra le mie braccia. Era il set del Monte Fato di Tolkien. Non era più recitare, ma un’esperienza tra le più commoventi. Peter continuava a singhiozzare. Ricordo solo che questa ondata di emozioni è entrata nella nostra recitazione proprio in quel momento, mentre giravamo la scena. E Peter piangeva e io stavo piangendo. E dopo mi sono messo a correre per tutto il parcheggio… sulla cima di questo vulcano attivo, voglio dire, urlando di gioia e di eccitazione. Come dire, ce l’avevo fatta. Lo avevo inquadrato. Avevo raggiunto un tale punto di espressività emotiva come mai fino ad allora ero stato in grado di raggiungere. Era un sensazione meravigliosa e ne ero fiero. In questo, però, io ed Elijah siamo stati aiutati dalla “poesia” del testo».
Sean AstinAlcune delle ambientazioni nelle quali avete lavorato erano quasi surreali. Come è stato trovarsi in quei luoghi?
«Quella è una parte che ho adorato. Mi piaceva tantissimo viaggiare con gli elicotteri, perché la maggior parte delle location erano in zone remote della Nuova Zelanda. Ci muovevamo sempre con due o tre elicotteri. Ci trovavamo in posti dove ti guardavi attorno e ti chiedevi “Wow, esistono davvero simili luoghi sulla terra?”: sembrava di trovarsi in paesaggi extraterrestri. E ciò ti portava ad interpretare il tuo personaggio in maniera completamente diversa, più consona alla situazione».
Si è trovato in situazioni pericolose durante le riprese?
Sean Astin«Qualcosa è capitato a tutti, ma a me addirittura in due occasioni. La prima durante le riprese della Compagnia dell’Anello, nella scena in cui Frodo lascia la compagnia per andare a Mordor da solo, mentre stavo camminando nel fiume verso la barca di Frodo, calpestai un frammento di vetro che mi trapassò il piede da una parte all’altra. Ventiquattro ore e venti punti dopo, ero di nuovo sul set. Ho scoperto quel giorno che puoi determinare la gravità di un infortunio osservando i volti delle persone che ti circondano, se è davvero brutto, si strizzano gli occhi o si accartocciano il viso, o addirittura si allontanano per la repulsione. Elijah si è avvicinato mentre uno dei tecnici medici di emergenza stava tagliando il mio piede protesico, un atto che ha fatto scoppiare un enorme coagulo di sangue, che è atterrato a terra con uno splat. Questo, naturalmente, ha disgustato tutti quelli che mi erano intorno, con l’unica eccezione di Elijah, che ha semplicemente detto “Bello” e poi ha iniziato a colpire il coagulo di sangue con un bastone, un atto che disgustò persino Peter Jackson il cui background in film splatter dovrebbe renderlo immune a tali cose. “Andiamo, Elijah, non farlo”, ha detto. “No, va bene”, gli ho risposto io, “Può giocare con il mio coagulo di sangue!”».
E la seconda?
«La seconda mi è capitata mentre dovevamo girare una scena a Rivendell. Ero seduto a leggermi quella parte del libro e all’improvviso la struttura in legno dietro di me è crollato e mi ha colpito in testa. Sono svenuto e quando mi hanno tirato su, lentamente mi stava crescendo un bernoccolo in testa, ma era talmente grande che ha staccato la colla e alzato notevolmente la parrucca! In compenso sono andato a fare una risonanza magnetica alla testa e il dottore in ospedale guardando la lastra mi ha detto: “Il suo cervello è veramente enorme!”».
Sean AstinCome hai vissuto la relazione tra Sam e Frodo?
«Non ho mai avuto problemi con il rapporto maestro/servitore, non ho mai avuto problemi a dire “Signor Frodo, Signor Frodo”. Ricordarsi di rispettare e servire il proprio padrone ogni giorno ed ogni istante è qualcosa di speciale. Tuttavia, nonostante sofferenza e difficoltà, Frodo e Sam raggiungono un livello di parità ed eguaglianza nel loro rapporto».
Come cambia il compito di Sam nel corso dei tre film?
«All’inizio del viaggio, il compito di Sam è semplicemente quello di preoccuparsi che Frodo porti con sé quello che gli serve e di fargli da mangiare. Ma nel proseguire il viaggio, Sam aiuta sempre più Frodo, specialmente nel terzo film. Sam viene messo alla prova in molte maniere, e si comporta sempre egregiamente».
Le è rimasto un segno concreto dell’esperienza in Nuova Zelanda?
numero 9«Sì, un tatuaggio! Tutti noi membri della Compagnia abbiamo un piccolo tatuaggio della parola “nove” scritta in Tengwar, che è la sceneggiatura elfica creata da Tolkien. Lo abbiamo fatto proprio per commemorare l’esperienza del film. In realtà, John Rhys-Davies, cioè Gimli si è rifiutato dicendo che era troppo vecchio per quelle cose, ma ha mandato la controfigura al suo posto! Il mio tatuaggio è sulla caviglia per commemorare tutte quelle ore nei piedi degli Hobbit!!! Anche Billy Boyd ha fatto come me, mentre Elijah Wood lo ha fatto nella parte bassa dello stomaco».
Sappiamo che non aveva letto le opere di Tolkien prima di partecipare alla trilogia del Signore degli Anelli. A distanza di anni, ha cambiato idea sulla letteratura fantastica?
«Non sono cresciuto leggendo i libri di Tolkien e ho conosciuto le sue opere solo attraverso la prima trilogia. Ho letto Tolkien, ma non mi sono “perso” nelle sue opere: per me è una lettura piacevole, mi piace, ma non avendolo letto da bambino non mi ritrovo in quei mondi. Nell’interpretazione, mi hanno aiutato moltissimo le illustrazioni di Alan Lee, perché erano davvero impressionanti nel loro realismo. Insomma, non son un amante del genere. Col tempo, però, mi sono stupito di come l’immaginario tolkieniano rapisca letteralmente migliaia di persone. È una sorta di magia. Sono passati oltre 15 anni dalla prima trilogia di Peter Jackson, io ho fatto molti altri film e sono ora conosciuto soprattutto per i Goonies e Strangers Things, ma il pubblico mi chiede ancora di Sam Gamgee, anche ora con lei, amico mio!».
Quindi interpretare Sam Gamgee ha modificato il suo immaginario?
«Assolutamente sì!»
Amazon ha annunciato una serie tv sulla Terra di Mezzo. Secondo lei, dovrebbe essere in continuità con i film oppure è meglio se avesse una forza immaginativa nuova e originale?
Sean Astin«Sono rimasto contento appena ho saputo che sarebbe stata fatta, a 12 anni dall’uscita della prima trilogia. La gente diceva sempre: “Oh no, non verrà mai rifatta! I film sono un classico ormai! Non potranno mai essere superati!”, Ma io sono il tipo di persona che diceva: “No, verrà rifatto. È una storia enorme! I personaggi sono così amati che verrà rifatto”. Molti fan mi chiedono ora se sarei intenzionato a tornare per la serie Tv, ma quando ho visto la notizia di Amazon, non mi era nemmeno venuto in mente. Ho solo pensato: “Come sarà vedere il prossimo Sam?”. Penso che sia un’idea intrigante vedere un altra interpretazione. Come lo renderanno? Cosa farà? Chi sarà l’attore?”».
Vuole aggiungere un ultimo commento?
«Vorrei che portasse un grande saluto a tutti i soci dell’Associazione. Dopo che mi ha mostrato tutto il lavoro che fate e regalato il calendario, magnifico!, non posso che tifare per l’AIST! Ho conosciuto altre società tolkieniane in altri Paesi, ma voi fate un lavoro impressionante… Siete persone speciali. In bocca al lupo!».

GUARDA LA FOTOGALLERY
 

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Esclusiva AIST: intervista a Martin Freeman
– Leggi l’articolo Tolkien in cosplay alla Festa dell’Unicorno
– Leggi l’articolo L’AIST alla Festa dell’Unicorno 2018
– Leggi l’articolo Quando Tolkien e il cosplay si incontrano
– Leggi l’articolo Quando Tolkien e il cosplay si incontrano 2
– Leggi l’articolo Quando Tolkien e il cosplay si incontrano 3
– Leggi l’articolo Quando Tolkien e il cosplay si incontrano 4

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della Festa dell’Unicorno

.


Artisti Tolkieniani: parla Elena Kukanova

Elena KukanovaAll’inizio del mese di giugno ha aperto le sue porte la straordinaria mostra Tolkien: Maker of Middle-earth (Tolkien: il Creatore della Terra di Mezzo), tenuta presso la Weston Library e di cui vi abbiamo proposto il resoconto redatto dai nostri soci Stefano Giorgianni e Roberta Tosi, che hanno attraversato la Manica per questa esposizione imperdibile di manoscritti, mappe ed illustrazioni realizzate da Tolkien stesso. Oggi approfondiremo assieme a voi un altro aspetto dell’arte tolkieniana, con la traduzione di un’intervista ad una artista russa che sta godendo di grande popolarità nel web, ovvero Elena Kukanova che l’anno scorso vinse il premio come miglior artwork della Tolkien Society con l’opera Maglor.
La traduzione è stata realizzata della nostra collaboratrice Elena Sanna (potete leggere l’originale qui: Talks with Tolkien artist: E. Kukanova ad opera di Eva Z.).

Ciao! Cominciamo: vuoi dirci qualcosa di te?
Certo, mi chiamo Elena e sono un’artista professionista, laureata all’Ilya Glazunov Academy. Al momento (l’intervista risale al 2013, NdT) sono ritrattista ufficiale del Teatro accademico centrale dell’esercito russo, e una galleria espone i ritratti che ho fatto a tutti gli attori. Scusate se mi do delle arie sin dall’inizio.

Quando hai letto per la prima volta i libri di Tolkien? Che impressione ti hanno fatto?
Ho cominciato a leggere Tolkien (in russo) quando avevo sedici anni. Devo dire che le sue opere hanno avuto un impatto notevole sulla mia personalità. All’epoca non c’era nient’altro che volessi leggere, e non me ne importava proprio nulla dei classici russi che dovevo leggere a scuola. Dopotutto avevo sedici anni.

Quanto è vasta la tua conoscenza della Terra di Mezzo? Ti consideri una nerd tolkieniana?
Devo confessare che al momento non ammonta a granché: avevo sedici anni sedici anni fa. Sto rileggendo i libri, ma stavolta in inglese. È davvero una sfida, visto che sono prevalentemente francofona.

Quando sono usciti i film, molti personaggi e scene sono stati rimpiazzati, nella mente dei lettori, dagli attori e le scenografie. È successo anche a te? Hai cercato di evitarlo?
Il film mi piace davvero tanto, e Peter Jackson è un grande, non ci piove. E gli attori… hanno tutta la mia ammirazione per il loro lavoro fantastico, ma non hanno prevalso sulla mia visione personale. Le scenografie erano davvero perfette, Peter è proprio un genio. E i costumi! Quelli non erano affatto male.

Ora potresti dirci qualcosa su di te e i tuoi lavori? Sei un’artista di professione, o l’arte è solo un hobby? Quando hai cominciato, e chi o cosa ha influenzato il tuo stile?
Sono una professionista, e non separo il lavoro dagli hobby. Scherzi a parte, ho cominciato più o meno a tre anni, rovinando la carta da parati dei miei, e per fortuna non mi hanno punita. All’inizio l’ispirazione mi veniva dalla pittura fiamminga, quindi Dürer, Holbein, ecc.

A giudicare dalle tue opere sembra che I Figli di Húrin sia la tua parte preferita. Che cosa ti porta a scegliere quali episodi illustrare?
I ricordi, forse? In pratica, questo è il libro che mi ha colpito di più. Una storia drammatica, che secondo me eclissa quella di Romeo e Giulietta.

Dove trovi l’ispirazione per i tuoi quadri, non solo per quanto riguarda il tema, ma anche dal punto di vista artistico? Usi dei modelli?
Dovrei dire di sì, ma in realtà non lo faccio. Tutte le mie opere nascono nella mia testa. Per i personaggi femminili poso io stessa, e mio marito posa per quelli maschili. Uso moltissimo le foto, ma la maggior parte sono fatte in casa. A parte quelle con lucertole. Certo, molte cose mi ispirano, ma è una storia troppo lunga da raccontare.

I tuoi quadri tradizionali sono straordinari. Hai una tecnica segreta per mischiare gouache, acquerelli e matite colorate?
Per questa tecnica mi sono ispirata a Somov e Benois. Non lo dico per vantarmi, ma è un lavoro davvero meticoloso e ci vuole tanta pratica.

Potresti farci vedere un’illustrazione tolkieniana di cui sei particolarmente orgogliosa?

Anglachel - Elena Kukanova

E qualcosa di un altro fandom, o un lavoro originale, di cui vai fiera?
Mi dispiace, sceglierne uno è troppo difficile, ma di solito è l’ultimo lavoro che ho completato.

Un’immagine che rispecchia come ti senti al momento?
The Spring of Arda - Elena Kukanova

Il lavoro più difficile?
First Snow - Elena Kukanova
L’acqua mi ha dato davvero tanti problemi.

C’è qualcuno nella tua vita (anche su deviantArt) che ti ha ispirato o sostenuto, come artista? Puoi anche dirci perché, se ti va.
Di certo i miei genitori, mio padre, che aveva copiato e conservato una parte di quel mio primo disegno (erano dei conigli parecchio stravaganti). Ho avuto l’ispirazione per le illustrazioni tolkieniane grazie ad alcune opere che avevo visto su deviantArt.

C’è qualche artista su deviantArt che secondo te non ha l’attenzione che merita?
Marisoly – Molto professionale, molto insicura, davvero originale, la adoro!

Sono proprio d’accordo! Purtroppo è difficile da contattare, e non conferma nessuna richiesta, anche se vorrei proprio ospitarla nel nostro gruppo. Ecco qualcuna delle sue opere:

Su deviantArt ci sono molti gruppi dedicati a Tolkien. Ne consigli qualcuno? O anche altri a tema fantastico?
È difficile scegliere, sono tutti sul mio argomento preferito. Ma di certo posso raccomandare EldritchShores e GoldenIllustration

C’è altro che vorresti dire ai fan di Tolkien e dei tuoi lavori?
Qui ho trovato una cerchia di spiriti affini, e mi date un sacco di energia, amici miei… ma non sono un vampiro, visto che faccio di tutto per ripagarvi. E i vostri calorosi commenti hanno davvero un grande valore per me! Grazie di tutto.

Spero di aver risposto a tutto.

Con affetto
Elena

Ti ringraziamo per l’intervista, è stato davvero un piacere parlare con te!

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo La mostra a Oxford: ci siamo stati per voi!
– Leggi l’articolo Apre oggi la mostra su Tolkien a Oxford!
– Leggi l’articolo Al TolkienLab di Modena l’arte di J. R. R. Tolkien

LINK ESTERNI:
– Vai alla pagina DeviantArt – Talks with Tolkien artist: E. Kukanova
– Vai alla pagina DeviantArt di Elena Kukanova
– Vai alla pagina DeviantArt di Marisoly
– Vai alla pagina DeviantArt di EldritchShores
– Vai alla pagina DeviantArt di GoldenIllustration

.


Tra Medioevo e Medievalismo

Medioevo fra noi 2018Dopo il resoconto del convegno Il Medioevo fra noi (che potete leggere qui, svoltosi tra Urbino e Gradara dal 7 al 9 giugno, abbiamo scelto di approfondire l’argomento, così pertinente agli studi tolkieniani, ponendo alcune domande a due dei giovani studiosi presenti, Riccardo Facchini e Davide Iacono, tra i saggisti del volume Medievalismi italiani (secoli XIX-XX) che è stato presentato il secondo giorno, nonché ideatori della pagina divulgativa MediaEvi, il Medioevo al Presente. Ringraziando ancora per la loro disponibilità Riccardo e Davide, vi proponiamo questa “doppia” intervista per valicare ancora una volta la frontiera tra Medioevo e Medievalismo.

Partiamo dalle origini: da dove nasce il vostro interesse per la storia, nello specifico per il Medioevo? Cosa vi affascina in particolare di questo periodo storico?
Davide – Sin da piccolo sono stato sempre molto curioso. Adoravo sfogliare le enciclopedie,
magari quelle dei miei genitori, un po’ vecchiotte ma riccamente illustrate. Credo sia stato lì che si fissarono nel mio immaginario i cavalieri e i castelli. Furono gettati i semi insomma! Iniziai poi a leggere di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Mi ricordo in particolare un cartone animato, Prince Valiant (un adattamento del fumetto di Harold Foster) che mi restò impresso. Uno dei primi libri che lessi sul medioevo storico si chiamava L’avventura del Medioevo. È ancora lì, con le sue suggestive illustrazioni.
Riccardo – Anche per me l’infanzia ha avuto un ruolo fondamentale nel mio avvicinamento
al Medioevo, seppur al Medioevo sognato e immaginario. Credo però che il punto di svolta fu quando, durante le medie, per Natale mi fu regalata un’edizione di Dungeons&Dragons!

Parlando invece di medievalismo, quando avete scoperto che per questo Medioevo ridisegnato esiste un termine specifico e come?
Davide e Riccardo – Fondamentale si è sicuramente rivelata la lettura di Medioevo Militante (Einaudi 2011), di Tommaso di Carpegna Falconieri, docente di storia medievale all’Università di Urbino. Un testo imprescindibile per lo studio dei medievalismi, soprattutto per quanto riguarda la loro dimensione politica e per i risvolti che questo fenomeno ha nel mondo attuale. Ricordiamo con piacere anche le lezioni di Umberto Longo, docente alla Sapienza di Roma e relatore di Davide per la tesi magistrale, il quale, durante le sue lezioni, compie continui rimandi al nesso fondamentale che c’è tra medioevo e medievalismo. Ricordiamo il giorno che proiettò alcuni dipinti dei preraffaelliti, accostandoli ad alcune immagini tratte dai film de Il Signore degli Anelli o da quelli di Harry Potter, per dimostrare come il canone medievale, creato da quel gruppo straordinario di artisti, abbia anche ora oggi influenza nel nostro immaginario, come un orizzonte mentale comune.

Per quale motivo proporreste a qualcuno di cominciare ad approcciarsi a questo campo di studi?
Davide – Chiunque si accosti allo studio della storia medievale vi arriva spesso attraverso la visione di un film, la lettura di un libro, una conoscenza magari infantile – stereotipata – dell’epoca. Inoltre è importante notare che scrivere di storia significa sempre e comunque, innanzitutto, “raccontare” una storia tra le numerose storie, la cui retorica narrativa proietta mentalità, cultura, concezione, e generale – posso dire una parolaccia? – Weltanschauung dello storico. Pensare di presentare le cose “tali quali esse sono avvenute” è un’assurdità, se non una presunzione, positivista. Fare storia significa avere la consapevolezza di creare un prodotto culturale, attraverso il quale lo storico scopre il passato e lo ricrea. In particolare poi lo studio dei medievalismi consente allo storico medievista di tornare ad occupare quel posto nella società civile che aveva un tempo. Quando l’ISIS parla di ritorno del Califfato; quando i presidenti degli States evocano le crociate; o – come soprattutto nell’Europa dell’Est – vengono rispolverati i modelli e i miti del medievalismo ottocentesco per sostenere spinte nazionaliste; lì lo studioso di storia medievale, che si colloca tra la realtà del passato medievale e queste distorsioni operate dal presente, può dare un serio e autorevole contributo nel decifrare l’attualità. Si pensa spesso alla medievistica come ad una materia quasi erudita, polverosa, fatta da studiosi chiusi in torri di avorio dediti al solo studi di codici indecifrabili; un po’ come i re di Numenor irretiti dall’araldica, dalle genealogie, dall’astrologia mentre il regno di Gondor versava in rovina (e per certi versi è vero…). Lo studio dei medievalismi
avvicina la storia medievale, e chi la studia, al suo presente.

Parlando delle rappresentazioni fantastiche ispirate al Medioevo, non si può non parlare di Tolkien: qual è il vostro rapporto con questo autore, con i suoi precursori ed il genere letterario che ne è derivato?
Davide – Il mio incontro con Tolkien è stato un po’ combattuto. Mi spiego meglio. Un giorno alcuni amici, era il lontano 2002, mi invitarono al cinema. Mi portarono a vedere La
Compagnia dell’Anello
. Era un film fantasy, dicevano. Esco dalla sala molto contrariato.
“Cos’è questa cosa che cerca di imitare male il medioevo!”, sbottai. All’epoca avevo timidamente già iniziato a leggere i saggi di Le Goff e, come tutti i neoconvertiti, ero molto zelante. Questo medioevo “finto” non mi piaceva per niente! Poi, sempre grazie a quei farabutti dei miei amici, è stato amore. Iniziai a leggere i libri; a vedere e rivedere versioni estese e contenuti speciali nei dvd. Ero incantato da quel mondo neomedievale, così verosimile, che Tolkien – per il tramite di Peter Jackson – era riuscito a evocare. Lo studio del medievalismo, al quale sono approdato con la laurea magistrale, è adesso fondamentale per leggere ancora più in profondità, criticamente, la Terra di Mezzo. Ho potuto dare un nome e un senso alla mitopoiesi di Tolkien. Un autore che però spesso risulta ancora incompreso, e trattato come una sorta di santino. Per comprenderlo – secondo l’ottica del medievalismo – credo sia da intendere Tolkien, e il suo legendarium, come il canto del cigno della lunghissima stagione del medievalismo vittoriano: fenomeno che terminerà, durante la Grande Guerra, con le ultime folli cariche degli ufficiali a cavallo – che nel cuore portavano l’immagine di re Artù e dei suoi cavalieri – contro poco cortesi nidi di mitragliatrici. Dopo l’esperienza dei brutali combattimenti in trincea, il medievalismo britannico gradualmente ha
abbandonato il mondo reale – finendo di idealizzare la società britannica come una nuova Camelot – per rifugiarsi nel regno della fantasia. La Caduta di Gondolin, il primo racconto completo ambientato nella Terra di Mezzo, non è che una metafora neomedievale, della drammatica esperienza di Tolkien sui campi della Somme. Il giovane filologo credo abbia trovato in quel mondo – per certi versi accogliente e rassicurante – dopo la brutalità delle trincee e la morte dei suoi amici, un rifugio mentale. Questo lo racconta molto bene John Garth in Tolkien e la grande guerra.

Voi gestite la pagina facebook MediaEvi, il Medioevo al Presente: com’è nata l’idea di creare una pagina facebook dedicata al medievalismo?
Davide – L’idea nasce appunto dalla volontà di divulgare lo studio e l’interesse per il medievalismo. Un fenomeno culturale che ha le sue radici nell’Europa del Romanticismo ma che perdura ancora oggi (vi invitiamo ad approfondire la voce Medievalismo compilata da me
e Riccardo). Il medioevo, il suo sogno, è e sarà costantemente rielaborato, reinventato, raccontato. Ognuno di noi – inclusi i medievisti di professione – ha la sua idea di quell’epoca così lontana ma allo stesso tempo così vicina, che prescinde largamente da quello che è il medioevo storico. Quello di MediaEvi è anche un modo per raccontare una disciplina – diremmo fare storytelling – e occupare in maniera intelligente, seria (non seriosa!) e divertente, uno spazio. La comunicazione di una disciplina passa anche dai social. È un modo per dire: “Noi – noi studiosi di storia medievale e di medievalismi – esistiamo”.

Nella vostra esperienza, quale sembra essere la forma di medievalismo che suscita maggior interesse all’interno dei social network, e secondo voi per quale ragione?
Riccardo – Bisogna ammettere che il nostro pubblico è molto variegato. Si va dai giovanissimi, o dagli amatori, fino a giovani studiosi di storia e stimati ricercatori! Esclusi i meme, una vera e propria miniera di like, ma anche un modo – immediato e ironico – per comunicare la storia, possiamo però affermare con una certa sicurezza che la forma di medievalismo che affascina maggiormente il nostro pubblico è quello artistico, architettonico, in qualche modo legato alle arti visive. I nostri post sui castelli neomedievali o sugli artisti preraffaeliti sono lì a dimostrarlo.

