Risposta “mondana” alla critica di Wu Ming 4

Risposta “mondana”
alla critica ultra-mondana di Wu Ming4

Studiosi: Andrea Monda

Dopo aver proposto la riflessione di Wu Ming 4 sull’ultimo libro pubblicato da Andrea Monda, Raccontare Dio oggi (Città Nuova, 2018), la settimana scorsa, oggi pubblichiamo la risposta dell’autore, un proseguo del dibattito tra i due studiosi sul ruolo della fede nella creazione tolkieniana, uno scambio di opinioni nato ormai otto anni fa durante il convegno Tolkien e la filosofia (i cui atti sono stati pubblicati dalla casa editrice Marietti 1820).
Lasciamo quindi la parola ad Andrea Monda e vi auguriamo, ancora una volta, una buona lettura.

Ho letto con grande curiosità l’articolo che Federico Guglielmi (in arte Wu Ming4) ha dedicato al mio ultimo saggio-racconto sull’esperienza dell’insegnamento della religione “a colpi di Tolkien”. Voglio subito ringraziarlo per le parole, per lo più incoraggianti, che mi ha rivolto e passo subito alle criticità che ha voluto individuare perché è opportuno partire da lì per continuare ed estendere la discussione e magari pensare ad una seconda edizione più ampia. La principale criticità che Federico solleva è quella di non aver affrontato il tema dell’uccisione del padre. Il mio critico rileva, quasi con un pizzico di nostalgia, che negli ultimi decenni tale questione sia stata rimossa, l’evaporazione progressiva del padre ha tolto di mezzo il bersaglio da eliminare,lasciando ancora più orfani i giovani, due volte privati del padre:nessun punto di riferimento non solo nel bene, ma anche nessun limite da trasgredire, nessuno contro cui lottare fino alla morte (e quindi poi risorgere come veri e nuovi uomini, maturati proprio perché passati attraverso il conflitto). Senza conflitto generazionale non si forma-forgia nessuna nuova generazione, questa è l’accusa che Federico, ma non solo lui, muove alla generazione dei padri ex-sessantottini che egli liquida, forse un po’ troppo sinteticamente, come “velleitari”.

Potrei dire subito che sono d’accordo con lui e liquidare la questione, ma vorrei rispondere con la stessa attenzione con cui Federico ha letto il mio saggio e per farlo devo raccontare qualcosa del “prima” e del “dopo” la scrittura di questo saggio.

Prima: quando l’editore mi ha contattato mi ha chiesto di spiegare come si fa oggi a “dire Dio” ai giovani. A tale e tanta questione, troppo “filosofica”, io ho risposto che non sapevo rispondere, ma avrei potuto raccontare la mia storia di questi quasi vent’anni di insegnante di religione. Quando dialogo con Federico, il piacere sempre vivo e presente, sono però spesso preso da un’ansia rispetto al suo taglio un po’ troppo concettuale, appunto filosofico che sposta la discussione su un terreno per me scivoloso e insidioso. Può sembrare paradossale che questo avvenga tra un professore di religione (io) e un romanziere (lui) perché le parti sembrerebbero invertite così come leggendo questa sua riflessione a tratti ho avuto la sensazione che si fossero scambiate anche le parti del credente e del non credente; ma procediamo per gradi. Questa era la consegna dell’editore e a tale compito ho cercato di rimanere fedele, e se ne rende conto anche Federico quando osserva che la lacuna del mio testo è giustificabile: “forse è qui che si intravede l’elemento di criticità eluso dalla riflessione di Monda, vuoi perché avrebbe richiesto un taglio diverso e un libro a se stante”, cioè si rende conto che quella elusione ha una sua ragion d’essere, senza di essa il libro sarebbe diventato un altro libro, avrebbe preso un’altra direzione che lo avrebbe portato ad avere una maggiore ampiezza. Poi Federico aggiunge un’altra giustificazione che invece non mi trova d’accordo,ma prima di approfondire devo raccontare qualcosa del “dopo”.

Dopo la stesura del saggio mi è venuta addosso quella malinconia di cui parla Longanesi che sotto forma di rammarico assale lo scrittore al termine della sua opera per non averla scritta meglio, magari senza dimenticare alcune cose fondamentali. In particolare tre spunti sono rimasti, stranamente, al di fuori del mio testo. In primis Tolkien, ovviamente. La sua famosa frase contenuta in una lettera al figlio Christopher racchiude in modo sintetico il senso ultimo della mia intera riflessione, ma forse era troppo vicina ed evidente e quindi mi è passata di mente: «Naturalmente non voglio dire che i Vangeli raccontano solo fiabe; ma sostengo con forza che raccontano una fiaba: la più grande. L’uomo, narratore, deve essere redento in modo consono alla sua natura: da una storia commovente.» (lettera 89).

