Arthuan Rebis, l’Arpa e la Terra di Mezzo

«Se in sogno o no non lo sapeva, Frodo sentì un canto soave nella testa: una canzone che sembrava giungere come una fioca luce dietro una grigia cortina di pioggia e diventare poi sempre più forte, in modo da trasformare tutto quel velame in vetro e argento finché, quando fu riavvolto, una campagna verdeggiante si schiuse in lontananza innanzi a lui sotto una repentina aurora.»
(J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli)

La musica di Arthuan Rebis è come il sogno ricorrente di Frodo: apre il velo su un altrove. Con grazia ed energia. La citazione da Tolkien non è arbitraria perché Arthuan Rebis è stato ospite al primo Tolkien Studies Day di Sarzana il 29-30 luglio 2022. Ha tenuto un emozionante concerto sabato sera, e nel pomeriggio dello stesso giorno ha inaugurato la manifestazione insieme al direttore artistico, Valentino Giannini, con letture dalle opere del professore di Oxford e l’esecuzione con l’arpa celtica di composizioni originali del musicista sulla poesia di Tolkien, è il caso di “Elbereth” cantata in Sindarin, e su altri temi e culture vicini allo scrittore.
Arthuan Rebis è uno straordinario musicista: la qualità creativa, tecnica, e culturale della sua musica è molto alta, ma è altrettanto vero che è una musica dell’anima.
Benché ci siano generi musicali di riferimento (ad esempio, l’ampio spettro del folk moderno), le sue composizioni scaturiscono dalla sua ricerca culturale e spirituale.
Arthuan Rebis è il nome d’arte di Alessandro Arturo Cucurnia, compositore e concertista internazionale, dottore in Musica all’università di Pisa, musicista polistrumentista, tra gli strumenti che suona: arpa celtica, nyckelharpa, esraj, hulusi, bouzouki, chitarra, flauti, cornamuse, percussioni, tastiere e anche la sua stessa voce, che modula nel canto armonico. Dal 2007 gestisce il proprio studio di registrazione.
Arthuan Rebis è anche uno studioso di tradizioni musicali e spirituali d’Oriente e d’Occidente, in particolare sciamanesimo e Buddhismo tibetano (traducendo gli insegnamenti del Lama Lodro Tulku Rinpoche), di miti delle culture antiche europee ed extraeuropee (collabora con il grecista Angelo Tonelli). Sono frutto di questi studi anche la sua attività di operatore sonoro attraverso trattamenti con il letto armonico, e il libro Musica e Sapienza, antiche tradizioni musicali e spiritualità (ed. Agorà&Co, 2013).
Dopo una lunga stagione di concerti in Italia e in Europa, abbiamo l’occasione di intervistare Arthuan Rebis.

L’intervista

Iniziamo proprio da Tolkien. Durante l’inaugurazione del Tolkien Studies Day hai presentato Elbereth, una poesia elfica che si trova nel Signore degli Anelli e parla della dea che accende le stelle. L’hai musicata con l’arpa e la canti nella versione “originale” in Sindarin (quella che Frodo ascolta nella Sala del Fuoco a Rivendell). Vuoi parlarci della tua connessione con Tolkien, come lettore e come artista?
«Ho incoronato “Elbereth” come canzone prosecutrice tra una dozzina di musiche che ho composto per uno spettacolo da me ideato (“L’Arpa e la Terra di Mezzo”). La maggior parte di quei brani sono rimasti confinati in quell’evento, per il quale erano perfetti, ma mi trovo spesso a dover selezionare, perciò a mettere da parte. In questi casi “Il cestino è uno dei miei migliori amici” come mi disse un giorno il grande cantautore Claudio Rocchi.
“Elbereth” è uno di quei pezzi che suono quasi sempre. Quando l’ho musicata ho cercato di raccogliere una devota malinconia, a cavallo tra l’eccitazione dell’incanto e la calma di un respirare profondo, una sorta di celtitudine ancestrale, una saudade elfica. Gli armonici delle corde, assieme al paesaggio sonoro, tentano di rappresentare lo scintillio delle stelle e la loro accensione per mano della più amata tra i Valar, colei che è Semprebianca.
Sarebbe altisonante da parte mia tentare di descrivere la grandezza di Tolkien in qualunque modo, specialmente in questa sede, ma credo di comprenderla affondo. Relativamente all’universo tolkieniano e alle connessioni che genera mi sento di dire questo: chiaramente è un grande faro, e le persone che hanno una certa sensibilità, e che si sono nutrite profondamente da questa fonte, si riconoscono subito, hanno una risonanza speciale, una sensibilità per l’appunto endemica».