MediaEvi era tra i media partner del convegno Il Medioevo fra noi, tenutosi di recente, e voi siete stati tra i relatori. Si trattava già della quinta edizione di questa manifestazione: parlateci della strada percorsa finora, quali sono stati gli ostacoli e le soddisfazioni maggiori, come siete entrati a far parte della compagnia.
RiccardoIl Medioevo fra Noi nasce dal desiderio di tre affermati studiosi – Tommaso di Carpegna Falconieri (Università di Urbino), Umberto Longo (Sapienza) e Francesca Roversi Monaco (Università di Bologna) – di sdoganare accademicamente lo studio dei medievalismi. Rispetto alla prima edizione, svoltasi nella rocca di Gradara in un afoso pomeriggio di luglio nel 2014, sono stati fatti passi da gigante e in questo un ruolo importante è stato ricoperto anche dal sostegno offerto fin dall’inizio dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo che, nella persona del presidente Massimo Miglio, non ha mai fatto mancare il suo supporto.

Al convegno Il Medioevo fra noi avete presentato il volume Medievalismi italiani (secoli XIX-XX), una raccolta di saggi di vari studiosi sul medievalismo in Italia: com’è nato questo progetto?
Riccardo – Durante le numerose conversazioni intrattenute con il professor di Carpegna in merito allo stato della ricerca sui medievalismi in Italia, ci siamo resi conto che gli studiosi nostrani hanno spesso affrontato il tema (pensiamo a Giuseppe Sergi, Renato Bordone, al recentemente scomparso Raffaele Licinio…), senza però al tempo stesso aver contribuito alla formazione di un organico orizzonte di ricerca nazionale, di una sorta di “scuola”, dedicata allo studio del medievalismo. Questi studi, infatti, hanno spesso mancato di organicità e consapevolezza. Per questo si è sentito il bisogno di pubblicare un volume che raccolga unicamente contributi sul medievalismo, con l’auspicio di contribuire alla nascita, se non una vera e propria scuola storiografica, almeno di una nuova sensibilità accademica nei confronti di questa affascinante disciplina.

Un’ultima domanda, guardando al futuro: avete già in programma di presenziare ad altri eventi dedicati all’età di mezzo o, magari, alla Terra di Mezzo?
Davide – Abbastanza certa sarà la nostra partecipazione al Festival del Medioevo, che si terrà dal 26 al 30 settembre nella bianca città di Gubbio. Il tema di quest’anno, come ci ha svelato in anteprima Federico Fioravanti (l’ideatore del Festival) a Gradara, saranno i barbari: un argomento che richiama, immediatamente, all’attualità.
La Terra di Mezzo l’abbiamo sfiorata lo scorso anno per l’appunto al Festival del Medioevo, nel
nostro intervento dedicato alle città incantate dell’immaginario medievalista. Tra le molte non
abbiamo mancato di considerare, la capitale del regno di Gondor, Minas Tirith.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Il Medioevo, e il Fantastico, fra noi
– Leggi l’articolo Festival del Medioevo: una sessione per Tolkien

LINK ESTERNI:
– Vai al sito del Festival del Medioevo
– Vai alla pagina facebook di MediaEvi, il Medioevo al Presente
– Vai al sito del Festival del Medioevo
– Vai al sito dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo

.


 

Ritradurre Il Signore degli Anelli: l’intervista

Loredana LipperiniAbbiamo chiesto di ripristinare le “Venti righe”, abbiamo riportato in libreria le Lettere dopo 10 anni di assenza facendolo tradurre da Lorenzo Gammarelli e ora Bompiani ci ha chiesto aiuto per tradurre il capolavoro di Tolkien. A cinquant’anni dalla prima versione italiana de Il Signore degli Anelli poi più volte rimaneggiata – l’ultima nel 2003 -, tornerà così in una nuova traduzione finalmente all’altezza della sfida La Compagnia dell’Anello in tutta la sua generosa, esuberante, ludica malìa. Abbiamo indicato alla casa editrice un traduttore d’eccezione: Ottavio Fatica. Si tratta di un traduttore letterario di tutto rispetto: dopo aver esordito con Adelphi, ha lavorato a lungo per Theoria ed Einaudi e da diversi anni è consulente a tutto campo per Adelphi. Ha vinto il Premio letterario internazionale Mondello per la traduzione di Limericks di Edward Lear, nel 2007 il Premio Monselice per la traduzione di La città della tremenda notte di Rudyard Kipling. Nel 2009 ha vinto il Premio Nazionale per la Traduzione e nel 2010 il Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante per la traduzione de Il crollo di Francis Scott Fitzgerald. Tra i suoi lavori migliori, la traduzione dell’opera omnia di Rudyard Kipling, Moby Dick di Herman Melville e centinaia di altri scrittori inglesi e statunitensi.
Salone del Libro di TorinoAl prossimo Salone del libro di Torino, sabato 12 maggio, ore 14:00 nella sezione L’AutoreInvisibile curata da Ilide Carmignani, Ottavio Fatica e Roberto Arduini, presidente dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, dialogheranno su Tradurre Il Signore degli Anelli. Coordina Alessandro Mari della Scuola Holden. Per avere un assaggio di quell’incontro, pubblichiamo l’intervista integrale che Loredana Lipperini ha realizzato in esclusiva a Ottavio Fatica, di cui una parte è stata pubblicata su La Repubblica del 29 aprile 2018. Ringraziamo l’autrice per la cortesia.

L’intervista di Loredana Lipperini

Ottavio FaticaSe ne discute da anni e ora, finalmente, avviene. Il Signore degli Anelli, sublime capolavoro del Novecento e testo amatissimo di J.R.R. Tolkien, sarà ritradotto in italiano e Bompiani pubblicherà il primo dei tre libri a novembre. Se ne discute e se n’è discusso: la prima traduzione è del 1967, quando la casa editrice Astrolabio pubblicò il primo volume, La compagnia dell’anello, nella traduzione di Vittoria (Vicky) Alliata di Villafranca, appena diciassettenne. Quando Rusconi diede alle stampe il romanzo completo, nel 1970, la traduzione venne rimaneggiata, su invito di Elémire Zolla, da Quirino Principe. Un’ulteriore revisione venne effettuata, a opera della Società Tolkieniana Italiana, nel 2003, a ridosso del successo dei film di Peter Jackson. Mai, però, si era messo mano all’intera traduzione, cosa che sta facendo uno dei maggiori traduttori italiani, Ottavio Fatica (cui si deve, per citare un solo caso, la nuova versione di Moby Dick di Melville). «Una sorpresa, dice, e insieme una grande sfida».
È un lettore di Tolkien?
«
Sono un appassionato degli Inklings (il gruppo di discussione letteraria di cui faceva parte Tolkien, ndr), ma fin qui avevo letto soprattutto C.S.Lewis, Owen Barfield e Charles Williams. Di Tolkien conoscevo, in inglese, Il Silmarillion e Lo Hobbit. Possedevo Il Signore degli Anelli nell’edizione di Rusconi, ma non lo avevo ancora aperto. Ora sto scoprendo molte cose che ignoravo: per esempio, che sui muri dei campus americani si scriveva Free Frodo. Da noi arrivava ben poco di questo».
La traduzione precedente è stata molto criticata: a ragione?

Vittoria Alliata«Per cominciare, tanto di cappello a una ragazza giovanissima che accettò un’impresa del genere: non avrei saputo farlo, alla sua età. E la sua traduzione possiede una virtù: è scritta in buon italiano, mentre oggi, nella maggior parte dei casi, si scrive in traduttorese, sul calco della lingua inglese. Detto questo, ha tutte le pecche di un’avventura improvvisata. Ma l’errore è stato soprattutto successivo, quando, su iniziativa di Zolla, il libro venne finalmente preso sul serio e Quirino Principe rivide una prima volta la traduzione. Ecco, bisognava pur rendersi conto che non era possibile correggere cinquecento errori a pagina per millecinquecento pagine. Non c’è paragrafo mondo da lacune e sbagli. Mancano verbi, avverbi, intere frasi, a volte si traduce a orecchio. Alliata toglie spesso l’inciso, che significa pur qualcosa, dà sfumatura al personaggio. Invece, aggiunge spiegazioni su spiegazioni. Diventa una parafrasi, decisamente brutta. Inoltre ha un suo curioso stilema: raddoppia gli aggettivi. Placido e tranquillo, rapido e veloce, misero e magro, crudeli e maligni dove l’originale era feroci. Sembra uno stilema di Tolkien, invece è il suo. Poi certo, lo legge un ragazzo in cerca di avventura e si appassiona lo stesso. Se a un giovane lettore dai una versione di duecento pagine di Guerra e Pace lo ubriachi lo stesso, la forza mitopoietica è intatta: ma se fossi stato un editor mi sarei almeno posto il problema».
Come affronta la diversità dei linguaggi degli abitanti della Terra di Mezzo?

«Gli elfi parlano una lingua più elevata e usano un tono leggermente aulico, gli orchi sono trucidi, gli hobbit più terragni, usano un linguaggio semi-popolare, anche se Frodo si esprime meglio degli abitanti di Hobbiton».

Ha detto Hobbiton e non Hobbiville, come nella traduzione precedente.
«Ma certo. È come tradurre Superman con Nembo Kid».
E quindi cambieranno i nomi dei luoghi e dei personaggi?

La Contea degli Hobbit«I termini elfici rimangono in elfico. Sul resto, c’è da riflettere. Bisogna capire se lasciare quasi tutto in inglese o provare a ricreare in italiano il nome di un luogo o di un personaggio con un termine evocativo, come quando si indica una valle profonda o un guerriero grande e grosso. Poi, le trappole sono infinite. Per esempio. C’è un luogo, Stock, che viene tradotto con Scorta (è a Buckland, quella che conosciamo nella precedente versione come Terra di Buck, ndr) perché questo significa in inglese. Ma Stock proviene in realtà da un’antica parola di derivazione scozzese che indica una magione dispersa in aperta campagna. Anche Buckle, da cui provengono molti nomi, deriva da buckle: ma non nel senso di fibbia, bensì di daino. Certo, Alliata non aveva tanto materiale a disposizione, e noi italiani abbiamo più problemi dei nordici che attingono agli stessi etimi di Tolkien, le nostre radici sono romanze».
Come si cimenterà con le poesie presenti nel testo?

«Ci sono abituato, avendo tradotto Kipling. Mi diverto».

Rimarrà come conosciamo anche la famosa poesia dell’anello? Quella che termina con “Un Anello per domarli, un Anello per trovarli,/Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,/Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende”?

«La traduzione sarà diversa, non dico come. Rispetto la logica interna di Tolkien. Un piacere masochistico del traduttore è proprio quello di provare a riproporre lo schema inglese in italiano».
Sarà un Tolkien più snello, con meno aggettivi, e più fedele: più moderno, dunque?
Libri: Il Signore degli Anelli in un tomo unico«
Il Signore degli Anelli vive nella pseudoeternità letteraria. Risente, certo, del mondo contemporaneo all’autore, e se è vero, come Tolkien ha scritto, che non vengono fatte dirette allusioni alla guerra, qualcosa dei due conflitti mondiali trasuda. Del resto una volta Chesterton disse che il libro più fantasy che conoscesse era Robinson Crusoe. Ed è vero. Ogni storia è fantasy, sia se costruisci una capannuccia su un’isola sia se sfidi un drago. La morte di Ivan Il’ič è fantasy. La letteratura lo è. Questo è un grande libro, non un fantasy».

Il momento più difficile che ha affrontato fin qui?

«Per ora nessuno e insieme a ogni riga. A volte una banalità si rivela complessa e quel che sembra insolubile si scioglie. È un’avventura, la vivo così. Sto viaggiando insieme a Frodo».

.

Le Nere Lame: intervista a Marco Scicchitano

cop - Educare nella Terra di MezzoSabato 21 aprile, dalle ore 16,15 alle 18.00 a Roma l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani sarà ospite del seminario Educare nella Terra di Mezzo, che si terrà presso il centro culturale Benedetto XVI della parrocchia Santa Maria Consolatrice (piazza Santa Maria Consolatrice, 00159). L’ingresso è libero (ci si può iscrivere alla pagina Facebook Educare nella Terra di Mezzo). Ne abbiamo già scritto in precedenza: è un progetto culturale che affronta l’aspetto educativo delle opere di J.R.R. Tolkien, senza però escludere il gioco. Durante l’incontro, organizzato da Labgdr in collaborazione con Cattonerd, interverrà come relatore anche lo psicologo Marco Scicchitano, che illustrerà il progetto “Le Nere Lame”, laboratorio di giochi di ruolo dal vivo a tema tolkieniano, che insegna a stimolare l’immaginazione e l’uso delle regole del comportamento collaborativo, sviluppare amicizie e buone capacità di problem soling, favorendo inoltre lo sviluppo di abilità di Teoria della Mente. Per l’occasione abbiamo voluto approfondire il progetto e capirne il valore educativo facendo un’intervista direttamente all’ideatore.

L’intervista a Marco Scicchitano

Marco ScicchitanoPartiamo dall’inizio: fai una breve presentazione di te e del tuo lavoro
«Sarò brevissimo su di me, certo che parlando del mio lavoro continuerò comunque a presentarmi. Sono uno psicologo psicoterapeuta, sposato con Myriam e abbiamo quattro figli. Mi sono specializzato in psicoterapia cognitivo-interpersonale e attualmente la maggior parte del tempo lavorativo la impiego come clinico nel centro ITCI. Ho lavorato in un centro di riabilitazione neuropsicologica dello sviluppo poco dopo la laurea, Sinapsy, e poi ho mantenuto la passione di lavorare con persone nello spettro autistico come socio fondatore di Spazio Asperger e tutt’ora collaboro con CuoreMenteLab come responsabile di un laboratorio che usa i giochi di ruolo tabletop. Nel 2015 ho fondato insieme ad amici e colleghi l’associazione Progetto Pioneer con la quale portiamo avanti la diffusione di una nuova cultura dell’educazione affettivo sessuale. Ultimamente sto costituendo un gruppo di lavoro Labgdr che si propone di valorizzare l’uso del gioco di ruolo in ambito psicoeducativo mentre da cinque anni conduco il laboratorio teatrale LiberaMenteEmozionarsi. Sono docente ad un master di psicodiagnosi conducendo la lezione sul Millon Clinical Multiaxial Inventory III».

Come ha conosciuto le opere di Tolkien?
libro: pensieri«
Ricordo con chiarezza il giorno in cui ho letto con meraviglia le poesie di Rilke, o quello in cui all’università, durante un lavoro di gruppo, mi sono imbattuto nelle opere dello psicologo Theodore Millon trovando stimolo e nutrimento intellettuale. Per le opere di Tolkien non è così. La sensazione è di averle abitate con la fantasia da sempre, come se fossero presenti già al costituirsi della mia memoria narrativa e della mia immaginazione e probabilmente questo lo devo a mio padre che ha letto a me e ai miei fratelli alcuni brani de Il Signore degli Anelli, già quando io frequentavo le elementari, fornendomi modelli eroici in cui immedesimarmi da bambino, mostri di ombra e fuoco da cui scappare quando avevo voglia di correre nel giardino o orchi da falciare con il mio bastone raccolto nel bosco, che, seppur trovato tra i rami secchi, aveva un nome in alto elfico ed era il terrore delle creature d’ombra».

Cosa la spinge ad amare ancora oggi questo autore?
Lame Nere: spiegazioni«
Sono da poco arrivato alla 14esima lettura de Il Signore degli Anelli, forse la più significativa, dato che è durata 2 anni e mezzo ed è stata a beneficio dei miei figli la sera, prima di andare a dormire. L’opera di Tolkien mi ha accompagnato per tutta la vita, costituendo un bacino di risorse inesauribili che mutavano parallelamente al mio cambiamento personale. Ha plasmato buona parte del mio immaginario fantastico da bambino, mi ha fornito ambientazioni di gioco da adolescente appassionato di giochi di ruolo, mi ha fatto compagnia quando ragazzo cercavo mondi in cui immergermi e da esplorare con letture intense ed è stato motivo di riflessione e analisi quando ho cominciato ad avere strumenti grazie allo studio. Ho usato i personaggi di Tolkien anche per comunicare con i ragazzi durante incontri educativi ed ora con LabGDR diventa il mio riferimento per creare i background e le dinamiche progettuali. Ecco, amo questo autore perché oltre a ben rappresentare “un classico” nel modo in cui lo intendeva Calvino quando affermava che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, penso che abbia struttura e profondità talmente ricca da poter essere letto e apprezzato da persone di diverse culture, religioni, età e, aggiungerei anche che può essere interpellato e adoperato da diversi ambiti disciplinari. Nel mio caso l’ambito psicoeducativo».

Perché usa le opere di Tolkien nel suo lavoro? Ci sono altri autori che sono utili?
Lame Nere: preparazione«Nel mio lavoro clinico utilizzo riferimenti letterari o artistici quando se ne verifica la pertinenza, ma nessuno in modo strutturato. Nel laboratorio giochi di ruolo da tavolo utilizzo il gioco Ultima Torcia, mentre le opere di Tolkien sono la base del nuovo progetto GDR live, Le Nere Lame, sicuramente perché è l’ambientazione che conosco meglio , ma anche perché le ritengo particolarmente adatte. L’opera di Tolkien è conosciuta, almeno di fama, da molti ragazzi, ha un vasto repertorio di modelli di personaggi per il gioco di ruolo da usare e soprattutto nella sua poetica sono trattati temi valoriali in modo particolarmente adattabile ad un ambito psicoeducativo».

Qual è il motivo principale che ti ha spinto a utilizzare le opere di Tolkien rispetto ad altre?
LabGdr«Il progetto “Le Nere Lame” utilizza come ambientazione fantastica di riferimento il mondo creato da J.R.R. Tolkien. Il background di riferimento è molto accurato ma per partecipare non è necessario conoscere Tolkien e le sue opere. Ciascun partecipante viene introdotto per quanto serve a partecipare al LabGDR. L’ambientazione tolkieniana viene usata non solo per scegliere nomi, classi dei personaggi e sfondo narrativo nel quale avviene il gioco, ma anche per attingere e ricrearne l’ambiente valoriale dove sono presenti temi centrali in educazione come la distinzione tra bene e male, la libertà, il valore del coraggio e dell’epica, il senso del sacrificio e la compassione, l’importanza dell’amicizia e della “Compagnia”, la responsabilità individuale in relazione alle esigenze dei tempi, la necessità di opporsi e combattere il Male, il pericolo dell’Ombra che incombe su ciascun uomo. La capacità delle storie di Tokien di trasmettere valori ha trovato per me recentemente una piacevolissima conferma: ho chiesto ai miei figli di scrivere sul libro un pensiero, una volta giunti al termine della lettura serale del Signore degli Anelli. “questo libro mi insegnato che anche i piccoli e quelli meno prevedibili possono fare cose essenziali” “questo libro mi ha insegnato che gli amici migliori come Frodo e Sam riescono a superare la voglia di potere” fino al definitivo “mi è piaciuto il signore degli anelli e la compagnia dell’anello”. Tra qualche anno sfogliare il libro e trovare i loro pensieri sarà un regalo. Personalmente, se avessi dovuto scrivere anche io un pensiero al termine di questa lettura, sono rimasto particolarmente colpito dalla profondità antropologica che emerge dalla narrazione del Professore, quando ad esempio narra della caduta di Numenor, causata dalla paura della morte che spinge l’uomo a ricorrere a difese arcaiche fino ad arrivare ai deliri di onnipotenza che lo portano alla rovina, oppure proprio in questa lettura mi ha particolarmente affascinato quanto avviene nelle Case di Guarigione, dove tra morte e devastazione, l’approccio del Re le cui mani sono di guaritore, è un approccio alla persona “olistico”, tiene conto delle ferite fisiche, di quelle relazionali e transgenerazionali, di quelle spirituali riuscendo a sanare anche quando le risorse sembrano esaurite, e il destino segnato. Estel, nome che viene dato ad Aragorn e che vuol dire Speranza, riesce a ravvivare e ad avere “cura” anche dove altri non riescono più e in modo totale. E l’approccio psicoterapeutico è sempre un approccio olistico laddove una persona non può essere parcellizzata o diagnosticata quando chiede di essere accolta primariamente.
Lame Nere: spiegazioniE poi credo che ci sia un bisogno inascoltato da parte dei ragazzi di questa generazione, ben descritta da questa dichiarazione rilasciata dal figlio del Professor Tolkien “Almeno per me non c’è nulla di misterioso nell’entità del successo toccato a mio padre, il cui genio non ha fatto che rispondere all’invocazione di persone di ogni età e carattere, stanche e nauseate dalla bruttezza, dall’instabilità, dai valori d’accatto, dalle filosofie spicciole che sono stati spacciati loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell’esaltazione, dell’avventura, dell’eroismo e della gioia, cose senza le quali l’anima stessa dell’uomo inaridisce e muore dentro di lui”. Questa invocazione si può ancora udire, anche se flebile e sommersa dai nostri problemi e dall’affanno dei tempi che mancano sempre; è presente in ogni generazione che cresce. Anche in quella attuale, che piuttosto che volgere lo sguardo verso cose alte, è spinta a piegarlo verso lo schermo di uno smartphone. Ogni invocazione, anela a una risposta. Noi abbiamo cercato di darla, comprensiva di mistero, bellezza, esaltazione avventura, eroismo e gioia».

Ci può descrivere meglio il progetto Le Nere Lame?
Lame Nere: mappa«Le Nere Lame è un progetto educativo che vuole utilizzare le attività del Gioco di Ruolo dal vivo (LARP in Inglese) per raggiungere obiettivi con ragazzi e ragazze adolescenti, a partire dai 14 anni. Nasce come sviluppo di un lavoro psicoeducativo che porto avanti da anni, il LabGDR nel quale uso il Gioco di Ruolo tabletop come strumento riabilitativo e terapeutico. Ho portato la mia esperienza di LabGDR a Lucca Educational 2017 insieme a Marco Modugno, riscontrando grande interesse e partecipazione da parte dei presenti. Attualmente sono il responsabile del LabGDR presso il centro clinico CuoreMenteLab.
In psicologia e psicoterapia il gioco di ruolo è una attività nota come una tecnica di apprendimento all´interno dei contesti interpersonali attraverso l´assunzione di ruoli e mediante la simulazione. Le modalità di attuazione possono essere molteplici, ma in tutte le persone vengono invitate ad assumere un certo “ruolo” con delle caratteristiche e ad agirlo in una simulazione o direttamente con il terapeuta o con un gruppo, a seconda dei contesti.
Lame Nere: schemaNel contesto del gaming, per GDR live si intende un gioco dove i giocatori interpretano il ruolo di un personaggio e tramite la conversazione, lo scambio dialettico e l’azione portano avanti la storia in uno spazio immaginato e condiviso. Le regole di un GDR indicano come, quando e in che misura, ciascun giocatore può influenzare lo spazio immaginato. Il gioco ha una ambientazione specifica dentro la quale seguendo il regolamento e la loro iniziativa, i giocatori si muovono. Ogni personaggio è caratterizzato da varie caratteristiche a seconda del tipo di gioco di ruolo, un abbigliamento ed equipaggiamento specifico, una storia personale ed unica.
Nel gioco, Le Nere Lame sono una compagnia di avventurieri con la missione specifica di opporsi al male. Lo fanno in modi diversi: la feroce caccia alle creature malvage (in particolare i Draghi), la compassione verso la sofferenza, la cura dello spirito e l’elevazione culturale. Questi elementi sono racchiusi nello stemma della Compagnia dove la spada nera, che trafigge il drago così come fece Turin con Glaurung, rappresenta la dimensione agonistica e combattiva, la lacrima, memoria di Nienor, rappresenta la compassione e la cura dell’altro e le sette stelle sono segno delle pietre veggenti che gli Eldar hanno donato ai Numenoreani e rappresentano la Sapienza e l’amore per la bellezza. Vivono nella Terra di Mezzo nel periodo precedente la Guerra dell’Anello. Ho cercato di infondere, il più possibile e per quanto mi è possibile, nel progetto uno spirito autenticamente Tolkieniano, rimanendo fedele al “canone” e in questo intento le frequentazione del gruppo Studi Tolkieniani è stato fondamentale donandomi costanti stimoli creativi e pareri di esperti quando avevo bisogno di consultazioni.
Lame Nere: combattimentoDurante il corso i ragazzi hanno fatto molteplici tipi di esperienze perché abbiamo pensato di fornire loro diversi stimoli come un laboratorio teatrale per calarsi meglio nel personaggio e superare dei blocchi relazionali, un incontro con un esperto di storytelling per dare struttura e profondità alla storia del proprio personaggio, lavori di gruppo sulle emozioni, allenamento con le armi, cacce al tesoro, tornei e guerra con orchi, fino a cantare l’inno de Le Nere Lame in coro con un maestro di musica. Il tutto culminerà con un campo di due giorni all’aperto dove faremo una immersione totale nella Terra di Mezzo.
Sono stato inoltre molto fortunato a lavorare con un team di appassionati professionisti con i quali condivido le scelte e la programmazione e senza i quali, non ci sarebbe il progetto così come è ora. Ringrazio quindi Antonio Scicchitano, Massimiliano Iemma ed Elisa Marconi che stanno portando avanti con me il progetto psicoeducativo».

