Nel mese di novembre, a Trieste – la città che ospita la mostra “Tolkien: uomo, professore autore” –, si terranno ben cinque incontri pubblici con altrettanti soci dell’AIST, quattro dei quali fanno parte del programma correlato alla mostra stessa.
I soci invitati
La prima conferenza in ordine cronologico si colloca all’interno del Trieste Science+Fiction Festival e sarà quella di Wu Ming 4, romanziere e saggista, intitolata Difendere la Terra di Mezzo, come il titolo di un suo libro (Bompiani 2023). Si terrà lunedì 3 novembre alle ore 18:00 al cinema Ariston. L’intervento sarà dedicato a illustrare la radicale rilettura del Legendarium tolkieniano recentemente proposta dagli allievi del filosofo e critico letterario Fredric Jameson, all’insegna della relatività del punto di vista e della critica dell’ideologia. Una prospettiva che apre i confini della Terra di Mezzo a nuove interpretazioni e chiavi di lettura.
Venerdì 7 novembre, alle ore 17:30, Ivan Cavini condurrà una visita guidata alla sezione artistica della mostra “Tolkien: uomo, professore, autore”, e replicherà il giorno dopo, sabato 8 novembre, alle ore 11:00. Sempre l’8 novembre, alle ore 16:00, Ivan Cavini terrà il workshop della durata di tre ore per aspiranti illustratori e appassionati di arte fantastica. A partire dalla sua trentennale esperienza lavorativa, Cavini metterà all’opera i partecipanti a partire dalla lettura ad alta voce di brani descrittivi per poi procedere alla visualizzazione dei personaggi scelti. Artista e illustratore, Ivan Cavini è noto al grande pubblico soprattutto per i progetti legati a Tolkien. È direttore creativo del Greisinger Museum, che ospita la più grande collezione di opere d’arte ispirate ai libri di Tolkien; realizza illustrazioni e scenografie per case editrici, musei, studi d’animazione e agenzie di comunicazione; è docente presso la Nemo Academy di Firenze e ideatore e coordinatore della biennale d’illustrazione “FantastikA”, che si svolge nel borgo medievale di Dozza (BO). La sua pubblicazione più nota è Middle-Art Book (Eterea 2023).
Venerdì 14 novembre, presso la sala conferenze del Salone degli Incanti, alle ore 17:30, il presidente dell’AIST Stefano Giorgianni parlerà de “L’immaginario tolkieniano nel panorama musicale”. Già autore del saggio J.R.R. Tolkien, il signore del metallo (Tsunami 2014), il primo libro a esplorare in maniera puntuale ed esaustiva l’immenso impatto di Tolkien sul panorama heavy metal e non solo, Giorgianni è noto nel mondo tolkieniano soprattutto per essere il traduttore della Storia della Terra di Mezzo (Bompiani), giunta al settimo volume.
Domenica 7 dicembre alle ore 16:00, presso il Salone degli Incanti, sarà la volta di Roberto Fontana, con il laboratorio “Come scrivevano gli Elfi – Elementi di calligrafia Tengwar”. Il laboratorio sarà della durata di un’ora e mezza, a partecipazione gratuita. Appassionato lettore di Tolkien, Roberto Fontana è noto sia in Italia che all’estero come autore e saggista fantasy. Calligrafo egli stesso, grazie alla sua conoscenza e pratica delle lingue e delle calligrafie della Terra di Mezzo, ha pubblicato recentemente i volumi Come scrivevano gli Elfi, Manuale di calligrafia Tengwar (Eterea, 2022) e Come si chiamavano gli Elfi – Esseparma Quenderinwa (A.Car. 2025). Il suo saggio più famoso, Guida per viaggiatori nella Terra di Mezzo (L’età dell’Acquario, 2010) è un invito a tutti gli appassionati di fantasy a vivere un’esperienza in bilico fra la realtà e la fantasia percorrendo le vie e le contrade di Arda. Nel volume Canti e preghiere della Terra di Mezzo, l’autore esplora la religiosità e la musicalità che traspare nelle opere del professore di Oxford, traducendo preghiere e inni tradizionali o proponendo canzoni scritte da lui stesso nella lingua degli Elfi.
Infine, giovedì 11 dicembre, al Museo LETS Letteratura, alle ore 18:00, Roberto Arduini terrà una conferenza dal titolo “I Quaderni di Arda: le nuove strade di Tolkien – Scoprire la Terra di Mezzo tra testi, film e fantasia”. Già presidente dell’AIST e direttore de I Quaderni di Arda, rivista promossa dall’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, giunta al suo quinto numero, Arduini guiderà il pubblico in un viaggio immaginario tra le pieghe nascoste dei testi e le curiosità sull’autore, per raccontare la via italiana agli studi tolkieniani. Il principale contributo della rivista in Italia consiste nell’aver dato una sede stabile e scientificamente riconosciuta agli studi tolkieniani, favorendo il dialogo tra studiosi italiani e internazionali. In un panorama in cui Tolkien era spesso affrontato solo in chiave divulgativa, I Quaderni di Arda hanno contribuito a legittimare e consolidare la ricerca accademica sull’autore, inserendo l’Italia nel circuito internazionale degli studi tolkieniani e valorizzando una prospettiva critica e culturale originale.
È stato un fine settimana intenso quello del 27 e 28 settembre a Dozza Imolese, dove, nella suggestiva sala grande della rocca sforzesca, l’AIST ha celebrato a modo suo il settantennale della pubblicazione di The Lord of the Rings. E il modo dell’AIST è come al solito organizzare conferenze che approfondiscano i vari aspetti dell’opera del Professore. Al tavolo dei relatori nell’arco delle due giornate si sono alternati studiosi dell’AIST, traduttori, accademici e divulgatori tolkieniani, provenienti da vari angoli d’Italia e appartenenti a varie generazioni.
Tuttavia il primo dato che è bello rilevare riguarda la partecipazione. A fronte di argomenti anche complessi e quanto mai variegati, la sala da sessanta posti è sempre stata piena o quasi, e non solo di soci e socie dell’AIST. Andrebbe aggiunto anche un dato anagrafico non secondario: oltre metà dell’uditorio era giovane.
Il sabato
Sabato mattina, dopo i saluti istituzionali, ha aperto le danze il socio fondatore romano Lorenzo Gammarelli, traduttore dell’epistolario tolkieniano, il quale ha ripercorso le tappe della travagliata storia del Signore degli Anelli in Italia, fino ai giorni nostri. A seguire, la giovane socia romagnola Virginia Cavalli, filologa germanica e docente di tedesco, già collaboratrice della rete dei Tolkieniani Italiani, ha parlato del rapporto tra studio accademico e narrativa in Tolkien, ovvero dell’impatto dello studio dell’anglosassone sulla produzione del suo mondo fantastico, e in particolare del rapporto tra il Beowulf e Lo Hobbit. In seguito, la socia torinese Barbara Sanguineti, ha tenuto una bella dissertazione, o forse una provocazione, sul personaggio di Tom Bombadil, visto come un trickster mancato, ovvero come una figura che contiene diverse caratteristiche chiave dell’archetipo mitico, eccetto l’ambiguità morale.
Si è così conclusa la sessione mattutina. Il pomeriggio è stato invece dedicato all’anteprima del nuovo numero dei «Quaderni di Arda», che uscirà a inizio novembre, e si intitolerà Tolkien oltre Tolkien: eredi ed eretici. La rivista avrà un nuovo formato online e open access, nonché un nuovo editore accademico (un salto di qualità di cui parleremo a tempo debito). Il socio fondatore Wu Ming 4 ha introdotto gli interventi di tre contributori del nuovo numero. Alessandro Fambrini, professore di letteratura tedesca all’università di Pisa ed esperto di fantascienza, ha parlato di Michael Moorcock, il più “eretico” e irriverente dei discendenti letterari di Tolkien, con una panoramica sulla sua sconfinata produzione narrativa e sulle sue celebri prese di posizione contro il padre edipico del fantasy contemporaneo. Edoardo Rialti, fiorentino, traduttore di narrativa fantastica e critico letterario, ha parlato invece di Richard K. Morgan, classe 1965, scrittore britannico di fantascienza cyberpunk e di fantasy, che con la sua trilogia Quel che resta degli eroi ha omaggiato e al tempo stesso preso le distanze da Tolkien. Infine Andrea Cassini, scrittore e traduttore, con una formazione da filologo medievale, ha introdotto l’opera narrativa dell’autore sino-americano Ken Liu. È una saga ambientata in un mondo fantasy che sembra uscito proprio dall’intersezione tra due culture e che assomiglia al sud-est asiatico ma con un retroterra storico più simile a quello americano. Forse la narrativa fantastica asiatica cosiddetta silkpunk è quanto di più lontano dall’opera di Tolkien, ma al tempo stesso proprio autori “ponte” come Liu non possono esimersi dal confrontarsi con il retaggio tolkieniano o l’imprinting che ha lasciato sul genere fantasy, quanto meno in Occidente.