Il secondo spunto è anch’esso così vicino che mi è sfuggito: Papa Francesco ripete spesso il concetto per cui per trasmettere la fede non serve la lingua ma il “dialetto”. È esattamente quello che ho cercato di dire in questo libro: la lingua“ufficiale”, asettica, dei codici e dei manuali è insufficiente, bisogna creare una comunità con il suo lessico e allora il dialogo può nascere. Su questo aspetto non ho ben compreso se Federico è del tutto d’accordo, anche se mi appare abbastanza simpatizzante della “linea bergogliana”, come vedremo più avanti.

Il terzo aspetto che ho tralasciato, in parte, è proprio quello individuato come “assenza” da parte di Federico che quindi può dirsi soddisfatto, anzi di fatto lo ringrazio perché le sue osservazioni mi aiuteranno in fase di una futura ed eventuale seconda edizione. È il tema della “orfanità”. Le generazioni che ci hanno preceduto,i suddetti sessantottini hanno ucciso il padre ma non l’hanno sostituito, hanno abdicato al proprio ruolo diventando altro, come nota Federico: “amici, complici, tifosi, sentinelle iperprotettive, ecc.”, realizzando così la piena “orfanità” delle nuove generazioni. E invece Federico invoca la resurrezione dei padri, evoca la loro presenza come argine, come condizione per quel conflitto fecondo che è la linfa dell’educazione. Ora vorrei tranquillizzare Federico: questo è uno dei temi più “miei”(forse perché sono rimasto orfano a nove anni?), dei più ricorrenti nel corso delle lezioni che quotidianamente svolgo. Più che un “tema” è il fatto che si realizza nel momento stesso in cui io entro in classe in qualità di insegnante di religione, io sono un “padre”, un bersaglio su cui scagliarsi, direi preventivamente. E quest’assalto io non lo eludo, a volte quasi lo provoco; la lezione come occasione di pro-vocazione. Uno dei dialoghi che non ho inserito nel saggio ma che si svolge ogni anno, direi ogni mese, tra me e i miei studenti,suona più o meno così: “oggi cosa è trasgressivo?” chiedo, e di fronte al loro silenzio, faccio presente che in effetti essendo crollati tutti i tabù, tutte le norme (Federico dice “regole”) non c’è più nemmeno spazio per una vera trasgressione. E questa mancanza rischia di creare disorientamento, debolezza, noia,tristezza. A volte faccio notare che oggi il gesto più trasgressivo è, per esempio, recarsi in chiesa per pregare, e qui forse il professore che è in me rivela quella “direzione precisa”, osserva Federico, “verso la quale intende “ducere” i pagani”e aggiunge “Si può immaginare che questo sia ciò che produce molti degli attriti creativi tra la sua figura di educatore cattolico e i suoi interlocutori tra i banchi scolastici”. Quindi lo stesso Federico riconosce che l’attrito, il conflitto c’è e non può mancare tra un professore di religione e i suoi giovani interlocutori. In realtà del conflitto io ne parlo nel mio saggio, anche se non frontalmente ma in modo un po’ obliquo, ma facilmente riscontrabile. Ad esempio alla fine del quarto capitolo cito il nostro amico C.S. Lewis che nel saggio del 1940 Il problema della sofferenza, C.S. Lewis aveva osservato che:

«Quando gli apostoli predicavano, potevano contare sul fatto che anche i pagani che li ascoltavano avevano una consapevolezza concreta di meritare l’ira divina. I misteri pagani esistevano appunto per alleviare il peso di questa consapevolezza, e la filosofia epicurea sosteneva di poter liberare l’uomo dalla paura del castigo eterno. In questo contesto il Vangelo è apparso come una buona novella: portava la notizia di una possibile guarigione a uomini che sapevano di essere mortalmente malati. Ma tutto questo è cambiato: il cristianesimo oggi deve predicare la diagnosi — che in sé è una notizia molto brutta — prima di captare l’attenzione per poter prescrivere la cura»e aggiungo: «È esattamente la situazione che io trovo ogni giorno a scuola: devo captare l’attenzione ma anche dare una diagnosi non proprio gradita ai miei interlocutori. Ricordo ancora una lezione di molti anni fa in cui, era l’ultima ora di un bel giorno caldo e assolato di primavera, la discussione in una classe di terza liceo (quando il terzo era l’ultimo anno) era andata a scivolare sul tema della morte e una ragazza, Giulia, la più brava della classe, ad un certo punto sbottò: “Professore, ma perché lei viene qua a turbare il mio equilibrio?”. Non ricordo più se disse “mio” o “nostro” ma di fatto la maggior parte dei suoi compagni concordavano con lei. Per un attimo fui colto in contropiede, poi le feci presente che anche se non fosse stata un “argomento” da lezione scolastica, la morte sarebbe rimasta una realtà con cui fare i conti, sempre. Mi colpì molto la domanda di Giulia così protettiva del suo intimo stato di benessere e quando ho letto queste osservazioni di don Armando Matteo ne ho ritrovato la concreta adesione al dato esperienziale: parlando sempre dei giovani egli osserva come «In molti resta una sete di spiritualità, ma molto spesso ha un carattere anarchico e molto centrato su di sé. Va nella direzione di una sorta di benessere e sostegno psicologico che non in quella dell’apertura all’alterità (cfr. problema xenofobia) […] Siamo piuttosto dinanzi a una generazione – quella nata dopo il 1981 – che non si pone contro Dio e contro la Chiesa, ma che sta imparando a vivere – e a vivere pure la propria ricerca spirituale – senza Dio e senza la Chiesa»2. I giovani quindi non sono contro, ma senza. La fede non suscita più avversione, ribellione, ma indifferenza. Il Dio della Bibbia è diventato irrilevante.

Di cosa c’è bisogno quindi? Forse di combattere la deriva soft che a livello sociale conduce all’indifferenza. Uno degli slogan che spesso mi trovo ad esclamare durante la lezione è “W la differenza!”.

Ne consegue che sposo con entusiasmo le critiche che mi muove Federico quando scrive: «Parola spaventosa, “conflitto”, in tempi che si pretendono light, analcolici, decaffeinati e in cui si pensa che ogni cosa possa convivere con qualunque altra, purché abbia il proprio canale social dedicato. Credere o non credere è una delle tante opzioni possibili. Barrare la casella e passare alla domanda successiva. Ciò che è stato espunto dall’orizzonte educativo è proprio il problema del male e del conflitto con esso.».

Ho qui la sensazione che Federico non ce l’abbia con me ma con Marco Lodoli (come vedremo più vanti), lo deduco dalla citazione che fa del mio testo (pag. 49) in cui io noto come oggi per i miei studenti «l’equilibrio fisico e interiore è il Bene, cioè il Bene è stato sostituito dal benessere (e il Male dal malessere)». E invece il tema del Male, è forse il vero tema centrale delle mie lezioni, il che giustifica anche il taglio narrativo che imprimo al mio stile educativo, visto che il Male e il racconto sono da sempre intrecciati in modo indissolubile: “Il male non si può spiegare, è l’assenza della spiegazione; non si può spiegare ma si può raccontare”, l’affermazione di Paul Ricoeur è offerta all’attenzione dei miei studenti in genere all’inizio dell’anno scolastico (su questo aspetto mi permetto di rinviare al mio saggio, sempre “tolkieniano”, L’arazzo rovesciato. L’enigma del male, pubblicato nel 2010 da Cittadella). Non è un caso che uno degli autori da me più “visitati”sia, oltre a Flannery O’Connor, il suo compaesano Cormac McCarthy che del mistero del male della violenza è forse il più grande cantore contemporaneo. Se Platone pensava che le opere degli artisti concentrati sul male si dovessero espungere io la penso al contrario, proprio come la Bibbia, che nel raccontare il male non fa mai sconti, dai tempi di Adamo, Caino e Davide fino al supplizio della croce e ai tempi ultimi dell’Apocalisse. Quindi anche qui mi trovo in perfetta sintonia con Federico quando scrive: «Come se il male e le sue concretizzazioni – esistenziali e storiche – fossero cose da deprecare ed espungere in nome di un’asettica correttezza politica, creando la giusta atmosfera, anziché da combattere strenuamente, come ci incita a fare Gandalf.» e cita infine il mio “saggio” compaesano Brunori Sas: “Se c’è una cosa che mi fa spaventare / del mondo occidentale / è questo imperativo di rimuovere il dolore”. Nel romanzo Sunset Limited di McCarthy, che da dieci anni insieme ai miei studenti mettiamo inscena alla fine dell’anno, c’è questa battuta del personaggio del Bianco, aspirante suicida, che dice: «Penso a ridurre il dolore al minimo. È questa la mia vita. Non capisco perché non lo sia per tutti». Ci fermiamo spesso in classe su questa battuta. Ed io faccio tesoro dell’intuizione di Emanuele Trevi sul carattere “anestetico” della società contemporanea che rimuove insieme sia il dolore che la bellezza (an-estetico).