Quale effetto si attende sui partecipanti?
Plotone Turin«Abbiamo fissato degli ambiti d’intervento decodificandoli in obiettivi educativi che hanno un corrispettivo elemento di gioco. Ad esempio attraverso la creazione del personaggio, della sua storia e dei Punti Ombra contiamo di fornire ai ragazzi un’occasione per lavorare sulle proprie fragilità interne superando le difese e favorendo la coerenza interna. Grazie al combattimento individuale e di gruppo riusciamo a lavorare sull’impulsività, la gestione dell’eccitazione e della variazione dell’arousal e la coordinazione di gruppo. Abbiamo inserito anche la Musica, elemento che in Tolkien ha un importantissimo ruolo, con il coro sull’inno de Le Nere Lame lavoreremo sull’espressione artistica, la sintonizzazione sonora ed emotiva e la cooperazione. Ci dedicheremo anche alla Guarigione, la Conoscenza di Antiche Storie e la Capacità di Stare in Compagnia favorendo nei ragazzi lo sviluppo del senso di appartenenza, l’acquisizione di tecniche di gestione emotive e la possibilità di ristabilire l’equilibrio interno grazie alla consapevolezza delle proprie fragilità e dei comportamenti adeguati. Un altro obiettivo che mi prefiggo è quello di contribuire a diffondere l’opera del mio autore preferito, certo di portare un beneficio nei ragazzi facendoli immergere nell’ambientazione fantasy che ritengo superiore ad ogni altra».

Dal punto di vista medico scientifico c’è una letteratura su cui basi il tuo lavoro?
Plotone Earendil«Riguardo il beneficio che un progetto come Le Nere Lame può apportare ai ragazzi, non esiste letteratura di riferimento perché è un progetto innovativo. Esiste un interesse ancora embrionale ma molto promettente qui in Italia riguardo i serious game che credo sia in espansione. Le principali ricerche presenti e consultabili vertono soprattutto sull’ambito digitale, dato che l’interesse della ricerca si muove spesso in ragione della circolazione di denaro che può finanziare e sostenere i progetti di ricerca stessi. Un elemento che sembra essere dimostrato, ed applicabile al nostro livello d’azione è che gli aspetti ludici permettono al giocatore di vivere un’esperienza gratificante, fonte di emozioni positive come l’interesse, la curiosità, l’esplorazione, il senso della sfida e di autoefficacia. Queste emozioni positive esercitano una forte influenza sia sulla sua attenzione che sulle capacità di memorizzazione favorendo l’apprendimento. Più nello specifico, sono in grado di catturare le nostre risorse attentive e concentrarle sul compito che stiamo eseguendo (Fox et al., 2001; Anderson & Phelps, 2001). Un buon lavoro sui serious game è quello di Anolli e Mantovano “Come funziona la nostra mente. Apprendimento, simulazione e Serious Games”. Nello specifico del LARP ho trovato pochi articoli, tra cui un lavoro di Martin e Vaccaro del 2015.
Come dicevo prima l’interesse è il fermento culturale in questo ambito è alto e personalmente ho raccolto del materiale per questo laboratorio e conto di fare una pubblicazione sia su riviste di settore che manualistica cominciando ad aprire il dibattito sul tema e a favorire l’uso e l’applicabilità de Gioco di Ruolo in ambito psicoeducativo.

Si può far rientrare il suo lavoro in una forma di biblio-terapia?
Lame Nere: canzoni«No, è più appropriato dire che l’approccio è molto esperienziale, anche se la dimensione narrativa è una delle 6 traiettorie di intervento. I ragazzi vengono incoraggiati ad accostarsi alle opere di Tolkien partendo dalle dinamiche di gioco, come per esempio conoscere la storia degli eroi il cui nome viene dato ai tre plotoni “Turin”, “Earendil” e “Bard”, ma oltre a questo ci sono molte altre attività. Quando abbiamo stabilito i principi progettuali del corso abbiamo scelto come linea quella di fornire diversi spunti ai ragazzi. Musica e armonia, storie e narrazione, combattimento e cura, dando così ai ragazzi, che sono tutti diversi, una variegata possibilità di stimoli ai quali reagire e agganciarsi emotivamente e dal punto di vista motivazionale. Abbiamo insistito particolarmente a creare situazioni educative dove sperimentare l’attività fisica e di gruppo, cosa che reputiamo particolarmente utile perché minacciata dal dilagare dell’uso pervasivo ed intrusivo dell’uso dello smartphone. Non sempre però la presenza degli smartphone, dei social e della connessione continua viene gestita positivamente. Soprattutto per i ragazzi adolescenti. Accanto al tempo passato on-line, pensiamo sia importante fargli vivere esperienze off-line di divertimento e condivisione che li aiutino ad apprezzare anche gli spazi e le relazioni senza mediazione tecnologica. Per questo abbiamo pensato che il progetto Le Nere Lame deve essere Digital Detox inserendo degli accorgimenti e buone prassi di educazione digitale
– chiediamo ai ragazzi di consegnarci gli smartphone ad ogni sessione di gioco e anche durante le giornate intere.
– facciamo far loro esperienze che coinvolgono corpo, emozioni, vissuto di gruppo che attraverso la tecnologia sono di fatto inaccessibili.
– usiamo la tecnologia in modo positivo, creando un gruppo apposito sui social, usando netiquette e principi che aiutino i ragazzi a navigare in rete».

È a conoscenza dei altri progetti fatti in precedenza come questo?
«Effettivamente, no. Credo sia un progetto del tutto originale. Esistono esperienze che utilizzano il LARP con finalità educative ma non sono entrato in contatto con esperienze che hanno una progettualità e ampiezza come il nostro Le Nere Lame».

Può parlarci di casi passati legati a Tolkien che hanno avuto successo?
Lame nere: lezione introduttiva«È la prima volta che uso l’ambientazione tolkieniana per un progetto educativo e, anche se non è ancora terminato, possiamo già dire che possiamo registrare un primo successo. Abbiamo riscosso grande interesse dalle famiglie che ci hanno dato la fiducia necessaria affidandoci i ragazzi, e con i ragazzi stessi che continuano a venire con assiduità e grande coinvolgimento. Un ragazzo dotato in musica mi ha appena inviato una composizione musicale di 6 min che ha immaginato essere la colonna sonora del nostro laboratorio, altri hanno costruito artigianalmente un mantello con lo stemma della Compagnia e sono nate nuove amicizie.
Un successo pregresso è l’uso dei personaggi all’interno di conferenze per ragazzi sul tema dell’affettività. Per far capire l’importanza di resistere alla bramosia di possesso che tante volte inquina e non permette libertà nell’amare, visioniamo insieme spezzoni del Signore degli Anelli dove Aragorn e Galadriel rifiutano l’anello e in questo modo riescono ad incontrare pienamente l’altro che gli sta davanti in quel momento e ad abbracciare il loro destino pienamente. L’effetto sui ragazzi è immediato ed incisivo».

Quali saranno i prossimi passi del progetto?
Lame Nere: giochi«Il progetto Le Nere Lame ha diverse modalità di espansione. Vorremmo renderlo un format stabile da ripetere con i ragazzi dai 14 anni in su, ma anche per i più piccoli in modo da estendere l’utenza di riferimento e cominciare a costruire un percorso educativo sensato rispetto alle diverse fasce d’età. Uno sviluppo possibile sarà quello di frequentare insieme ai ragazzi più grandi gli eventi LARP e a tal fine io e altri del team andremo al prossimo Battle For Vilegis per testarne direttamente la frequentabilità da parte dei ragazzi all’interno di un progetto educativo ma anche, non lo nascondo, per divertici. Io sono il primo che amo divertirmi e mettermi in discussione e sarà bello farlo in quel contesto portando la compagnia de Le Nere Lame, squisitamente tolkienana all’interno del più grande evento larping italiano. Abbiamo intenzione di stabilire partnership e collaborazioni in modo da fare rete con altre associazioni e agenzie educative».

Ha progetti futuri o piani a lunga scadenza legati alle opere di Tolkien?
«Si. Ho già avuto l’interesse di una casa editrice per un libro su Tolkien e la psicologia, ma per ora non ho il tempo di realizzarlo, quindi questo è un progetto a lunghissima scadenza, temo. Nel frattempo continuare ad approfondire la sua opera con lo studio personale e potrei pensare a medio termine di pubblicare un saggio breve o un articolo sulla “Guarigione e dimensione personologica in Tolkien”».

GUARDA LA FOTOGALLERY:

.

Esclusiva AIST: intervista a Martin Freeman

La XXIII edizione di Romics ha celebrato Martin Freeman, con l’assegnazione del primo Romics d’Oro mai attribuito a un attore. Il divo britannico è uno straordinario interprete di personaggi che dalla letteratura e dai fumetti sono passati al cinema, dalla televisione al teatro, in un’ottica assolutamente transmediale. Freeman è passato così dalla Guida galattica per autostoppisti a The Office a Fargo, dai film Marvel al supernatural thriller con Ghost Stories che uscirà nelle sale il 19 aprile. Ma uno dei ruoli più amati è quello di Bilbo Baggins nei tre adattamenti del romanzo di J.R.R. Tolkien Lo Hobbit (Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, Lo Hobbit – La desolazione di Smaug e Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate, usciti rispettivamente nel 2012, nel 2013 e nel 2014). L’attore britannico Martin Freeman, che ha incontrato ieri i suoi numerosissimi fan al Pala Romics, dove ha discusso della sua carriera artistica, dei suoi film più celebri, delle sue passioni e dei suoi progetti futuri.
Martin FreemanNel corso dell’incontro, preso d’assalto da migliaia di fan di Freeman nel padiglione 8 della Fiera di Roma, si è parlato anche della prossima stagione di Sherlock e del nuovi film in uscita. «Non mi piace incasellarmi in generi filmici specifici», ha detto l’attore, «preferisco essere coinvolto in belle storie e in belle sceneggiature. È stato un caso, infatti, aver interpretato ruoli dotati di una precedente vita letteraria. Non nego, però, che lavorare a sceneggiature tratte da libri è molto bello, perché infonde più ricchezza all’attore che deve interpretarli». E proprio a Romics, l’AIST ha ottenuto la possibilità  di fare un’intervista in esclusiva a Martin Freeman tutta dedicata al suo rapporto con Tolkien, il ruolo di Bilbo Baggins e sulla nuova serie tv. Buona lettura!

L’intervista di Roberto Arduini

Martin FreemanMr. Freeman, sappiamo che non aveva letto le opere di Tolkien prima di partecipare alla trilogia de Lo Hobbit. A distanza di anni, ha ora letto qualcosa?
«Sì, ho recuperato! Non sono cresciuto leggendo i libri di Tolkien e ho conosciuto le sue opere solo attraverso la prima trilogia. Peter Jackson ha fatto un lavoro strabiliante per portare Il Signore degli Anelli dai libri allo schermo e questo è dovuto solo al fatto che lui ama quel libro e lo conosce approfonditamente. Lo stesso è accaduto per Lo Hobbit, che inizialmente doveva essere una saga di soli due film, poi divenuti una trilogia. Solo grazie a Jackson quell’operazione così difficile è potuta riuscire».
Aveva detto che avrebbe voluto leggere Lo Hobbit ai suoi figli: è riuscito a farlo?
«No. Avrei voluto, ma non ho più potuto farlo perché… loro hanno poi visto i film in cui c’ero io! Un po’ è anche dovuto al fatto che all’epoca dell’uscita dei film i miei figli avevano già superato l’età in cui solitamente si legge quel libro. Non ho voluto forzali e aspetto che si avvicinino da soli alla lettura».
Cosa le è rimasto dell’esperienza di quei film e della loro realizzazione in Nuova Zelanda?
«La Nuova Zelanda è una terra bellissima con gente bellissima. Non riesco ad immaginare la mia carriera senza quella esperienza. Il mondo di Tolkien, nel modo in cui Jackson lo ha visto, è poi molto inglese. Naturalmente, io sono inglese, quindi è stato facile per me immedesimarmi in quel mondo e portarmi dentro un ricordo ancora vivo di quei giorni. E poi, ho la mia versione personale di Bag End: la casa in cui vivo nell’Hertfordshire, a nord di Londra».
Quale è stata la cosa più utile per entrare nella Terra di Mezzo di Jackson?
«La cosa realmente utile oltre che tra le primissime cose ricevute, è stato una nota preliminare di commento direttamente da Jackson stesso, in anticipo sulla lavorazione, che gli sottolineava come gli Hobbit non fossero un popolo completamente umano. È stata la chiave di lettura più importante per entrare nel ruolo di Bilbo perché grazie a essa sono riuscito a rendere lo hobbit in parte umano in parte una creatura della foresta, cosa che poi si è riflessa sul suo atteggiamento fisico. Ogni hobbit è come un animale in basso nella catena alimentare, quindi c’è un’attenzione particolare a tutto ciò che lo circonda, a ogni potenziale pericolo perché in ogni momento qualche animale feroce può sbucare da dietro un albero e mangiarselo. È stato uno dei primissimi suggerimenti del regista, che però si è rivelato per me fondamentale nell’interpretazione del ruolo di Bilbo Baggins».
Come è giunto alla resa di questo ruolo, che mi sembra abbia un linguaggio del corpo molto accentuato?
«Esatto, ho voluto accentuare l’interpretazione fisica del piccolo hobbit proprio seguendo questa linea, anche perché non avevo molti altri punti di contatto con quel personaggio e quel mondo fantastico. Più in generale, un attore deve sempre lavorare sul fisico del personaggio che andrà a interpretare, anche perché quel fisico, quei gesti, quelle movenze andranno a informare di sé il personaggio rendendolo diverso e unico rispetto ad altri personaggi interpretati. Ci sono due tipi di approccio: quello tutto mentale, tutto è nella tua testa e questo si manifesta poi nel modo in cui si recita un personaggio; quello prevalentemente fisico, in cui se tu cammini per una stanza zoppicando, questo cambierà anche il modo in cui percepire il personaggio e l’ambiente esterno. Questo è il motivo per cui interpretando Watson nella serie Sherlock, gli ho dato un modo di camminare tipico di un ex militare che ha subito una ferita. Così Bilbo è continuamente all’erta e i suoi movimenti rapidi e silenziosi sono la conseguenza di una vita di una piccola creatura in un mondo più grande di lei».
Quindi interpretare Bilbo Baggins ha modificato il suo immaginario?
«Dopo quel ruolo, ho un grande rispetto per le opere di Tolkien. Si può dire che ora le apprezzo. È stato un bene poter entrare in quel mondo, anche se solo nella versione fornita di Jackson. Ho un grande rispetto per tutto il suo lavoro, anche perché – ed è una cosa abbastanza banale – è realmente il padre del genere fantasy e dobbiamo a lui se oggi ci sono così tante storie fantastiche. Il suo lavoro fornisce l’archetipo e il progetto per mille altre storie, penso che sia il motivo per cui persiste ed è così affascinante. Direttamente o indirettamente, tutti gli scrittori devono fare i conti con lui. La sua influenza sul genere è enorme e continua ancora oggi».
Amazon ha iniziato le trattative con i legali di Peter Jackson. Secondo te, la serie tv dovrebbe essere in continuità con i film oppure è meglio se avesse una forza immaginativa nuova e originale?
«Dal punto di vista cinematografico o televisivo è difficile prescindere da quell’immaginario. Generazioni di appassionati ci sono cresciute e non si possono nemmeno sottovalutare tutti i premi Oscar vinti dalla prima trilogia nei settori che hanno creato quel mondo, scenografia, effetti speciali costumi, ecc. Oggi, nel 2018, immaginare la Terra di Mezzo sullo schermo significa immaginare quella realizzata da Peter Jackson e così fanno bambini, ragazzi e giovani dai dieci anni in su. Insomma, l’ombra di Jackson su quell’immaginario è molto lunga! Chi prenderà altre vie farà una scelta importante. Eppure, come sa, il progetto originario de Lo Hobbit prevedeva la regia di Guillermo Del Toro e il suo approccio stilistico alla Terra di Mezzo era molto diverso da quello di Jackson. Solo il suo abbandono e il successivo ritorno del regista neozelandese ha permesso una continuità notevole tra le due trilogie, che altrimenti non ci sarebbe stata. Sicuramente, se ci sarà un nuovo regista – e deve essere brillante – porterà con sé la sua visione personale e originale di quel mondo fantastico. Del resto, lo stesso Jackson è stato il primo ad auspicarsi di vedere altri approcci alle opere di Tolkien».

GUARDA LA FOTOGALLERY

Le “nuove” Lettere: l’intervista al traduttore

Tolkien - Lettere 1914-1973Avevamo annunciato, ad aprile, l’arrivo di una nuova traduzione delle Lettere di Tolkien e la fatidica data si avvicina: il 3 gennaio 2018, dopo essere stato fuori catalogo per tanti anni, torna ad essere disponibile l’epistolario del Professore oxoniense. Dall’acquisizione della Bompiani da parte del Gruppo Giunti, si è instaurata una collaborazione tra quest’ultimo e l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, che ci ha permesso di segnalare numerosi errori presenti in varie traduzioni delle opere tolkieniane, portando così ad un miglioramento delle edizioni italiane. Interpellati su quale opera necessitasse prioritariamente di una revisione, abbiamo suggerito non una semplice ristampa riveduta delle Lettere, ma una nuova traduzione. Lorenzo Gammarelli, socio, saggista e traduttore AIST, ha ricevuto l’onere o l’onore di questo compito: ritradurre le lettere del Professore. Già curatore delle edizioni italiane del Cacciatore di draghi e del Fabbro di Wootton Major, della traduzione del volume critico Tolkien e la Grande Guerra di John Garth, Gammarelli è anche studioso tolkieniano, i cui saggi sono apparsi nei volumi All’ombra del Signore degli Anelli (Delmiglio editore), La falce spezzata e C’era una volta…Lo Hobbit (Marietti 1820).
A meno di una settimana dalla fatidica data, vi proponiamo un’intervista col nostro traduttore!

Prima cosa: perché Lettere 1914-1973 e non più La realtà in trasparenza?
«Premesso che il titolo viene scelto dall’editore, non nascondo di avere fortemente caldeggiato questo cambiamento. Il motivo principale è per allinearsi al titolo inglese (e delle altre lingue in cui le lettere sono state tradotte). Poi, per una sorta di onestà intellettuale nei confronti del lettore: sono convinto che il titolo di un testo non narrativo debba riflettere il reale contenuto del libro. Infine, anche perché ho sempre trovato la realtà in trasparenza un titolo forse poetico ma inadatto e poco pertinente, e per me francamente inspiegabile».

Come sei diventato il traduttore delle Lettere?
Lorenzo Gammarelli«In modo decisamente non casuale. Dopo le note vicende societarie che l’hanno riguardata, e forse proprio per rimarcare una discontinuità con il passato, la casa editrice Bompiani ha deciso che era giunto il momento di ripubblicare le Lettere, che da troppi anni erano ormai fuori catalogo; ha chiesto consiglio all’Associazione italiana studi tolkieniani, che attualmente nel nostro Paese è la più importante associazione dedicata allo studio dell’opera di Tolkien, e insieme hanno deciso che non sarebbe stato sufficiente ripubblicarle, ma che stato necessario ritradurle completamente. L’AIST ha suggerito di assegnare a me l’incarico, e dato che la Bompiani già mi conosceva, perché avevo lavorato come curatore delle nuove edizioni del Cacciatore di draghi e del Fabbro di Wootton Major, ecco fatto!
O quasi: in realtà, prima di dare il via, la Bompiani ha dovuto sottoporre il mio nome alla HarperCollins e alla Tolkien Estate, rispettivamente casa editrice inglese e società che detiene i diritti letterari dell’opera di Tolkien, per chiederne l’approvazione. Devo confessare che la settimana in attesa di una risposta da Londra è stata piuttosto ansiogena».

Particolari difficoltà?
«Per me le lettere più difficili da tradurre sono state quelle in cui Tolkien affronta tematiche religiose: il linguaggio di Tolkien, solitamente molto chiaro, si fa più involuto e complicato: ci si trovano termini poco comuni, termini comuni ma con accezioni particolari, costruzioni sintattiche che in inglese non ci si aspetterebbe, citazioni con riferimenti ad autori non famosissimi, spesso con qualche cambiamento, cosicché è anche impossibile risalire alla frase originale».

Lettere - nuova traduzione
Perché sono così importanti le Lettere?
«Sappiamo (in gran parte dalle lettere stesse) che Tolkien non era un fautore del biografismo, e anzi considerava impertinenti i tentativi di leggere la sua opera attraverso dettagli biografici, quindi è molto importante dare alle Lettere il giusto valore come inestimabile fonte di informazioni biografiche e sul pensiero di Tolkien, ma senza spingersi oltre, e soprattutto senza usarle per far dire a Tolkien quello che vogliamo dire noi».

Qual è stata la scoperta più interessante o sorprendente che hai fatto traducendo le Lettere?
«Ovviamente già conoscevo le lettere, e le avevo già lette. Ritraducendole, però, ho potuto apprezzare l’umanità di Tolkien, e quanto, diversamente dalla vulgata comunemente diffusa, fosse informato e interessato al mondo e agli avvenimenti che lo circondavano».

L’ultima edizione inglese delle Lettere è caratterizzata da un indice molto ricco: è stato tradotto?
«Questa edizione delle Lettere ha un indice, più corposo rispetto a quello della vecchia edizione italiana, ma che non si avvicina nemmeno alla complessità e completezza di quello inglese. Considerate che l’indice inglese è stato compilato nel corso di svariati anni da Christine Scull e Wayne Hammond, i due massimi esperti di bibliografia tolkieniana; per quello italiano abbiamo dovuto fare in poco più di un mese».

Come mai direttamente in edizione economica? Non sarebbe stato meglio pubblicare prima un’edizione rilegata?
«Questo dipende da considerazioni editoriali che spettano unicamente all’editore, e sulle quali come traduttore non ho alcuna voce in capitolo. Anche a me sarebbe piaciuta una bella edizione rilegata, ma possiamo sempre sperare: se quella economica dovesse vendere molto, la Bompiani potrebbe forse prenderla in considerazione; quindi, comprate tutti il libro!».