La domenica
La sessione mattutina della domenica è stata aperta niente meno che dal nostro socio consigliere veneziano Paolo Nardi, traduttore, saggista e youtuber, ben noto alla comunità tolkieniana, il quale ha parlato sul tema dell’ambientalismo nell’opera di Tolkien, riferendosi al volume di imminente uscita in traduzione italiana, Ent, Elfi ed Eriador. La visione dell’ambiente nell’opera di J.R.R. Tolkien, di M. Dickerson e J. Evans (Fede e Cultura, 2025), da lui stesso tradotto.
Quindi è toccato alla neosocia friulana Erica Martin, scrittrice e storica dell’arte e della moda, che ha ricostruito l’abito di Arwen in una delle sue apparizioni più iconiche nel Signore degli Anelli, basandosi sul testo letterario e sulle possibili ispirazioni storiche di Tolkien. Hanno chiuso la sessione mattutina Roberto Arduini e Barbara Sanguineti, presentando l’artbook Galadriel: potere, bellezza e leggenda dell’Elfa suprema (Eterea, 2025), nel quale diverse illustratrici italiane si sono cimentate con il personaggio femminile più carismatico e conosciuto del Legendarium tolkieniano, a partire dalla bravissima Elisa Seitzinger, che ha realizzato l’immagine di copertina. Nel pomeriggio, la neosocia Adele Loia, ricercatrice di Linguistica presso l’università di Bologna, affiancata da Roussel Magdi Sobih, ha presentato una bellissima ricostruzione dell’impianto linguistico sotteso alla subcreazione di Arda. Considerando come unico precedente illustre quello dell’ateneo di Parma, che da anni si occupa di questo tema, si può dire che finalmente a parlare di un aspetto cruciale della mitopoiesi tolkieniana sono stati degli studiosi di linguistica, cosa non scontata nemmeno all’estero, in area anglofona e non, e assolutamente rara in Italia. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Poi è venuto il momento più carico di pathos, la performance di Riccardo Ricobello, amico dell’AIST, doppiatore e lettore di audiolibri, tra cui Lo Hobbit nella nuova traduzione di Wu Ming 4 (Storitel). Riccardo ha incantato la platea con tre brani dal Ritorno del Re: la carica dei Rohirrim, il risveglio di Sam a Cormallen, e il finale del romanzo, che ha fatto venire gli occhi lucidi a più di una persona presente. Ha concluso il ciclo di conferenze il socio Fabio Convenga, ricercatore presso il Gran Sasso Science Institute dell’Aquila, con una conferenza su Tolkien e la scienza. Convenga è partito dalla constatazione tolkieniana che Arda è una versione alternativa del nostro stesso mondo e quindi soggetta alle stessi leggi fisiche. In particolare, così come nel racconto scientifico l’universo è nato dal vuoto grazie a una complessa interazione di oggetti rappresentabili come onde, nel mito elfico Arda è nata dal vuoto grazie a un’altrettanto complessa interazione di suoni, cioè onde, emesse dagli Ainur sulla musica ispirata da Eru. La relazione ha incluso una scanzonata panoramica sulla storia della fisica nel mondo primario.
A latere
Come si era già rilevato in precedenti analoghi, il piano relazionale e il sodalizio si consolidano collateralmente alle conferenze. In questo caso non soltanto durante i pranzi e le cene “sociali” all’Osteria di Dozza, dov’è possibile ordinare una birra “Tolkieniana”, ma anche al bellissimo concerto che si è tenuto sabato sera al piccolo teatro comunale. I RuinThrone, gruppo power metal romano, infatti si sono esibiti in versione duo acustico, eseguendo non solo brani originali della band, ma anche cover dei grandi classici del rock che contengono riferimenti all’opera di Tolkien (Black Sabbath, Led Zeppelin, ecc, fino agli immancabili Blind Guardian). Una serata davvero speciale e molto intima. È il caso di dire che se non ci fosse questo piano della socialità, tutti i risultati ottenuti dall’AIST in un decennio di storia, tutto il nostro curriculum unico in Italia, avrebbe meno valore. Ridendo e scherzando, discutendo e litigando, allentandosi e ricompattandosi… questa comunità di persone nata a metà del decennio scorso intorno all’interesse per l’opera di Tolkien non solo sopravvive – e non era scontato – ma prolifica anche, acquisendo nuovi soci e socie che non si limitano a fare numero, ma diventano parte attiva negli eventi culturali, nelle giornate di studio, negli incontri seminariali interni all’associazione. La Compagnia si allarga ed è un ottimo segno per una realtà piccola, decentrata e senza sponsorizzazioni di alcun tipo come l’AIST, che campa soltanto di credibilità, indipendenza e quote sociali. In questo senso un weekend come quello appena trascorso lascia davvero ben sperare per il presente e per il futuro.
Il numero speciale del Journal of Tolkien Research, il secondo dell’anno in corso, a cura di Kristine Larsen, Sara Brown e Christopher Vaccaro, ha un tema accattivante: le possibili letture psicologiche dell’opera di Tolkien. Opera il cui successo duraturo non può certo essere spiegato solo dalla vastità di costruzione del mondo immaginario o dalla potenza del suo epos. Per quanto una parte della critica letteraria si accanisca a ignorarlo, è nelle pieghe dell’animo umano, nelle dinamiche psicologiche e morali, che il Legendarium tolkieniano rivela la sua forza più penetrante. Infatti i saggi di questo numero della rivista mettono in luce aspetti profondamente umani e moderni dei personaggi, capaci di interagire con le categorie della psicologia, della percezione, dell’etica linguistica e dell’identità.
Gli articoli
Nel saggio Fears and Pains and Rages: The Psychology of Gandalf’s Anger, Nicholas Birns prende in considerazione il sentimento della rabbia, ovvero le reazioni irose di alcuni personaggi tolkieniani, e in particolare di Gandalf, una figura positiva e altruista, ma anche piuttosto irascibile. La sua collera – che emerge in alcuni momenti chiave, come con Saruman, Denethor e Pippin – si carica di ambiguità morali e sociali, riconducibili sia alla tradizione classica del thumos greco e della saeva indignatio latina, sia a una forma moderna e “professorale” di frustrazione in cui Tolkien doveva riconoscersi. In Gandalf, Tolkien ridefinisce l’archetipo del vecchio mentore saggio e del mago buono, mettendo in scena una mascolinità complessa, un soggetto affettuoso ma severo, che accoglie e punisce, guida e giudica. Insomma un personaggio davvero complesso e non facile da maneggiare.
L’esplorazione psicologica ovviamente si estende anche a personaggi secondari. Nel loro saggio The Only Thriller J.R.R. Tolkien (Never) Wrote: Jungian Shapes of Evil in “The New Shadow”, Martin Hauberg-Lund Laugesen e Bo Kampmann Walther prendono in esame “The New Shadow”, il sequel incompiuto del Signore degli Anelli, ambientato nella Quarta Era, dove Tolkien sembra abbandonare i conflitti epici per esplorare un male interiore, propriamente psicologico. In quelle poche pagine presto abbandonate la tensione generazionale e il senso di disillusione post-bellica diventano protagonisti. Il male non è più rappresentato da orchi, spettri e stregoni, ma dall’apatia, dal vuoto, dalla malinconia generazionale. Viene davvero da chiedersi cosa Tolkien sarebbe riuscito a dire se avesse voluto proseguire il romanzo. La dimensione emotiva si intreccia poi con i temi importanti del lutto e della perdita. Nel Signore degli Anelli e nel Silmarillion, la morte è onnipresente e mai neutrale. Come sottolineano Ali Mirzabayati, nel suo articolo Mourning and Melancholia in The Lord of the Rings, e Dawn Walls-Thumma in Grief, Grieving, and Permission to Mourn in the Quenta Silmarillion, le reazioni al dolore – da Denethor che cede alla follia, a Théoden che invece riscopre la speranza – non solo definiscono i loro rispettivi caratteri, ma propongono visioni contrastanti dell’umano. Inoltre, il narratore stesso nel Quenta Silmarillion racconta il lutto da un punto di vista morale, che esalta certe morti e ne silenzia altre, contribuendo a costruire una gerarchia affettiva e simbolica della memoria.
Ma l’analisi psicologica si spinge oltre. Il saggio di Sara Brown, “Restless and uneasy… thin and stretched”: The Ring, The Ringbearers, and Bodies in Psychological Crisis in Tolkien’s The Lord of the Rings, esplora le crisi psicofisiche che l’Anello scatena nei suoi portatori. Frodo, Bilbo e Gollum mostrano sintomi di alienazione profonda: sono irrequieti, introflessi, svuotati da un potere che devasta la mente e il corpo. La dipendenza dall’Anello diventa così una metafora della dipendenza emotiva, una forma distorta di attaccamento che rivela la fragilità della volontà umana. La teoria dell’attaccamento, appunto, è quello di cui parla Lelie Bremont in Tolkien and Attachment Theory: a Theory to Bind Them All?, che propone una lettura sistematica delle relazioni nei romanzi tolkieniani. Da Frodo e Sam a Merry e Pippin, la forza dei legami primari è ciò che permette ai personaggi di sopravvivere alla paura, alla solitudine e alla guerra. L’universo narrativo di Tolkien, in questa prospettiva, si presenta come un laboratorio narrativo di resistenza emotiva e coesione affettiva, che evidentemente nasce dall’esperienza vissuta al fronte.
