Shippey: Vita e morte dei grandi Vichinghi

Tom Shippey 2018Come vi avevamo annunciato nel nostro articolo sulle pubblicazioni autunnali fra pochi giorni, il 31 ottobre, sarà disponibile nelle librerie la traduzione italiana dell’ultimo libro di Tom Shippey, Vita e morte dei grandi Vichinghi. Considerato uno dei massimi studiosi di Tolkien al mondo, Shippey è stato professore di inglese e letteratura inglese medievale presso l’università di Leeds per 14 anni (la stessa cattedra che Tolkien ottenne nell’autunno 1920), ha insegnato anche in altre cinque università ed ha anche tenuto corsi online per la Signum University. L’Associazione Italiana Studi Tolkieniani ha avuto il piacere di ospitare Shippey in varie occasioni, l’ultima della quali è stata il convegno tenuto in collaborazione con l’università di Trento Tolkien e la letteratura della Quarta Era.
Per gentile concessione della casa editrice Odoya che pubblica l’edizione italiana del libro che vi abbiamo presentato, oggi vi proponiamo in anteprima parte dell’introduzione dell’autore: un piccolo assaggio di cosa troverete in questo interessantissimo studio!

L’introduzione di Tom Shippey

Vita e morte dei grandi Vichinghi - Tom Shippey OdoyaSappiamo tutti cosa sono i Vichinghi, e sappiamo perfino che aspetto avevano. Il loro volto barbuto, spesso sovrastato da un elmo decorato da corna o ali, ci fissa dalla copertina dei libri, dalle T-shirt e dalle scatole di sardine. Su di loro sono stati girati film e serie televisive, i nomi degli dei del loro pantheon – Odino e Thor, Balder e Loki – ci sono ben noti, e tutti hanno quanto meno sentito parlare del Ragnarok e del Valhalla. I Vichinghi sono diventati parte dello sfondo culturale del mondo moderno.
Naturalmente, buona parte di quello che crediamo di sapere è semplicemente errato, a cominciare dagli elmi dotati di corna, tutt’altro che pratici in un combattimento corpo a corpo. Più importanti degli elementi errati, però, sono quelli che mancano. C’è un interrogativo che è necessario porsi: come hanno fatto i Vichinghi a cavarsela tanto a lungo? O, per dirla diversamente, cosa li ha messi in vantaggio? Un vantaggio che hanno mantenuto per quasi tre secoli durante i quali sono diventati il flagello d’Europa, dall’Irlanda all’Ucraina, da Amburgo a Gibilterra e anche oltre, in entrambe le direzioni.
Non era certo una superiorità logistica. Con la sua breve stagione di crescita dei raccolti e il suo suolo sassoso, la scarsa e sparpagliata popolazione della Scandinavia era di gran lunga inferiore per effettivi e risorse ai regni anglosassoni, all’impero franco e ai regni moreschi della Spagna, per non parlare dell’Impero bizantino e del califfato musulmano che si stendeva al di là di esso. Si è allora trattato di un vantaggio tecnologico? Come spiegazione vengono spesso suggerite le splendide navi lunghe dei Vichinghi, sulle quali sappiamo ora molto più di un tempo.
Di certo esse davano ai Vichinghi il vantaggio della sorpresa e della mobilità, vitali per sferrare
attacchi lampo, vecchia abitudine dei predoni dei mari. I Vichinghi però cominciarono presto a predare sulla terraferma, e pur non disprezzando le scorrerie lampo erano anche pronti a ingaggiare combattimenti corpo a corpo, scontri in cui erano difficili da sconfiggere e ancor più difficili da intimidire. Se li si sconfiggeva, si limitavano a tornare alla carica.
E i loro avversari non erano certo semplici pacifisti. Soprattutto nell’Europa occidentale, le popolazioni native irlandesi e inglesi, franche, frisone e tedesche erano endemicamente bellicose, strutturate in società controllate da un’élite guerriera e da re la cui principale attività era sempre stata la guerra. In qualche modo, quando si trattava di violenza organizzata i Vichinghi riuscivano a dimostrare di avere standard più elevati.
Anche se spesso menzionate, la debolezza e la disorganizzazione dei loro nemici non costituiscono una spiegazione esauriente, perché se da un lato i Vichinghi erano pronti a sfruttare un vantaggio, dall’altro non erano particolarmente ben organizzati. Ben presto, i re occidentali impararono che era sempre possibile pagare un gruppo di Vichinghi perché combattesse contro un altro.
No, il loro vantaggio era di natura psicologica: io la chiamo “mentalità vichinga”. Per dirla in termini brutali, era una sorta di culto della morte. Spiegare tale mentalità è lo scopo di questo libro.