Ha poi ragione Federico quando afferma che oggi c’è qualcosa di non più “trasmissibile”: «uno scopo per cui spendersi e lottare». Un altro testo che viene a volte a galla nelle mie lezioni, e da me criticato, è il celebre brano Imagine di John Lennon che commuove tanto i miei studenti. “Niente per cui vivere, niente per cui morire” canta Lennon, quasi un inno al nichilismo. Quando ne parliamo mi viene in mente (e condivido con i ragazzi) la riflessione di Tolkien sul mondo moderno che è fatto di “mezzi sempre migliori per fini peggiori” (e su questo dominio della tecnica c’è un testo appena uscito secondo me molto prezioso al quale sto attingendo molto: Oltre l’infinito del sociologo Mauro Magatti, Feltrinelli).

C’è un punto che era rimasto appeso, il secondo motivo per cui secondo Federico non ho parlato nel mio libro del tema dell’uccisione del padre e cioè perché la materia che insegno, la religione, «è proprio quella dei Padri (e in essa la ribellione al padre è per antonomasia quella di Lucifero)». È vero, ma è proprio per questo che io ne parlo. Il fatto che sia un tema “freudiano” mi spinge ancora di più ad affrontarlo con i ragazzi, come scrivo nel saggio quando rifletto sul fatto che per loro la “salvezza” è solo quella “dalla serie B”: «Mi venne da pensare agli anni dell’università passati a studiare la crisi della modernità, l’avvento dei “maestri del sospetto”, la sfida di razionalismo, scientismo, positivismo, quello che Henri De Lubac chiamava “Il dramma dell’umanesimo ateo” e penso che è stato bello leggere tutti quei testi ma forse qui ci troviamo difronte a qualcosa di imprevisto: il mio avversario non è più Nietzsche, Freud, Marx ma Giampiero Galeazzi. La domenica, dies dominica, il giorno del Signore, è diventata La Domenica Sportiva».

Un’ultima cosa sull’affermazione che appare nell’incipit dell’articolo di Federico, sul fatto che per un professore di religione oggi «l’unico modo è fare religione senza fare religione». Penso che non ci sia nostalgia o amarezza nelle parole di Federico (“non c’è più religione!”) ma il riconoscimento che il taglio narrativo è ancora il più efficace tanto più, aggiungo io, per un professore di religione cattolica in una scuola pubblica italiana come io sono. Il cattolicesimo è la religione dell’Incarnazione quindi il passare attraverso l’esperienza umana (ogni esperienza umana) è necessario, non un optional. Gesù parlava in parabole in cui Dio è assente. Questo è tra l’altro anche il segreto del successo di un romanzo “fondamentalmente cattolico” (in cui Dio è assente) come Il Signore degli Anelli, universalmente apprezzato da intere generazioni, come hanno cercato di dimostrare non solo il sottoscritto ma anche il buon Claudio Testi nel suo dettagliatissimo saggio Santi Pagani nella Terra di Mezzo, (Edizioni Studio Domenicano, 2014). Non è un caso che la mia tesi di laurea sul capolavoro di Tolkien era in scienze religiose ma con indirizzo didattico-pedagogico.