L’8 gennaio 1944, in una delle numerose lettere che scrisse al figlio Christopher al fronte (lettera n.54), Tolkien riporta alcuni versi dal Libro di Exeter (un codice del X secolo): «Meno sarà tormentato dal desiderio, colui che conosce molti canti, o che con le sue mani può toccare l’arpa: il suo bene è un dono di “gioia” (= musica e/o poesia), che Dio gli ha donato».
Sono versi molto belli e molto potenti che ci portano a chiederti come hai intrapreso la via della musica, e cosa rappresenta per te l’arpa celtica.
«Ho la fortuna di ricevere spesso gratitudine e calore dalle persone che assistono ai concerti o che ascoltano i miei dischi. Ultimamente una persona, dopo una mia esibizione, mi ha dato una lettera confidandomi quanto la mia musica (e ciò di cui è stata tramite) l’abbia accompagnata in un momento tremendo quale la perdita del compagno. Questi episodi danno un senso a quello che faccio, specialmente quando incontro ostacoli dentro o fuori di me.
Nei momenti difficili a volte ho smesso di suonare l’arpa per un po’, ma poi rimettendo le mani sullo strumento mi sono reso conto di quanto sia terapeutico anche per me, specialmente quando c’è un pubblico. Questa condivisione è per me una vocazione; alcuni direbbero “missione”, ma io non lo dico, perché preferisco esaltarmi del beneficio altrui, cercando di evitare sovrastrutture che mettono al centro il mio ego. Però mi piace intendermi come veicolo o fucina.
L’arpa celtica per me è inscindibile dalla dimensione bardica. Da un lato è uno strumento molto “spirituale” che può far cantare gli Elementi o mettere in connessione con dimensioni meno materiche (molti arpisti erano ciechi e chiaroveggenti), e che può narrare, evocare e incantare. D’altro canto è storicamente uno strumento di Resistenza, che implicava una vita dura e coraggiosa; a tal proposito si tenga presente che gli arpisti irlandesi sono stati a lungo perseguitati, con la pena di morte in alcuni casi. Le origini di questo strumento in realtà hanno radici in Egitto e a Babilonia. La tecnica che uso, con le unghie lunghe, non è molto comune, e neanche comoda. Con il tempo si sviluppa una vera mindfulness dell’unghia nelle faccende più banali del vivere quotidiano. Ma questa presenza mentale a volte viene a mancare e l’unghia si rompe accidentalmente. Il taglio dell’unghia è stato a lungo una punizione per i bardi, quando questi sono stati integrati e strumentalizzati nelle corti.
La musica la intendo da sempre come dimensione di elaborazione interiore finalizzata alla condivisione.
La musica è quintessenziale, immateriale ma sostenuta dagli elementi. L’essenza bardica a mio parere sta nell’ereditare linguaggi artistici e simbolici, ma tutto deve essere rielaborato e riportato all’esperienza trasformativa dell’attuale esistenza».