Non soltanto il Valhalla

In un certo senso, la risposta relativa al culto della morte appena fornita è stata evidente fin da quando la letteratura norrena ha cominciato a essere riscoperta, secoli fa. A mano a mano che la conoscenza dei poemi, delle saghe e soprattutto dei miti norreni ha cominciato a riaffiorare, ciò che ha colpito gli accademici europei è stato l’atteggiamento dei Vichinghi nei confronti della morte. Si è notato subito che questa letteratura da tempo dimenticata, preservata soltanto nella remota Islanda, era incentrata – più di qualsiasi altro scritto noto – su scene di morte, di cupa sfida, di famosi ultimi combattimenti e altrettanto famose ultime parole. Il canto di morte dell’eroe era di per se stesso una forma d’arte di cui si conservano molti esempi. Tutto questo era talmente ovvio che già nel 1689 qualcuno ha cercato di dargli un senso.
Si trattava di un danese, Thomas Bartholinus (il suo vero nome era Bertelsen, proveniva da una famiglia di medici e suo padre, anche lui Thomas Bartholinus, fu il primo a descrivere il sistema linfatico umano). Nel 1689 Bartholinus il giovane pubblicò un’opera, tutta in latino, il cui titolo si traduce come Tre libri, estrapolati da volumi e documenti antichi finora inediti, sulle cause del disprezzo della morte fra i danesi ancora pagani. Era una sorta di Reader’s Digest di tutte le grandi scene di morte allora conosciute presenti nella letteratura norrena, e riscosse un successo travolgente nel mondo accademico: centocinquant’anni dopo Walter Scott era ancora affascinato dalla sua lettura e se ne serviva.
La risposta data da Bartholinus all’interrogativo implicito nel titolo della sua opera era di carattere mitologico. Lo studioso pensava infatti che il “disprezzo per la morte” così evidente nelle fonti da lui usate fosse il risultato della credenza norrena che quanti morivano in battaglia con la spada in mano sarebbero andati nel Valhalla di Odino, la grande “Sala dei Morti in Battaglia”, per trascorrervi la vita ultraterrena banchettando e combattendo in attesa del giorno del Ragnarok, il combattimento finale.
Quest’idea è popolare da allora, e permea per esempio il film I Vichinghi (1958) con Kirk Douglas. Adesso però non siamo più sicuri della sua validità. Nel XVII secolo, in un’Europa completamente cristiana e ben ancorata alle convinzioni religiose, una spiegazione mitologica appariva naturale. Tuttavia, l’intero concetto è in vasta misura estrapolato da un solo brano del manuale di miti e leggende scritto da Snorri Sturluson nel XIII secolo, ed è improbabile che nell’era dei Vichinghi le credenze religiose e la loro pratica fossero generalmente accettate o universali come lo erano nell’Europa da tempo cristiana.
Bartholinus ha posto un valido quesito che però esige una risposta non limitata a una singola spiegazione. È necessario analizzare più da vicino la psicologia vichinga, come ci viene rivelata nella letteratura che i Vichinghi stessi e i loro discendenti si sono lasciati alle spalle e come viene espressa nelle storie, saghe e leggende individuali. E questo, ancora una volta, è l’argomento del volume. Ne emerge uno scenario spesso variegato, essendo relativo a persone in posti differenti in tempi differenti e poste di fronte a condizioni altrettanto differenti, ma al di sotto di tutto c’è una sorta di coerenza, un particolare atteggiamento che – e qui anticipo le mie conclusioni – non ritengo possa essere stato simulato.