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Dal 3 gennaio 2018 le lettere di Tolkien
– Leggi l’articolo Annunciata una nuova traduzione per le Lettere di Tolkien
– Leggi l’articolo Le Lettere di Tolkien finiscono fuori catalogo

.


Marche, il programma dei Cavalieri del Mark

Cavalieri del MarkI Cavalieri del Mark, divenuti associazione nel gennaio 2016, organizzatori di eventi tolkieniani fin dal principio, propongono anche questo autunno un serie di incontri che approfondiranno le opere del Professore. Già promotori della mostra su Lo Hobbit dal titolo In te c’è più di quanto tu creda: l’avventura umana secondo Tolkien ne Lo Hobbit che si tenne a Castelfidardo dal 23 aprile al primo maggio, lo smial marchigiano continua la sua crescita. Per l’occasione abbiamo intervistato Giuseppe Scattolini, presidente dei Cavalieri del Mark: buona lettura!

Lo smial è attivo da alcuni anni. Siete cresciuti e avete fatto tesoro di quali esperienze?
«Sì, il nostro smial è cresciuto. Senza nemmeno accorgersene, I Cavalieri del Mark hanno passato un altro anno insieme. La nostra amicizia si è approfondita, e col tempo abbiamo via via maturato la nostra identità. Sono state le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare e le esperienze e gli errori, e le cose buone, che abbiamo fatto insieme, a farci scoprire quello che noi oggi chiamiamo “il nostro metodo”, che è la strada attraverso cui noi camminiamo e seguiamo le orme del Professore di Oxford, J.R.R. Tolkien, secondo l’eredità che ci ha lasciato».

Ci può spiegare meglio il vostro metodo?
«Per rispondere devo fare una lunga premessa, partendo dalle molte particolarità e limitazioni del nostro smial».

Avete avuto difficoltà all’inizio?
«Sì. Solitamente, e che io sappia, nessun gruppo di tolkieniani in Italia ha mai dovuto affrontare, o ha mai affrontato, una realtà come quella che ci siamo trovati davanti. Anzitutto, il primo problema che abbiamo avuto è stato quello della distanza. Mentre tutti gli altri in Italia e in giro per l’Europa ed il mondo frequentano i Tolkieniani della propria città o vicino casa propria, il nostro gruppo si è trovato ad affrontare anzitutto una distanza geografica non del tutto indifferente. Maturare un’amicizia attraverso la frequentazione costante e settimanale, o magari giornaliera, permette di rendere i legami più solidi. Noi ci abbiamo invece messo molti mesi a conoscerci, ed ancora non ci conosciamo davvero bene. Alcuni di noi si vedono solo poche volte, due o tre, ogni anno, ed è già una stima al rialzo.
Inoltre, tra noi non ci sono studiosi di Tolkien. Mi sono reso conto che se due persone non si conoscono ma hanno un interesse di studi in comune possono rompere il ghiaccio iniziando a parlarne. Io mi ricordo ancora il nostro primo incontro, nell’ottobre del 2015, quando non sapevamo nulla dell’altro e mai abbiamo saputo impostare un discorso su Tolkien: abbiamo sempre e solo avuto la nostra passione da condividere.
Infine, anche le nostre provenienze culturali, relative alla visione del mondo, alla politica, al credo religioso, sono diverse!».

I Cavalieri del MarkQuindi, solo col tempo avete trovato il vostro metodo?
«Il panorama tolkieniano con cui abbiamo dovuto confrontarci era vasto, con vari gruppi ed associazioni in competizione, e nessuno pronto a fidarsi di noi. Solo l’AIST lo ha fatto fin da subito: una cosa che non dimenticheremo mai. Inoltre abbiamo notato un distacco che, per quanto evidente, pochi cercano di colmare, tra studiosi di Tolkien, che mettono in campo bibliografie chilometriche, e gli appassionati come noi, lasciati tristemente a parlare solo dei film o dei personaggi preferiti del Signore degli Anelli, e la cui massima ambizione è un tatuaggio con la traslitterazione (nemmeno la traduzione) del proprio nome in elfico, o simili.
Ecco, noi ci siamo ritrovati gettati in tutto questo, esattamente come accadde a Bilbo, in un’avventura certamente più grande di noi. Ma, piano piano, abbiamo trovato la nostra strada: siamo stati in effetti quasi “costretti” dalle circostanze a mettere in pratica ed a fare nostra l’eredità di Tolkien. Non che la lettura di Tolkien ci abbia dato come evidenti e necessarie tutte queste cose. Ma, proprio grazie ai nostri “limiti”, abbiamo dato un valore alla diversità intensissimo e cruciale, cardinale, perché abbiamo capito, con Tolkien, che la crescita dell’identità avviene davvero solo attraverso una comprensione reciproca, e che la comprensione reciproca avviene, di contro, realmente solo se si dà valore alle identità e si permette loro di crescere insieme, non ‘a fianco’ l’una dell’altra, ma l’una “dentro” l’altra».

E come avete messo in pratica il vostro “metodo”?
«Abbiamo iniziato dal web, anche se non era immediato o auto-evidente il progetto della nostra pagina. È iniziato giusto per far conoscere la nostra associazione. Ma con questo è piano piano cresciuto il nostro metodo, e via via sempre più è questo che abbiamo proposto alle persone. Farci conoscere non è stato facile, abbiamo lavorato tanto, sia sulla pagina Facebook che dal vivo, e vediamo sempre più partecipazione, sempre più voglia di essere “vivi” delle persone. Certamente, affinché un progetto e un metodo del genere abbiano realmente presa e significato, e se ne vedano gli effetti, ci vorrà del tempo, ma il paragone migliore è quello con “l’albero”: più il tempo passa, più il tronco si fortifica, le foglie crescono e divengono più belle, ed in primavera arrivano i fiori e i frutti, e questo perché le radici si ramificano sempre più e vanno sempre più a fondo. Noi abbiamo deciso di non gettare il nostro seme sui sassi, dove presto fiorisce ma alla prima intemperia viene sradicato perché non ha forza. Abbiamo scelto di coltivare la terra buona, e di non avere fretta, e di vedere crescere questa pianta. Ci vorrà quanto ci vorrà, fiorirà. Anche qui seguiamo Tolkien: il significato del suo albero delle storie non sta solamente nel fatto più visibile che ogni foglia e ramo dell’albero rappresentano una storia, ma piuttosto come le fiabe mettano in noi radici e danno frutto, seppure nel tempo ed in modo inaspettato».

Nel concreto cosa siete riusciti a organizzare. Potete descriverci quelle di quest’anno?
«Il nostro programma si divide ormai in due semestri. Lo smial marchigiano dei Cavalieri del Mark ha organizzato una serie di interventi tra gennaio e maggio scorso, approfondendo diversi aspetti delle opere tolkieniane. Abbiamo poi ripreso le attività il 23 settembre scorso riunendoci a Montegranaro per festeggiare lo Hobbit Day, il compleanno di Bilbo e Frodo Baggins. E dal 7 ottobre abbiamo iniziato il nostro programma autunnale, con un incontro sulle opere cosiddette minori di Tolkien».

Libri: The SilmarillionIn calce mettiamo le attività del programma. In futuro avete altri progetti?
«Per il futuro abbiamo progetti, o meglio, la volontà di proseguire per questa strada. Mentre il senso del programma che pensiamo annualmente rispecchia la nostra volontà di aprire sempre di più Tolkien alla comprensione e all’amore e alla passione delle persone, abbiamo un obiettivo molto chiaro e più a lungo termine: 1) far innamorare le persone del Silmarillion. Non ci si può limitare a leggere Tolkien solo nelle sue opere più conosciute e popolari, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Per questo vogliamo realizzare una mostra sul Silmarillion.
2) Concretamente, in futuro abbiamo in mente di fare un convegno sulle lettere, che verranno, grazie all’AIST, ripubblicate il prossimo 3 gennaio. 3) Pensiamo poi sia fondamentale fare almeno un tentativo di mettere in piedi un seminario di lingua inglese, per imparare insieme l’inglese, appunto, sui testi di Tolkien: così ho fatto io da auto-didatta, e se trasmetto tutte le altre mie esperienze vorrei provare a trasmettere anche questa, che credo possa essere più che importante per permettere alle persone di mettersi a leggere Tolkien in piena autonomia, senza dipendere sempre dagli altri e dalle loro traduzioni. 4) Inoltre, il prossimo 22 settembre saremo a Dozza con i nostri amici di AIST, a FantastikA, per tenere un incontro sugli Hobbit in occasione dell’anniversario di nascita di Bilbo e di Frodo, e sarà bello festeggiare con loro questa data. Per il resto, potremmo anche fare altro, sempre tenendo come stella polare l’apertura totale di tutti i testi di Tolkien, per promuoverne una conoscenza integrale, perché non esistono né testi secondari né opere minori, per nessun autore e in modo particolare, ne siamo convinti, per il Professore di Oxford e Leeds (perché forse altro punto che viene sempre un po’ messo in secondo piano è che per anni Tolkien ha insegnato anche a Leeds, mentre Oxford è sempre sulla bocca di tutti)».

Un ultimo pensiero prima di salutarci?
«Infine, vorrei riassumere in poche parole la nostra esperienza, riportando quanto scrissi sulla nostra pagina qualche tempo fa: “Sono diventato davvero un tolkieniano perché qualcuno me lo ha detto. Fu Roberta Tosi, presidente degli Argonath di Verona, a chiamarmi così per la prima volta. “Tu sei un tolkieniano vero, un tolkieniano doc” mi diceva. Da quella volta, per me è rimasto quello il significato di “essere tolkieniano”. Non significa avere le medesime convinzioni del Professore. Non significa conoscere le sue opere a memoria. Non significa nemmeno vivere facendo dei suoi testi un codice etico e teorico entro cui racchiudere la propria vita. Essere un tolkieniano significa… non so dirlo bene. Amare, farsi ispirare, raccogliere e fare propria l’eredità che Tolkien, come un padre, ci ha lasciato. In qualche modo, essere tolkieniani significa essere suoi figli. Egli ci ha resi tali dischiudendo il suo cuore nelle sue opere, nel dono del suo genio e di tutto sé stesso. Ed allora, proprio come dei figli, dobbiamo oggi appressarci a ciò che di lui è vivo, che è la sua eredità che vive in noi, e che siamo noi”. Di qui, la mia e la nostra eterna amicizia e gratitudine a chi ci ha dato tanto, come Roberta e gli Argonath di Verona, e a chi fin da subito ha avuto fiducia in noi, l’AIST, in special modo nelle persone di Roberto Arduini e Claudio Antonio Testi. Senza Tolkien, nostro padre, noi, suoi figli, non saremmo qui a raccontarlo».

IL PROGRAMMA COMPLETO

1) 7 ottobre ore 18-20 Racconti dal Reame Periglioso: fiabe di contadini, draghi, fabbri e cagnolini (un viaggio nella comprensione delle Fiabe attraverso Roverandom, Il Cacciatore di Draghi e Fabbro di Wootton Major);

2) 21 ottobre ore 17-20 Tolkien e l’Italia: l’avventura del collezionismo, ospite relatore Oronzo Cilli, Presidente dei Collezionisti italiani, autore di Tolkien e l’Italia;

3) 4 novembre ore 18-20 Foglia di Niggle: l’Opera e il Pittore (un tentativo di comprensione di Foglia di Niggle, sarà disponibile per l’acquisto a offerta il racconto di Tolkien);

4) 18 novembre ore 16-20 La Falce Spezzata, Morte e Immortalità in Tolkien, ospiti relatori Claudio Antonio Testi, vice presidente di AIST e co-fondatore e segretario dell’Istituto Filosofico Studi Tomistici, e Roberta Tosi, Presidente della Compagnia degli Argonath di Verona, critico d’arte, scrittrice e curatrice della mostra su Lo Hobbit “In te c’è più di quanto tu creda: l’avventura umana secondo Tolkien ne Lo Hobbit“;

5) 2 dicembre ore 18-20 J.R.R. Tolkien: Autore del Secolo (discuteremo del perché secondo noi Tolkien è l’Autore del Secolo XX) di Giuseppe Scattolini, Presidente dei Cavalieri del Mark.

ARTICOLI PRCEDENTI:
– Leggi l’articolo Tolkien conquista la Toscana e le Marche
– Leggi l’articolo Tolkien nelle Marche: 10 giorni a Castelfidardo
– Leggi l’articolo Il 27 febbraio tre volte Tolkien a Verona, Roma e Marche

LINK ESTERNI:
– Vai alla pagina facebook degli eventi dei Cavalieri del Mark
– Vai alla pagina facebook dei Cavalieri del Mark

.


 

Stàlteri e Torbidoni: la musica in Tolkien è magia

Arturo Staltieri e Federica TorbidoniCome già annunciato nell’articolo Tolkien al Salone del Libro di Torino 2017!, l’AIST parteciperà al 30° edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, dove Tolkien e il fantastico saranno sotto i riflettori come non mai: la mostra di illustratori italiani Lords for the Ring, la lectio magistralis di Wu Ming 4 sabato 20 e la sera dello stesso giorno, il concerto di musiche ispirate al Signore degli Anelli di Arturo Stàlteri al piano e Federica Torbidoni al flauto, alle ore 20.00 al Borgo Medievale, in Viale Virgilio 107 Parco del Valentino.
L’AIST ha intervistato per i suoi lettori i due musicisti, indagando il loro rapporto con la musica e con Tolkien.

Arturo Stàlteri 01Pianista e compositore romano dalla originale cifra stilistica, Arturo Stàlteri (a destra, nella foto di Dino Ignani) è noto per essere il conduttore di importanti programmi radiofonici come “Primo Movimento” e “Il Concerto del Mattino” in onda su Radio3; di pari prestigio è anche il suo percorso artistico che si è sviluppato attraverso una lunga e importante carriera: dai primi esperimenti nell’ambito del progressive italiano con i Pierrote Lunaire negli anni ’70, per giungere alle collaborazioni con Rino Gaetano e nel recente passato anche con Franco Battiato, inseriti nel lavoro In Sete Altère, e nei due imperdibili volumi di Flowers fino alle riletture di Philip Glass e di Brian Eno.
Sono moltissime le opere di Stàlteri ispirate a Tolkien: del 2004 è Rings – Il Decimo Anello, pubblicato dalla Materiali Sonori e dedicato alla saga dell’Anello. Il suo interesse per le figure femminili del fantasy e delle science-fiction lo ha poi portato a incidere nel 2009 Half Angels, album dedicato a personaggi come Galadriel, Trinity, Æon Flux e Fiordiluna. Anche nel suo ultimo album Préludes, pubblicato lo scorso 9 settembre, che contiene ventidue brani, tutti preludi inediti ispirato a scritti di grandi autori classici, è presente Èowyn nella cui trama pianistica si ritrova il sempre amatissimo Tolkien. Con questa nuova produzione discografica Stàlteri propone un lavoro di grande spessore artistico-musicale, trasportando chi lo ascolta nel suo mondo fantastico, grazie ad una scrittura immediata e coinvolgente.

Hai sempre suonato o è una passione nata in età adulta?
A sei anni decisi che avrei suonato il pianoforte. Iniziai subito a studiarlo e non ho mai smesso…

Quando si pensa a un compositore e pianista come te, lo si immagina sepolto tra spartiti e note, immerso nella scrittura davanti al pianoforte. Come lavori davvero?
Quando studio composizioni di altri, effettivamente divento tutt’uno con lo spartito. Quando compongo la mia musica (tranne rare eccezioni in cui improvvisamente una melodia nasce nella mia mente), semplicemente comincio a improvvisare sulla tastiera, senza pensare troppo: di solito accade qualcosa…

Si può dire esista una musica classica tolkieniana?
Direi di sì, anche se Tolkien ha ispirato artisti in ogni campo della musica, dal folk, alla classica, al rock, al jazz… però personalmente trovo che le atmosfere dei suoi libri evochino un mondo musicale di ambientazione nordica, lontano nel tempo. Quindi penso a suggestioni sonore che raccontino il mistero e l’inconoscibile. Credo che la musica celtica possa essere un buon punto di partenza.

Cosa ti ha portato a occuparti di musica tolkieniana?
Era inevitabile! Una volta iniziato a leggere la Trilogia, nel lontano 1974, ho pensato subito che avrei dovuto creare delle musiche che ne divenissero la “mia” colonna sonora, e mi sono messo immediatamente in cerca di altri artisti che avessero fatto la stessa cosa!

Se dovessi definire il ritmo nella musica tolkieniana, cosa diresti?
Non so, è difficile spiegarlo… è un autore che si muove in molte direzioni. La sua scrittura, e le sue vicende, possono ispirare frasi musicali incantate, dilatate e oniriche, oppure melodie molto intense, con ritmi ossessivi e di grande potenza drammatica.

La musica tolkieniana è una forma d’arte o semplice intrattenimento?
Dipende da chi la compone! Comunque è arte, assolutamente…

Nel contesto internazionale lo studio della musica classica tolkieniana è particolarmente vivace?
Nel contesto internazionale è viva più che mai… continuamente appaiono nuovi contributi. Personalmente continuo a prediligere il lavoro dell’indimenticabile Bo Hansson. Anche il Tolkien Ensemble ha realizzato delle belle incisioni, e trovo molto convincente l’omaggio dei Mostly Autumn.

Che spazio trova la musica tolkieniana in Italia?
In Italia lo spazio non è enorme. Mi sembra, ad esempio, che nel sud i musicisti lo ignorino quasi completamente. Ma potrei sbagliare…

Se dovessi consigliare 3 opere ispirate a Tolkien, su cosa punteresti?
Sicuramente, come dicevo, Music Inspired by Lord of the Rings di Bo Hansson. Poi A Night in Rivendell, del Tolkien Ensemble e, per concludere, Music Inspired by the Lord of the Rings, dei Mostly Autumn.

Federica TorbidoniFederica Torbidoni (a sinistra nella foto di Giovanni Matarazzo), diplomata in flauto al Conservatorio “G. Briccialdi “ di Terni con il massimo dei voti, ha suonato come primo flauto e solista nell’Orchestra da Camera di Ancona da quando aveva solo 15 anni. Dopo aver seguito corsi di perfezionamento, nel 1991 è stata primo flauto nell’Orchestre Acadèmie Internationale de Pontarlier e successivamente ha collaborato con L’Orchestra “G. Briccialdi” di Terni, L’Orchestra Filarmonica Marchigiana, L’Orchestra Giovanile della Marsica, Orchestra dell’Istituzione Sinfonica Di Roma. Dal 1990 fa parte dell’Ensemble Nino Rota con il quale svolge un’intensa attività concertistica in tutta Europa e non solo, suonando nei teatri di importanti città quali ad esempio Roma, Milano, Stoccolma, Lisbona, Lione, Zagabria. Sempre con l’Ensemble Nino Rota ha inciso numerosi CD ed effettuato registrazioni per la Rai e per la Televisione Nazionale Portoghese.

Hai sempre suonato o è una passione nata in età adulta?
Ho iniziato da bambina per volontà di mia madre di continuare la tradizione della sua famiglia che contava diversi musicisti. Ma qualche anno di studi dopo c’è stata come una illuminazione, una rivelazione, all’improvviso ho sentito che quella non solo era l’unica passione della mia vita, ma che sarebbe stata la mia unica attività futura.

Quale è stato il motore che ha innescato in te la passione per il flauto in particolare?
L’oggettivizzazione di questa passione si è verificata nel momento in cui ho cominciato a suonare con gli altri. Ho sentito che avevo trovato un modo più naturale e bello di esprimermi (sono una persona timida e riservata se non introversa) e comunicare, con un linguaggio e degli argomenti (la musica appunto) di una oggettiva bellezza, lontano dalla banalità, l’insensibilità e la crudeltà del mondo comune.

Cosa significa per te suonare il flauto? Quale è la storia che accompagna questo tipo di strumento e quali tipologie di flauto suoni?
È attraverso il flauto che ho fatto le esperienze più belle: per esempio i viaggi in tutto il mondo grazie soprattutto al gruppo dove suono dal 1995, il Nino Rota Ensemble, tra i primi gruppi in Italia a proporre in versione di musica da camera le più belle colonne sonore dei film che hanno fatto la storia del cinema, scritte da autori del calibro di Rota, Morricone, Cipriani, Piovani a anche stranieri. Ma non solo esperienze esterne quanto soprattutto all’interno di me; la continua sfida a migliorarsi sempre, il raggiungimento di obiettivi l’avvicinarsi all’idea di perfezione e contemporaneamente vivere in un mondo leggermente “sopraelevato“ da quello reale in un mondo quasi fiabesco e qui entra in gioco l’aspetto Tolkeniano: per me il flauto è una specie di oggetto magico per il suo aspetto, per il suo metallo pregiato e per la sua fattura complessa, tanto che nei laboratori dove è prodotto viene forgiato al pari di una spada quale poteva essere Anduril; e anche il suo suono, che è un respiro che parte da dentro e tagliando sapientemente la fredda imboccatura di metallo, crea melodie il cui timbro fa pensare a ere passate.

Quali sono stati i musicisti che hanno influito sulla tua formazione?
La mia formazione musicale è classica : studi in Conservatorio e perfezionamento in Accademie in Italia e all’estero. Amo tutta la musica classica dal Barocco fino alle avanguardie contemporanee, amo tutti gli autori classici con assoluta devozione per Mozart gli impressionisti francesi la scuola russa e Nino Rota.

Come è il tuo rapporto con lo strumento nella vita di tutti i giorni?
Come ho già detto la mia vita è quotidianamente legata allo studio ma trovare tempo per esercitarmi, fare le prove, ascoltare, non rappresenta mai un problema anzi è vitale; suono sempre, il suonare mi aiuta quando non sono in condizioni fisiche perfette, o psicologiche forse perché è una attività collegata alla respirazione profonda e quindi una sorta di pratica ascetica e meditativa.

Che tipo di repertorio affronti con Arturo?
Ho conosciuto Arturo grazie alla comune passione per il mondo nordico, Islanda in particolare e tutta l’iconografia le leggende e la musica ad essa collegata (voglio citare il gruppo post rock Sigur Ros del quale siamo entrambi fan ). Questo incontro e successiva collaborazione con lui è stato per me un regalo inaspettato e prezioso perché finalmente ho potuto suonare tutta quella musica che fino a quel momento avevo solo ascoltato e amato.

Ci saranno dei vostri brani inediti in futuro?
Ho provato a rivolgere questa domanda ad Arturo ma poi mi è venuta in mente la frase de Il Signore degli Anelli detta da Frodo a Gilmor : “non rivolgerti agli Elfi per un consiglio, perché ti diranno sia no che sì ….”. Comunque mi auguro di sì.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo La primavera AIST: i nostri eventi!
– Leggi l’articolo Tolkien al Salone del Libro di Torino 2017!

LINK ESTERNI:
– Vai all’L’AIST al Salone Internazionale del Libro
– Vai al sito del Salone Internazionale del Libro

.


Tolkien Day, intervista agli Holy Martyr

Pochi giorni fa è stata annunciata la presenza degli Holy Martyr al Tolkien Day 2017, evento che si terrà al MACRO 128, lo spazio presso il Museo di Arte Contemporanea di Roma (Via Nizza 138, 00198 Roma), organizzato dall’Associazione Italiana Studi Tolkieniani in collaborazione con Ludomaniacs. La partecipazione del gruppo Epic metal italiano è dovuta alla recente pubblicazione dell’album Darkness Shall Prevail, disco interamente ispirato dalle opere di J.R.R. Tolkien. Abbiamo quindi incontrato la mente del gruppo, Ivano Spiga, per discutere della genesi e dello sviluppo del quarto full-length degli Holy Martyr. L’intervista è pubblicata in collaborazione con Metal Hammer Italia ed è stata realizzata dal caporedattore Stefano Giorgianni, autore del libro J.R.R. Tolkien Il Signore del Metallo (Tsunami edizioni, 2016), opera che sarà presentata anch’essa durante il Tolkien Day.