“Elbereth” si trova nell’album Sacred Woods (2021), “Boschi Sacri” (e quanti boschi e quanti alberi anche in Tolkien!). Dal primo brano, “Albero Sacro”, ci conduci lungo un percorso di conoscenza attraverso la sapienza antica in Oriente (Danzatrice del Cielo) e in Occidente: in Scandinavia (Runar) nel Mediterraneo (Driade) e nelle terre celtiche (Kernunnos). Un percorso mirabilmente armonioso e naturale all’ascolto, e allo stesso tempo con una gamma di stimoli emotivi diversi. Ci vuoi parlare dell’ispirazione di Sacred Woods?
«È infatti un concept album in cui fiorisce questo atlante simbolico che intreccia entità spirituali e dimensione arborea. Ogni brano attinge da mitologie o suggestioni differenti. Ci sono brani che raccontano più o meno velatamente e astrattamente una storia (Come foglie sospese, “Diana”, “Driade”) ed altri più evocativi o celebrativi. C’è una vasta varietà di stili e di influenze che ho cercato di mettere insieme in maniera dinamica, con momenti contemplativi ed episodi più scatenati. La mia volontà era di mescolare mistero, dimensione del sacro, amore, malinconia, trance, panteismo al confine tra visibile e invisibile, tempo e non-tempo.
Nell’album figurano molti ospiti internazionali quali Vincenzo Zitello (il padre dell’arpa in Italia) Glen Velez (il maestro dei tamburi a cornice), Paolo Tofani (il chitarrista dei leggendari Area), o la cantante danese Mia Guldhammer, Giada Colagrande (regista e cantautrice), Federico Sanesi, Nicola Caleo, Gabriele Gasparotti ed Emanuele Milletti. L’album è prodotto dalla Black Widow Records, storica etichetta nei circuiti prog/dark/folk/metal».

Da Sacred Woods hai tratto quattro video, girati presso un albero monumentale, la cosiddetta Quercia delle Streghe, una grande farnia che si trova vicino Capannori (Lucca). È un essere vivente che accoglie molte forme di vita grandi e piccole intorno a sé, e che trasmette una sensazione di pace ed energia. I brani che hai trasposto nei video sono “Driade”, “Elbereth”, “Fairy Dance” e la struggente ballata “Come foglie sospese”.
La presenza di questo essere secolare, la modulazione diversa dei colori nei quattro video, i tuoi testi – “Come foglie sospese” in particolare – fanno percepire che un tema ricorrente nella tua musica è il Tempo.
«Hai ragione, ed è un tempo che si scioglie. I greci lo chiamavano Kairos, un tempo qualitativo più che quantitativo, che fa percepire una dimensione non sequenziale e non cronologica, e che in qualche modo è un passo al di là della dimensione grossolana dei regni di esistenza. Una sorta di collante immateriale.
Il brano “Come foglie sospese” narra di un uomo in una foresta. D’improvviso la cortina che cinge il mondo si svela e un attimo che sembra eternarsi apre uno squarcio in un’altra dimensione. Dall’altra parte del velo questa persona scorge una creatura femminina, una sorta di dea mortale (che si può immaginare soggettivamente come un Deva femmina o una dama elfica), la quale sta morendo. In un baleno egli realizza di esserne stato l’amante, e di esser poi rinato tra gli uomini. In questa sua presente forma umana egli ha già vissuto lunghe decadi, ma dall’altra parte sono passati pochi istanti. Lei lo sta per seguire, convinta che stanno morendo insieme, ignara del fatto che in pochi istanti lui ha già vissuto decenni in una nuova esistenza in un altro mondo. Lui la osserva, lei non può vederlo, sono vicini e lontanissimi, ma il sentimento di connessione trascende il tempo e lo spazio ordinari proprio grazie al potere della memoria del cuore. Qui l’immaginario tolkieniano e quello romantico occidentale si fondono con la visione cosmogonica Buddhista. Tutto questo non si coglie facilmente nel brano, perché mi piace l’essenziale e preferisco lasciare spazio alla fantasia dell’ascoltatore.
Relativamente agli alberi, di cui tento di tracciare una lode archetipica nel primo brano dell’album, vorrei ricordare che hanno camminato su tutta la superficie del mondo, dopo cicli di glaciazioni e desertificazioni, di seme in seme, eppure sono lì, immobili testimoni, primevo rifugio e ispiratori di tutte le qualità positive. La quercia di cui parli impatta la vista come un cosmo, come un cervello cosmico, madre e padre ad un tempo. Le sue radici, come si intuisce a colpo d’occhio, sono altrettanto maestose. Capovolgendola forse apparirebbe simile. L’Albero Celeste platonico del resto ha radici nei piani superiori (sarebbe meglio dire più sottili) e ramifica nel mondo della manifestazione, dove ci ritroviamo anche oggi, questa volta con sembianze umane (ed è comunque un gran privilegio)».