Ora in questo insegnare religione senza insegnare religione ci può anche stare che spesso anche se ho in mente la “direzione precisa” come dice Federico, l’itinerario che dovrò percorrere mi è del tutto ignoto e so che sovente non condurrà proprio alla meta, ma, e questo lo riconosce anche Federico, il prof Monda può dirsi “soddisfatto quando constata anche solo di essere riuscito a indurre il dubbio, le domande, l’interesse, in quei ragazzi e ragazze”. Su questo siamo d’accordo, mi pare, io e Federico: è la “pedagogia della domanda”, per dirla con Bergoglio che è uno dei miei punti di riferimento, dei “padri”, in questo mio lavoro e quindi anche nella stesura del mio saggio. E qui entra in ballo il Santo Padre, Papa Francesco, che è sempre fonte di discussione se non di divisione (buon segno, cattolicamente parlando). Su questo non capisco bene la posizione di Federico, perché molti segnali, anche testuali, mi porterebbero a dire essere sulla stessa linea di Bergoglio (che è la mia, da mero cattolico che mi sforzo di essere), però c’è qualcosa di dissonante. Infatti Federico mi critica per essere troppo “soft” e cita non a caso le critiche che io stesso riporto nel penultimo capitolo del mio saggio, critiche per intenderci “da destra”. Monda troppo soft: una parte centrale della riflessione di Federico è dedicata non a me, ma, come dicevo prima, a Marco Lodoli, figura molto interessante perché è un perfetto “ponte” tra me e il mio critico: professore come me, noto romanziere come Federico. Qui mi sfugge un po’ il senso della critica che mi viene mossa, perché sembra in realtà che il bersaglio della critica sia appunto Lodoli (collega che peraltro conosco e stimo) accusato di essere un professore che cancella il conflitto e si preoccupa solo di creare “un certo clima, un’atmosfera “leggera e serena”, e questo”viene naturale o non viene”, quindi è cosa ineffabile,indiscutibile” e di voler trasmettere ai ragazzi solo “cose belle”. Monda quindi troppo “de sinistra”: Federico mi associa dunque a Lodoli come uno che evita diligentemente il conflitto, il serrato corpo a corpo con la durezza della realtà e della vita, anche se poi è costretto a riconoscere che il mio stile educativo “in effetti, è già molto più dell’approccio consolatorio e soft di chi cerca di creare la giusta atmosfera”, ma, attenzione alla seconda parte della critica, questo stile “è anche ciò che espone Monda all’accusa “da destra”, per così dire, dei dogmatici ratzingeriani, che attaccano la sua visione “liberale” e bergogliana”. Per un attimo ho avvertito con inquietudine che Federico sposasse la linea “dogmatica”, quella della lingua anziché il dialetto, ma poi nel finale il mio critico precisa le cose, mi pare, quando dice che la mia «non è una versione pacificata o new age» perché il prof Monda «sa anche che una guerra combattuta a suon di certezze lapidarie e di dogmi non produce uomini ma caporali, e proprio in questo si cela la tentazione “sauroniana”». Meno male, non sono un servo di Sauron. Non solo ma Federico aggiunge una stoccatina finale riconoscendo che il mio stile capace di suscitare i dubbi ricercando spunti nei prodotti narrativi di massa è un «esercizio è efficace, fino a quando non si pretende di trarne dottrina». La stoccatina di Federico è nel ricordare che anni fa io e lui intrecciamo un duello dialettico su Tolkien proprio su questo punto del buon uso (o non uso) della “dottrina”. Dovremmo rivedere o, meglio ancora, rifare quel duello, magari oggi scopriremmo di non essere così “l’un contro l’altro armati”. Lo ricorda C.S. Lewis in un suo saggio: i persiani affermavano che di ogni argomento serio fosse necessario parlarne due volte, da ubriachi e da sobri. Forse eravamo un po’ brilli qualche anno fa.

1C.S. Lewis, Il problema della sofferenza, Edizioni GBU, Roma, 1988, p. 49

Armando Matteo, testo già citato: Evangelizzare i giovani: missione impossibile?

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Religione, insegnamento “mondano” e Tolkien
– Leggi l’articolo Santi Pagani, ecco il carteggio Monda-Testi
– Leggi l’articolo Un libro da Claudio Testi: «Santi pagani nella Terra di Mezzo»
– Leggi l’articolo Santi pagani, la replica di Wu Ming 4 (2 parte)
– Leggi l’articolo Un autunno tutto da leggere con Tolkien
– Leggi l’articolo Tolkien in università a Trento con WM4
– Leggi l’articolo Marietti pubblica “Tolkien e la filosofia”

LINK ESTERNI:
– Vai al blog di Wu Ming, Giap
– Vai al sito di Andrea Monda
– Vai al sito dei Missionari della Consolata


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2 Comments to “Risposta “mondana” alla critica di Wu Ming 4”