Non è solo la psiche a parlare nel Legendarium: è anche il linguaggio, e con esso la percezione morale. Mareike Huber, in The Moral Function of Invented Languages in J.R.R. Tolkien’s Legendarium, mostra come le lingue inventate da Tolkien – dal suono melodioso del Quenya al minaccioso Linguaggio Nero – trasmettano già di per sé un giudizio morale, attraverso le loro qualità fonoestetiche. Tuttavia, queste associazioni, lungi dall’essere oggettive, riflettono codici culturali e aspettative personali, dimostrando quanto l’etica linguistica faccia parte integrante della complessità del mondo secondario. A proposito di percezione, l’indagine di Cameron Bourquein in Perceiving the Perceiver: “Viewing” Sauron Through the Gestalt Theory of Perception, utilizza la teoria psicologica della Gestalt per mostrare come Sauron nel Signore degli Anelli agisca più come una costruzione mentale che come un personaggio definito. La sua presenza – sempre fuori scena, ambigua, frammentaria – obbliga il lettore a “completarlo” cognitivamente, a metterci del suo. Questo meccanismo percettivo si estende anche agli adattamenti visivi (Gli Anelli del Potere, ad esempio), in cui la figura di Sauron diventa una “scatola di Schrödinger”: presente e assente, vero e falso al tempo stesso.
Infine, la complessità dei ruoli di genere in Tolkien viene evidenziata nel saggio di Kristine Larsen, The Mariner and his Astronomer Father: Victorian Masculinities in Númenor, che nel rapporto tra Aldarion e il padre Tar-Meneldur individua un’allegoria del conflitto tra mascolinità vittoriane. Il re astronomo e il figlio marinaio rappresentano due ideali maschili opposti: il sapere contemplativo e domestico da un lato, l’avventura coloniale dall’altro. Tolkien, attento osservatore dei cambiamenti storici e culturali, tratteggia così un dramma familiare che riflette le tensioni di un’intera epoca.
Conclusioni
In conclusione, le letture critiche contenute nell’ultimo numero del Journal of Tolkien Research dimostrano che la forza dell’opera di Tolkien non risiede solo nei suoi aspetti mitici e avventurosi, e nemmeno soltanto nella grandiosità e complessità degli scenari evocati, come qualcuno potrebbe credere. La narrativa tolkieniana è anche una lente attraverso cui esplorare l’interiorità umana, le costruzioni sociali e le ambiguità morali. Come ogni grande autore, Tolkien ci parla tanto della Terra di Mezzo quanto del nostro stesso mondo e, soprattutto, della nostra psiche.
Doppia conferenza piemontese per Wu Ming 4, nelle calde serate di luglio. Il 10, nella sede dello storico Hiroshima Mon Amour di Torino, lo scrittore parlerà di Difendere la Terra di Mezzo: mito e immaginario di J.R.R. Tolkien. Replicherà il giorno dopo, l’11, nello scenario del forte di Gavi (AL), nell’ambito del festival Attraverso.
Tolkien all’Hiroshima
Da oltre trent’anni l’Hiroshima Mon Amour intreccia la sua storia con quella della nuova musica italiana e internazionale, del teatro comico, dello storytelling, dei nuovi artisti che su quel palco hanno avuto le prime opportunità e, raggiunta la celebrità, sono tornati nelle rassegne e nei Festival promossi dall’associazione. Fondata nel 1986, grazie alla passione e alla volontà di un gruppo di allora ragazzi con il grande desiderio di portare nella loro città ciò che di più interessante capitava nella scena musicale e culturale italiana e internazionale, l’Associazione Culturale Hiroshima Mon Amour è riuscita negli anni ad andare molto oltre la dimensione di locale di pubblico spettacolo e a diventare punto di riferimento riconosciuto da pubblico, istituzioni e addetti ai lavori. Portare il discorso sull’opera di Tolkien in un contesto così eterogeneo, fuori dai circuiti dove più spesso si parla di Terra di Mezzo, è una sfida che andava raccolta, per quanto sicuramente occorra considerare che il pubblico potrà essere il più variegato in termini di conoscenza della materia. Anzi, la sfida consiste proprio in questo.
L’inizio della conferenza è previsto per le ore 21:00; l’ingresso è libero ma è consigliabile la prenotazione, che può essere effettuata qui.
Tolkien nella fortezza
Un contesto davvero suggestivo è quello dove la conferenza di Wu Ming 4 verrà replicata il giorno dopo, l’11, ovvero il forte di Gavi, in provincia di Alessandria. Quest’anno cade il decennale del Festival Attraverso, una manifestazione che mescola teatro, concerti, incontri, talk. Dieci anni di costruzione per il più diffuso fra tutti i festival piemontesi, costituito da un reticolo di appuntamenti che si estende per oltre 200 km e unisce tre province – Asti, Alessandria e Cuneo – e territori meravigliosi e diversi dalle Alpi all’Appenino piemontese attraverso Langhe, Roero, Monferrato. Zone accomunate da paesaggi mozzafiato, tradizioni e ricchezza enogastronomica uniche, ma che non avevano mai davvero trovato un punto di connessione. Attraverso è un festival che si è radicato saldamente sul territorio, sparpagliandosi per due mesi nell’estate piemontese in quasi 30 comuni del Piemonte meridionale e proponendo una programmazione variegata, di qualità e studiata per ognuno dei luoghi che la accoglie. Un festival nomade, che si adatta a ogni luogo che lo ha accolto, abbracciando qualche volta feste e ricorrenze di paesi e città, molte altre portando spettacoli, musica e parole là dove la cultura spesso fatica ad arrivare. L’inizio delle conferenze è alle 18:00. L’ingresso è libero, ma anche qui si consiglia di prenotare.
Anche in questo caso possiamo salutare favorevolmente il fatto che un festival che ospita personaggi e temi “pop” dello spettacolo e della cultura, abbia scelto di trattare Tolkien, un autore senz’altro famoso, ma certo non per tutti i palati. The times they’are a-changing, cantava quel tale:
[…] Come writers and critics Who prophesize with your pen And keep your eyes wide The chance won’t come again And don’t speak too soon For the wheel’s still in spin And there’s no tellin’ who That it’s namin’. For the loser now Will be later to win For the times they are a-changin’.
Come senators, congressmen Please heed the call Don’t stand in the doorway Don’t block up the hall For he that gets hurt Will be he who has stalled There’s a battle outside And it is ragin’. It’ll soon shake your windows And rattle your walls For the times they are a-changin’.
Sono stati tre giorni intensi il 25-26-27 aprile scorsi, al centro studi La Tana del Drago di Dozza (BO), intitolati The Road Goes Ever On: i nuovi progetti di studio dell’AIST. I primi due sono stati dedicati a lanciare spunti per gli studi tolkieniani dell’Associazione, mentre il terzo, domenica, ha visto le relazioni aperte al pubblico, nel Teatro del borgo, su La caduta di Númenor e la serie The Rings of Power, tenute dai soci Stefano Giorgianni, Paolo Nardi e Alessandro Leonardi.
Nuovi percorsi di studio
Si è cominciato venerdì pomeriggio con un primo workshop animato dal dottorando di ricerca e neosocio Eugenio Capitani, dell’Università di Modena e Reggio, il quale ha proposto un percorso di studi ispirato agli Environmental Studies connessi alla letteratura. Gli studi ambientali sono un campo interdisciplinare nato negli Stati Uniti da una decina d’anni, che esamina la complessa relazione tra l’umanità e l’ambiente, integrando le conoscenze di varie discipline, tra cui le scienze naturali, le scienze sociali e le scienze umane, per affrontare i problemi ambientali e promuovere la sostenibilità. Con l’incalzare dell’emergenza climatica e ambientale è quasi inevitabile una riscoperta di Tolkien, come di altri autori, da questa angolazione, con una consapevolezza e un’urgenza aumentate rispetto alla cultura hippie degli anni Sessanta che elesse Tolkien a nume tutelare. Da questo punto di vista è un’ottima notizia quella data da Paolo Nardi nel medesimo workshop, sul fatto che a breve verrà tradotto e pubblicato in Italia Ent, Elves and Eriador di Matthew Dickerson e Jonathan Evans (2006), il saggio più importante sulla filosofia ambientale sottesa alle opere di Tolkien. La discussione tra i soci e le socie AIST presenti al workshop è stata serrata e questo lascia ben sperare sulla possibilità che nascano percorsi di studio in questa direzione.
