Come sempre, la dialettica porta dibattito e nuove riflessioni. Avevamo già annunciato l’uscita del volume J.R.R.Tolkien l’esperantista – prima dell’arrivo di Bilbo Baggins curato da Oronzo Cilli (Cafagna Editore, 2015), pubblicando la prefazione che ne aveva scritto lo studioso inglese John Garth, che potete leggere qui. Ora eccovi una recensione ad opera di Wu Ming 4, socio fondatore Aist e noto scrittore del collettivo omonimo e soprattutto, in questa sede, autore di diverse pubblicazioni dedicate a J.R.R. Tolkien (oltre che di un romanzo Stella del mattino), l’ultimo dei quali Difendere la Terra di Mezzo in cui è riuscito brillantemente, come scrive lui stesso, a «divulgare alcune tesi e punti di vista sull’opera di Tolkien che sono soprattutto patrimonio della comunità degli studiosi e di renderli accessibili a una platea più vasta», oltre a presentare acute analisi su temi e personaggi delle opere di Tolkien. È per questo motivo che siamo lieti di proporre ai lettori una recensione di chi i libri li legge e analizza in profondità. Buona lettura!
TOLKIEN, GLI ESPERANTISTI E IL SONNO DI OMERO
di Wu Ming 4
1. Avvertenza: scrivere con pregiudizio
La recensione che segue nasce all’ombra di un pregiudizio culturale. Pregiudizio sulla cultura di destra – per come la intendeva Furio Jesi – e sul nicodemismo di certi suoi esponenti a caccia di accreditamento, alcuni dei quali, com’è noto, in anni passati hanno fatto gran danno alla ricezione dell’opera di Tolkien in Italia. Il curatore e co-autore di J.R.R.Tolkien l’esperantista è Oronzo Cilli, definito da Gianfranco De Turris «tra i più importanti giovani studiosi italiani di Tolkien» (Il Giornale 27/06/2014). Non meraviglia l’affinità tra i due, se si tiene conto qual è il milieu da cui provengono entrambi, vale a dire gli ambienti dell’estrema destra politica e culturale italiana. Ma a differenza degli omologhi che l’hanno preceduto, Oronzo Cilli non si presenta al pubblico ignorando completamente il dibattito nel mondo anglosassone. Al contrario, si dota di tutti i contatti utili a qualificare un libro su Tolkien. In J.R.R.Tolkien l’esperantista sono dichiarate corrispondenze con noti studiosi della materia, con la Tolkien Estate, vi compaiono come coautori due esperti di lingue elfiche americani – A.R. Smith e P.H. Wynne – e il volume porta la prefazione del britannico John Garth, attualmente il più importante biografo tolkieniano. Alla prefazione però si arriverà alla fine, perché l’andamento di questa recensione sarà inverso: dal fondo alla cima. L’importante è che il lettore sia avvertito. Al suo giudizio spetterà poi raffrontare – se ne avrà voglia – il contenuto della critica e quello del libro.
2. Il fondo
Il saggio più lungo del volume è l’ultimo, quello del medesimo Oronzo Cilli, Tolkien e il movimento esperantista inglese, nel quale il curatore-autore illustra e contestualizza la sua scoperta: la firma di Tolkien in calce a un documento che proverebbe l’organicità dello scrittore al movimento esperantista. In quelle 44 pagine il lettore viene informato che Tolkien fece il boy scout; che il fondatore dei Boy Scout, Baden-Powell, aveva consigliato di utilizzare l’esperanto come lingua franca tra i gruppi delle varie nazionalità e questo potrebbe essere stato l’entry point di Tolkien a quella lingua; che nel 1930 si tenne a Oxford un congresso internazionale esperantista, al quale non risulta che Tolkien abbia partecipato, ma siccome vi partecipò un suo collega, è probabile che i due “ne abbiano discusso” (p. 93); che i partecipanti al Congresso erano… (segue un’intera pagina di nomi); che Tolkien venne nominato consigliere onorario del Comitato per l’educazione della British Esperanto Association e questo è “a oggi, il primo documento attestante la sua partecipazione al movimento esperantista inglese” (pag. 97); che tra gli aderenti al congresso esperantista britannico del 1933 sempre a Oxford compare il nome di Tolkien, ma “a oggi, della partecipazione di Tolkien al Congresso non vi è certezza” (p. 102) e anzi le ricerche bio-bibliografiche di Hammond e Scull lo escluderebbero; che la timeline della giornata del congresso era… (segue timeline); che la firma di Tolkien compare in calce a un documento del suddetto congresso intitolato Il valore educativo dell’esperanto, nel quale si sostiene l’adozione dell’esperanto nelle scuole come seconda lingua, per i seguenti motivi: velocità dell’apprendimento, aiuto nella valutazione dell’apprendimento linguistico, facilitazione nell’uso delle parole, stimolo all’interdisciplinarità, possibilità di leggere la letteratura esperantista (segue una pagina e mezzo di firme).