L’intervista

Siamo qui per parlare del vostro nuovo disco ‘Darkness Shall Prevail’, che esce sei anni dopo ‘Invincible’. Prima di tutto ti chiedo: cosa è successo in questi sei anni e perché tutto questo tempo tra i due album?
Nel 2013 mi sono trasferito da Milano a l’Aquila per lavoro, metà band è rimasta su al nord. Questo ha comportato uno stop forzato e molte difficoltà, incluso un cambio di line up.Siamo riusciti ad entrare in studio con una formazione stabile solo nel 2016. Diciamo che ci siamo fatti un pò desiderare dai fan che non ci hanno mai abbandonato, tornando in pompa magna come eroi dati per dispersi (ride, ndr.)!

Essendo da poco uscito il mio ultimo libro per Tsunami edizioni, incentrato sul rapporto Tolkien e musica metal, mi sono letteralmente mangiato le mani quando ho visto l’annuncio dell’uscita del vostro disco. Sarebbe un po’ stato il re della produzione italiana del Tolkien Metal. Pertanto ti chiedo, quando avete deciso di basare l’album sulla letteratura tolkieniana?
Che peccato…siamo in due a mangiarci le mani allora. L’idea di fare questo concept è iniziata nel 2013…molte idee erano presenti già nel 2012 e l’annuncio effettivo mi pare di averlo dato nel 2015 credo, saremo comunque stati in ritardo per il tuo libro. Prima o poi dovrò leggerlo, mi hai messo curiosità.

Cosa vi ha spinto a trarre ispirazione da Tolkien?
Ammetto di essere sempre stato un fan sfegatato di Tolkien, sin da ragazzino. Ho sempre desiderato fare canzoni ambientate nel suo mondo, ma sul finire dei 90 e dopo la trilogia di Peter Jackson, le tematiche di questo tipo erano un po’ abusate. Questo è anche il motivo per cui la band ha indirizzato i suoi dischi sulla Storia antica, differenziandosi in modo netto da altri gruppi. Fare un album ora sul Legendarium di Tolkien, mi è sembrata la cosa giusta al momento giusto, ed ho finalmente realizzato un piccolo sogno ma molto ambizioso.

All’interno della band siete tutti appassionati delle opere di Tolkien? Se sì, quali sono i libri che avete apprezzato maggiormente?
Il SilmarillionAlessandro penso abbia letto tutti i libri, e ricordo pure fosse abbastanza entusiasta della trilogia cinematografica di LOTR. Ma rispetto a me, è più un fan di Star Wars.
Il resto del gruppo probabilmente ha letto qualcosa, ma non ha sicuramente il mio stesso livello di fanatismo. Sentendo titoli come Taur Nu Fuin o The Dwarrowdelf avranno pensato a parole arabe. Posso dirti che almeno una volta all’anno, se ho tempo, rileggo il Signore Degli Anelli. Altro libro a cui sono molto legato è il Silmarillion.

Una domanda che ho fatto a diverse band per il mio libro, su tutti Summoning e Blind Guardian, la ripeto anche a voi. Qual è, secondo te, il motivo per cui Tolkien ha un’influenza così forte sui gruppi rock/metal?
Penso dipenda dal fatto che la descrizione del suo mondo sia così…reale. È tutto immaginario, eppure leggendo ti immergi e pensi sia vero, ti immedesimi. La musica, assieme ai libri, è la cosa che più di tutte lascia volare la fantasia e ti trasporta altrove. In campo Heavy Metal poi, oscurità ed epicità sono fondamentali nelle liriche e nell’atmosfera dei brani. La grandezza di Tolkien è stata proprio questa, aver creato un universo immenso, con una storia oscura, Epica e mitologica, che richiama quella dell’umanità. Nel caso di un gruppo Epic Metal come il nostro, addentrarsi in questo mondo è stato come un invito a nozze.

Mi sposterei un attimo sul titolo dell’album, ‘Darkness Shall Prevail’, un’inequivocabile richiamo al lato oscuro, per così dire (parafrasando una storica saga cinematografica), a una possibile vittoria del male (Melkor o Sauron che sia). Come mai questa scelta?
holy martyr album coverPenso che l’oscurità descritta nei libri di Tolkien sia resa in maniera straordinaria. La percepisci, è morbosa, nonostante ci siano tanti personaggi ‘buoni’ ed il male viene sconfitto, è sempre presente. Lo stesso Frodo riesce a terminare il suo compito per un caso fortuito, in cuor suo era ormai già corrotto. È stata una scelta più realistica e diversa dal solito, io solitamente preferisco la luce e i personaggi eroici, però il lato ‘oscuro’ di Tolkien è affascinante da descrivere. Sicuramente hanno influito anche l’atmosfera cupa e l’incertezza dopo il mio trasferimento, in solitudine e lontano dagli altri. Ho somatizzato un periodo buio della mia esistenza trasferendolo nelle canzoni.

Tra l’altro il disco si conclude con ‘Born Of Hope’, quindi la presenza di un barlume di speranza. Sembra che la trama del vostro disco segua un po’ il percorso dell’eucatastrofe tolkieniana. Sbaglio?
Bravissimo, complimenti. Il disco parte con l’orgoglio e la decadenza degli uomini di Numenor, attraversa un cuore di tenebra a metà album e risale nuovamente con enfasi, tornando sugli eredi Numenoreani. Numenor cita: “but your seed will remain”, inteso sia come metafora per il seme di Nimloth portato nella terra di mezzo che per il sangue della stirpe dei Re, passato per Arathorn di cui parla Born Of Hope, padre del nascituro Aragorn. Tutta l’opera di Tolkien, è basata su una piccola flebile speranza, un raggio di luce nell’oscurità dilagante. Un concept con un titolo del genere, e brani così cupi…non poteva che finire con un pizzico di speranza, nel modo più tolkieniano possibile.

Fra tutti i valori che traspaiono dall’opera di Tolkien (eroismo, lealtà, sacrificio, ecc.), qual è che vi sembra prevalere? E ce n’è uno che avete voluto rappresentare in particolar modo nell’album?
Witch King Of AngmarNon saprei cosa traspare maggiormente. Mi viene in mente che nel Signore Degli Anelli è molto forte il valore dell’amicizia. Riesci a percepire un legame fortissimo fra i membri della compagnia. Sicuramente ciò deriva dalle esperienze di Tolkien durante la prima guerra mondiale, che aveva visto morire alcuni dei suoi amici più cari. Per quanto riguarda il nostro disco, molti dei brani sono incentrati sul trionfo assoluto del male. È un Epic Metal al contrario, dove invece di decantare le gesta dei buoni si esaltano i cattivi. Su ‘Witch King Of Angmar’, una frase come “ride, Lord of The Nazgul ride, let’s spread your black wings and scream your triumph” rende abbastanza bene l’idea. L’esaltazione del male. Ovviamente ci sono anche i brani ‘eroici’ come ‘Born Of Hope’ ed ‘Heroic Deeds’, a fare da contrappeso fra oscurità e luce.

Domanda che può sembrare scontata ma che, secondo me, è imprescindibile. C’è un personaggio che amate maggiormente e perché?
Aragorn. È una figura chiave e mi è sempre piaciuto il suo essere antieroe, umile, ma pieno di forza e coraggio. Spesso e volentieri lo si vede pieno di dubbi e insicurezze, così umano e fragile, quasi mi ci rispecchio perchè è reale e riesci ad immedesimarti.

Riguardo ai contenuti, avete preso spunto anche dai film di Peter Jackson o solo dai libri?
Assolutamente libri e tutte le appendici possibili. Anche perchè tutti i temi trattati nel disco non hanno nulla a che vedere con il ‘Signore Degli Anelli’, sono tutti eventi venuti in altre epoche e non descritti nel film, se non vagamente. Non c’è proprio paragone con le sensazioni che ti danno le parole scritte. Su ‘Born Of Hope’ invece, mi sono parzialmente ispirato a un film indipendente su YouTube, un fan movie basato sui Dunedain guidati da Arathorn.

cast lotrSempre sul cinema, c’è stato un abisso qualitativo fra la prima e la seconda trilogia cinematografica. ‘Il Signore Degli Anelli’ è sempre stato riconosciuto come una buona trasposizione, mentre ‘Lo Hobbit’ è apparso più come una mossa commerciale e una brodaglia allungata. Voi cosa ne dite?
Guarda…su ‘Lo Hobbit’ non voglio pronunciarmi. Mi sto zitto e non commento.
Sul ‘Signore Degli Anelli’ sono d’accordo con te, è una buona trasposizione, il lavoro svolto è stato notevole e gli attori molto bravi. Però il capolavoro resta il libro.

In tutto il panorama dei dischi ispirati a Tolkien, ce n’è qualcuno cui siete particolarmente affezionati? Se sì, perché?
Somewhere far beyond - Blind GuardianNei primissimi anni ’90 non conoscevo nessuna band in grado di abbinare Heavy Metal e Tolkien, mi sembrava una cosa inconcepibile. La prima volta che ascoltai ‘Somewhere Far Beyond’, all’incirca nel 1995, rimasi a dir poco stupefatto. Fra l’altro in quel periodo erano completamente sconosciuti e completamente fuori dagli schemi. Per me una band Metal in grado di scrivere brani ispirati a Tolkien era una cosa straordinaria, è stato come se mi avessero detto che Babbo Natale esisteva e che poteva farmi qualsiasi regalo volessi. Sono ancora legato a questo disco ed i due successivi non sono riusciti ad eguagliare le stesse identiche sensazioni. Ho smesso definitivamente di seguirli da ‘A Night At The Opera’. Ho dato qualche ascolto anche ai Summoning, anche se non sono di certo il mio genere. Mi piacciono abbastanza alcune atmosfere di Dol Guldur, ma senza impazzirci. Hanno comunque tutto il mio rispetto di Tolkieniano.

Vorrei un attimo approfondire con voi alcune tracce, sia dal punto di vista musicale che da quello testuale, se potete rivelare qualcosa della stesura e del contenuto. La prima è ‘Heroic Deeds’.
The fall of Gil Galad‘Heroic Deeds’ è un gran bel brano, probabilmente il più eroico, in tutti i sensi, del lotto. Mi sono pure tolto lo sfizio di musicare il poema di Tolkien ‘Gil-Galad’, attinente alle liriche della canzone.
Siamo nella seconda era, anno 3434, nel pieno della guerra dell’ultima Alleanza tra gli Elfi e gli uomini, scatenata contro Sauron. Il brano si sviluppa in velocità dopo una parte arpeggiata, per spezzarsi in maniera lenta ed evocativa e ripartire nuovamente con un piglio feroce, quasi ad emulare le sorti di uno scontro altalenante.Lo sfondo è la battaglia di Dagorlad, descritta nella prima strofa con gli Elfi, nella seconda con gli uomini di Numenor che cingono d’assedio Barad-Dur. Nei bridge pre ritornello troviamo una parte cupa, che enfatizza la parole ‘Darkness’ e ‘no sun rises from east’, quasi a presagire un esito ambiguo e l’atmosfera che verrà nelle tracce successive. Il brano termina in maniera inaspettata (ci piace stupire), caratteristica di molte nostre canzoni, che hanno un ritornello in chiusura diverso dal principale. Qui vengono decantate le gesta di Gil-Galad ed Elendil, quasi in una sorta di epitaffio malinconico.

Come seconda sceglierei ‘Darkness Descends’, breve e oscuro intermezzo che mi ricorda un po’ la distruzione degli Alberi di Valinor. (Questo perché gli intervalli strumentali non vanno mai trascurati)
Beh…ora che mi ci fai pensare, potrebbe benissimo adattarsi a quella situazione, che ricordo trasmetteva molta inquietudine (mi hai fatto venire voglia di rileggere il Silmarillion). È un intermezzo che si adatta al brano successivo, su mirkwood/bosco atro (taur-nu-fuin) ed è allo stesso tempo unita a Dol Guldur. La sensazione è di gelo totale e di solitudine, non ho idea di come sia saltato fuori questo riff, è un’improvvisazione che ho conservato durante una sera estiva di Milano, un modo originale per combattere la calura opprimente.

Nano_GuerrieroCome terza vi propongo ‘The Dwarrowdelf’…
‘Dwarrowdelf’ è il nome anglicizzato di Khazad-Dûm, antica dimora dei Nani. È l’unico brano che parla di loro, era quasi obbligatorio citarli in un concept Tolkieniano, un po’ come pizza e birra.
Si ricollega indirettamente anche ai brani precedenti, visto che parla della decadenza e della gloria perduta di questo reame, ormai diventato un luogo cupo e tenebroso. L’ombra di Sauron nelle vicine Dol Guldur e Bosco Atro, contribuirono al declino dei Nani, culminata col risveglio del Balrog. Con poche righe semplici ed efficaci “the splendour in the halls of stone, a greatness now gone” ho cercato di rendere l’idea di qualcosa di grande, andato perduto col passare dei secoli. È il brano con più parti corali e solenni del disco. Non so perché, ma con i Nani mi è venuto spontaneo associare tanti bei cori evocativi, il lavoro di Alessandro in questo brano poi, è stato veramente efficace.

Quali sono state le fasi più difficili nella realizzazione del disco? La scelta delle tematiche, l’eventuale adattamento?
Quella è stata la cosa più semplice e rapida. Ero molto ispirato, avevo tutte queste idee che stavano fermentando nella mente come del buon vino. Solitamente ho tutta una serie di bozze a cui inizio a dare il titolo da subito, una determinata parte sarà ‘Numenor’ perché mi trasmette tanta solennità, un’altra ‘Taur-nu-fuin’ perché molto maligna e via dicendo. Non parto mai da un riff singolo…ho subito il brano pronto in testa, con la linea vocale ben definita. So addirittura come finirà, i cambi di riff e spesso cosa faranno gli altri strumenti. Ho questa fortuna di avere le idee chiare da subito, praticamente nel giro di pochi mesi scaletta e brani erano già decisi. Ciò comporta che il resto del gruppo spesso rimanga interdetto, perché non può entrare nella mia testa!È stato divertente comporre con Stefano, un batterista esuberante che riempiva tutti gli spazi possibili. Ho dovuto frenarlo e spiegargli che in alcuni punti ci stava la voce, in altri il basso o le chitarre in armonia, ha sicuramente pensato fossi pazzo (ride, ndr.)!

Solitamente, e soprattutto in questo caso, siete partiti dai testi per poi sviluppare la musica o viceversa?
Parto dalla musica…o meglio, da qualcosa di profondo che viene da dentro e ti esalta, in questo caso è stata probabilmente Ainulindale (ride, ndr.)! Gran parte delle canzoni le costruisco mentalmente, con una melodia vocale senza parole. Ci lavoro col pensiero…solo dopo vado a registrare con la chitarra, di getto, al massimo modificando qualcosina strada facendo.
So che può sembrare strano ma è così, mi devo fomentare e solo allora riesco a lavorarci sopra. Le liriche vengono dopo, ricalcano esattamente quello che canticchio sopra la struttura del brano. Ovviamente sono la parte più difficile. Devo pensare in inglese, usare termini che si adattino all’atmosfera del pezzo e soprattutto alla metrica. Prima di avere l’ispirazione e le giuste parole ho temporeggiato per mesi.

In conclusione, c’è qualcosa nella narrativa di Tolkien che può essere applicato al disastroso mondo attuale o vedete qualcosa che potrebbe invece migliorarlo, se traslato a oggi?
Mah…il mondo attuale mi sembra sempre di più quello grigio e spento auspicato da Saruman. Tolkien, amava gli alberi e odiava la tecnologia ed il progresso. La penso come lui. Spero ci sia la speranza di cui parla tanto nei suoi libri, per ora vedo solo tanta oscurità che prevale su tutto, giusto per fare una citazione finale col nostro disco.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Vai all’articolo Il 25 marzo partecipa al Tolkien Day a Roma!
– Vai alla’articolo Tolkien Day, ci sono anche gli Holy Martyr

LINK ESTERNI:
– Vai alla pagina facebook del Tolkien Day 2017
– Vai al sito della Tsunami Edizioni .

Delattre: Tolkien? Prima la parola poi il mito

Convegno FranciaNon manca molto all’inizio del corso Aist 2016, in collaborazione con Accademia Medioevo nell’ambito del ciclo unico Il Medioevo attraverso Tolkien, che coinvolgere gli appassionati di J.R.R. Tolkien in una serie di conferenze, workshop, visite guidate, attività didattiche e stage a Roma e in vari luoghi sui Castelli romani (Lanuvio, Frascati, Genzano e Nemi): il primo appuntamento è il 30 gennaio. Ancor di più, l’attesa è grande per il corso di lingue elfiche del Tolkien Lab di Modena, lo spazio tolkieniano modenese gestito dall’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e dall’Associazione italiana studi Tolkieniani, che inizierà il 30 marzo. Proprio per preparare i lettori a tutte queste attività proponiamo un’intervista che mette in evidenza come l’autore dello Hobbit e del Signore degli Anelli fu anche un poeta e filologo medievale che nel dar forma all’universo della Terra di Mezzo creò delle lingue immaginarie molto elaborate. Intervistiamo Charles Delattre, docente di lingua, letteratura e mitologia greco-romana all’Université Paris Ouest Nanterre La Défense, che ha preso parte al «Dictionnaire Tolkien» pubblicato da CNRS Éditions (ne abbiamo parlato qui).

L’intervista

Studiosi: Charles DelattreAppassionato creatore di lingue, perché Tolkien parlò di tale suo amore come di Un vizio segreto? «Tolkien fu un medievista e insegnò a Orxord lingue e letterature nordiche. Tecnicamente fu un filologo, uno specialista cioè di testi antichi, disciplina all’epoca volta a stabilire la versione originale dei testi provenutici da più fonti, cioè identificare il documento più autentico possibile a partire dalla tradizione tramandata, manoscritta, a stampa o di altro tipo che sia. È per questo che tutta la sua opera riecheggia la tradizione mitologica medievale, dalla letteratura arturiana alle saghe islandesi, dal poema eroico anglosassone Beowulf (una sorta di epopea cavalleresca) agli antichi testi gallesi, dalle leggende celtiche ai vari tipi di Edda scandinava, alle letterature in anglosassone, norreno, alto-tedesco… Tolkien e Beowulfma anche alla letteratura e mitologia greca e latina.
Scherzando, affermò d’aver scritto il Signore degli Anelli solo per creare un mondo dove permettere a due Elfi di potersi salutare. In una lettera del 1951, dichiarò di voler «dare una mitologia all’Inghilterra» ma in realtà in Tolkien è sotteso qualcosa di ben più profondo: il piacere della scrittura. L’amore per le filologia precede in lui l’intento mitologico».

Libri: Lingue ElficheCome potè inventare decine di lingue, tutte con una loro propria genealogia? «Da filologo, era pienamente consapevole delle strutture delle lingue e del loro modo di evolversi, in particolare di quelle indoeuropee. Per lo meno, di come le si concepivano alla sua epoca: si tratta infatti di una scienza relativamente nuova, istituita solo alla fine del XIX secolo. Anche se molti aspetti restano ancora oggi incompresi, è però questa dimensione del filologo, dello studioso di lingue antiche o scomparse, che gli ha consentito di creare lingue non solo originali ma anche ben costruite: conoscendo il vocabolario o inventandosene un po’, ci si può divertire a parlarle, le lingue tolkieniane! Ma soprattutto presentano una coerenza interna pari a quella delle lingue reali, e questo a un livello molto più profondo degli autori di fantascienza o fantasy cimentatisi con la creazione di lingue: non si è limitato a inventarle, ha donato loro una reciproca congruenza. Quello che si riconosce in lui è un approccio di tipo scientifico: per i linguisti, gli studiosi di linguistica e gli specialisti di lingue scomparse, leggere Tolkien dà la gradevole sensazione di ritrovarsi nel pieno del proprio mondo, però sotto le vesti di racconto e di piacere letterario».

Albero delle Lingue elficheLe sue lingue non si evolvono un po’ come qualcosa di vivo? «È stato il lavoro di tutta una vita a dare consistenza e coerenza a un materiale che via via s’accresceva in funzione delle idee che continuamente sorgevano. Nei suoi appunti, Tolkien mostra materiale per almeno una decina di libri mai venuti alla luce e rimasti allo stato di bozza, di spunto incompiuto. Allo stesso modo le sue lingue germogliavano, fiorivano in continuazione, si sviluppavano: ma sempre in un quadro di coerenza. Cercò di replicare un corpus di mitologie e di antiche lingue scomparse allontanandosi dal riferimento culturale greco-romano che sentiva abusato e per questo i suoi personaggi parlano idiomi che riecheggiano l’Europa del Nord: ma al contempo in lui la cultura classica, consciamente o no, riemerge e alcuni tipi sono ben riconoscibili: per esempio dietro Galadriel si intravede Circe. Ma non fu un processo repentino di creazione: Tolkien impiegò da venti a trent’anni a riscrivere il suo materiale e in questo modo potè arrivare fino a sette od otto versioni di una medesima storia, alla fine totalmente diversa rispetto all’iniziale. Ciò che affascina però è che alla fine di questo processo si ritrovano degli elementi estremamente classici. È noto che Galadriel all’inizio era un maschio, quanto cioè di più diverso dalla sua versione definitiva: solo poco a poco tuttavia ha traghettato questo personaggio verso un modulo molto classico, quello della magica incantatrice dell’Odissea omerica ma anche dei poemi tardo-medievali e rinascimentali. Ciò che in termini di eredità diretta viene evitato, alla fine riemerge in lui in fase di scrittura».

Christopher TolkienCom’è arrivato Tolkien a dare alle sue lingue questo senso di storicità? 
 «Giustamente è ciò che più affascina gli appassionati di mitologia, e l’opera di Tolkien può in effetti essere presa come un corpus mitologico: a patto però di considerarlo nel suo insieme, con le bozze e le revisioni. In genere si studiano autori molto diversi, di epoche molto distanti, e si spera di arrivare a ricostruire una qualche sorta di unitarietà originale. Qui invece l’unità è presupposta sin dall’inizio, ma è presente in forma talmente ramificata, talmente riscritta, talmente diversificata ogni volta, che alla fine si può parlare di una mitologia esattamente negli stessi termini coi quali ci si può riferire a quella finnica o greco-romana. Grazie al figlio Christopher Tolkien sono stati pubblicati e messi a disposizione ben dodici volumi di appunti con la radici, sì, dell’opera, ma anche con tutti i suoi ripensamenti, le trasformazioni radicali, le modifiche e i cambi di prospettiva».

Lingue: tabella delle lettere«L’opera di Tolkien può in effetti essere presa come un corpus mitologico: a patto però di considerarlo nel suo insieme, con le bozze e le revisioni». Oltre a vocabolari immaginari, note etimologiche e grammatiche fittizie, Tolkien realizzò anche dei veri e proprio alfabeti… «È un elemento che dà identità grafica e unitarietà al suo universo, permettendogli proprio per questo di differenziarlo in maniera profonda. Gli elementi più visibili, ma anche quelli che gli costarono più impegno, furono gli aspetti etimologici, la costruzione di una sintassi, le relazioni tra le varie lingue. Gli alfabeti furono invece un po’ come fogli bianchi da disegno: un supporto, un appiglio sul quale costruire all’occasione una scena per eseguire poi tutta una narrazione. Appassionanti per i lettori, ma per Tolkien funsero più che altro da strumenti di lavoro».