La sera è toccato invece al socio Nicola Nannerini introdurre, durante un secondo workshop, un altro possibile filone di ricerca, legato alla prosecuzione della narrazione e all’esplorazione del mondo tolkieniano attraverso i giochi di ruolo e da tavolo ispirati al Legendarium. L’ambiente scelto per l’incontro non poteva essere più adatto: la ludoteca del Centro Studi, dove si è discusso letteralmente circondati da giochi ambientati nella Terra di Mezzo. Anche questo è un campo molto fertile per chi volesse cimentarsi nella ricerca sul transmedia storytelling, in questo caso sul proseguimento della subcreazione tolkieniana attraverso la narrazione interattiva offerta dalla dimensione ludica. Ma le implicazioni di questo tipo di approccio sono ovviamente molteplici: da quelle culturali a quelle antropologiche e psicologiche.
Sabato mattina è stata invece la volta del socio Marco Casolino, in videocollegamento dal Giappone, il quale ha proposto un percorso di ricerca su Tolkien e la scienza. Casolino è ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ed è stato tra i protagonisti del convegno Tolkien e la cosmologia, tenutosi all’università di Tor Vergata nel novembre del 2023. Anche in questo caso si tratta di un’angolazione originale, che unisce scienze umane e scienze “dure”, letteratura e fisica, e può inaugurare un percorso di ricerca estremamente interessante.
La terza ipotesi di ricerca è stata introdotta dalla giovane neosocia Adele Loia, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne dell’Università di Bologna, la quale ha sostenuto la necessità di avviare anche in Italia, come all’estero, uno studio legato alle lingue di Tolkien partendo da una solida base linguistica. Senza nulla togliere all’approccio amatoriale degli appassionati finora prevalente in questo campo, che almeno ha garantito che il tema non venisse negletto, sarebbe forse ora che anche nel nostro paese si avviasse un approccio scientifico per portare gli studi italiani al livello di quelli internazionali. La presentazione di Adele Loia è stata molto interessante da questo punto di vista e c’è da augurarsi che – se adeguatamente agganciata alla dimensione letteraria – possa sollecitare interesse nelle giovani leve che studiano Tolkien.
Last but not least, il socio e consigliere Paolo Pizzimento, docente di Culture dell’Italia contemporanea all’università di Messina, in videocollegamento dalla Sicilia, insieme a uno dei Soci fondatori dell’AIST Giampaolo Canzonieri, ha proposto uno studio della Storia della Terra di Mezzo, in corso di traduzione e pubblicazione anche in Italia ormai da qualche anno. In particolare si è posto l’accento su un paio di scelte tematiche: da un lato la questione delle cornici narrative (espunte dal Silmarillion pubblicato) e quindi della molteplicità delle tradizioni nella Terra di Mezzo; dall’altro il focus sugli ultimi tre volumi della SdTdM, quelli del tardo Tolkien, dove l’autore ha rimesso in discussione svariati aspetti della sua subcreazione, aprendo nuove prospettive.
Nel sabato pomeriggio invece si è tenuta l’Assemblea dei Soci AIST, dove si sono discussi molti punti all’ordine del giorno e si è rieletto il Collegio di Garanzia, che per i prossimi tre anni sarà composto da Alena Afanasyeva, Marco Pelizzola e Norbert Spina.
L’evento pubblico
Domenica mattina, al Teatro di Dozza, come detto, si è tenuto l’incontro aperto al pubblico, intitolato Númenor e gli Anelli: riscrivere il racconto. Il presidente dell’AIST Stefano Giorgianni ha illustrato il lavoro di assemblaggio svolto dall’editor Brian Sibley nel volume La caduta di Númenor (Bompiani, 2025), di cui lui stesso è traduttore. A seguire, Paolo Nardi ha condotto un raffronto tra il libro in questione e la resa della stessa vicenda nella serie TV Amazon Gli Anelli del Potere, evidenziando tutte le criticità di quest’ultima rispetto alla potenza e potenzialità della narrazione tolkieniana. Infine, Alessandro Leonardi ha raccontato i risultati del laboratorio tenutosi alla scorsa edizione di Lucca Comics&Games, dal titolo “Gli Anelli del Potere What if”, dove si è ipotizzata una trasposizione alternativa della stessa storia in un’immaginaria serie tv più fedele al materiale tolkieniano. L’evento si è concluso con la lettura di tre brani da La caduta di Númenor, fatte da soci AIST.
Fellowship
È una parola poliedrica, fellowship, con molte sfumature. Non significa propriamente amicizia, ma nemmeno comunione e tanto meno fratellanza, quanto piuttosto l’unione di un gruppo di persone per uno scopo o magari una passione, o ancora un ideale. Non per niente nel titolo della prima parte del Signore degli Anelli è stato reso con “Compagnia”. La Compagnia dell’Anello infatti è composta da persone estremamente diverse, addirittura appartenenti a differenti razze della Terra di Mezzo, che non hanno necessariamente un’identità di vedute, bensì, appunto, di scopo, e che deliberano congiuntamente sul da farsi, sempre esposte alla possibilità di divergere e perfino confliggere. Ma c’è una mission più alta che le unisce e tanto basta a dare vita a una compagnia, fatta di relazioni, affetti, attriti, simpatie e antipatie: la complessità di ogni consesso umano.
Se la storia dell’AIST non è certo scevra di momenti di difficoltà e conflittualità interna, e non ne sarà mai immune, l’aria che si è respirata a Dozza nei tre giorni appena trascorsi sa di pulito. Tanto nei momenti di discussione quanto in quelli conviviali – coffee break, pranzi, cene – si è stati bene, inutile nasconderlo, immersi in una mescolanza di inflessioni di varie regioni d’Italia, almeno due generazioni anagrafiche, soprattutto anzianità associativa differente – fondatori, soci intermedi, new entries –, tra chi si vede spesso e chi si incrocia una volta l’anno. Questo in una casa comune, metaforica e materiale (che ogni domenica viene attraversata da decine di visitatori). Suonerà retorico dirlo, forse perfino sentimentale, ma a dieci anni dalla fondazione dell’AIST, e al netto dei tanti risultati pratici all’attivo, questa è la medaglietta che vale la pena affiggersi al petto: esserci ancora ed esserci in questo modo, con questo clima e con questo stile.
Non possiamo sapere cosa ci riserverà il futuro nei tempi minacciosi che viviamo, ma come direbbe un tizio che conosciamo tutti: possiamo soltanto decidere come spendere il tempo che ci viene concesso. Ecco, spenderlo così non è affatto male. Auguriamoci di continuare a farlo al meglio delle nostre possibilità.
Non capita spesso di poter dare due buone notizie in una volta. La prima è che tra pochi giorni arriverà in libreria la ristampa dello Hobbit nell’edizione uscita nel novembre scorso, forse la più bella mai realizzata, con le illustrazioni di Tolkien, che mancava dagli scaffali da tre mesi. La nuova traduzione è stata emendata da alcuni errori e migliorata in tanti piccoli dettagli. La seconda notizia è che è già disponibile sul portale Storytell’audiolibro dello stesso volume, realizzato da un doppiatore e lettore che è anche appassionato tolkieniano: Riccardo Ricobello.
La ristampa
Arriva una nave carica di…hobbit!
È arrivata dalla Cina una nave cargo su cui hanno viaggiato le copie della ristampa dello Hobbit. Ebbene sì, anche l’editoria si piega ai bassi costi della manodopera cinese, talmente bassi, a quanto pare, da rendere conveniente stampare un libro dall’altra parte del mondo e farlo arrivare via mare fino al porto di Venezia, piuttosto che ricorrere a uno stampatore italiano, anche se questo comporta tempi assai più lunghi per riavere un titolo sugli scaffali delle librerie (dai quali mancava da Natale). Non è un segreto infatti che la nuova edizione dello Hobbit è andata esaurita piuttosto in fretta e ormai risulta introvabile. Dai primi di aprile dovrebbe quindi essere di nuovo disponibile in libreria.
La ristampa in arrivo ha un valore aggiunto, perché oltre a essere stata emendata di alcuni errori, è stata integrata con svariate migliorie meno visibili e vistose, ma importanti per ottimizzare questa versione. Che non si siano dovuti aspettare anni o addirittura decenni per farlo, è un grosso passo avanti, per altro già riscontrato per la nuova traduzione del Signore degli Anelli.
Anche in questo caso, come già per il Signore degli Anelli, le correzioni sono state suggerite dal fandom. E questo è un altro dato importante da registrare, perché l’intelligenza collettiva è sempre più forte di quella singola. La raccolta di note è stata avviata subito, all’indomani dell’uscita in libreria del volume, e ha coinvolto diverse persone, tre delle quali però meritano di essere ringraziate pubblicamente. Si tratta di due membri fondatori dell’Aist, ovvero Norbert Spina e Giampaolo Canzonieri (quest’ultimo già consulente di Ottavio Fatica), e soprattutto di Riccardo Ricobello.