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 2020 esce La Primavera del Piccolo popolo, la tua fiaba musicale, come l’hai definita. Termine quanto mai corretto perché la protagonista è una fata e perché i temi sono eterni (la Natura, l’Amore, la Ricerca). Ad un livello più profondo, La Primavera sembra un racconto di guarigione, con una sonorità cristallina e rinfrancante, e un passo meditativo. È significativo che sia nata durante il primo lockdown, che per molti è stato invece un periodo di grande ansia e “sconcerto”.
«È stato un momento di forte scossa collettiva, e contrariamente a quanto rappresentato dalle serie tv distopiche, gli esseri umani nel momento di crisi collettiva non tendono sempre a mangiarsi la testa a vicenda come zombies. Spesso quando l’ego vacilla e le certezze crollano, essi manifestano spontaneamente le naturali inclinazioni positive della mente, come la compassione e l’altruismo, che alimentano un loop virtuoso nel quale il cuore si scalda riscaldando altri cuori. Qualche anno fa a Carrara ci fu una terribile alluvione, e mai ho visto tanta solidarietà e gentilezza: c’era bisogno di ritrovarsi nella merda fino al collo.
Similmente nel primo lockdown molte persone erano ispirate dalla possibilità di un cambiamento, dall’illusione che certe urgenze ecologiche avrebbero avuto una concreta e sincera attenzione. Non sapevamo cosa c’era alle porte. Quando la frustrazione si cristallizza nel tempo e viene pilotata dai media e dai governanti allora sì che le persone danno il peggio di sé mettendosi l’una contro l’altra per un pezzo di carta. Questo avviene quando la crisi viene inglobata dai tratti inquietanti dell’ordinario.
Ad ogni modo, nell’equinozio di primavera del 2020, mi sono chiuso in casa qui a Luni (non potendo andare in studio) e ho ideato questa “Fiaba Sonora”. Mi è arrivata questa ispirazione, cercando il lato positivo del momento. È un album da ascoltare tutto d’un fiato, molto diverso da “Sacred Woods”; è una sinfonia minimale, con tanti movimenti. Il viaggio sonoro è guidato dall’arpa, che ha intessuto la cartografia delle trame armoniche, poi vi sono strumenti come la nyckelharpa (una sorta di viola scandinava) e l’esraj (viola indiana) che colorano con pennellate ben dosate i paesaggi boscosi. Altri suoni rappresentano le ali della fata, le varie essenze in gioco e le transizioni di ambienti esteriori ed interiori.
Questa fata è uno spirito guida, alla ricerca di un’umanità scomparsa, in cui lei crede ancora, mentre gli altri del Piccolo Popolo si godono l’assenza degli umani nelle foreste. E questo è stato il mio pensiero mentre eravamo chiusi in casa: “Chissà come se la spassano i faeries allo scoperto.”
Sia la musica che le suggestioni narrative lasciano ampio spazio all’immaginazione dell’ascoltatore, che ha tutto il potere di vivere il viaggio in maniera ri-creativa. Ci sono molti inputs meditativi: la fata durante il viaggio medita sull’impermanenza, sull’interdipendenza, attraverso simboli e immagini che può cogliere anche un bambino, ma che non escludono una profondità, anzi.
Il legame con l’Oriente, in questa mia rielaborazione essenziale di un immaginario europeo quale quello dei Faeries, non ha solo originazioni filosofiche, ma anche estetiche: in quei giorni mi sono riguardato numerose produzioni di Myiazaki, così incredibilmente gentili, prive di volgarità, magicamente pure, essenziali, soavemente formative, e soprattutto capaci di ridonarci, da mani giapponesi, la natura più pura di estetica e simbolismo occidentali… Incroyable!».