  1. Wu Ming 4 ha detto:

    Pare proprio che i punti d’accordo tra le riflessioni di Monda e del sottoscritto siano maggioritari, nonostante i differenti punti di partenza.
    E questo è facilmente spiegabile, si evince dalla replica di Monda stesso.
    Se per il missionario cattolico i maestri del sospetto – Nietzsche, Marx, Freud – sono i principali avversari da battere, mentre per un materialista storico sono il naturale punto di partenza per ogni analisi critica del reale, in tempi di pensiero unico e di azzeramento di ogni diatriba circa l’interpretazione del mondo, ci si ritrova con un nemico comune, ossia la perdita di senso dell’esistenza e della storia. Il nemico diventa “la Domenica Sportiva”, come suggerisce Monda, ovvero l’assenza di uno scopo per cui spendersi e lottare che non siano i colori sociali di una squadra di calcio. Questa constatazione, questa convergenza parallela, è riscontrabile anche nella buona ricezione che hanno le parole dell’attuale pontefice presso un pubblico non religioso e orientato piuttosto verso “l’umanesimo ateo”.

    Rispetto all’esempio scelto, tuttavia, si potrebbe ricordare che da questa parte della barricata si sono prodotte anche moltissime esperienze di “lavoro politico in curva”, cioè negli stadi, e di lavoro culturale attraverso la letteratura sportiva. Anche questo rientra forse in quell’assunzione di strumenti e linguaggi della cultura popolare ai fini di “missionariato”. E si potrebbe anche aggiungere che in un paese dove un ragazzo su quattro pratica come disciplina sportiva il calcio, e dunque proprio il calcio diventa il centro di un’attività che influisce parecchio sulla formazione (per lo meno dei maschi) coinvolgendo anche le famiglie, forse gli educatori dovrebbero essere capaci di accettare la sfida anche su quel terreno [un testo di ispirazione da cui partire potrebbe essere “Per sport e per amore”, di Caterina Satta, Il Mulino, 2017].

    Detto questo è necessario chiarire che nella mia riflessione non intendevo associare Monda e Lodoli. Di Lodoli ho ascoltato un videoclip dal sito di Repubblica in cui parlava del suo modo di insegnare (e da cui ho tratto le citazioni presenti nel mio pezzo), che mi è apparso emblematico di un certo approccio insufficiente sul piano pedagogico, ma senza che per questo io abbia da proporre un modello diverso. Certo non c’è da rimpiangere i padri padroni di una volta, ma nemmeno possiamo accontentarci dei padri-amici di oggi. Da questo punto di vista l’approccio che Monda racconta nel suo libro è sì soft, ma non è “lodoliano”.
    Fatti i debiti chiarimenti, il punto che rimane un po’ sospeso nella replica di Monda, a mio avviso, è la questione dell’uccisione del padre, rispetto alla quale Monda stesso, in una email privata mi riporta una citazione da Recalcati (da “Quel che resta del padre”):

    “Ma perché avvenga questa trasmissione – non vi deve essere solo conflitto, lotta, opposizione per il riconoscimento. E’ necessario anche che questa lotta avvenga sullo sfondo di un riconoscimento preliminare dell’esistenza di un debito simbolico nei confronti dell’Altro. L’esistenza umana non è un’autosufficienza, non dipende solo da se stessa: il debito simbolico indica che la nostra esistenza dipende sempre da ciò che avviene nell’Altro. Perché vi sia differenziazione e soggettivazione della propria libertà bisogna riconoscere lo sfondo dove questa libertà si è costituita come possibile. Se questo sfondo non è assunto, se il desiderio simbolico non viene riconosciuto, la libertà si riduce semplicemente all’assenza di vincoli correndo il rischio di precipitare in un narcisismo senza avvenire”.

    Recalcati è uno di quegli psicanalisti televisivi che nominavo en passant nella mia riflessione sul libro di Monda. Della sua citazione mi interessa proprio il finale. Il narcisismo – una delle facce dell’egocentrismo – è tanto più forte quanto più è senza avvenire. Il concetto di avvenire è quello che è sparito dall’orizzonte della società in cui viviamo. L’avvenire è sempre collettivo, riguarda sempre l’altro, appunto: che si tratti della propria progenie o dell’intera umanità. L’avvenire ti obbliga a esserne all’altezza, a gettare lo sguardo oltre te stesso e la tua propria fine/finitezza. È quello che ha sempre fatto l’umanesimo (tanto quello cristiano quanto quello ateo) e che nei tempi antiumani in cui viviamo non trova più spazio. Questo è il tempo del sacrificio senza redenzione.