L’audiolibro
Riccardo Ricobello
Ricobello, doppiatore e lettore di audiolibri, è stato coinvolto proprio nelle due principali presentazioni pubbliche della nuova traduzione tenutesi a FantastikA 2024, biennale di illustrazione fantasy, a Dozza (BO), nel settembre scorso, e a Lucca Comics and Games, a novembre, oltre a essere spesso ospite sul canale YouTube del nostro socio Paolo Nardi. In quelle occasioni, ha letto e interpretato alcuni passaggi della nuova traduzione, dando prova della sua passione per l’opera di Tolkien, oltreché della sua bravura professionale. Piace pensare che occasioni come quelle siano state un buon viatico perché gli venisse assegnata la realizzazione dell’audiolibro dello Hobbit.
Per Bompiani è un notevole cambiamento di linea editoriale – dopo che per Il Signore degli Anelli si era avvalsa di un attore di cinema e teatro come Massimo Popolizio – scegliere per Lo Hobbit una “pura voce” come Ricobello. Ma la differenza sostanziale è piuttosto un’altra. Se Popolizio non è un estimatore e conoscitore di Tolkien, Ricobello al contrario è un grande appassionato, nonché un volto familiare nel fandom tolkieniano. Questo ovviamente gli garantisce una marcia in più nel cogliere ogni sfumatura del testo letterario e nel provare a restituirla con il suo mestiere. Prova ne è il fatto, come già detto, che Ricobello ha suggerito la maggioranza delle migliorie per la ristampa. Chi ha avuto modo di ascoltarlo nelle “pillole” che ha voluto regalare finora, non potrà che esserne felice. È molto probabile che ne sia uscita una bellissima resa finale.
L’intelletto generale del fandom
Tutto questo offre l’occasione per una riflessione estemporanea sul ruolo del fandom come risorsa creativa e non solo come mero bacino d’acquirenti. Il dato di fatto è che nel caso di certi autori o autrici di culto, le major dell’editoria, quelle con i maggiori capitali a disposizione e con i fatturati più imponenti, possono avvalersi dell’apporto del fandom a titolo completamente gratuito, grazie all’amore degli stessi fan. Il feedback dato dai lettori di Tolkien alle varie ritraduzioni o riedizioni delle sue opere è una risorsa che diventa strategica nel momento in cui porta a un miglioramento della qualità del prodotto finale. E se il coinvolgimento di associazioni come la STI, in passato, o l’AIST, oggigiorno, può essere a volte contrattualizzato e riconosciuto nel frontespizio delle varie edizioni, quello dei “cani sciolti” che hanno dato il loro piccolo o grande contributo, spesso destinato a rimanere anonimo e nell’ombra, non è meno importante.
Eppure certe discussioni interne al fandom, come quella lunghissima e accesissima sulla nuova traduzione del Signore degli Anelli realizzata da Ottavio Fatica, possono perfino esondare dall’ambito del fandom in senso stretto e raggiungere il mainstream. Quando capita, ne viene influenzato il dibattito letterario e si richiama l’attenzione su un’opera narrativa. Tutti fattori che pesano su un’operazione editoriale e che la arricchiscono e la fanno durare nel tempo.
L’intelletto generale del fandom non va certo inteso come qualcosa di omogeneo, dato che non lo è affatto. Il fandom è spesso variegato e spaccato al suo interno in faide infinite, che però comunque producono discorso, o quanto meno lo stimolano rendendo necessario uno sforzo dialettico per superarle. E anche se non si tratta sempre di un discorso costruttivo, anche se a volte diventa rumore di fondo, o bisticcio da social, nondimeno nelle sue forme più fertili può arrivare a sopperire alle carenze della critica letteraria. Il caso Tolkien nel nostro paese lo dimostra. Come dimostra che questo intelletto generale, perfino quando è parassitato dai grossi gruppi editoriali, ha primamente a cuore l’opera narrativa, la accompagna con premura nelle sue vicissitudini e ne garantisce la sopravvivenza decennio dopo decennio.
Correzioni & migliorie
Nella nuova traduzione dello Hobbit c’eran alcuni errori, magari non tali da compromettere il senso del racconto, ma comunque era necessario emendarli. Non solo il già citato falso amico “braces”, reso scioccamente con “braci” anziché con “bretelle”, ma ad esempio una delle due occorrenze di “vessel”: nel primo caso tradotto giustamente con “vasi”, mentre nella seconda, complice il contesto dell’attacco di Smaug a Città del Lago, con “imbarcazioni”. Il contesto, appunto, rendeva impercettibile l’errore, ma tale era. Gli esempi di migliorie sono senz’altro più interessanti.
Nella prima stampa “butler” era stato tradotto con “maggiordomo”, in riferimento al custode delle cantine del re degli Elfi dei Boschi. Come già nella traduzione storica del 1973 e nella revisione del 2013, la scelta era stata dettata dal fatto che nelle magioni aristocratiche il maggiordomo prima ancora di essere il capo della servitù era il custode della chiave delle cantine. Nessun altro domestico poteva accedere alle cantine del signore. Il problema è che la parola italiana “maggiordomo”, per quanto semanticamente equivalente a “butler”, ha un’etimologia completamente diversa, derivando dalla locuzione latina medievale «(servus) maior domus», cioè il maggiore dei servitori domestici. L’etimologia del termine inglese, invece, è precisamente quella a cui faceva riferimento Tolkien utilizzando “butler”, che viene dal francese “bouteillier” e indicava il servo che portava la coppa al signore. In buona sostanza il ruolo di questo domestico si è evoluto da responsabile delle cantine mescitore di vino a capo della servitù, ma Tolkien faceva evidentemente riferimento alla fase originaria, dato che il butler del palazzo degli Elfi non sembra svolgere alcuna mansione dirigenziale, oltre a quella di gestire le cantine, appunto. Dunque piuttosto che “maggiordomo” meglio tradurre “cantiniere” (nell’italiano rinascimentale è esistito anche un corrispondente “bottigliere”, ma il suo utilizzo avrebbe senz’altro portato ad accuse di fatichismo…). Dunque nella ristampa compare “cantiniere”.
Un’altra miglioria che può essere emblematica è la resa dell’espressione “bee-autiful sleep” che compare nella parlata dei ragni di Boscuro in riferimento a uno dei nani imbozzolati. Nella prima stampa era stato reso semplicemente con “bel sonnellino”, senza dar conto del gioco di parole sarcastico del ragno. Nella ristampa – e nell’audiolibro – lo si troverà invece reso con “merapiglioso sonnellino” (ma poteva starci anche “una bell’apennica”).
Qua e là sono state ritoccate tante altre piccole cose come queste. Ovviamente una traduzione potrebbe essere implementata all’infinito, potenzialmente si potrebbe non smettere mai di migliorarla, ma per quanto riguarda questa, si può dire che la sinergia di traduttore e revisori spontanei ha prodotto il meglio che questi potessero fare nelle condizioni date.
Nel prossimo futuro ci sarà magari occasione di fare anche meglio, quando Bompiani deciderà di realizzare una sua edizione dello Hobbit, ovvero non la riproposizione di un’edizione britannica, come in questo caso, ma qualcosa concepito dentro la casa editrice. Allora si potranno tradurre anche le mappe ed eventualmente traslitterare in runico l’italiano (anche se non sarebbe una scelta necessariamente felice). Intanto però godiamoci Lo Hobbit tradotto, riveduto e corretto.
Dopo la chiusura dei mesi invernali, l’8 marzo riapre la Tana del Drago, la sede dell’AIST e del Centro Studi Tolkieniani in quel di Dozza, il borgo sulle colline emiliano-romagnole famoso per la sua rocca sforzesca.
Per un’associazione di volontari come la nostra non è un impegno da poco quello di garantire le aperture nei weekend nei mesi in cui il clima consente le gite e le visite al borgo. Tuttavia la Tana del Drago rimane un punto di riferimento importante per i soci e le socie dell’AIST, un luogo che è stato costruito e arricchito, anno dopo anno, grazie all’impegno collettivo e alle donazioni. Oltre al bookshop, dov’è possibile acquistare i libri di Tolkien e svariati saggi e volumi illustrati sulla sua opera, la Tana offre una sala per le videoproiezioni, con una selezione di documentari a tema; una stanza dei giochi, con una notevole collezione di giochi da tavolo ambientati nella Terra di Mezzo; al piano superiore c’è la galleria d’arte con le esposizioni di opere ispirate al mondo di Tolkien realizzate da alcuni dei più noti artisti e artiste fantasy del nostro Paese. Il nuovo progetto in cantiere è anche la biblioteca di Tolkien, una stanza nella quale in futuro saranno disponibili per la consultazione moltissimi volumi di saggistica raccolti dall’Associazione nel corso degli anni.