Ted Nasmith: "Numenor"Tolkien si rifà anche a miti veri, come la sua versione di Atlantide… 
 «Sin dalla giovinezza Tolkien sognò in modo ricorrente l’angosciante incubo di un’immensa onda che monta e minaccia di inghiottire il mondo. Rielaborò questo senso di catastrofe in una narrazione con riferimenti all’Atlantide platonica. In un lavoro rimasto incompiuto, il Notion Club Papers, uno dei protagonisti è un alter-ego di Tolkien che spiega come Atlantide sia veramente esistita, si chiamasse Númenor e che Platone ne abbia solo fornito la sua versione. Giocando con le parola “Atlantide”, che trasforma in “Atalante”, altra forma greca, e poi in “Númenor”, manifesta qui tutto il suo rapporto con la lingua greca, rivendicandone l’eredità e divertendosi sia con quella che col lettore».

di Simone Petralli

LINK ESTERNI
– Vai alla pagina personale di Charles Delattre all’Université Paris Ouest Nanterre La Défense.
– Vai al sito della della casa editrice CNRS Éditions

.

“The Story of Kullervo”: ecco la seconda parte

The Story of KullervoDopo aver discusso nella prima parte dell’intervista con Verlyn Flieger dei dettagli inerenti alla pubblicazione di “The Story of Kullervo”, il nuovo volume di J.R.R. Tolkien da lei curato per HarperCollins in uscita il 27 agosto in Inghilterra, il 27 ottobre negli Stati Uniti e a dicembre in Italia per Bompiani, ecco la seconda parte dell’intervista, più approfondita sul legame tra Kullervo, Túrin e Il Silmarillion. Il volume contiene 192 pagine ed è in vendita sul sito della casa editrice inglese HarperCollins, e sui principali store online, in copertina rigida a un prezzo di circa 24 euro (19,99 sterline) e in ebook a circa 14 euro (9,99 sterline).

L’intervista

Studiosi: Verlyn FliegerÈ difficile immaginare lo spunto che fece decidere a Tolkien di scrivere una storia come quella narrata in “The Tale of Túrin”, soprattutto perché l’autore ci sia tornato più volte per scriverne le diverse versioni, in differenti stile e forme. Túrin, erede narrativo diretto di questo Kullervo, aveva un significato speciale che ancora oggi ci sfugge?
«Un po’ l’ho detto prima, la sua situazione di orfano rendeva la storia particolarmente attraente. Inoltre, da narratore Tolkien era in grado di riconoscere un buon soggetto quando ne incontrava uno, e aldilà del Signore degli Anelli Túrin è il suo personaggio più potente e riuscito. Dal punto di vista psicologico è molto più interessante, ad esempio, di Beren, che non è altro che il perfetto eroe modello delle storie fantastiche con pochi o nulli tratti caratteriali. Faccio un’ipotesi, ora, ma può essere possibile che, man mano che il XX secolo procedeva, con le due guerre mondiali e tutti i cambiamenti politici avvenuti, Tolkien sia divenuto sempre più interessato a personaggi le cui contraddizioni personificavano i suoi conflitti etici».
Per Tolkien, se un linguaggio muta col passar del tempo, così mutano anche le leggende. Lo scrittore amava le saghe dell’Edda e il poema del Beowulf, che testimoniano questo mutare del tempo e furono per l’autore un modello costante. Il Kalevala, da cui ha preso spunto per scrivere “The Story of Kullervo”, è statico in quanto frutto di una ricostruzione tardo ottocentesca. Questa scelta stata quindi solo una parantesi nella sua produzione, visto che non si rivolse più alla mitologia finnica?
«Fu più che una parentesi, il Kalevala ebbe un’influenza enorme sul suo legendarium. La lingua finnica fu il modello fonologico per il Quenya e “The Story of Kullervo” fu uno dei suoi primi viaggi in una sua lingua inventata. Il Poema finnico contiene anche la magia e un senso di inevitabilità e Fato intrecciato con la volontà dell’essere umano».
The Story of Kullervo di TolkienIl racconto presto in libreria con il suo sapore esotico si sposa, però, bene con tutte le altre leggende del Silmarillion e le altre fonti che daranno vita al seguente personaggio di Túrin. È così?
«Sì, ma “The Story of Kullervo” non è poi così estraneo al Silmarillion, che è una storia molto tragica di ira, vendetta, tradimenti, ribellioni, guerre disperate e della potenza del Male. Come Kullervo, gli Elfi di Tolkien sono destinati a fallire, confinati in Arda dalla Musica degli Ainur e intrappolati nel Giuramento di Fëanor. Gli Elfi, infatti, non recupereranno nessuno dei tre Silmaril, e la loro saga è un “intero ciclo nato dal male”, come scrive Tolkien (Lettere, n.186). È un quadro senza speranza. Mi sembra che Kullervo ci si sposi bene».
La versione di Tolkien del racconto è molto più tragico dell’originale, che fonde insieme la tragedia con una sorta di commedia nera. Lei ha un’idea del perché Tolkien avesse fatto questa modifica?
«Lo stesso scrittore rivelò di essere stato attratto dal genere tragico a quell’epoca. Del resto, la sua vita non era lieta: a 4 anni aveva perso il padre, a 12 aveva perso la madre, e aveva contestuamente dovuto lasciare la casa in cui viveva, a 19 era stato anche costretto dal suo tutore a lasciare la ragazza che amava… Inoltre, anche se era dotato di umorismo, la commedia non era proprio il suo forte, anche se fosse stata nera».
Lonnröt non fece un buon lavoro collazionando i fili narrativi del Kalevala. Ad esempio, non sappiamo i motivi che spingono Kullervo a compiere gli atti tragici che lo portano fino al suicidio, né sappiamo perché fa determinate scelte. Tolkien, mi sembra, deliberatamente colma tutte queste lacune. È questa la ragione per cui i lettori tornano spesso a rileggersi la storia di Túrin Turambar?
«La versione di Kullervo scritta da Tolkien, da cui poi nascerà quella speculare di Túrin, fa molto di più che colmare le lacune e aggiungere alla trama una dimensione pienamente tragica. Ogni lettore e lettrice ha le sue ragioni per tornare a rileggersi la storia. Parlando per la mia esperienza, penso di essere stata attirata da Kullervo, e prima ancora dallo stesso Túrin, proprio perché è un personaggio tragico e fallace. Ogni volta speriamo che faccia la scelta giusta, ma ogni volta prende la decisione sbagliata. C’è qualcosa di perverso e attraente intorno a questo personaggio così consciamente deplorevole».
Libri: The SilmarillionCi sono indizi sullo stile di Tolkien in quel periodo e differenze rispetto alle medesime storie contenute nelle Lost Tales e nel Silmarillion?
«Buona domanda. Non conosco alcuno studio su questo tema. Quando scrisse “The Story of Kullervo”, Tolkien era molto influenzato da William Morris, I cui romanzi adottavano una forma pseudo-medievale che al tempo sembrava autentica. Nel saggio Translating Beowulf, Tolkien difese questo genere letterario, ma al tempo del Signore degli Anelli conosceva ormai come usare al meglio questo e gli altri stili letterari, tanto da usarli per distinguere I personaggi – Theoden, ad esempio, parla in modo differente da Denethor, sebbene siano entrambi nobili re; e addirittura Aragorn parla in modo differente da Grampasso, sebbene siano la stessa persona».
Molti studiosi, tra cui R. Helms, Shippey e West, mettono in evidenza le due connessioni dirette tra le leggende finniche del Kalevala e quelle della Terra di Mezzo: “The Story of Kullervo”, che è alla base della storia di Túrin, e il linguaggio stesso, da cui nasce il Quenya degli Elfi. Secondo lei, ci sono altri legami?
«Un ulteriore legame è la stessa natura delle due opere. Il Kalevala fornì ai finlandesi un’identità culturale, e questo fu un fattore fondamentale nella loro lotta per l’indipendenza – divenire una nazione a tutti gli effetti. Sembra probabile che il desiderio di Tolkien di creare una mitologia «per l’Inghilterra», le cui leggende originarie erano state obliterate dall’arrivo del Cristianesimo e dalla conquista normanna, abbia trovato nel Kalevala il modello appropriato a cui ispirarsi».
Kalevala (Il Cerchio)Nel Kalevala, la vicenda di Kullervo non si adatta bene con gli altri intrecci narrativi e costituisce infatti un lungo excursus nei “runi” (i versi della metrica finnica) dal 31 al 36. Tolkien, invece, tesse bene le tre “grandi storie” che sono la spina dorsale del suo legendarium e del Silmarillion. La sua fu una scelta consapevole, proprio in reazione a Lönnrot?
«Esatto. La vicenda non si adatta al racconto che Lönnrot ha costruito, la storia del Sampo e la ricerca per recuperarlo. Ma il Kalevala nel suo complesso non ha una trama lineare, è particolarmente intrecciata. Anche le storie di Lemminkàinen non combaciano perfettamente tra loro, e ci sono molti runi hanno poco a che fare con la storia. La questione del Kalevala come folklore o come “fakelore” [è il “il folklore inventato” in Italia tradotto dagli studiosi con “folklorismo”, ndt] è ancora da prendere in considerazione. Lönnrot tagliò e cucì tutto il materiale che aveva raccolto per dare al Kalevala la forma che ha. Per quanto riguarda le scelte di Tolkien, la sua è una domanda molto valida, ma in generale, io non la penso così. Tolkien era un maestro nel tessere tramee; era solo una parte del suo mestiere (vedi il saggio di Richard West “The Interlace Structure of The Lord of the Rings” nel volume A Tolkien Compass). Non credo che non sarebbe riuscito a intessere bene la storia di Túrin nel Silmarillion: è Túrin che porta la trama alla sua dimensione epica, è Túrin che è il suo eroe più tragico».
Perché, secondo lei, Tolkien ha aggiunto, nelle sue note personali su Kullervo, la frase: «Come vorrei che ne avessimo di più»? Che cosa manca alla storia finlandese?
Verlyn Flieger«La frase deve essere letta nel contesto in cui fu scritta. È tratta dal secondo saggio di Tolkien On the Kalevala, scritto diversi anni dopo il suo lavoro sulla storia di Kullervo, dopo la guerra, in realtà. L’intero passaggio recita: “Io sono contento di dedicarmi a queste ballate mitologiche – piene di quel substrato molto primitivo che la letteratura europea ha nel complesso costantemente tagliato e ridotto per molti secoli con un diverso livello di completezza tra i vari popoli. Vorrei che ne avessimo lasciato di più – qualcosa dello stesso genere che apparteneva all’inglese”. Tolkien, quindi, è rammaricato per la perdita del substrato che lui trova nel Kalevala, ma sente che esso è stato ridotto nelle mitologie più sofisticate, in quella greca e anche nella norrena/islandese, mentre è completamente assente nella cultura inglese, che non ha nemmeno una vera mitologia indigena».
Questo discorso è interessante, ma ci porterebbe lontano… Un’ultima domanda: nel suo saggio su “The Story of Kullervo” contenuto nella sua antologia in Green Suns and Faerie, lei scrive che era il racconto è stato per lo scrittore inglese «un passo importante nella strada tortuosa che porta all’invenzione dall’imitazione». Può spiegare un po’ meglio il suo concetto?
«Volevo sottolineare il punto che il personaggio Túrin Turambar di Tolkien non proviene dal Kullervo del Kalevala, come le persone tendono a pensare. È scaturito, invece, dal personaggio di Kullervo che è il protagonista di questo libro, un personaggio che è già distante da quello di Kalevala e la cui esistenza ha permesso a Tolkien di essere libero di sviluppare ulteriormente Túrin».

GUARDA IL VIDEO SULLA BBC CON UN’INTERVISTA A VERLYN FLIEGER
ARTICOLI PRECENDENTI
– La prima parte dell’intervista a Verlyn Flieger
– Vai alla recensione di Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien
– Vai all’intervista Cinque domande a Verlyn Flieger

LINK ESTERNI
– Vai al sito di Verlyn Flieger
– Vai al sito della HarperCollins
– Vai alla pagina di Schegge di Luce

.


“The Story of Kullervo”: ne parla Verlyn Flieger

Tolkien scriveHa sorpreso tutti l’annuncio di un nuovo libro di J.R.R. Tolkien, in uscita il 27 agosto in Inghilterra, il 27 ottobre negli Stati Uniti e, si spera, per dicembre in Italia. La sorpresa è dovuta al fatto che, contrariamente a quanto riportato da molti media generalisti italiani e copiati su alcuni siti web, il nuovo testo non è per nulla inedito, della sua esistenza si sapeva benissimo da più di 30 anni (è citato nelle Lettere e nella Biografia di Humphrey Carpenter) ed era addirittura stato pubblicato nel 2010.
Tolkien studenteSi tratta di “The Story of Kullervo”. Ripubblicare il testo, seppur rivisto, ha il solo scopo di mantenere l’attenzione sullo scrittore inglese e soprattutto il ritmo di un «inedito» l’anno che HarperCollins sta tenendo con gli inediti di Tolkien dal 2010 a oggi. Sono, infatti, ben cinque i testi pubblicati (The Children of Hurin, Sigurd e Gudrun, Beowulf e ora The Story of Kullervo) e in alcuni casi con un’operazione più che discutibile (The Fall of Arthur).
Nel caso attuale, ripubblicare un testo del 2010 ha il solo merito di rendere più fruibile al grande pubblico cose già note agli studiosi e oggetto da tempo di dibattiti, soprattutto negli Usa.

Il mito finnico

The Story of Kullervo di TolkienIl nuovo volume di HarperCollins si focalizza sull’influenza della mitologia finlandese su Tolkien. Si torna quindi ai tempi in cui la Terra di Mezzo nemmeno esisteva e lo stesso Tolkien era uno studente a Oxford. Il futuro scrittore fu, infatti, influenzato in giovane età dall’esempio di Elias Lönnrot, lo studioso e ricercatore del Kalevala finlandese, di cui dissero che fu «un uomo solo, che procedendo a tutta velocità, ha creato per noi un’eredità culturale» (Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien, p. 181). Certamente la differenza è stata che Tolkien scrisse l’intero corpo di lavoro raccogliendolo lentamente e non procedendo a tutta velocità. Illustrazione di Georgij Adamovič Stronk - KullervoIl racconto “The Story of Kullervo”, scritto tra il 1912 e il 1914, fu il primo tentativo di Tolkien di fare proprio il Kalevala, che ebbe una profonda influenza sul Legendarium di Tolkien, particolarmente sulla storia di Túrin, presente nel Silmarillion e negli altri scritti della History of the Middle-earth. Proprio per capire meglio i contenuti del nuovo volume abbiamo intervistato la curatrice dell’edizione, Verlyn Flieger. Per chi non la conoscesse, Flieger è professore emerito di Mitologia e Studi medievali presso la University of Maryland, e al momento è considerata la maggiore studiosa di Tolkien a livello mondiale insieme a Tom Shippey. È l’autrice di pietre miliari in questo campo (Schegge di Luce, Question of Time, Interrupted Music, Libro: "Schegge di luce" di Verlyn Fliegerdel recente Green Suns and Faërie) e curatrice di alcune delle opere brevi del Professore di Oxford: Fabbro di Wootton major e del saggio Sulle Fiabe di Tolkien. Il suo studio Schegge di Luce è l’unico tradotto in italiano, grazie alla collana “Tolkien e dintorni” della casa editrice Marietti. È direttrice e tra i principali artefici della rivista specialistica “Tolkien Studies”, attivissima scrittrice, studiosa (un suo saggio è tradotto qui nel nostro sito) e conferenziera, ospitata più volte nei nostri Tolkien Seminar a Modena, organizzati dall’Istituto Filosofico di studi Tomistici. L’intervista è divisa in due parti, una più generale che pubblichiamo oggi, e la seconda parte, più approfondita sul legame tra Kullervo, Túrin e Il Silmarillion, che uscirà giovedì 27 agosto 2015.
Buona lettura!

Il mito finnico

Verlyn Flieger al Convegno "Tolkien e la Filosofia"“The Story of Kullervo” è già stata pubblicata nel 2010, nel n. 7 dei Tolkien Studies. Il testo che lei ha curato è diverso? Si sa che ci dovrebbero essere i manoscritti e nell’annuncio della casa editrice le pagine sono quasi triplicate (da 67 a 192 pagine).
«No, sarà lo stesso testo ma in una nuova edizione rispetto a quello dei Tolkien Studies. Ci sarà inoltre un’introduzione più lunga, una versione estesa delle note e del commento e diverse pagine di fac simile del manoscritto con i primi testi di Tolkien sull’invenzione dei nomi e quel che sembra essere la prima fase della sua lingua immaginaria, l’allora “Qenya”. Anche il formato è più ampio e leggibile che quello del 2010».
Il libro conterrà anche il suo saggio sul Kalevala contenuto nel n. 8 dei Tolkien Studies e nella raccolta di saggi Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien? L’esecutore letterario di Tolkien, il figlio Christopher, che ha curato i testi usciti in tutti questi anni, ha voluto aggiungere qualcosa al volume?
«Sì, ci sarà anche il mio saggio, ma nessun testo da parte di Christopher».
Verlyn FliegerPerché HarperCollins ha deciso di pubblicare un testo già edito di Tolkien? Sappiamo che la proposta da lei fatta risale a molti anni fa anche se la Tolkien Estate l’ha accettata solo l’anno scorso.
«Sia la casa editrice sia io sentivamo che “The Story of Kullervo” meritava un pubblico più ampio di quello che si è potuto raggiungere con i Tolkien Studies. Inoltre, la Tolkien Estate deve risolvere molte questioni ogni anno, ognuna delle quali richiede tempo».
“The Story of Kullervo” è un racconto incompleto. Secondo lei, perché Tolkien lo abbandonò? «Non penso che lo abbia abbandonato volontariamente, ma che divenne sempre più occupato con i lavori successivi, il tempo passò e lo scrittore non vi tornò più sopra. Con il passare del tempo, inoltre, il suo stile e i suoi interessi maturarono e non ci fu più alcun modo di riprendere in mano il testo».
Studiosi: Verlyn FliegerÈ noto che il racconto influenzò molto la successiva “The Tale of Túrin”. Perché l’autore scelse una fonte d’ispirazione così inconsueta?
«Preferisco dire che fu la fonte a scegliere lui. E la sua “stranezza” deve avere giocato un ruolo in questa scelta. Lo scrittore pensava che si trattasse di una delle storie “più tragiche” e lo stesso soggetto, un giovane orfano lasciato solo a trovare la sua strada nel mondo, può a quei tempi aver avuto una risonanza molto potente con la sua stessa esperienza biografica».
Secondo lei, perché è importante per un appassionato di Tolkien leggere questo libro?
«Perché la sua lettura può dare un’idea più completa e piena di Tolkien come autore che non disdegna di trattare temi problematici come l’incesto e il suicidio. Mentre queste tematiche sono presenti nelle sue opere tarde (con Túrin Turambar che le incarna entrambe), è degno di nota sapere che esse sono presenti nella narrativa dello scrittore fin dai suoi primi seri esperimenti».
Infine, quale può essere il valore più rilevante in “The Story of Kullervo”?
«Ha un valore come prima opera dell’autore che nella sua descrizione di emozioni estreme, oscurità e disperazione, mette di luce aspetti presenti anche nelle sue opere più conosciute e spesso sottovalutati».

La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata il 27 agosto 2015.

.

ARTICOLI PRECEDENTI
– Vai alla recensione di Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien
– Vai all’intervista Cinque domande a Verlyn Flieger

LINK ESTERNI
– Vai al sito di Verlyn Flieger
– Vai alla pagina di Schegge di Luce
– Vai al sito della Kent State University Press
– Vai al sito della Mythopoeic Society

.


Intervista esclusiva ai Blind Guardian

Blind GuardianCi sono autori che segnano indelebilmente la storia letteraria, pagine che non verranno mai cancellate e che non si perderanno mai nelle sabbie del tempo, opere che si tramandano di generazione in generazione stregando milioni di persone in tutto il globo. J.R.R. Tolkien può senza alcun dubbio esser annoverato fra i più influenti scrittori del XXI secolo, uno dei massimi esponenti dell’arte scrittoria, filologica e linguistica dell’intera tradizione, i suoi scritti continuano ancor oggi ad affascinare nuove schiere di lettori in ogni parte del pianeta, con un nutrito esercito di appassionati, studiosi ed accademici intenti a svelare di giorno in giorno i lati più nascosti dell’impareggiabile ed inesauribile mole di componimenti prodotti e lasciati in eredità dall’autore inglese.

Dal cinema al Metal

Dal suo lavoro più famoso ed apprezzato, nonché dibattuto, ‘Il Signore degli Anelli’, passando per il fiabesco ‘Lo Hobbit’ ed il mitopoietico ‘Il Silmarillion’, arrivando ad opere chiamate “minori”, ma altrettanto pregevoli e fondamentali, come ‘Le Avventure di Tom Bombadil’ e ‘Il Cacciatore di Draghi’, sino alle recenti postume pubblicazioni e rielaborazioni filologiche ‘La Leggenda di Sigurd e Gudrùn’, ‘La Caduta di Artù’ e ‘Beowulf’, colui che è affettuosamente chiamato il Professore, dalle consistenti fila di ammiratori costantemente in crescita nel corso degli anni, ha forse più di ogni altro ispirato le differenti arti, entrando nell’immaginario collettivo del nostro tempo come l’incarnazione del genere fantastico moderno. Il cinema è stato senza alcun dubbio il maggior beneficiario, anche se il rapporto può considerasi bidirezionale, delle opere di Tolkien. Tutti conoscono le amate od odiate trasposizioni del regista neozelandese Peter Jackson, che ha avuto l’onore e l’onere di portare sullo schermo ben quattro scritti dell’autore britannico. Si sta ovviamente parlando delle tre pellicole basate sui rispettivi volumi de ‘Il Signore degli Anelli’ e della trilogia jacksoniana, appenaNightfall In Middle Earth terminata, liberamente ispirata a ‘Lo Hobbit’. Non solo la settima arte ha goduto dalle straordinarie immagini uscite dalla penna del Professore, pittura e musica hanno altresì attinto a piene mani dal calderone di emozioni scatenate dalla fantasia di Tolkien. Il Metal è sicuramente uno dei generi musicali dove gli elementi tolkieniani si riscontrano maggiormente sin dalle radici, si vedano ‘Ramble On’ dei Led Zeppelin e ‘Wizard’ dei Black Sabbath, arrivando agli innumerevoli richiami nel power, nel death e nel black. C’è un gruppo che negli anni ha saputo affermarsi e ad entrare nei cuori di metallers e non, con grandi pezzi ed un intero disco dedicato ad una delle opere del Professore: i Blind Guardian. Da ‘By The Gates Of Moria’, ‘Lord Of The Rings’ e ‘The Bard’s Song: In the Forest/The Hobbit’, sino a ‘Nightfall In Middle Earth’, totalmente ispirato a ‘Il Silmarillion’, il gruppo tedesco è stato in grado di trasportare in musica con forza e coerenza alcune delle pagine fondamentali dell’opera tolkieniana.