Il saggio di Cilli si conclude menzionando sbrigativamente il fatto che nella seconda parte della sua vita Tolkien cambiò posizione rispetto all’esperanto, fino a definirlo una lingua morta. Tuttavia secondo Cilli “il proseguimento dei rapporti con molti protagonisti del movimento non esclude del tutto un suo interessamento anche limitato” (p. 112). Certo, niente può escludere un interessamento limitato. Perfino chi scrive questa recensione, in questo momento si sta, in qualche modo, interessando all’esperanto. Le ultime parole del saggio fanno riferimento a un fantomatico “grande quadro che ancora deve essere svelato” (p. 113). E su questa nota di mistero si passa agli allegati documentali.
3. Esperantisti tengwarologi
La parte centrale del libro coincide con il saggio dei due studiosi di lingue elfiche Arden R. Smith e Patrick H. Wynne, intitolato Tolkien e l’esperanto (pubblicato su una rivista americana nel 2000). La prima parte dell’articolo consiste nella disamina filologica di una pagina di taccuino scritta in esperanto da Tolkien all’età di diciassette anni. Dopodiché gli autori arrivano al celebre saggio del 1931 Un vizio segreto, nel quale Tolkien parlava della propria passione per le lingue artificiali e dichiarava anche di avere “una particolare predilezione per l’esperanto”.
Il motivo di tale predilezione, nelle parole di Tolkien, era fondamentalmente teorico: “si tratta in ultima analisi della creazione di un solo uomo, un non filologo, e di conseguenza mi appare come un ‘linguaggio umano scevro delle complicazioni dovute all’opera dei troppi cuochi che rovinano la minestra’: e questa è per me la miglior descrizione della lingua artificiale ideale” (citato a pag. 52).
Di seguito, Smith e Wynne riportano un lettera scritta da Tolkien al Comitato per l’educazione della British Esperanto Association di cui era stato nominato consigliere onorario, nella quale, a mo’ di excusatio non petita, lui stesso dichiara di avere soltanto una conoscenza basilare dell’esperanto:
“Non sono un esperantista pratico […]. Non posso né leggere né scrivere questa lingua. La conosco, come direbbe un filologo, in quanto 25 anni fa ne ho studiato la grammatica e la struttura e non l’ho dimenticata, e un tempo leggevo un buon quantitativo di cose scritte in questa lingua” (citato a pag. 53).
La lettera è del 1932, quando Tolkien aveva quarant’anni, e si colloca tra i due congressi esperantisti oxfordiani di cui sopra. Le parole di Tolkien sul fatto che da un quarto di secolo (cioè dall’adolescenza) non studiava più l’esperanto, e che non era più in grado di parlarlo o scriverlo, avendo smesso di leggere letteratura in esperanto da molti anni, bastano di per sé a ridimensionare la portata della scoperta di Cilli e rendono tanto più ridicola l’evocazione di chissà quali scenari.
La firma di Tolkien a favore dell’introduzione dell’esperanto nelle scuole – negli anni in cui si batteva per una riforma degli studi linguistici anche all’università – era evidentemente dovuta alla sua fiducia nel fatto che lo studio di un idioma artificiale potesse aprire la mente degli studenti alla riflessione e all’invenzione linguistica, com’era successo a lui.
Per altro, dopo gli anni Trenta, Tolkien cambiò radicalmente idea sulle lingue artificiali, anche se Smith e Wynne preferiscono dirlo con un eufemismo: “Sembra che in questo periodo l’opinione di Tolkien sulle lingue internazionali come l’esperanto fosse meno favorevole” (p. 59).
Nella bozza per la revisione di Un vizio segreto Tolkien dichiarava di non essere “più tanto convinto che [una lingua artificiale] sia cosa buona” (citato a p. 59-60). In una lettera degli anni Cinquanta il suo giudizio è ancora più duro. Parlando delle lingue artificiali, scrive che sono idiomi morti, “molto più morti di altre antiche lingue non più usate, perché i loro autori non hanno mai inventato delle leggende in esperanto” (lettera del 1956, citata a p. 60).