L’esposizione di diorami
Per la riapertura è stata allestita la mostra d’arte “La Casa dietro, innanzi il mondo” dell’artista pesarese Matteo Marcucci, in arte Cave di Foam, già ospite speciale della scorsa edizione di Fantastika, la biennale d’arte fantasy che si svolge a Dozza negli anni pari. Si tratta di undici quadretti in bassorilievo splendidamente realizzati, che colgono alcuni luoghi e personaggi della Terra di Mezzo, accompagnati da alcune miniature 3D, già presenti alla Tana. Marcucci è specializzato in diorami, alcuni dei quali realizzati con perizia da miniaturista. Piuttosto note sono le sue casette hobbit realizzate nei gusci di noce e le sue miniature ispirate a vari mondi fantastici, dalle saghe fantasy o fantascientifiche a quelle dei supereroi. La sua è un’arte particolare, che potrebbe essere collocata all’incrocio tra immaginario fantastico e artigianato, con uno sguardo ai giochi di miniature da tavolo.
Tutte le persone appassionate dell’opera del Professore di Oxford possono considerarsi invitate a visitare la Tana del Drago e le sue esposizioni, un luogo unico in Italia, che non ha omologhi nemmeno all’estero, tanto che Tom Shippey, massimo esperto di Tolkien, dopo averla visitata nel 2022, ha commentato che «tutte le società tolkieniane dovrebbero creare qualcosa del genere».
La Tana del Drago – Centro Studi Tolkieniani
ha sede in via XX Settembre 2, 40060 Dozza (Bologna). Il Centro Studi riaprirà l’8 e 9 marzo 2025 con due giornate di apertura dalle 10:00 alle 18:00 per poi proseguire nelle settimane successive con le aperture domenicali da marzo a giugno e da settembre a novembre.
È possibile svolgere visite guidate alla galleria, alla mostra e al bookshop, oltre a visione di filmati tolkieniani in sala proiezioni. Per le prenotazioni è sufficiente scrivere una email all’indirizzo tanadeldrago@jrrtolkien.it, specificando il giorno della visita, nei giorni di weekend, e il numero di partecipanti. L’ingresso è aofferta libera e la parola d’accesso è nota… «Mellon!».
Per certi versi si potrebbe dire che La Caduta di Númenor, il volume curato da Brian Sibley in uscita il 15 gennaio nella traduzione italiana di Stefano Giorgianni (Bompiani € 35), rappresenta un’opera di “servizio”, senza sminuirla affatto. Anzi, il volume ha un grande merito proprio per come è stato concepito dal suo curatore. Sibley ha raccolto i vari scritti tolkieniani che riguardano la Seconda Era, prendendoli dalle Appendici del Signore degli Anelli, dal Silmarillion, dai Racconti Incompiuti e dalla Storia della Terra di Mezzo, e ha disposto gli eventi in sequenza cronologica. In questo modo, pur riproponendo testi già pubblicati, si facilita la comprensione di un pezzo di storia così cruciale per tutto ciò che verrà dopo nell’evoluzione del mondo tolkieniano. Si tratta in buona parte dell’arco temporale che viene molto liberamente riassunto nella serie Amazon Gli Anelli del Potere, e che qui invece può essere letto nella sua versione originale (con gli impietosi confronti del caso…).
Così essa cadde
La narrazione segue principalmente la storia della grande isola di Númenor, donata agli uomini dal dio creatore Ilúvatar come ricompensa per il loro aiuto contro “l’angelo caduto” Morgoth nella Prima Era. L’epopea di Númenor e dei Dúnedain, nella quale Tolkien rilegge a modo suo il mito classico della civiltà di Atlantide, simboleggerà l’apice e la caduta dell’umanità, un tema centrale nell’opera tolkieniana. Il testo affronta infatti l’ascesa della civiltà númenóreana, con la sua straordinaria perizia marittima, la sua grandezza culturale, la colonizzazione commerciale della Terra di Mezzo, la lotta contro Sauron, e la sicumera dei re di Númenor nel trarlo prigioniero sull’isola e poi perdonarlo, lasciandolo così in condizioni di irretire la società degli Uomini e di fomentarne i più illusori sogni di gloria. La tentazione è sempre la stessa: sconfiggere la morte, diventare dèi, accedere alle Terre Beate. Sogni che porteranno i re di Númenor a tentare di raggiungere Valinor, venendo distrutti e subendo l’ira divina. Il volume culmina nel cataclisma che fa sprofondare Númenor nel mare, evento ispirato appunto al mito di Atlantide e all’immagine della Grande Onda, che Tolkien stesso riconosceva come una delle sue ossessioni ricorrenti. È la famosa Akallabêth, parola che nella lingua di Númenor, l’adûnaico, significa “Così essa cadde” o più semplicemente “la Caduta”, e che invece in Quenya è Atalantë.
La distruzione di Númenor è raccontata in un tono epico e struggente, che riecheggia la caduta di grandi civiltà del mondo primario. I superstiti, salvatisi per essere rimasti fedeli ai Valar, fuggiranno nella Terra di Mezzo, dove fonderanno i regni Númenóreani in esilio di Arnor e Gondor.
Chiunque leggendo Il Signore degli Anelli o vedendo i film che ne sono stati tratti sia rimasto affascinato da personaggi come Aragorn, Boromir e Faramir, può qui scoprire la storia della loro stirpe, il lungo prequel del romanzo più famoso di Tolkien. Questo vale anche e forse soprattutto per Sauron, che, almeno stando al titolo scelto da Tolkien per il suo opus magnum, potrebbe essere considerato paradossalmente il protagonista “in absentia” di quel romanzo. Nella storia di Númenor compare e agisce in prima persona con tutta la scaltrezza di cui è capace, da degno erede del suo maestro Morgoth, fino alla forgiatura degli Anelli del Potere e soprattutto dell’Unico.
Il lavoro di Sibley
Brian Sibley (Londra, 1949) è scrittore, giornalista e autore di drammi e documentari radiofonici. Tra i suoi adattamenti c’è la versione del 1981 del Signore degli Anelli per la radio britannica. È anche noto per essere l’autore di molti libri sul “making of” dei film, tra cui quelli della serie di Harry Potter e delle trilogie del Signore degli Anelli e dello Hobbit.
Con La Caduta di Númenor fa un ottimo lavoro nel ricostruire un’unica narrazione coerente dai frammenti sparsi in diverse opere, sempre rispettando il testo originale di Tolkien. La struttura è accompagnata da una prefazione che introduce il contesto e spiega le fonti utilizzate. Soprattutto questa curatela è arricchita dalle straordinarie tavole a matita di Alan Lee, che evocano con maestria l’atmosfera prima solenne e poi crepuscolare di Númenor.
Brian Sibley
Nel paratesto, Sibley si premura anche di ringraziare a più riprese Christopher Tolkien, che definisce «diligente curatore, dotato di uno stile di scrittura agile ed elegante, personale, che si integra alla perfezione con quello del padre». Forse si può iniziare a sperare che Christopher venga finalmente inquadrato dalla critica letteraria come un co-autore di fatto del Legendarium tolkieniano, accettando che sotto lo stesso cognome e la stessa sigla vi siano non uno ma due autori con ruoli diversi.
Tuttavia la constatazione più importante rimane quella da cui si è partiti. Operazioni di assemblaggio e ricomposizione come questa possono aiutare coloro che non conoscono dettagliatamente l’opera di Tolkien a fruirla in maniera più semplice, senza doversi orientare nel mare magnum degli scritti pubblicati a varie riprese, in vari volumi e versioni. In questo senso, Sibley compie un ottimo servizio al lettore e, conseguentemente, anche all’autore.
Gli appassionati tolkieniani potrebbero andare a vedere il film di Matt Brown Freud, l’ultima analisi – basato sull’incontro immaginario tra un Sigmund Freud morente e il professor C.S. Lewis, nel 1939 – anche solo per vedere riassunto il rapporto tra Tolkien e l’amico e collega Lewis nei flash-back della vita di uno dei due protagonisti. Soprattutto potrebbero gustarsi la celebre passeggiata sull’Addison’s Walk, nel parco del Magdalen College di Oxford, durante la quale Tolkien, con i suoi ragionamenti sul mito pagano e sul mito incarnato cristiano, diede avvio al processo di conversione di Lewis; ma anche lo scampolo di riunione degli Inklings all’Eagle and Child, con la bonaria insofferenza per le lunghe letture di Tolkien. Certo risulta piuttosto implausibile che Freud avesse sentito nominare gli Inklings e in particolare conoscesse Tolkien al punto da considerarlo “brillante”, come lo definisce in un dialogo iniziale, visto che a quella data era noto soltanto come autore dello Hobbit e non pare che il padre della psicanalisi si interessasse di narrativa fantastica, né tanto meno di filologia germanica. Tuttavia è l’unica strizzata d’occhio che il film si concede quando viene tirato in ballo il padre degli Hobbit.