L’intervista

Hansi KürschL’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, in collaborazione con Metal Hammer Italia, ha avuto la possibilità di parlare con Hansi Kürsch, cantante dei Blind Guardian, su diversi temi concernenti Tolkien e la sua influenza sulla band teutonica. Si parte dagli albori del gruppo di Krefeld e sull’importanza che ha avuto lo scrittore inglese nel primo periodo artistico: “Sin dall’inizio Tolkien è stato molto importante per noi, soprattutto per la sua capacità di creare nuovi mondi ed universi. Quando abbiamo scritto ‘Majesty’ per il primo album ‘Battalions of Fear’ siamo riusciti grazia a lui a trovare il giusto equilibrio per il nostro stile. Gli abbiamo poi dedicato ‘The Lord Of The Rings’ in ‘Tales From The Twilight World’. Da allora una buona quantità di canzoni in ciascun album è ispirata da Tolkien, persino quando non ci sono testi esplicitamente riferiti alle sue opere, come ad esempio ‘And Then There Was Silence’ e ‘Carry the Blessed Home’.” ‘Nightfall In Middle Earth’ è sicuramente un disco particolare ed un punto di svolta della band, del quale Hansi racconta: “Ci abbiamo messo un’infinità a scriverlo, questo direi guardandomi indietro. Avevamo un certo numero di canzoni pronte alle quali sentivamo di dover assegnare un certo tema testuale. A quel tempo stavo leggendo molto i lavori di Tolkien ed al contempo ero affascinato dalla mitologia in generale, dunque diverse tematiche fluttuavano nella mia mente. Ho discusso con André di dedicare l’intero disco a ‘Il Silmarillion’ e ne fu entusiasta. Una volta presa la decisione ho iniziato a leggere moltissimo in chiave tolkieniana, al punto da avere un caos totale in testa. Questa confusione era data dal fatto che sentivo l’importanza di ogni minuscola parola in quegli scritti e non volevo tralasciare niente. Avendo così tante informazioni ho dovuto combattere una mia intima e personale battaglia, ma alla fine sono riuscito a focalizzarmi su la ‘fuga dei Noldor’ in relazione alla ‘maledizione di Fëanor’. Nonostante ciò era ancora facile perdersi. Un altro problema è sorto in quanto non tutte le canzoni erano pronte quando è iniziata la produzione; songwriting, testi, registrazione e mix sono stati finiti lo stesso giorno. È facile immaginare quanto difficile è stato fare le scelte giuste. Ricordo ad esempio la scelta delle tracce di apertura e conclusione, è stata una questione lunga e complicata. In termini cronologici il disco è uscito bene, ma ho avuto difficoltà nel trovare l’esatta posizione di ‘Mirror Mirror’ e ‘Noldor’. A dispetto del duro lavoro, l’album è risultato di facile ascolto ed è ancora quello di cui sono tutt’oggi più orgoglioso.” E dopo questa fatica sarà mai possibile vedere un nuovo disco interamente dedicato a Tolkien? La risposta è subito svelata: “Dipende tutto dalla musica. Se sentiamo che le composizioni necessitano di testi di ispirazione tolkieniana sicuramente torneremo su quei temi. Il nuovo lavoro ‘Beyond The Red Mirror’ ha al suo interno tematiche fantastiche, ma nonBeyond The Red Mirror strettamente legate a Tolkien.” Hansi, da grande conoscitore delle opere tolkieniane, ha certamente le proprie preferenze che si incrociano alla perfezione con ciò che è stato il passato della band: “Oltre ‘Il Signore Degli Anelli’ e ‘Lo Hobbit’ devo molto a ‘Il Silmarillion’, non c’è altro libro di mia conoscenza con una tale profondità e ricchezza di elementi. Questa mia propensione verso quest’opera ha probabilmente portato a dedicargli un album.” Inevitabile non scavare più a fondo nella passione del vocalist e proporgli la difficilissima scelta di un personaggio: “In verità dipende dal momento, ora ti direi Fangorn (in italiano Barbalbero, ndr.) per la sua straordinarietà, per la maniera in cui si comporta. Nonostante la sua saggezza e potenza non possiede un briciolo di arroganza.” Sul finire c’è spazio per parlare delle trasposizioni jacksoniane ed Hansi ci dà il suo parere anche su questo argomento: “Per quanto riguarda ‘Il Signore Degli Anelli’ in termini di corrispondenza d’immagine, essa coincide con la mia idea al 95 percento. Non oso immaginare quanto tempo Jackson ed il suo team ci abbiano messo per creare o ricreare una tale quantità di materiale, avvicinandosi comunque in maniera soddisfacente all’immaginario che io stesso mi ero figurato. Relativamente ai cambiamenti ed alle alterazioni concernenti la storia non ho problemi ad accettarli, come musicista mi vanno bene le improvvisazioni a fin di bene. Un aspetto che posso dirti avevo immaginato diversamente è quello riguardante gli orchi, questi si discostano abbastanza dalla mia visione; ma si tratta comunque di un dettaglio. Per ‘Lo Hobbit’, nonostante mi manchi ancora da vedere l’ultimo capitolo a causa del tour promozionale del disco, posso dire di aver lo stesso parere de ‘Il Signore Degli Anelli’ riguardo alla coerenza d’immagine. Ancora una volta ribadisco che non ho problemi con le alterazioni. Il mio parere è che al cinema la gente si debba divertire e non pensare troppo alle differenze fra il libro ed il film. Mi è piaciuto molto il fatto che Jackson abbia mantenuto il carattere favolistico de ‘Lo Hobbit’ ed adoro gli effetti speciali.” Ultimo pensiero relativo ad una possibile, anche se non probabile, trasposizione de ‘Il Silmarillion’: “Se qualcuno deve farla spero sia Peter Jackson, ma questa volta dovrebbe stare più attento. Quest’opera è ancor più particolare e rischierebbe di scontrarsi definitivamente con gli amanti di Tolkien. Stavolta non potrebbe giocare sugli aggiustamenti fatti sinora. Gli direi di stare molto più aderente alla narrazione originale, sfogando maggiormente la creatività sulla costruzione visiva dei personaggi. È comunque un progetto complesso da portare a compimento.”

Un ringraziamento particolare:
In primis ad Hansi per la disponibilità.
Ai capiredattori cartaceo e web, Fabio Magliano e Gianluca Grazioli.
Ad Anna Marzia Morandi di Roadrunner Records/Warner Music Italia.
Alle mie colleghe di Metal Hammer, Elisa Penati e Paky Orrasi.

LINK ESTERNI
Vai al sito di Metal Hammer Italia
Vai al sito dei Blind Guardian

.


Utenti online
 

Cartoomics, ecco tutti i segreti di Ivan Cavini

Ivan Cavini: Balrog in progressA volte capita che ci si perda dietro alle cose, rincorrendo impegni e raccontando eventi. Se poi si tratta di roba di qualità, la penna scorre da sé. E di alta qualità si tratta quando si parla di Ivan Cavini, uno degli artisti italiani più conosciuti dagli appassionati di Tolkien. Ce ne siamo occupati più volte, raccontando tutto il suo lavoro nella realizzazione, nell’allestimento e nell’inaugurazione del Greisinger Museum, un museo tutto dedicato alla Terra di Mezzo, raccontando tutto il suo lavoro nell’organizzazione di FantastikA 2014, manifestazione che si è tenuta a Dozza nel settembre scorso che ha avuto un sorprendente successo di pubblico. In tutto questo tempo, però, ci siamo accorti che mai abbiamo raccontato l’artista. Certo, dalle sue produzioni, qualcosa si intravede, ma mai abbiamo avuto l’occasione di raccontare Ivan. Allora, mettetevi comodi, perché questa è la volta buona. Mentre l’AisT è a Cartoomics, proponiamo l’intervista all’artista tolkieniano.

Tutto uno stand al Cartoomics

Cartoomics: stand dell'AisT con Ivan CaviniDozza. Apriamo lentamente la porta: è lo studio di un artista al lavoro. Ivan Cavini è immerso in un quadro posto sul cavalletto. Ne approfittiamo per dare uno sguardo in giro. Un Apple Mac sulla scrivania, un tavolo da disegno pieno di fogli bianchi e schizzi, una libreria a parete zeppa volumi, litografie, cataloghi e art book. Appesi al muro i suoi lavori, i numerosi articoli di giornale e un vecchio poster di Moebius. Dal lucernaio, la luce colpisce la tela da dove spunta un guerriero. È il tuo ultimo lavoro? «No, un’opera che ho iniziato sei anni fa che ritocco in continuazione… Mi rilasso mentre preparo l’allestimento per Milano». Ivan Cavini è allo stand dell’Associazione italiania studi Tolkieniani, al Cartoomics dal 13 al 15 marzo. In terra, una valigia d’altri tempi già pronta per esporre i disegni. Hai già fatto le valigie? «Ah, quella. Sì, a Milano vorrei portare qualcosa di nuovo. Ho già pronta una nuova tipologia dei miei disegni a matita… sono stampe in serie limitata». Sei immerso in molti lavori? «Sì, a Milano voglio fare in anteprima sul libro illustrato che stiamo per pubblicare. Un libro sui miei lavori, realizzato a quattro mani con Alessio Vissani, con il contributo della Fondazione Dozza Città d’Arte. È il tema del mio incontro al Cartoomics».

Una versatilità d’artista

Artisti: Ivan CaviniÈ complesso definire il lavoro di Ivan. Dalla creazione di fondali digitali alla scultura di sculture giganti (la famose bigature del Greisinger Museum), per poi passare al disegno tradizionale a matita, fino alla realizzazione di costumi di scena o addirittura l’organizzazione di eventi. Un artista poliedrico, capace di reinventarsi ogni volta, spinto dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare. «Sono un cavallo sciolto – ci dice -, che non vuole essere imbrigliato e chi lo ha fatto…» È un artista che ama lavorare in team, perché Ivan sceglie sempre attentamente i suoi partner. Partiamo dall’inizio: quando hai iniziato a illustrare Tolkien? «Il mio primo disegno su Tolkien è del 1999, il Destriero del cielo, commissionatomi da Paolo Paron, allora presidente della Società Tolkieniana Italiana. Nel 2000, sempre per la STI, realizzai cinque illustrazioni per la mostra sui Draghi», cioè l’esposizione d’arte tenutasi in Palazzo Bagatti Valsecchi a Milano dal 1 giugno al 2 luglio 2000, «ma di tutte questi mie opere si è persa traccia ormai!». Mentre parla, ci mostra i concept originali, le uniche cose rimaste delle illustrazioni. «Sono tutte da me progettate e realizzate in 3D, poi ridisegnate con acrilico e areografo. Si può dire forse che io sia il primo artista ad aver illustrato Tolkien con questa tecnica». Di esse, dunque, rimangono solo le prove d’autore. Cosa è accaduto in seguito? «Ho iniziato l’esperienza prima con la mostra itinerante Immagini nella Terra di Mezzo e poi dal 2006 al 2012 sono stato impegnato nella progettazione degli allestimenti scenografici del Greisinger Museum. Comics: Man Born AgainDi quest’ultimo abbiamo parlato qui, qui e qui. Ma cosa fai quando non illustri Tolkien? «Troppe cose e tutte diverse! Collaboro con molti editori: con Eclypsed Word ho realizzazione un fumetto digitale, Man Born Again, con la collaborazione del compianto Giuliano Gemma. Con Inspired Digital Pubblishing ho illustrato numerosi volumi di fiabe e favole, ora sto dedicandomi al matte painting per Bonsai Ninja studio, tengo mostre e performance in fiere e festival di settore. Ho anche creato costumi di scena e scenografie televisive!». Ecco così svelata la principale caratteristica di Cavini: la versatilità, con tecniche in grado di spaziare dalle più tradizionali alle più tecnologiche.

FantastiKa, un evento

Fantastika 2015Con tutte queste attività, Ivan, non avrai il tempo per organizzare nient’altro, credo? «Non direi: ho molti progetti per il prossimo futuro!». Ce ne puoi accennare qualcuno? «Di alcuni non posso parlare perché ho il vincolo di riservatezza… Però qualcosa vi posso dire sul mio nuovo sito. È appena stato finito, e rivoluzionato e ripensato totalmente da zero. Lì ho inserito tutti i miei progetti». Così è facile… Rivelaci qualche chicca per il futuro! «Beh, sto definendo il programma di FantastiKa, che si svolgerà il 16 e il 17 maggio 2015 a Dozza. Dopo il grande successo dello scorso anno, stavolta ci allargheremo anche al borgo medievale oltre che alla Rocca. Vogliamo confermare il profilo della qualità, ospiteremo artisti di fama internazionale, ma li valorizzeremo al meglio creando molte occasioni di contatto diretto con il pubblico. È una caratteristica di Fantastika e vogliamo mantenerla: spazieremo da autori Marvel, Dc Comics fino a Walt Disney e a un finalista di Italia’s Got Talent! Quest’anno forse avremo anche un concerto». Qualcosa su Tolkien ci sarà? «Ci sarà tantissimo! Avremo autori, conferenze, tornei, giochi da tavolo, tutto naturalmente coordinato grazie alla presenza dell’AisT. Anche quest’anno ci saranno artisti tolkieniani, nuovi e già noti, con mostre ed esposizioni tutte loro. Questo perché vogliamo permettere ai veri talenti sconosciuti di emergere e farsi conoscere come meritano. Alcuni autori dell’anno scorso si sono trovati così bene a Dozza da volere tornare anche in questa nuova edizione». Libri: Middle ArtbookCi puoi svelare almeno una delle novità a Dozza? «Il connubio tra me e Alessio Vissani sarà confermato perché presenteremo un nuovo libro MIddle Artbook: Disegnare e costruire la Terra di Mezzo. Inoltre quest’estate partiremo per gli Stati Uniti per realizzare un reportage fotografico e illustrato alla ricerca degli ultimi guerrieri viventi…». Quando lasciamo lo studio, Cavini sta iniziando un nuovo disegno… Sarà pronto per Fantastika? Non abbiamo fatto molte domande, ma forse abbiamo dato tante risposte sull’uomo e l’artista che per Tolkien ha fatto veramente tanto.

Sito web di Ivan Cavini

 

SITO UFFICIALE
– Vai al sito ufficiale di Fantastika
– Vai alla Pagina Facebook di Fantastika

ARTICOLI PRECEDENTI
Dozza 2014, due giorni «fantastici»
A Dozza nasce l’Aist: siamo diventati grandi
L’Arst a Dozza (Bo) con mostre e seminari
Quanti record per l’ArsT a Fantastika!
Estate tolkieniana: ecco gli appuntamenti
– L’intervista a Thomas Honegger
– L’intervista a Ivan Cavini
– L’intervista a Denis Medri
– L’intervista a Maria Distefano
– L’intervista a Andrea Piparo
– L’intervista a Fabio Leone

Museo su Tolkien in Svizzera: l’ArsT all’inaugurazione
Aperto in Svizzera sul museo sulla Terra di mezzo
Reportage dell’inaugurazione del museo di Tolkien
Aprirà a settembre il museo su Tolkien
Un museo in Svizzera tutto per J.R.R. Tolkien

LINK ESTERNI
– Vai al sito della Fondazione Dozza Città d’Arte
– Vai al sito di Ivan Cavini

.



Cartoomics, Ladavas: «Shippey? Uno spasso»

Studiosi: Alberto LadavasMilano quest’anno è centro delle attenzioni della nostra Associazione. Dopo le Serate Boreali con la casa editrice Iperborea, è ora la volta del Cartoomics Movies, Comics and Games 2015, la rassegna milanese dedicata al fumetto, ai giochi e al cinema, che si terrà a Fiera Milano Rho (Padiglioni 16 e 20) dal 13 al 15 marzo 2015. L’AisT parteciperà con uno stand e tre interventi nello spazio dedicato al fantasy. Con una prima edizione che risale al 1992, ormai la manifestazione può vantare grandi numeri: l’anno scorso ben 55.000 visitatori hanno visitato il salone durante i 3 giorni di esposizione.
Locandina Cartoomics 2015Si tratta però di appuntamento che si evolve di anno in anno, arricchendosi di novità e “contaminazioni” con settori che fumetto non sono, ma che dal mondo dei comics traggono linfa vitale: cinema, gadget, fantasy e fantascienza, cosplay. Per tre giorni, quindi, nella fiera il divertimento sarà all’insegna dell’immaginario. Nello stand ufficiale saranno in mostra le illustrazioni di Ivan Cavini, artista tolkieniano tra i più eccelsi che sarà presente in fiera per regalare al pubblico sessioni di sketch e autografi. Per promuovere l’iniziativa, vi proponiamo un’intervista ad Alberto Ladavas, socio dell’Aist e membro del Comitato Scientifico della collana “Tolkien e dintorni” della casa editrice Marietti 1820. L’occasione è ghiotta in vista del suo intervento alla manifestazione milanese sui dieci anni della collana di libri dedicata alla saggistica sulle opere di J.R.R. Tolkien.

L’intervista

Libro: "J.R.R. Tolkien: la via per la Terra di mezzo" di Tom ShippeyCome è nata l’idea per la collana? Perché siete partiti proprio con La Via per la Terra di Mezzo di Tom Shippey?
«L’idea della collana è nata nel 2004 partendo come progetto di traduzione corale coinvolgendo diversi appassionati delle opere di Tolkien che allora gravitavano attorno al newsgroup it.fan.scrittori.tolkien. Uno di questi appassionati, dopo aver letto il libro di Shippey e dopo essersi reso conto della sua importanza per un’approfondita comprensione delle opere di Tolkien, propose di tradurlo a più mani suddividendo tra diversi volontari i vari capitoli».
Come sono stati presi i contatti con la Marietti e cosa caratterizza il vostro rapporto con la casa editrice?
«Tra coloro che all’epoca frequentavano il gruppo c’era Claudio Antonio Testi, segretario dell’Istituto filosofico di studi tomistici di Modena che già pubblicava i propri volumi di saggistica con l’editore Marietti 1820. Non appena Claudio è venuto al corrente del lavoro di traduzione ci ha proposto di sottoporre il progetto all’editore che è stato felice di accoglierlo e che ha poi acconsentito a proseguire con gli altri volumi della collana. Il nostro rapporto con la casa editrice è caratterizzato dall’ampio margine di scelta di cui disponiamo come Comitato scientifico proponendo per la collana i titoli che più ci sembrano meritori di pubblicazione».
Studiosi: Alberto LadavasCome lavorate esattamente? Chi fa cosa, all’interno del Comitato Scientifico?
«Il lavoro del Comitato è un vero e proprio lavoro di squadra. Tutti i membri sono lettori e studiosi di Tolkien, per cui leggono molta saggistica di studiosi stranieri da cui poi vengono estratti i titoli più meritori che proponiamo per la pubblicazione. Claudio si occupa dei rapporti con l’editore, in virtù della sua esperienza ormai consolidata, e con autori ed editori esteri per quanto riguarda i diritti di pubblicazione; in questo è coadiuvato da Roberto Arduini e insieme sono stati spesso curatori dei volumi pubblicati. Lorenzo Gammarelli, Giampaolo Canzonieri ed io ci occupiamo soprattutto della traduzione dei testi, della revisione e della curatela in generale con Giampaolo ormai specializzato nella compilazione degli indici. Tutti e tre abbiamo comunque svolto anche il ruolo di curatori delle pubblicazioni».
Come avviene di solito la scelta degli altri libri, tra i tanti pubblicati ogni anno dalla critica internazionale?
«Finora abbiamo scelto i più significativi per offrire una panoramica a tutto tondo sulla critica tolkieniana nel mondo: siamo partiti dall’approccio linguistico-filologico di Shippey per passare poi a quello filosofico della Flieger, a quello biografico con Garth e poi religioso con Pierce, a quello letterario di Rosebury e, per ultimo, quello psicologico di Green».
Quanto lavoro richiede la traduzione di un libro? Quanti mesi e quanti giri di correzione di bozze?
«Il lavoro è molto variabile in funzione della mole del libro e della complessità dell’originale. Lavorando tutti ai progetti nel proprio tempo libero la traduzione di un libro richiede un tempo compreso tra i 3 e i 6 mesi con almeno 3 revisioni successive delle bozze: una da parte del traduttore e due da parte del curatore».
Ci sono mai state divergenze di opinione all’interno del Comitato Scientifico? In quali occasioni?
«Alcune volte la scelta dei volumi da tradurre e pubblicare non è stata unanime: in alcuni casi si è trattato di decidere la priorità con cui pubblicare diversi volumi validi, in altri alcune proposte editoriali non sono state accolte o sono state accantonate».
Conferenza Shippey a Modena 2013Ha qualche aneddoto da raccontare, un episodio che le piacerebbe ricordare?
«La prima volta che ho incontrato Tom Shippey durante il convegno che abbiamo organizzato il 22 maggio 2010 a Modena è stata un’esperienza molto intensa e piacevole: una persona molto disponibile e alla mano, amabile conversatore e… appassionato di calcio, da bravo inglese! Talmente appassionato che, finito il convegno, durante e dopo la cena Shippey ha insistito per guardare insieme la finale di Champions League Inter – Bayern Monaco e, dopo la vittoria dell’Inter, ha voluto festeggiare con un buon bicchiere di whisky!»
C’è stato un contatto con gli autori dei diversi libri? È difficile la gestione dei rapporti con loro prima, durante e dopo il lavoro che porta alla pubblicazione?
«Alcuni degli autori sono stati contattati per richiedere la concessione dei diritti di traduzione e pubblicazione, un lavoro non facile a volte perché assai difficili da reperire. La quasi totalità è
stata comunque molto collaborativa e disponibile, moltissimi sono stati entusiasti delle nostre proposte e sono poi rimasti in contatto con il Comitato in diversi modi, non ultimi i social network. In pochi e rari casi la gestione è stata più difficoltosa con molti limiti posti a livello editoriali e contrattuale».
Ci sono stati libri che avreste voluto tradurre e di cui non siete riusciti a ottenere i diritti?
«Purtroppo sì: ci sarebbe piaciuto molto inserire nella collana il volume Master of Middle-earth di Paul Kocher, ma per degli strani giochi del mondo dell’editoria non siamo riusciti ad acquisirne in tempo i diritti e il volume è stato poi pubblicato da Bompiani».
Se dovesse scegliere un titolo, quale considera il vostro maggior successo?
«Personalmente sceglierei il nostro primo volume, La via per la Terra di Mezzo di Shippey: un testo davvero fondamentale e imprescindibile, frutto di un lavoro di traduzione e curatela davvero corale e molto lungo e faticoso a causa della sua complessità, ma anche fonte di una grandissima soddisfazione quando ho finalmente avuto il testo tra le mani».
Avete anche qualche rimpianto?
«Il mio più grosso rimpianto è non essere riusciti a fare di più, non aver pubblicato più libri… ma purtroppo lavoriamo tutti come appassionati, quindi con un tempo limitato, e il momento che stiamo attraversando non è nemmeno dei migliori sotto il profilo economico, per cui non possiamo chiedere un ulteriore sforzo alla casa editrice e ai nostri lettori».
Studiosi: Alberto LadavasBen tre dei vostri titoli non sono traduzioni, ma scritti originali: quali sono le motivazioni che vi hanno portato a inserirli nella collana?
«Dopo 5 anni dalla pubblicazione del primo volume della collana, nel 2009 abbiamo ritenuto che i tempi fossero ormai maturi per soddisfare l’esigenza di iniziare anche in Italia un riflessione seria e approfondita sulle opere di Tolkien, dopo che per decenni il mondo accademico italiano non si era mai occupato del Professore di Oxford relegandolo tra gli autori di genere per bambini. Da questa esigenza nasce La falce spezzata, il nostro primo volume di scritti originali, a cui poi hanno fatto seguito Tolkien e la filosofia, che raccoglie gli atti del convegno che abbiamo organizzato a Modena nel 2010, e il volume C’era una volta… Lo Hobbit, nato con l’intento di fornire un approfondimento a vari livelli sul primo romanzo di Tolkien. I primi due volumi sono stati anche tradotti in inglese dalla prestigiosa casa editrice Walking Tree Publishers».
Quali libri potremo leggere in futuro? Avete già in programma qualche nuova traduzione?
«Proprio in questo periodo stiamo discutendo del prossimo volume della collana, ma al momento non posso dire di più perché il progetto non è ancora definito nella sua completezza e c’è ancora una certa quota di riserbo e incertezza. Non appena avremo la conferma definitiva daremo sicuramente l’annuncio sui nostri consueti canali d’informazione!».

