Da quando Sky ha annunciato l’imminente programmazione della prima stagione della miniserie A Game of Thrones, prodotta dalla rete americana HBO a partire dal primo volume di A Song of Ice and Fire, sembra sia esplosa in Italia una specie di “febbre da George R.R. Martin”. La Mondadori, titolare dei diritti sull’opera, ha mandato in fretta e furia nelle librerie prima un ponderosissimo tomo contenente i primi quattro volumi dell’edizione italiana della saga (corrispondenti ai primi due della serie originale), poi un secondo più piccolo contenente i primi due volumi (corrispondenti al primo della serie originale), e infine il primo volume inedito dei due (o tre) che corrisponderanno alla fine al quinto della serie originale (se vi siete persi non ci fate caso, le politiche editoriali di casa nostra sono un mistero capace di confondere chiunque). Per dare un’idea della “febbre”, basta aggiungere che “I Guerrieri del Ghiaccio”, ossia l’inedito di cui sopra, è balzato prepotentemente al numero otto della top ten italiana (fonte Corriere della Sera), superando d’un balzo un autore del calibro di Paulo Coelho.
Come vecchi estimatori di Martin dai tempi in cui era un esordiente scrittore di fantascienza (sì, avete letto bene, fantascienza: stiamo parlando della metà degli anni ’70) la cosa non può che farci piacere, ma ci porta anche inevitabilmente a chiederci dove G.R.R. (sembra che la doppia “R.” sia un must per gli scrittori di fantasy) troverà il tempo per terminare la serie dovendo seguire contemporaneamente la supervisione delle miniserie televisive (la seconda stagione di A Game of Thrones è già in cantiere), la scrittura dei prequel (tre romanzi brevi già pubblicati), le graphic novels (due fino ad ora) più le attività promozionali che, inevitabilmente, si accompagnano alle precedenti. Ma adesso, fermiamoci un attimo. Visto che il sito che state guardando è quello dell’ARST, e non dell’ARSM, immaginiamo vi stiate chiedendo perché trovate qui questo articolo. Un po’ ce lo siamo chiesti anche noi, ma poiché Martin si dichiara fervente ammiratore e riconoscente debitore di J.R.R. Tolkien, abbiamo pensato potesse valere la pena parlare un po’ di cosa lo accomuna al nostro Professore visto che, se sul piano umano i due hanno davvero poco in comune, sul piano letterario qualcosa effettivamente c’è, o può esserci. Iniziando col piano umano vediamo che i due sono effettivamente abbastanza agli antipodi. Da una parte un Edoardiano, frutto cristallino del più puro sistema educativo inglese dei primi del novecento, con sulle spalle un vissuto di due guerre mondiali e una carriera accademica ai massimi livelli, dall’altra un fan americano ventenne nel ’68, prodotto della cultura americana di quegli anni con un vissuto di manifestazioni politiche e convention di appassionati, scrittore di fantascienza (primo amore mai del tutto dimenticato) passato al fantasy probabilmente anche per ragioni di trend cultural/commerciali sebbene, in qualche episodico racconto degli inizi, qualcosa di fantasy avesse già fatto capolino (mi viene in mente in particolare un bellissimo racconto intitolato “The Lonely Songs of Laren Dorr”). Esclusa ogni vicinanza di tipo personale, passiamo dunque a guardare i due autori dal punto di vista letterario dove, come anticipato, vediamo qualcosa apparire sebbene solo, e
come vedremo letteralmente, sullo sfondo. Non dilungandoci sulle differenze (realismo spinto quando necessario fino alla violenza, occasionali influenze horror, sentimenti espressi e vissuti in modo anche molto esplicito, qualche esotismo di troppo sparso qua e là, etc.), la cosa che accomuna Martin e Tolkien è, o può essere, la “profondità”, da intendersi non in senso intellettuale ma dimensionale (lo sfondo, come sopra si diceva).
In entrambi gli Autori c’è la consapevole ricerca della rappresentazione (Tolkien avrebbe detto creazione, o meglio ancora sub-creazione) di un mondo che non sia piatto, cinematografico, limitato a far da sfondo alla trama, ma che assuma invece di forza un ruolo proprio diventando personaggio tra i personaggi fino ad acquisire, per l’appunto, “profondità” intesa come terza dimensione. Tolkien non affascina solo per la bellezza delle vicende narrate ma anche, o forse dovremmo dire soprattutto, per la completezza del mondo in cui queste si svolgono, dotato di una sua cosmogonia, geografia, storia antica, media e moderna, cultura e linguistica, tutti fattori che lo rendono tridimensionale e “profondo”. Martin, dal canto suo, sebbene con mezzi diversi, persegue lo stesso obbiettivo.
In Westeros non c’è una cosmogonia né una linguistica (la manciata di parole inventate che compaiono nella Saga sono in realtà proprio un chiaro omaggio a Tolkien), ma c’è in compenso una geografia molto accurata, una storia antica al momento solo abbozzata ma consistente, una storia recente molto dettagliata e una serie di culture diversificate che non solo sono pienamente descritte, ma dimostrano anche il loro spessore informando e influenzando i caratteri e le azioni dei personaggi. Così Ned Stark è il medioevo buono, cavalleresco e frugale, Robert Baratheon è il medioevo oscuro, cavalleresco agli inizi ma dissoluto e all’occorrenza brutale, Tywin e Cersei Lannister sono rinascimentali e machiavellici, Jaime Lannister oscilla fra i tre modi di essere senza sapere dove andare e Tyrion Lannister, il personaggio più riuscito della Saga, si sposta invece a suo piacimento tra essi secondo necessità. Non troviamo, francamente, molti altri paralleli fra Tolkien e Martin, ma vista l’importanza che il primo dava alla “profondità” riteniamo che, almeno sotto questo aspetto, A Song of Ice and Fire avrebbe potuto riscuotere il suo apprezzamento.
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