Per il resto si tratta né più e né meno che del confronto tra un ateo razionalista e un credente cristiano sul problema di Dio, una delle più classiche diatribe dell’età contemporanea (o “post-cristiana”, avrebbe detto lo stesso Lewis). Da una parte c’è forse il più grande avversario teorico della fede, dall’altra un cristiano convertito, ovvero un personaggio che è approdato alla fede attraverso un percorso intellettuale, oltre che spirituale, partendo appunto da quella pulce introdottagli nell’orecchio da Tolkien.
Lo spunto interessante è che la richiesta del confronto, nella finzione narrativa, parte proprio da Freud, ormai condannato a morte dal cancro. Benché non sia in alcun modo disposto a muoversi di una virgola dalle proprie posizioni oltranziste, Freud è interessato ad affrontare un’ultima discussione, e proprio con Lewis, che diventa anche un’ultima seduta psicanalitica, nella quale i due si analizzano a vicenda, scambiandosi spesso i ruoli. Delle vite dei due personaggi vengono rievocati i punti nodali, dall’infanzia all’età adulta, i rapporti con le figure genitoriali, con i loro surrogati, con la figlia Anna, nel caso di Freud, afflitta dal “complesso di Elettra”, e con la fantomatica quanto realissima “Signora Moore”, per C.S. Lewis, con la quale convisse per decenni, sostituendosi al figlio di lei, suo commilitone morto in guerra. [Piccolo inciso autoreferenziale: il film avalla la tesi di alcuni biografi di Lewis, che chi scrive riprese nel romanzo Stella del Mattino (2008) dove Lewis compariva come personaggio insieme a Tolkien, secondo la quale il rapporto con la signora Moore, una volta che Lewis divenne uomo adulto, si trasformò in qualcosa di molto più simile a una convivenza more uxorio].
Mentre la discussione si dipana, in toni cordiali ma netti e senza esclusione di colpi, e i lati oscuri delle due personalità emergono insieme alle rispettive umane debolezze, dalla radio giungono le notizie dell’imminente scoppio della seconda guerra mondiale. Frammenti di discorsi di Hitler contro il giudeo-bolscevismo che minaccia l’Europa; quelli del primo ministro britannico Chamberlain (mentre quello celeberrimo di re Giorgio VI ci viene risparmiato, perché la radio viene accesa quando è appena finito: e questa forse è una seconda mezza strizzata d’occhio allo spettatore, visto che rimanda a un bellissimo e pluripremiato film di una dozzina d’anni fa); e i rapporti sui bombardamenti della Polonia da parte della Luftwaffe, già attesa anche sui cieli di Londra. Il tutto intervallato da musica sinfonica, snobbata come un tedioso riempitivo, ma in realtà importante nel finale, almeno quanto l’ultimo gesto di Freud (no spoiler).
Freud è morente proprio mentre il mondo inaugura un nuovo grande massacro, dopo quello da cui Lewis è uscito con una ferita, un trauma da esplosione, e una promessa all’amico morto che gli condizionerà la vita. Ma perché, nell’ora più buia dell’Europa, cercare il confronto proprio con quest’uomo più giovane e tanto diverso? Perché pretendere di confutare Dio per morire ancora più convinto delle proprie convinzioni? Per tutto il film è questa la domanda che aleggia sulla vicenda e che gli stessi personaggi si fanno. Ovviamente la risposta non è fornita dai dialoghi bensì dalla trama stessa, o proprio dalla situazione che racconta. Un momento estremo, per la storia mondiale e per un uomo che ha fatto la storia del pensiero occidentale, il quale sa benissimo che dentro ogni essere umano c’è un potenziale tiranno, un piccolo Hitler irrazionale da tenere a bada e da sconfiggere. Dall’altra parte c’è uno che, senza rinnegare la ragione né la necessità di difendersi, ma rigettando il meccanicismo del “Dottor Sesso”, ribadisce il paradossale messaggio evangelico, l’amore per il prossimo, nonostante e anzi forse soprattutto perché il prossimo è tutt’altro che amabile e la storia sembra sprofondare di nuovo in un baratro senza fine. I due non hanno niente in comune, se non l’essere umani, due esseri umani che si trovano nel frangente estremo: la fine della vita individuale per uno di loro, che di lì a tre settimane praticherà su di sé l’eutanasia per porre fine alla propria sofferenza, e la guerra che mette a repentaglio la vita di tutti. Quei due non saranno mai d’accordo sull’esistenza di Dio, eppure potranno continuare a parlarne fino all’ultimo istante, perfino sotto le bombe, perfino a un passo dalla morte, perché farlo è continuare a porsi la questione del senso dell’esistenza e della storia, la questione cui l’umanità non può sottrarsi, quella con la Q maiuscola. E perché domandarsi significa precisamente essere umani.
Cosa c’entra tutto questo con Tolkien? Be’, c’entra, se è vero quello che ricordava Verlyn Flieger nel suo imprescindibile Schegge di luce (Marietti, 2024), rispondendo alla domanda sul perché si dovrebbe prendere sul serio l’opera di Tolkien:
“Perché affronta in modo diretto, anche se in maniera assai creativa, i due argomenti spinosi, imbarazzanti e persino tabù che il nostro tempo tende a evitare quanto più possibile: la morte e il rapporto tra l’umanità e Dio”.
Si potrebbe aggiungere che li affronta senza avere la pretesa di risolverli in maniera dottrinale, ovvero tenendosi alla larga da qualsivoglia intento catechistico o apologetico. Ecco, il film di Brown in effetti racconta un immaginario quanto realistico confronto sugli stessi temi universali. Ed è per questo che allo spettatore tolkieniano è parso che il Professore aleggiasse sul film ben oltre il breve cameo che gli viene dedicato.
Una nota finale sulle prove attoriali. Oltre al solito gigantesco Anthony Hopkins nei panni di Sigmund Freud, nella parte di C.S. Lewis c’è un bravissimo Matthew Goode, un attore troppo spesso sottoutilizzato nella cinematografia britannica o relegato a ruoli secondari. Ma bravissima è anche la giovane attrice tedesca Liv Lisa Fries nel ruolo di Anna Freud, che è di fatto la terza protagonista del film. Film che, per altro, è l’adattamento cinematografico dell’omonimo dramma di Mark St. Germain, a sua volta tratto dal saggio The Question of God di Armand Nicholi.
Insomma, Freud, l’ultima analisi è qualcosa di più dell’ennesimo film biografico su Freud, e anche per questo facilmente sparirà in fretta dalle poche sale. E però sempre meglio in sala, se si può. Alla peggio, presto o tardi approderà sulle piattaforme.
Dal vocabolario Treccani: “ècfraṡi (o ècfraṡis; anche èkphrasis) s. f. [adattamento, o traslitterazione, del greco ἔκϕρασις, derivato da ἐκϕράζω «esporre, descrivere; descrivere con eleganza»]. – Nome che i retori greci davano alla descrizione di un oggetto, di una persona, o all’esposizione circostanziata di un avvenimento, e più in particolare alla descrizione di luoghi e di opere d’arte fatta con stile virtuosisticamente elaborato in modo da gareggiare in forza espressiva con la cosa stessa descritta”.
La formula che è venuta in mente a Ivan Cavini, uno dei più noti e capaci illustratori tolkieniani italiani, socio fondatore dell’AIST, è proprio l’ecfrasi. È il progetto “Parole Dipinte”, che ha visto la luce durante l’ultima edizione di FantastikA, la biennale di illustrazione fantasy, che si è svolta a Dozza (BO) lo scorso settembre, e di cui Cavini è ideatore e direttore artistico fin dal 2014.
Tre soggetti, tre personaggi dell’universo tolkieniano, e altrettanti commenti a opera di due studiose e uno studioso dell’AIST, che hanno fatto dialogare le opere di Cavini con le pagine di Tolkien. Si tratta di una formula modulare, perché può essere riproposta per tanti dei ritratti di Cavini, e chissà che questo non accada nel prossimo futuro, visto il successo riscontrato durante FantastikA.
Galadriel, Melkor e Gollum
Galadriel appare come una sacerdotessa circondata da gigli bianchi, nel gesto di invitare chi osserva a guardare nello specchio. Impossibile non ritrovarci un riferimento ai personaggi femminili di Alfons Mucha (1860-1939), dell’Art Nouveau e dei pittori Preraffaeliti di metà Ottocento. Elisabetta Marchi indaga le fonti di ispirazione del ritratto, ma soprattutto coglie i tanti dettagli che compongono un’illustrazione complessa per i suoi rimandi interni ed esterni rispetto al testo letterario:
«Ivan Cavini ha realizzato un’opera in cui l’arte si riflette nell’Arte. Lo specchio di Galadriel, la sua magia elfica, intreccia le immaginimostrandoci cose che furono, cose che sono e cose che potrebbero essere. Per questo lo specchio è il vero protagonista. Perché in questo modo l’artista riesce a dare spazio ai cambiamenti nell’arco narrativo e nelle intenzioni di Tolkien sulla questione Galadriel, intreccia mondo primario e secondario inserendo rimandi all’universo jacksoniano, a Mucha, e come vedremo a Waterhouse, rimodellando ogni flusso d’informazione attraverso il suo personale punto di vista».
