JTR 2025 #2 : un dossier su psicologia e Tolkien

Un numero speciale

Il numero speciale del Journal of Tolkien Research, il secondo dell’anno in corso, a cura di Kristine Larsen, Sara Brown e Christopher Vaccaro, ha un tema accattivante: le possibili letture psicologiche dell’opera di Tolkien. Opera il cui successo duraturo non può certo essere spiegato solo dalla vastità di costruzione del mondo immaginario o dalla potenza del suo epos. Per quanto una parte della critica letteraria si accanisca a ignorarlo, è nelle pieghe dell’animo umano, nelle dinamiche psicologiche e morali, che il Legendarium tolkieniano rivela la sua forza più penetrante. Infatti i saggi di questo numero della rivista mettono in luce aspetti profondamente umani e moderni dei personaggi, capaci di interagire con le categorie della psicologia, della percezione, dell’etica linguistica e dell’identità.

Gli articoli

Riviste: Journal of Tolkien ResearchNel saggio Fears and Pains and Rages: The Psychology of Gandalf’s Anger, Nicholas Birns prende in considerazione il sentimento della rabbia, ovvero le reazioni irose di alcuni personaggi tolkieniani, e in particolare di Gandalf, una figura positiva e altruista, ma anche piuttosto irascibile. La sua collera – che emerge in alcuni momenti chiave, come con Saruman, Denethor e Pippin – si carica di ambiguità morali e sociali, riconducibili sia alla tradizione classica del thumos greco e della saeva indignatio latina, sia a una forma moderna e “professorale” di frustrazione in cui Tolkien doveva riconoscersi. In Gandalf, Tolkien ridefinisce l’archetipo del vecchio mentore saggio e del mago buono, mettendo in scena una mascolinità complessa, un soggetto affettuoso ma severo, che accoglie e punisce, guida e giudica. Insomma un personaggio davvero complesso e non facile da maneggiare.
L’esplorazione psicologica ovviamente si estende anche a personaggi secondari. Nel loro saggio The Only Thriller J.R.R. Tolkien (Never) Wrote: Jungian Shapes of Evil in “The New Shadow”, Martin Hauberg-Lund Laugesen e Bo Kampmann Walther prendono in esame “The New Shadow”, il sequel incompiuto del Signore degli Anelli, ambientato nella Quarta Era, dove Tolkien sembra abbandonare i conflitti epici per esplorare un male interiore, propriamente psicologico. In quelle poche pagine presto abbandonate la tensione generazionale e il senso di disillusione post-bellica diventano protagonisti. Il male non è più rappresentato da orchi, spettri e stregoni, ma dall’apatia, dal vuoto, dalla malinconia generazionale. Viene davvero da chiedersi cosa Tolkien sarebbe riuscito a dire se avesse voluto proseguire il romanzo.
La dimensione emotiva si intreccia poi con i temi importanti del lutto e della perdita. Nel Signore degli Anelli e nel Silmarillion, la morte è onnipresente e mai neutrale. Come sottolineano Ali Mirzabayati, nel suo articolo Mourning and Melancholia in The Lord of the Rings, e Dawn Walls-Thumma in Grief, Grieving, and Permission to Mourn in the Quenta Silmarillion, le reazioni al dolore – da Denethor che cede alla follia, a Théoden che invece riscopre la speranza – non solo definiscono i loro rispettivi caratteri, ma propongono visioni contrastanti dell’umano. Inoltre, il narratore stesso nel Quenta Silmarillion racconta il lutto da un punto di vista morale, che esalta certe morti e ne silenzia altre, contribuendo a costruire una gerarchia affettiva e simbolica della memoria.
Ma l’analisi psicologica si spinge oltre. Il saggio di Sara Brown, “Restless and uneasy… thin and stretched”: The Ring, The Ringbearers, and Bodies in Psychological Crisis in Tolkien’s The Lord of the Rings, esplora le crisi psicofisiche che l’Anello scatena nei suoi portatori. Frodo, Bilbo e Gollum mostrano sintomi di alienazione profonda: sono irrequieti, introflessi, svuotati da un potere che devasta la mente e il corpo. La dipendenza dall’Anello diventa così una metafora della dipendenza emotiva, una forma distorta di attaccamento che rivela la fragilità della volontà umana.
La teoria dell’attaccamento, appunto, è quello di cui parla Lelie Bremont in Tolkien and Attachment Theory: a Theory to Bind Them All?, che propone una lettura sistematica delle relazioni nei romanzi tolkieniani. Da Frodo e Sam a Merry e Pippin, la forza dei legami primari è ciò che permette ai personaggi di sopravvivere alla paura, alla solitudine e alla guerra. L’universo narrativo di Tolkien, in questa prospettiva, si presenta come un laboratorio narrativo di resistenza emotiva e coesione affettiva, che evidentemente nasce dall’esperienza vissuta al fronte.
Non è solo la psiche a parlare nel Legendarium: è anche il linguaggio, e con esso la percezione morale. Mareike Huber, in The Moral Function of Invented Languages in J.R.R. Tolkien’s Legendarium, mostra come le lingue inventate da Tolkien – dal suono melodioso del Quenya al minaccioso Linguaggio Nero – trasmettano già di per sé un giudizio morale, attraverso le loro qualità fonoestetiche. Tuttavia, queste associazioni, lungi dall’essere oggettive, riflettono codici culturali e aspettative personali, dimostrando quanto l’etica linguistica faccia parte integrante della complessità del mondo secondario.
A proposito di percezione, l’indagine di Cameron Bourquein in Perceiving the Perceiver: “Viewing” Sauron Through the Gestalt Theory of Perception, utilizza la teoria psicologica della Gestalt per mostrare come Sauron nel Signore degli Anelli agisca più come una costruzione mentale che come un personaggio definito. La sua presenza – sempre fuori scena, ambigua, frammentaria – obbliga il lettore a “completarlo” cognitivamente, a metterci del suo. Questo meccanismo percettivo si estende anche agli adattamenti visivi (Gli Anelli del Potere, ad esempio), in cui la figura di Sauron diventa una “scatola di Schrödinger”: presente e assente, vero e falso al tempo stesso.
Infine, la complessità dei ruoli di genere in Tolkien viene evidenziata nel saggio di Kristine Larsen, The Mariner and his Astronomer Father: Victorian Masculinities in Númenor, che nel rapporto tra Aldarion e il padre Tar-Meneldur individua un’allegoria del conflitto tra mascolinità vittoriane. Il re astronomo e il figlio marinaio rappresentano due ideali maschili opposti: il sapere contemplativo e domestico da un lato, l’avventura coloniale dall’altro. Tolkien, attento osservatore dei cambiamenti storici e culturali, tratteggia così un dramma familiare che riflette le tensioni di un’intera epoca.

Conclusioni

In conclusione, le letture critiche contenute nell’ultimo numero del Journal of Tolkien Research dimostrano che la forza dell’opera di Tolkien non risiede solo nei suoi aspetti mitici e avventurosi, e nemmeno soltanto nella grandiosità e complessità degli scenari evocati, come qualcuno potrebbe credere. La narrativa tolkieniana è anche una lente attraverso cui esplorare l’interiorità umana, le costruzioni sociali e le ambiguità morali. Come ogni grande autore, Tolkien ci parla tanto della Terra di Mezzo quanto del nostro stesso mondo e, soprattutto, della nostra psiche.

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  1. Trovo davvero interessante la tua proposta di “Battitore” come alternativa a “Rondiere” per tradurre Ranger, e apprezzo molto il lavoro…

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