Curi personalmente le illustrazioni e la grafica dei tuoi album. Sulla copertina di Sacred Woods c’è l’icona molto suggestiva del grande albero, incorniciato da intrecci quasi celtici che verso l’alto diventano spirali di aria o motivi vegetali in stile liberty. Sulla copertina della Primavera del Piccolo Popolo vediamo la silhouette della fata Alidoro contro la luna piena, con un’arpa tra le mani. Si tratta sempre di immagini notturne.
Ci racconti le radici del tuo immaginario, e in particolare della fata?
«Questo stile grafico delle silhouette e dei notturni accomuna l’artwork questi due album, ma l’ho proposto in certa misura nei dischi delle mie bands. Tendenzialmente tendo a curare tutti i processi artigianali, dalla fase compositiva alle registrazioni, dal missaggio alle grafiche e ai videoclips.
Quando ero bambino sono stato folgorato dalla lettura quotidiana di una rivista di Tradizioni magiche ed esoterismo. La fascinazione per i contenuti testuali era potenziata dalla presenza di opere di straordinari pittori del Fantastico, penso a Ernst Fuchs, M.C. Escher, Salvador Dali, Salvator Rosa, René Magritte, H. R. Giger, Victor Cupsa, ma soprattutto penso al dipinto di Peter Proksch: “Il Palazzo delle Sette Saggezze”, vera ossessione visiva della mia infanzia.
Io non sono affatto un illustratore, ho semplicemente imparato ad arrangiarmi perché so esattamente cosa voglio da una copertina. Per me è importante che rispecchi la mia visione del contenuto.
La mia “Fata” ha tratti del principio “volatile e sfuggente” femminile di cui parlano gli Alchimisti. È un po’ l’Anima nella visione junghiana. Allo stesso tempo ha il ruolo di uno Spirto Guida, quindi desidera farsi inseguire, per guidare, ma opportunamente viene anche in soccorso. Allo stesso tempo è simile a quella che per i tibetani è una Dakini, avendo la capacità di padroneggiare l’elemento Aria/Vento. È la Musa ed ha infinite forme e manifestazioni. Il mio motto personale in questo caso è: UNA MUSA REGIT – Una sola Musa impera».

Negli anni hai dato vita a diversi progetti musicali, The Magic Door per esempio, e Antiqua Lunae. Dal 2011 componi e suoni anche con il gruppo di folk medievale In Vino Veritas. Cosa cambia nello spirito creativo quando componi per il gruppo e quando sai di lavorare per un progetto solista?
«Ci sono state esperienza di collaborazione molto stimolanti, come in The Magic Door, con le menti di Giada Colagrande e Vincenzo Zitello. Rispondendo in maniera generale: per me la condizione ideale nel comporre per un gruppo è quando gli altri cercano di stimolare e valorizzare la mia creatività, consci del fatto che posso essere in grado di partorire molte idee concrete per stili e generi molto diversi. Non è scontato, poiché spesso tra musicisti può generarsi una dannosa competitività. Ho una tendenza un po’maniacale nel voler gestire i processi creativi, ma quando trovo persone che hanno più esperienza e capacità di me sono strafelice di imparare e delegare, come ad esempio quando abbiamo messo il mix di The Magic Door nelle mani di Pino Pischetola, fonico di Battiato, che ha lavorato a pietre miliari come “Violator” dei Depeche Mode, tanto per citare un disco. Nel caso di In Vino Veritas, mi sono trovato quasi sempre a scrivere brani tenendo conto delle caratteristiche dei particolari strumenti musicali, delle qualità dei singoli membri, dei contesti danzerecci Medieval e Pagan folk, e del sound evoluto coralmente nel progetto».

Cecilia Barella

GUARDA IL VIDEO

Discografia solista:
– Spells, Spirits and Spirals (giugno 2016)
– La Primavera del Piccolo Popolo (maggio 2020)
– Sacred Woods (maggio 2021)

Altri progetti discografici:
come Autore, Compositore, Cantante, Esecutore, Fonico, Grafico e Produttore Artistico
– Antiqua Lunae, Il Regno di Flora (2012)
– In Vino Veritas, Baccabundi (2014)
– In Vino Veritas, Ludicantigas (2016)
– The Magic Door, The Magic Door (2018)
– In Vino Veritas, Grimorium Magi (2019)
– In Vino Veritas, Arawn (singolo, 2021)
– Paolo Tofani ft. Arthuan Rebis, La Tempesta/Non è possibile (singolo, dicembre 2022)

Bibliografia:
– Alessandro A. Cucurnia, Musica e Sapienza, antiche tradizioni musicali e spiritualità, Agorà&Co ed. 2013

LINK ESTERNI
– Vai al sito ufficiale di Arthuan Rebis

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