    Dunque, per tornare almeno in parte al nesso con il blog che ospita questo scambio, diremo che l’opera di Tolkien, così apparentemente anacronistica rispetto alla letteratura del suo e del nostro tempo, risulta tanto più significativa proprio perché non rinuncia a raccontare testardamente la speranza anche senza garanzie. In Tolkien c’è sempre una proiezione dell’agire verso il prossimo e verso il futuro. È bello immaginare che sia uno dei motivi del suo perdurare attraverso i decenni fino a questo nuovo secolo. Nelle sue opere possiamo rilevare una cosa abbastanza straniante (o forse no, se si pensa alla biografia dell’autore, cresciuto senza padre naturale e con soltanto un padre spirituale): vale a dire proprio l’assenza di padri. Diremo meglio: i pochi padri che compaiono sono figure con le quali appunto entrare in conflitto, a volte direttamente, più spesso indirettamente, cioè figure con le quali fare i conti in absentia. Anche questo potrebbe essere uno dei motivi dell’attualità e assoluta modernità dell’opera in questione, sul quale possiamo stare certi che esistano studi specifici e che a questo punto viene voglia di andare a cercare.
    Nel frattempo, bisogna ringraziare lo spazio che ha ospitato questo scambio, nononstante ecceda abbastanza la cifra stilistica del blog.