Il problema con i “vichinghi”

Se si afferma che una domanda ha una risposta ovvia, è giusto spiegare perché tale risposta non sia stata già fornita, soprattutto dopo tanti decenni di studi accademici. Questo dipende dal fatto che esistono un problema di terminologia e uno di atteggiamento culturale, soprattutto nel mondo accademico moderno. Per dirla senza tanti giri di parole (di nuovo), la maggior parte dei libri accademici che contengono nel titolo il termine “Vichinghi” risulta poi non riguardare affatto i Vichinghi, che hanno un grande successo tra gli studiosi. Questo volume è diverso: parla davvero dei Vichinghi.
Il fatto è che nella lingua stessa dei Vichinghi, il norreno, il termine vikingr significava soltanto “pirata, razziatore”. Non era un’etichetta etnica ma piuttosto la descrizione di un’attività: questo significa che quando ci si imbatte – come oggi capita spesso – in titoli del tipo di I Vichinghi! Non più soltanto razziatori e saccheggiatori, quei titoli sono sbagliati. Se non razziavano e saccheggiavano (impadronendosi di territori ed esigendo il “pizzo” per la protezione che fornivano) allora avevano smesso di essere Vichinghi, erano soltanto Scandinavi. Se da un lato la maggior parte dei Vichinghi era scandinava, per contro la maggior parte degli Scandinavi di certo non era vichinga, neppure part-time. Non si devono confondere i due gruppi, neppure con l’intento di ingentilire “la storia dei Vichinghi”.
Il problema è che razzie e saccheggi, pirateria e azioni predatorie non sono (e per una volta questo significa minimizzare notevolmente) argomenti congeniali al mondo accademico moderno, motivo per cui gli studiosi spostano il tiro senza dare troppo nell’occhio. Questa tendenza e stata avviata nel 1970 da un libro intitolato The Viking Achievement, con capitoli su “Commercio e città”, “Mezzi di trasporto”, “Arte e ornamenti”, e così via. I risultati del titolo non sono stati affatto raggiunti dai Vichinghi, bensì dagli Scandinavi, sono opera – come dice un libro posteriore, dal titolo più onesto – dei Norreni dell’era vichinga. I Vichinghi, tuttavia, mettono a disagio il mondo accademico moderno.
A volte tale disagio non traspare dal titolo (cosa su cui insistono gli editori, che sanno cosa vende e cosa no), ma affiora nel sottotitolo. La mostra organizzata nel 2014 dal British Museum, accompagnata da un catalogo con un apparato iconografico davvero notevole, si intitolava I Vichinghi: vita e leggenda. La “vita” aveva però molto più spazio della “leggenda”, ed era presente una certa censura silenziosa. In A Brief History of the Vikings (2005) l’autore Jonathan Clements si chiede se essi fossero «gli ultimi pagani o i primi europei moderni», preferendo la seconda alternativa. I Vichinghi, ci viene detto, promossero l’integrazione europea. The Age of the Vikings (2014), di Anders Winroth, «guarda alle imprese dei Vichinghi nel campo del commercio, della politica, della scoperta e della colonizzazione». Qui è possibile vedere come sia stata aggirata la questione: quelle citate erano tutte imprese degli Scandinavi e non dei Vichinghi, ma si trattava di argomenti molto più accettabili della pirateria e delle razzie. In breve, molti libri che proclamano di riguardare i Vichinghi in realtà si allontanano dai veri Vichinghi, pirati e razziatori, per ritirarsi nelle varie comfort zone degli accademici, come l’esplorazione, il commercio, lo sviluppo urbano e una distaccata storia divulgativa. Questi aspetti, è vero, fanno parte della storia, però non ne costituiscono l’unica parte e decisamente non sono quella che ha catapultato i Vichinghi in primo piano nell’immaginario popolare.