A questo punto i due studiosi americani non possono esimersi dall’affrontare la teoria linguistica a cui Tolkien approdò, fondata sulla coincidenza tra mitologia e linguaggio, e che rappresenta l’architrave della sua attività di narratore e filologo creativo. Per Tolkien non può esistere una lingua senza storie, il mito è linguaggio e il linguaggio è mito, si tratta di aspetti sincronici e coincidenti dell’attività umana. Una lingua senza storie è una lingua morta, in questo caso artificiale nel senso deteriore del termine. Tanto è vero che per dare spessore e credibilità alla propria invenzione linguistica, Tolkien si impegnò nella costruzione di un intero legendarium, dalla cosmogonia all’avvento del tempo storico.
Smith e Wynne però non sembrano cogliere la radicalità di questa teoria o forse proprio perché la colgono sono costretti a rigettarla per salvare l’esperanto:
“Le lingue come l’esperanto, create per uso pratico e quotidiano nel mondo reale, non hanno bisogno di generare storie; nel tempo, se riusciranno a sopravvivere e prosperare, acquisiranno le proprie storie e le proprie leggende, esattamente come il greco e un’infinità di altre lingue esistenti hanno fatto”. (p.63)
Contro la concezione mitolinguistica tolkieniana i due americani da un lato si appellano alla praticità tecnica della lingua, dall’altro lato affermano che le storie e le leggende verranno col tempo, come conseguenze diacroniche del linguaggio. Tolkien avrebbe trovato del tutto falso questo discorso ed è precisamente il motivo per cui finì per rigettare l’esperanto [1].
4. Storia ridicola dell’esperanto
In effetti è la vicenda stessa dell’esperanto a dimostrare che Tolkien aveva ragione. Lo si evince dai primi due contributi del volume, rispettivamente a cura di Tim Owen, della Esperanto Association of Britain, e di Renato Corsetti, della Federazione Esperantista Italiana.
Queste due brevi panoramiche sulle vicissitudini dell’esperanto in Gran Bretagna e in Italia dimostrano perché un idioma inventato a tavolino, con moventi di ordine ideale o tecnico-pratico, senza alcun retroterra storico, risulterà sempre artificioso e fragile. Ovvero sarà soggetto ai ghiribizzi della sorte, alle idiosincrasie del singolo linguista, agli scismi, alle decisioni burocratiche delle organizzazioni internazionali, alle pressioni politiche.
Una lingua con una profondità storica, una lingua che racconta storie e coincide con le storie che racconta, ha un metabolismo e una vita diversi, è connessa agli eventi mondiali e alle generazioni, a spostamenti di popoli, guerre, commerci, rapporti di forza e di interscambio. E’ così che le lingue vivono e muoiono, o piuttosto si trasformano. Il greco e il latino non sono lingue morte, diceva una professoressa di lettere classiche, sopravvivono nelle lingue romanze; così come non era morto l’antico inglese per il professor Tolkien.
E qui sarà anche il caso di fare le pulci al propagandismo esperantista che connota il saggio di Corsetti e che rivela molto del vero intento di questo libro:
“Nato da un ideale di pace, collaborazione e intercomprensione tra gli uomini, l’esperanto si pone al di sopra di ogni differenza etnica, politica, religiosa, e – proprio perché lingua propria di nessuna nazione e insieme accessibile a tutti su una base di uguaglianza – tutela contro il predominio culturale ed economico dei più forti e contro i rischi di una visione monoculturale del mondo” (p. 26).
Non c’è bisogno di mettere in discussione i nobili ideali che mossero Zamenhof per affermare che – da figlio del proprio tempo qual era – ideò una lingua al 100% “bianca”, elaborata sulla base di una mescolanza di radici e parole europee. Guardando l’esperanto dall’Africa, dall’Asia o dall’Oceania, diventa ben difficile capire come una lingua franca ultraeuropea dovrebbe tutelare dal predominio di quella parte del mondo sulle altre o da una visione monoculturale.
Da questo punto di vista Tolkien, anche nella sua fase di ammirazione per le lingue artificiali era assai più consapevole di quali fossero i loro confini impliciti. Infatti si diceva entusiasta di quegli idiomi “quanto meno per l’Europa” e li auspicava “come presupposto possibile e necessario all’unificazione dell’Europa prima che venga fagocitata dalla non Europa” (citato a pag. 51). Queste parole da affezionato conservatore del Vecchio Mondo dimostrano quanto fosse lontano dalla concezione della lingua artificiale come strumento neutrale e universalistico espressa da Corsetti.