  2. Andrea Monda ha detto:

    Mi scuso in anticipo per la lunghezza del mio commento, ma io sono un Hobbit, vittima del piacere della conversazione. E anche io, come il mio interlocutore, sono lieto di questa convergenza tra un materialista storico come Federico e il sottoscritto che ogni giorno prova a convertirsi dal proprio naturale paganesimo al cattolicesimo (e ogni mattina è costretto a ricominciare da capo, come in ogni conversione degna di questo nome) e in fondo non mi meraviglio più di tanto. La critica al cristianesimo, anzi la sua defenestrazione dall’orizzonte dell’Occidente, è frutto proprio del cristianesimo, quell’Occidente è l’Occidente cristiano, che ha appunto realizzato una “uccisione del padre”, autorizzata, anzi provocata dallo stesso padre (anzi madre: santa madre chiesa). Il cristianesimo da questo punto di vista non è una religione ma è l’antidoto ai rischi della religione, è l’enzima di cui si nutre il processo di liberazione della società, anche se questo vuol dire liberazione dalla religione e quindi secolarizzazione. Cristo, morto in croce fuori dalla città perchè condannato dal potere (civile e religioso) come ateo e bestemmiatore, è il più grande dis-sacratore. E Tolkien, con la sua opera in cui l’elemento religioso è (formalmente) assente è un perfetto figlio della sua “religione non religiosa”.
    Certo oggi io e Federico dobbiamo combattere insieme contro il comune avversario della deriva nichilista, una deriva ben rappresentata dall’immagine coniata da Kierkegaard già nella prima metà dell’800: una nave che viaggia nel mare con l’altoparlante da cui non risuona la voce del capitano ad indicare la rotta ma quella dello chef che illustra il menù. E quindi dobbiamo fare i conti non con pensieri contrari ma con non-pensieri, la citata “Domenica sportiva” anziché Freud o Marx. “Non ci sono più gli atei di una volta!” come spesso mi trovo a esclamare in classe quando provo a insegnare religione ai miei studenti liceali. Voglio tranquillizzare Federico che rispetto alla “religione del calcio” oggi così imperante, spera che “gli educatori dovrebbero essere capaci di accettare la sfida anche su quel terreno”: io su quel terreno mi ci butto, al punto che ogni venerdì da vent’anni gioco a calcio proprio con i miei studenti (e – ancora per poco? – non sono stramazzato al suolo boccheggiante).
    Poi Federico ritorna sul tema dell’uccisione del padre e del narcisismo nonché della scomparsa dell’avvenire. Qui ha delle parole splendide che da cattolico non posso che approvare per filo e per segno. L’avvenire a me appare il grande dono che la Bibbia ha fatto all’Occidente: il mondo greco non conosceva il futuro, il tempo era il ritorno circolare del passato. Questo è un punto centrale nella riflessione di Tolkien che nella sua opera viene trasposta in termini spaziali; in una lettera del 25 settembre del 1954 scrive: «Nella realtà immaginaria di questa storia noi viviamo su una terra rotonda. Ma l’intero Legendarium parla del passaggio da un mondo piatto a un globo». Il passaggio dal mondo piatto a quello sferico è, secondo Tolkien, «una transizione inevitabile, credo, per un moderno “creatore di miti” la cui mente è soggetta a sperimentare la stessa “apparenza” degli antichi, in parte alimentata dai loro miti, ma al quale è stato insegnato che fin dall’inizio la terra è rotonda. […] Il mito particolare che sta alla base di questo racconto, e alla base del destino sia degli uomini che degli elfi in quest’epoca è la Caduta di Numenor: una variante particolare del mito di Atlantide. […] prima della Caduta esisteva al di là del mare, al largo delle coste occidentali della Terra di Mezzo, un paradiso Elfico terrestre, Eressea e Valinor, la terra dei Valar (le Potenze, i Signori dell’occidente), posti che potevano venire fisicamente raggiunti da normalissime navi, benché il mare fosse pericoloso. Ma dopo la ribellione dei Numenoreani, i re degli uomini, che vivevano nella terra più a occidente di tutte le altre terre abitate da mortali, e che al culmine della loro grandezza cercarono di occupare Eressea e Valinor con la forza, Numenor venne distrutta ed Eressea e Valinor vennero portate via dalla terra dove erano fisicamente raggiungibili; la strada verso l’Occidente restava aperta, ma non portava da nessuna parte se non di nuovo al punto di partenza – per i mortali» [cfr. Lettere, lettera n.154]
    Ha ragione Federico: Tolkien “non rinuncia a raccontare testardamente la speranza anche senza garanzie. In Tolkien c’è sempre una proiezione dell’agire verso il prossimo e verso il futuro”. Questa proiezione è ben rappresentata da Frodo: egli salva la Contea ma non lo fa per lui, egli non torna a casa, ma procede oltre. E’ Sam colui che può dire “sono tornato”, Frodo invece prosegue il cammino e andrà con la nave oltre la via (circolare) del mare verso il Reame Benedetto: Sam è l’eroe pagano, Frodo il santo cristiano. E’ Frodo il santo di cui ha bisogno la società occidentale contemporanea, proprio nel senso di cui parlava Chesterton nella biografia San Tommaso D’Aquino:
    «Il santo è un farmaco perché è un antidoto. E per vero questo è il motivo per cui spesso il santo è un martire: viene scambiato per un veleno perché è un antidoto […] ogni generazione cerca istintivamente il proprio santo e non si tratta di quello che la gente vuole, ma di quello di cui ha bisogno.[…] il sale condisce e conserva la carne, non perché è simile a essa, ma perché è molto diverso. […] Ne consegue che il paradosso della storia è che ciascuna generazione viene convertita dal santo che le si contrappone più nettamente».
    Il buffo Sam è forse il personaggio più amato del romanzo, anche dai miei studenti liceali, quei pochi, che hanno letto il libro, ed io invece mi sforzo tanto per far comprendere loro la grandezza del serio Frodo che da buon protagonista o meglio da protagonista “buono” non è subito amabile, ma dobbiamo ricordarci che Frodo forse è santo ma non è buono: al momento cruciale egli non riesce a buttare l’anello.
    Per finire: Federico si concentra sul particolare dell’assenza di padri nel romanzo. E lo collega anche al suo essere orfano. Giusto, ma ci vuole sempre molta cautela nel collegare opera e biografia. C’è una figura di padre che nella seconda parte del romanzo emerge prepotentemente ed è quella di Denethor, una figura tragica. Il cupo e drammatico sviluppo del suo personaggio permette alla figura del suo secondo figlio, Faramir, di emergere in uno crescente splendore. In una lettera Tolkien stesso si rivela innamorato di questo personaggio apparentemente minore, un piccolo segnale ma interessante. A suo tempo avrei voluto scriverne sulla figura di Faramir, poi non diedi seguito a questa ispirazione. Certo Faramir, come ha notato Federico, è un’altra di quelle figure “tras-gressive” che compaiono, in modo decisivo, all’interno della trama del romanzo, ma tutta l’opera di Tolkien è un canto alla tras-gressione, perchè è il racconto degli Hobbit e non degli Hobbit in quanto tali, ma solo di quei, pochissimi, Hobbit che, inquieti, operano la grande tras-gressione di oltrepassare i confini della Contea, tutto questo in barba ai consigli dei “padri”. Non è un caso che il romanzo si apra con la raccomandazione di Hamfast al figlio Samvise di non impicciarsi degli affari dei grandi ma di rimanere ad occuparsi di “cavoli e patate”. Un po’ come il padre di Robinson Crusoe che cerca di dissuadere il figlio di prendere il mare. Per la fortuna di noi lettori sia lui che il piccolo Hobbit giardiniere hanno proceduto all’uccisione del padre.

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