Il risultato è che da lungo tempo gli studi sui Vichinghi risultano polarizzati. Fin dall’inizio c’è stato un approccio romantico, che si potrebbe perfino definire da fumetto, pieno di cliché e spesso di errori. Il film del 1989 Eric the Viking è la fonte della maggior parte di essi: berserker, teschi, elmi adorni di corna, valchirie, Valhalla e abbondanti libagioni, elementi a cui The Vikings ha aggiunto le veggenti (spaewives), le invocazioni a Odino, il morire con la spada in mano e il popolare sport di tranciare le trecce bionde delle signore nelle competizioni di lancio della scure.
Nel loro rifuggire con imbarazzo da tutto questo – che è di certo fondato abbastanza spesso su evidenti fraintendimenti, per non parlare delle pure e semplici invenzioni – gli accademici moderni hanno creato una scuola minimalista di studi sui Vichinghi. È facile immaginare come possano esporre il loro punto di vista nell’ambiente quanto mai raffinato dei club dei professori:
Razziatori pagani perennemente ubriachi di idromele e impegnati a violentare e massacrare? Ma niente affatto, che terribile esagerazione. È possibile che ci sia stato qualche problema con le popolazioni locali, come sempre succede con gruppi di giovani uomini lontani da casa, ma non bisogna credere a ciò che dicono le cronache stilate da quei monaci, le cifre che riportano devono essere tutte sbagliate, crederci sarebbe come credere alle richieste di indennizzo presentate alle assicurazioni, e quanto alle saghe…
Ho esagerato l’atteggiamento di questi studiosi, ma non troppo. Esso riguarda in particolare le prove letterarie – di cui esiste grande abbondanza – sulle quali si tende a chiudere un occhio e a discutere sull’esattezza delle date… che naturalmente sono importanti e di cui discuteremo in seguito.
In ogni caso, a questa visione da “club dei professori”, come io la definisco, sfugge una quantità di cose, incluso l’inevitabile interrogativo sulla mentalità, o perfino sull’ideologia, dei Vichinghi. È quanto meno la stessa visione unilaterale data dalle immagini di un fumetto. Le prove fornite da fonti inglesi, irlandesi, franche, greche e perfino arabe, in aggiunta a quelle native scandinave, mostrano un’assoluta coerenza, come alcuni hanno cominciato ad ammettere. Negli ultimi anni due o tre professori hanno osservato – correggendo in certa misura il generale consenso accademico – che i Vichinghi non avevano nessun obbligo di rispettare la Convenzione di Ginevra, e che se da un lato non erano pazzi, dall’altro erano spesso cattivi e sempre pericolosi da conoscere. Si è perfino ammesso che nella loro cultura ci fosse qualcosa di «psicopatico». A questo riguardo, si deve solo aggiungere che uno psicopatico del XXI secolo potrebbe essere un individuo ben integrato del IX secolo.

Concludiamo qui l’assaggio dell’introduzione a Vita e morte dei grandi Vichinghi di Shippey che abbiamo voluto proporvi, sperando di avere accesso la curiosità nei nostri lettori.
È inoltre possibile leggere la prefazione scritta da Wu Ming 4 online sul blog Giap.
Potrete trovare il libro anche presso lo stand AIST a Lucca Comics & Games, da mercoledì 31 ottobre a domenica 4 novembre, nel padiglione Carducci.
Vi aspettiamo!

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Un autunno tutto da leggere con Tolkien
– Leggi l’articolo Tolkien a Lucca C&G 2018: AIST e non solo
– Leggi l’articolo Parma e Trento: ecco i programmi dei convegni!
– Leggi l’articolo Tolkien e la letteratura il resoconto di Trento
– Leggi l’articolo Shippey a Modena: il video della conferenza

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Odoya
– Vai al sito della Signum University
– Vai al blog di Wu Ming, Giap

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