5. Mr. Garth e gli scienziati
Eccoci infine al principio. Cioè alla firma più illustre che compare nel volume, quella di John Garth.
La prima cosa che salta agli occhi nella sua prefazione è l’insistenza su una condivisione di “ideali” da parte di Zamenhof e Tolkien, senza però che questo aspetto sia mai approfondito. Garth si spinge poi a un parallelo tra le vicende dell’esperanto e quelle narrate nel Silmarillion (sic!), cerca labili coincidenze cronologiche (l’anno in cui la BBC rifiuta di trasmettere un programma sul cinquantenario dell’esperanto è anche l’anno di pubblicazione de Lo Hobbit… e quindi?), ovviamente cita tutti i documenti attestati sull’adesione di Tolkien all’esperanto, ma poi non può glissare sul suo cambio di rotta. E quando deve tirare le fila lo fa in maniera impacciata e contraddittoria. Alla fine si limita a concludere che “se l’esperanto inizialmente contribuì ad alimentare l’aspirazione di Tolkien a creare linguaggi propri, questa è di certo un’influenza importante. Se poi Tolkien divenne profondamente consapevole dei limiti di ciò che vide, questo è ancor più importante – poiché il suo tentativo di superare quei limiti portò alla creazione dell’Elfico e della Terra di Mezzo” (p. 12).
Tutto qui, dunque. Garth suggerisce una funzione dialettica dell’esperanto, che avrebbe fornito al Tolkien maturo la consapevolezza del limite da superare.
Per dire questo c’era bisogno di un libro pretestuoso e pretenzioso al tempo stesso, dal titolo fuorviante, e argomentato in maniera così maldestra? C’era bisogno di aggiungere gli esperantisti al novero di quelli che tirano Tolkien per la giacca?
Anche no.
Il libro inaugura una collana curata da Cilli per l’editore Cafagna, intitolata “Il mondo di Tolkien”, nel cui comitato scientifico compaiono i nomi delle persone coinvolte a vario titolo nel volume. Gli autori stessi; la traduttrice Greta Bertani, già autrice di un libro su Tolkien e la Sacre Scritture pubblicato dalla casa editrice Il Cerchio; Adriano Monti Buzzetti, giornalista radiotelevisivo, ma qui in veste di autore dell’illustrazione di copertina (che fa il paio con un suo ritratto di Julius Evola “esposto” sul sito della Fondazione omonima: il già menzionato John Garth; e in cima alla lista, Roberto Arduini, presidente dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Lascia parecchio perplessi il fatto che un libro di così poco momento e una così male assortita compagnia includano la firma del biografo di Tolkien e quella del più infaticabile studioso e organizzatore di attività tolkieniane in Italia. Verrebbe da dire, per usare una lingua (mai) morta: Quandoque bonus dormitat Homerus. L’importante è che poi si svegli.
[1] Altri due studiosi che cercano di smussare questa evidenza sono Dimitra Fimi e Andrew Higgins, che nell’introduzione all’edizione filologica di A Secret Vice (2016) – dove, non a caso, vengono citati sia il lavoro di Smith e Wynne sia le scoperte documentali di Cilli – scrivono: “The fact that Esperanto has allowed a shared tradition and culture to ‘breed’ among its speakers, makes it more sympathetic to Tolkien’s ideals for invented languages than the older Tolkien is willing to admit.” (pag. 48).
Recensione a J.R.R.Tolkien l’esperantista – prima dell’arrivo di Bilbo Baggins
(a cura) di O. Cilli, Cafagna Editore, 2015
LINK ESTERNI
– Vai al sito della della casa editrice Cafagna
– Vai al Blog di Oronzo Cilli
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Sono contento e onorato che un autore impegnato come Wu Ming 4 abbia trovato il tempo di leggere e recensire il nostro volume e al contempo sono in forte imbarazzo per non aver ancora letto nulla di quanto lui ha scritto su Tolkien in questi anni (cosa che mi riprometto di fare al più presto, almeno per ricambiare la cortesia). Ho letto il pensiero (perchè chiamarla recensione appare un tantino azzardato) e prometto di commentarlo a breve (i passaggi che mi riguardano ovviamente), anche se rispondere a chi manifesta un pregiudizio e lo utilizza fino all’ultima parola non è semplice. Per adesso confermo il mio compiacimento nell’apprendere che un apprezzato e importante autore abbia dedicato attenzione al nostro lavoro. A presto.