PROGRAMMA DEGLI INTERVENTI AIST:

Venerdì 13 ore 17:00
Ivan Cavini
Disegnare e costruire la Terra di Mezzo

Sabato 14 ore 10:30
Alberto Ladavas
Dieci anni di Tolkien e dintorni

Domenica 15 ore 11:30
Claudio Antonio Testi
La Terra di Mezzo tra angeli incarnati e pagani virtuosi

LINK ESTERNI:
– Vai al sito ufficiale di Cartoomics Movies, Comics and Games 2015
– Vai alla pagina Facebook ufficiale di Cartoomics 2015
– Scarica qui il programma dell’Agorà Fantasy

.


Montanini a FantastikA: «Disegnerò Tolkien»

04 (copyright Alessio Vissani) MontaniniAvere l’opportunità di parlare di persona con un artista delle sue opere, il suo stile, la sua visione dell’arte e del mondo è sempre una grande opportunità di crescita. E se il nome dell’artista è Angelo Montanini e l’argomento è lo scrittore J.R.R. Tolkien, già si può dire che le sue parole potranno interessare i lettori del nostro sito! Perché Montanini è l’artista più famoso dell’arte tolkieniana in Italia: «padrino di Fantastika 2014», è docente di anatomia dell’immagine figurativa presso lo Ied moda Lab di Milano e docente d’illustrazione all’Accademia delle Belle Arti “Galli” di Como. Ma per gli appassionati di Tolkien, Montanini ha fatto la storia dell’illustrazione fantastica in Italia, avendo annoverato collaborazioni con case editrici come Rusconi, Mondadori, Longanesi, Editrice Nord e la Società Tolkieniana Italiana (per cui ha realizzato diversi calendari), mentre per quanto riguarda l’estero è universalmente noto per la pubblicazione del gioco di carte del Signore degli Anelli edito dalla I.C.E. nel 1995-96 e per il quale Montanini ha realizzato tantissime tavole (il suo Unico Anello è stata la carta più famosa dell’intero gioco).
Manuale di MERPDal 1996 al 1999 ha svolto anche l’attività di coordinamento artistico per la casa editrice Stratelibri di Milano, collaborando alla realizzazione di vari moduli di gioco, con illustrazioni sia di copertina che interne del Manuale di gioco di ruolo per Il Signore degli Anelli (Girsa), ma anche per Stormbringer, Fantasy Warriors e altri). L’artista sarà tornerà alla nuova edizione di FantastikA, che si svolgerà dal 16 al 17 maggio 2015 a Dozza, in provincia di Bologna, e per l’occasione ha voluto rivelarci qualche novità. Pubblichiamo l’intervista in video registrata durante Fantastika 2014, con le novità che Montanini ha voluto aggiungere. Il video è a fondo pagina e sul nostro canale Youtube.

L’intervista

FantastkA 2014: intervista Angelo MontaniniCi racconti qualcosa del suo lavoro sulle opere di Tolkien?
«Da anni sono un illustratore editoriale sia per l’Italia e all’estero con soggetti come Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Ho lavorato per molto tempo qualche anno fa per la casa editrice Stratelibri, in cui ero direttore artistico sia per le le illustrazioni e le copertine che nella scelta degli illustratori che venivano coinvolti nei progetti. La mia attività principale è ora quella di insegnante presso una accademia di Belle Arti e mi ha portato sempre a cimentarmi continuamente con lo sviluppo del disegno e in senso lato dell’arte del disegno Fantasy, dall’influenza che ha avuto in generale sui fruitori e sugli spettatori della trilogia del Signore degli Anelli e Lo Hobbit riguardo all’iconografia dei personaggi. Si era creata un omologazione specifica che mi aveva portato a scegliere di smettere completamente di realizzare immagini a tema tolkieniano per occuparmi soprattutto di insegnamento e di altre illustrazioni».
Angelo Montanini: "Theoden and Eowyn"Quindi non disegnerà più immagini tratte da J.R.R. Tolkien?
«È stata ovviamente una mia scelta personale e la prima occasione pubblica è proprio la manifestazione di FantastikA per fare l’annuncio: riprenderò a disegnare nuove immagini ed esprimere la mia personale visione dei caratteri e dei personaggi della Terra di Mezzo credendo che sia importantissimo, aldilà dei bellissimi film che sono usciti, che ogni artista, nel mio caso personale ma anche tutti i miei colleghi, possano interpretare in maniera libera quelli che sono gli scritti fantastici sia dei personaggi che degli scenari del mondo tolkieniano. Vorrei da questo momento in avanti rivedere, magari con un occhio molto più attuale, tutto quello che è l’immagine che ha occupato il mondo tolkieniano e tutta l’iconografia relativa. Spero di essere presente anche nelle prossime occasioni a Dozza, perché credo che FantastikA sia una bellissima manifestazione».
Angelo Montanini: "Rangers of the North"Come vede il futuro di questo evento?
«La possibilità di espansione di questa manifestazione è difficile da ipotizzare, ma già dal successo di quel che ho visto può far pensare bene. Del resto Lucca Comics è divenuta la più importante a livello sia di comics e games che si svolge ogni anno, ma ce ne sono anche altre come Roma, Milano, Torino che hanno manifestazioni più dedicate ai comics, sono tutte manifestazioni di settore. Questo avvenimento sarebbe molto interessante sfruttare sempre più questa bellissima rocca, a differenza delle altre che si svolgono in padiglioni fieristici, potrebbe essere l’occasione per poter potenziare l’aspetto artistico. Come potenziarlo dovrà vederlo poi l’amministrazione comunale e gli organizzatori, che sono persone molto, molto motivate».
Il Fantasy per i giovani disegnatori può essere un’opportunità di lavoro?
«Anche in questo settore c’è la fuga di cervelli. Intento dire che molti ragazzi dotati dal punto di vista del disegno, fantasy o meno, vanno a lavorare negli Stati Uniti per le grandi case di produzione, la Marvel o la Wizard of the Coast, perché in Italia purtroppo non esiste più un mercato, le case editrici che vi lavorano sono fallite e hanno chiuso, nessuno vede un investimento particolare su queste cose. Anche chi si occupa di questo settore, anche a livello di giochi, spesso, purtroppo devo dire, utilizza anche illustrazioni non italiane. Pertanto, per forza i giovani talenti italiani devono per forza andare a lavorare all’estero. Minimo devono trasferirsi o devono accettare situazioni di questo tipo. È una cosa poco positiva. Angelo Montanini: "Lonely Mountain dwarf"Se in Italia, con tutti i problemi che abbiamo, per carità non è questo il primo dei problemi, se in Italia si riuscisse a trovare una soluzione per dare sfogo ai giovani talenti, il settore del Fantasy sarebbe ancora uno di quelli in cui si potrebbe lavorare. Faccio qualche esempio, tra i vecchi amici o le persone che conosco che hanno un nome italiano nel Fantasy, purtroppo lavorano all’estero: Paolo Parente e Simone Bianchi. Sono due fra i massimi disegnatori che in Italia non possono lavorare. E potrei dire anche altri nomi costretti a lavorare all’estero, dove sono apprezzati e stimolati a crescere ancora».
L’editoria italiana investe in questo settore?
«È il dio denaro che detta legge, vieta che certe iniziative vengano finanziate. Sono veramente pochi i casi di piccole aziende italiane che poi hanno un successo internazionale. Qualche piccolo esempio c’è, magari nel settore parallelo, abbiamo visto le Wings che è un fenomeno che è divenuto mondiale eppure è iniziato dall’Italia. È un gruppo di disegnatore all’inizio della loro carriera. Ci hanno creduto, ecco. Ognuno di noi dovrebbe impegnarsi, magari quelli che hanno una trentina d’anni non io che ne ho il doppio, bisogna crederci davvero tanto».
Ha già iniziato a realizzare nuovi disegni ispirati a Tolkien?
Angelo Montanini: "L'unico Anello"«In realtà sì, anche se in un caso si tratta di una rielaborazione. Ho realizzato La sentinella e L’Anello di Sauron, (in vendita in tiratura limitata a 40 euro!), quest’ultima appunto una rielaborazione dell’illustrazione per la carta collezionabile dallo stesso nome. Entrambe sono ora in esposizione presso lo WOW Spazio Fumetto – Museo del Fumetto di Milano fino al 22 marzo, all’interno della mostra La magia dell’Anello (ne abbiamo parlato diffusamente qui e qui). Riguardo al primo ho così l’occasione di raccontarvi l’origine. La sentinella è un racconto di fantascienza molto famoso di una sola pagina, ma importantissimo (l’autore Fredric Brown lo scrisse nel 1954, ndr). Angelo Montanini: "La Sentinella"Ho descritto il racconto chiaramente in una versione tolkieniana come se tutto accadesse nella Terra di Mezzo: il mio Orchetto è la trasposizione dell’Alieno, ma pochi si sono accorti che nel quadro, in lontananza, dietro i cespugli, ci sono gli uomini che stanno giungendo. Chi conosce il racconto si può anche immaginare il seguito di quel momento: senza anticipare troppo, posso dire che l’Orchetto lancerà contro di loro la sua ascia, perché naturalmente non può sparagli addosso! Inoltre, la sua mano è rivolta verso il basso. La mano verso l’alto nel Rinascimento, indicava il divino e la voglia di avvicinarsi al divino. Il contrario è indice di “infimo”. Quindi, un Orchetto è più vicino all’infimo e la sua mano è più naturale che indichi verso il basso, ma così facendo indica anche il mio nome, facendo andare l’occhio dell’osservatore verso la firma dell’artista del quadro.
Locandina FantastikA 2015Ecco, mi piace inserire questi piccoli dettagli, che solo ad una visione attenta si possono cogliere. Bisogna vedere l’originale dal vivo, nelle riproduzioni molto si perde!».
Ha in progetto nuove illustrazioni per il futuro?
«Sì, ho almeno due o tre progetto in corso, ma però ora voglio aspettare a dirlo perché tutti non dipendono solo da me. Però, non dimentico Tolkien, anzi! L’unica cosa che so è che dipingerò, lo farò per me, senza che ci sia un committente. È una cosa che farò per me, una mia esigenza di creare una nuova visione della Terra di Mezzo. Per FantastikA sarò pronto e vi aspettano almeno due novità… ops, non ho detto nulla!».

 

GUARDA L’INTERVISTA:
youtube placeholder image
 

SITO UFFICIALE
– Vai al sito ufficiale di Fantastika
– Vai alla Pagina Facebook di Fantastika

ARTICOLI PRECEDENTI
A Dozza nasce l’Aist: siamo diventati grandi
L’Arst a Dozza (Bo) con mostre e seminari
Quanti record per l’ArsT a Fantastika!
Estate tolkieniana: ecco gli appuntamenti
– L’intervista a Thomas Honegger
– L’intervista a Ivan Cavini
– L’intervista a Denis Medri
– L’intervista a Maria Distefano
– L’intervista a Andrea Piparo
– L’intervista a Fabio Leone

LINK ESTERNI
– Vai al sito della Fondazione Dozza Città d’Arte
– Vai alla Pagina Facebook di Angelo Montanini

.



Honegger: «Lo Hobbit tra Tolkien e Jackson»

Studiosi: Thomas Honegger (c) TolkiendilIl Festival Fantastika di Dozza (Bologna) si avvicina ed è bene conoscere meglio una delle guest star della manifestazione. Per i nostri lettori, ecco allora in esclusiva un’intervista a Thomas Honegger. Professore presso il dipartimento di Studi Inglesi dell’Università Friedrich Schiller di Jena, in Germania, è uno specialista nel periodo medievale. Tra i suoi interessi, si possono trovare anche le opere di J.R.R. Tolkien, su cui ha ampiamente dedicato studi e pubblicazioni. Nato a Zurigo, ma naturalizzato tedesco, è in realtà un gigante degli studi tolkieniani: è curatore di quasi tutti i volumi della collana Cormarë Series della casa editrice Walking Tree e membro del comitato scientifico di Hither Shore, rivista letteraria della Tolkien Society tedesca. Non si contano i suoi studi e saggi e le sue partecipazioni ai convegni internazionali su Tolkien ed è il “motore” dei convegni annuali su Tolkien dell’università di Jena. Insomma, dopo Tom Shippey e Verlyn Flieger, a buon diritto Honegger è uno dei maggiori studiosi al mondo di Tolkien. È, inoltre, appena divenuto neo-segretario della nascente Tolkien Society svizzera (Seryn Ennor), che ha il suo centro a Jenins, sede del Greisinger Museum, tutto dedicato alla Terra di Mezzo. Il 28 settembre a Fantastika terrà una conferenza dal titolo «I draghi nelle opere di J.R.R Tolkien».

L’intervista

Professor Honegger, cosa l’ha attratta all’inizio delle opere di Tolkien?
Studiosi: Thomas Honegger«Il mio approccio iniziale a Tolkien è stato quello da “collega medievalista” e molte delle mie pubblicazioni accademiche riguardano le sue fonti e ispirazioni. Tuttavia, quello che ho anche trovato è che l’opera dello scrittore inglese apre vie impreviste verso una vasta gamma di tematiche – dal viaggio nel tempo alla botanica. Così sono rimasto un po’ sorpreso quando un giornalista mi ha chiesto cosa avrei fatto in futuro dopo che avevo “fatto con Tolkien”?! Con lui non si finisce mai! La pubblicazione del suo poema allitterativo The Fall of Arthur, per esempio, terrà occupati i medievalisti per qualche tempo, per non parlare delle migliaia di pagine di note e testi accademici custoditi nella Bodleian Library di Oxford, che sono di scarso interesse per la critica letteraria, ma di grande valore per i medievalisti».

Tolkien stesso ha pubblicato numerosi saggi accademici. Lei usa queste sue opere nei seminari e nelle conferenze? Sono scritti ancora validi per i medievalisti? «Naturalmente, il tempo passa per tutti e gli orientamenti della disciplina seguono la loro strada. Ma sono ancora validissimi il suo lavoro sul Beowulf e le sue lezioni su altri argomenti (i saggi Sulle Fiabe, Inglese e gallese, Un vizio segreto). Li uso regolarmente, come uso le sue traduzioni molto accurate e leggibili di Sir Gawain and the Green Knight, Sir Orfeo e Pearl. A lezione, ho usato anche l’edizione del Sir Gawain da lui curata insieme a E.V. Gordon».

Cosa l’affascina di più dei lavori di Tolkien? Ci sono contatti tra il suo studio e la sua produzione artistica? «Bella domanda! I contatti sono talmente tanti che non posso nemmeno enumerarli. Molto del lavoro accademico del professore si è riversato nelle sue opere di fantasia. Tra le cose che preferisco di più, che sono poi due punti di contatto fondamentali, ci sono il suo stile nel Signore degli Anelli e la profondità delle sue allusioni e riferimenti intertestuali al Beowulf. Per questo, si può leggere quel che ne ha scritto Shippey…».

Lei è un professore universitario: pensa che il mondo accademico stia cominciando ad accettare questo tipo di letteratura come qualcosa che vale la pena studiare? «Studiare Tolkien è accettato o meno come studiare altri argomenti non canonici (ad esempio, i vampiri). La svolta negli studi di Tolkien è venuto con la nascita di riviste accademiche peer-reviewed e pubblicazioni di libri, in particolare i Tolkien Studies (della University of West Virginia Press) e le Cormarë Series della nostra casa editrice Walking Tree Publishers. Io (e molti altri studiosi di Tolkien) ho pubblicato anche in altre riviste accademiche o raccolte di saggi e supervisiono tesi e dottorati su argomenti correlate a Tolkien. In tal modo Tolkien è un autore “sotto i riflettori” seppur non ancora “canonico”».

Passiamo ai film di Peter Jackson. Qual è la sua opinione riguardo l’adattamento dello Hobbit? Ha mantenuto lo spirito del romanzo di Tolkien? Studiosi: Thomas Honegger«Ho apprezzato molto i film, la seconda volta più della prima volta. Anche se Peter Jackson rimane spesso molto vicino al testo originale, ovviamente il fatto di realizzare tre film è più vicino nello spirito alla sua trilogia sul Signore degli Anelli che alla fiaba dello Hobbit. Mi sarebbe piaciuto un film di tre ore per ragazzi che seguisse la trama e lo spirito del libro, ma sono altrettanto felice nel vedere questa trilogia epica di Jackson, che ha trasformato l’originale in qualcosa di molto diverso. Tolkien stesso aveva in programma di riscrivere Lo Hobbit, al fine di trasformarlo in un prequel del Signore degli Anelli, ma non è mai riuscito a farlo (forse è una fortuna così). Quindi, una volta accettato il fatto che Jackson non ha mantenuto lo spirito del romanzo di Tolkien (per ragioni di “compatibilità”) si possono giudicare i suoi film in maniera più equa per quello che sono: film ispirati da un testo, ma non “traduzioni” del libro in immagini».

È giusto, in ogni caso, giudicare un film per la sua fedeltà al lavoro letterario su cui si basa? «Certamente, ma non in questo caso. Dal momento che Jackson ovviamente non ha tradotto una fiaba di 280 pagine in una pellicola di 3 ore per ragazzi, si farebbe torto sia il libro che al film, indipendentemente da quello che dicono Jackson o dei suoi collaboratori. Il caso è stato un po’ diverso con Il Signore degli Anelli, dove abbiamo tre volumi epici trasformati in tre film epici. In questo caso, penso sia giusto fare il confronto. Per ulteriori approfondimenti vi consiglio l’articolo di Vincent Ferré “Tolkien, our Judge of Peter Jackson”, in cui si analizza il parere che Tolkien aveva sul ​​cinema e sull’adattabilità del Signore degli Anelli, come espresso nelle sue lettere, quindi si confrontano i criteri e il giudizio dello scrittore con la story-line sottopostagli nel 1957-1958, con i film di Ralph Bakshi del 1978 e “La Compagnia dell’Anello” di Jackson del 2001».

Torniamo all’autore. Negli ultimi anni, sono stati pubblicati diversi nuovi libri di Tolkien non riguardano più la Terra di Mezzo. Si tratta di quella che è stata chiamata dagli studiosi la «filologia creativa» del professore di Oxford. Si tratta di La leggenda di Sigurd e Gudrùn, poema ispirato alle saghe norrene, The Fall of Arthur, ispirato al mito di Re Artù, e Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, che approfondisce il poema in antico inglese The Battle of Maldon. Aldilà dello studio di queste opere in sé, cosa pensa possano aggiungere alla conoscenza e allo studio della Terra di Mezzo? Libro: La caduta di Artù«Queste ultime opere sono importanti per conoscere il lavoro e lo stile di Tolkien. Si può capire molto di cosa pensava su determinati temi e su come funzionava il suo processo creativo. Sicuramente, si è aperto un nuovo campo di studio, come giustamente già evidenziato da Tom Shippey nei suoi libri. Ma un riflesso di queste opere si può trovare anche nei romanzi più noti dello scrittore. Ci sono tematiche che Tolkien volle approfondire per comprendere le lingue e i poemi medievali che insegnava all’università. Molti studiosi si dedicano a nuove traduzioni per riprendere la mano con le lingue scomparse. Lui volle espandere questi poemi con la sua vena creativa, la stessa vena che poi lo portò allo Hobbit e al Signore degli Anelli. Volete un esempio? Si può cogliere l’influenza sulla sua idea di regalità. Tolkien approfondì molto questa tematica e si va ben oltre la nostalgia per la “nobiltà di sangue” proposta da alcuni meri divulgatori».

Gli studiosi più esperti hanno, infatti, già iniziato ad analizzarla: Verlyn Flieger ne ha già parlato in due occasioni. È un tema molto più ampio che tocca l’aspetto mitologico delle sue creazioni e può essere ampliato a tutta la disciplina. Lei stesso se ne è occupato in passato, ad esempio già al convegno in Francia nel 2012. «Sì, esatto. Tolkien ha detto una volta la sua risposta immediata alla lettura di una storia medievale era quello di voler scrivere una storia simile. Lui l’ha fatto. Tre volte. Oltre agli esempi citati, pensiamo anche alla Storia di Kullervo venuta dal poema finlandese Kalevala e poi confluita nel Silmarillion. Ci leggiamo queste opere nel contesto della sua particolare tradizione letteraria per esplorare come Tolkien si inserisce, altera o può estendere il materiale mitico, da Omero in poi. Il tema della regalità è anche cruciale per capire molte differenze tra i membri degli Inklings. Diversamente da C.S. Lewis e Charles Williams, in Tolkien la regalità riassume e amplia i concetti provenienti dalle fiabe, dalla storia e dall’ascendenza divina. La sua migliore descrizione si trova nelle frasi di Faramir nel momento dell’incoronazione di Aragorn (Lotr III.5, p. 967) ed è erede di una tradizione storica che dal Medioevo giunge fino ai giorni nostri. Le ultime opere su Beowulf, Sigurd e Artù non fanno che confermare la distanza da Lewis. È sufficiente leggere l’ultimo La Caduta di Artù per capire che si parla del re come un guerriero secolare che mira a restaurare l’unità dell’Impero molto lontano dal personaggio del ciclo del sacro Graal».

Lezioni: Thomas Honegger e i draghiIl suo ruolo neo-segretario della Tolkien Society svizzera ha dato un’indirizzo professionale alle iniziative. Se non sbaglio si parla di due eventi annuali? «L’incontro che si è tenuto a inizio settembre è stato per lo più organizzativo. Per me è stata anche l’occasione per preparare la mia conferenza su draghi che terrò a Fantastika. C’erano molte persone provenienti da tutta la Svizzera e ci siamo strutturati in molti sottogruppi, le varie “famiglie locali”. Con Bernd Greisinger e gli altri soci si è deciso che i due eventi annuali al Greisinger museum saranno tematici: in aprile, ogni anno, inviteremo gli artisti per workshop e laboratori, per poi pubblicare anche un calendario; in settembre, il convegno con autori e studiosi di fama internazionale. È un progetto ambizioso, ma credo che riusciremo a realizzarlo».

Studiosi: Roberto Arduini e Thomas HoneggerAvete molti progetti in corso con la Walking Tree Publishers? «Quest’anno abbiamo già pubblicato parecchio, quattro libri di saggistica tolkieniana tra cui il “vostro” Tolkien and Philosophy. Entro la fine dell’anno volevamo dare alle stampe, però, un altro paio di volumi. Stiamo ancora definendo le date di uscita, ne saprete di più per Fantastika a Dozza. Poi, c’è il nostro Call for paper  “Humour in and around the Works of J.R.R. Tolkien” che è in dirittura di arrivo, dopo che i saggi sono stati consegnati a marzo: ne sono giunti molti validi. Insomma, i progetti sono moltissimi e siamo impegnati su più fronti contemporaneamente. A ottobre ricomincerà anche l’università: e sicuramente nel mio corso Tolkien non mancherà!».

Il programma di Fantastika a Dozza (Bo) dal 27 al 28 settembre 2014 (mostre fino al 5/10):

programma FantastikaSITO UFFICIALE
– Vai alla Pagina Facebook di Fantastika

ARTICOLI PRECEDENTI
L’Arst a Dozza (Bo) con mostre e seminari
Estate tolkieniana: ecco gli appuntamenti
– L’intervista a Ivan Cavini
– L’intervista a Denis Medri
– L’intervista a Maria Distefano
– L’intervista a Andrea Piparo
– L’intervista a Fabio Leone

GUARDA L’INTERVISTA A HONEGGER REALIZZATA DALL’ASSOCIAZIONE TOLKIENDIL:

Interview de Thomas Honegger par l’équipe de Tolkiendil à l’occasion de sa conférence “Arthur – Aragorn – Ransom: Concepts of Kingship in the Works of Three Inklings” au colloque Tolkien et les Inklings à Cerisy, en juillet 2012 (c) Tolkiendil

Tradotto in inglese “Tolkien e la Filosofia”
– Nasce la Tolkien Society svizzera (Seryn Ennor)

LINK ESTERNI
– Vai al sito della Fondazione Dozza Città d’Arte
– Vai al sito di Ivan Cavini
– Vai al sito della Walking Tree Publishers
– Vai al sito ufficiale di Greisinger Museum

.