Melkor si presenta in una triplice veste: in primissimo piano, con il viso coperto da una maschera di ferro; poi a viso scoperto, un viso anziano e serafico; ma anche in campo lungo, nel momento di accettare la sfida a duello del re elfico Fingolfin. Barbara Sanguineti legge nei tratti del viso, nello sguardo del personaggio, nel grande cranio oblungo, sopra il quale spicca il Silmaril, la natura ingannatrice del maggiore nemico dei Valar, un «essere ancor più mostruoso perché dotato di volto saggio e giusto»:
«L’aspetto più inquietante ed evidente di questa testa, ovvero l’elongazione del cranio, potrebbe in chiave positiva alludere a una conoscenza, volontà e consapevolezza superiori. In negativo ciò si ribalta in prevaricazione e controllo mentale: un potere che può superare l’inespressività della maschera e arrivare alle menti dei suoi sudditi, o schiavi. Ivan Cavini afferma di essersi ispirato alla mitra, copricapo tipico del clero, ricordando che nella Terra di Mezzo è esistito un unico culto ‘formale’, che si afferma a Númenor nella Seconda Era, in cui Sauron proponeva al popolo Morgoth come dio, con tutto il conseguente apparato di riti e sacrifici umani. Se la guardiamo con i nostri occhi da mondo primario questa caratteristica, cioè la sproporzione della fronte, può anche suggerire la superbia e orgoglio smisurati che caratterizzano ilpersonaggio. Nel nostro mondo la superbia è stigmatizzata come gravissimo peccato capitale».
Il terzo ritratto è quello di Gollum, in una veste particolarmente umana, da uomo anziano, appassito, e dallo sguardo azzurro e profondo, con il viso tra le mani. Wu Ming 4 lo racconta così, esaltando gli aspetti del personaggio letterario colti dall’artista:
«Se il Gollum iconico e ormai celeberrimo di Peter Jackson e di Andy Serkis era smilzo, glabro, viscido, con la pelle diafana… questo Gollum è quasi l’opposto. La vecchiaia la porta incisa in un corpo che non è animalesco, ma normale, almeno per quanto ne vediamo. Questo è un volto molto più umano rispetto a come siamo abituati a vedere Gollum. L’artista qui ci sta dicendo qualcosa di diverso rispetto a quello che ci è stato detto finora dalle trasposizioni audiovisive. O meglio, sta esaltando un aspetto del personaggio letterario. Se Jackson calcava la mano sulla mostruosità deforme di Gollum, qui noi lo vediamo in tutta la sua umanità… vediamo il vecchio Sméagol. Che ci guarda, o meglio, ci sbircia».
Tre letture che si sono tenute dal vivo, durante il festival, e che vengono qui riproposte in altrettanti pdf scaricabili per chi fosse interessato e non avesse potuto partecipare a FantastikA.
Esce oggi in libreria Lo Hobbit, in un’edizione illustrata con gli stessi disegni di Tolkien. Dal punto di vista estetico forse la più bella edizione dello Hobbit mai realizzata. E con una nuova traduzione.
Non avrei mai pensato che potesse essere la mia. Nonostante negli ultimi anni io abbia discusso a iosa della traduzione del Signore degli Anelli realizzata da Ottavio Fatica e di quella storica di Vittoria Alliata, e nonostante studi i testi tolkieniani da quasi vent’anni, non mi sarei aspettato che mi venisse fatta un’offerta del genere. Quando è capitato, la prima cosa che ho pensato è che non avevo alcun titolo per farlo. Troppa poca esperienza di traduzione, troppo senso di inadeguatezza, troppa ansia da prestazione verso un autore amato.
Era un pensiero più che legittimo.
Se ho accettato di ritradurre Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien è essenzialmente per due motivi, egualmente importanti. Il primo è proprio che, dopo anni trascorsi a parlare di traduzioni altrui, a polemizzare sul lavoro degli altri, pareva coerente mettermi alla prova in prima persona, mettermi in gioco, accettando di farmi massacrare dal fandom. Perché la cosa scontata – come sa chiunque bazzichi gli ambienti tolkieniani – era che la traduzione sarebbe stata fatta a brandelli, com’era stato per i casi precedenti, a prescindere dalla levatura del traduttore o traduttrice: Alliata con le sue lacune e libertà stilistiche; Jeronimidis Conte con le sue italianizzazioni; Saba Sardi con i suoi abbagli; Fatica con i suoi… “fatichismi”; Giorgianni/Rialti con l’onere di adeguarsi alla nomenclatura di Fatica (lo stesso che avrei avuto io). Indegnamente sarei stato «sesto tra cotanto senno» e avrei ricevuto la mia dose di critiche, sfottò, insulti, nitpicking, ecc. Ma a darmi lo slancio per gettare il cuore oltre l’ostacolo è intervenuta la solida e inesorabile materialità delle cose.
Il secondo motivo per cui ho accettato di ritradurre Lo Hobbit infatti è che mi è stata offerta quasi la cifra esatta che mi serviva per pagare una spesa sanitaria importante. Soldi che in quel momento non avevo. E quando vivi di sola scrittura perché hai avuto la malaugurata idea di non imparare a fare nient’altro nella vita né di fare uno straccio di concorso pubblico (quante sacrosante cazzate si pensano a vent’anni, soprattutto se sono gli anni Novanta), ti può capitare di dover mettere da parte le remore per necessità.
Questo è quanto. Se qualcuno si aspettava del romanticismo può anche smettere di leggere qui. Tanto più che la prima cosa che intendo fare è autodenunciarmi per avere preso braci per bretelle.
Braci per bretelle
Sembra un modo di dire, come “prendere fischi per fiaschi”. Eccolo lì l’errore stupido, da pollo, proprio all’inizio. È il “falso amico” che ti forma un’immagine mentale, quella della brace della pipa tappata con il pollice, perché Bilbo sta facendo gli anelli di fumo. Anche se lo sai che “braci” si dice embers e non braces, e quella scena, di Bilbo che si infila il pollice dietro le bretelle l’hai letta una dozzina di volte. Quella posa l’hai vista nel film di Jackson e rappresentata da fior di artisti, è una delle più famose di Bilbo: pipa in bocca e pollice dietro la bretella. Eppure ti si forma quell’immagine nella mente, quella di lui che tappa la pipa con il dito per ravvivare la brace e sbuffare fuori il fumo e…. invece di tradurre la frase dall’inglese, una frase inequivocabile – «[Bilbo] stuck one thumb behind his braces» -, ti resta bloccato in testa il falso amico e sulla pagina ci finisce quello. Il risultato è che hai modificato un’azione di Bilbo, hai cambiato il testo di Tolkien. Certo alla prima ristampa verrà corretto, ma intanto c’è il tuo zampone, un errore-marchio di fabbrica “Wu Ming 4” che ricorderà a tutti – e al sottoscritto in primis – che le remore non sono mai abbastanza quando si ha poca esperienza. Hai voglia a circondarti dello Hobbit annotato, The History of The Hobbit, vocabolari etimologici, vocabolari cartacei, vocabolari online, traduttori automatici, consulenti madrelingua… niente ti mette al riparo dalla svista che è sempre dietro l’angolo. E per certi versi è giusto che ti sia toccata in sorte, così la hybris manifestata in più di un’occasione nelle discussioni di questi anni potrà essere disintegrata. Redde rationem. Ci sta. Ho premesso che essere fatto a pezzi era nel conto.
Buongiorno
Un altro gancio da tirare per smontare la traduzione si trova sempre lì, nel celeberrimo dialogo tra Bilbo e Gandalf che ha al centro il gioco di parole su “good morning”. Fin da ragazzino non mi era mai tornato il senso di quel dialogo… Se in inglese “good” può stare sia per “buono” sia per “bene”, in italiano appunto abbiamo due parole che esprimono un significato diverso, e a mio avviso andavano usate entrambe per rendere il senso del gioco di parole di Gandalf:
“What do you mean?” he said. “Do you wish me a good morning, or mean that it is a good morning whether I want it or not; or that you feel good this morning; or that it is a morning to be good on?”
Ecco la traduzione che lessi allora, quella di Jeronimidis Conte:
“Che vuol dire?” disse “Mi auguri un buon giorno o vuoi dire che è un buon giorno che mi piaccia o no; o che ti senti buono, quest’oggi; o che è un giorno in cui si deve essere buoni?”
Perché questo risvolto etico? Cosa c’entra l’essere buoni col fatto che è una splendida giornata? Gandalf/Tolkien qui sta giocando con le accezioni della parola “good”, ma riferite allo stato d’animo e alle condizioni ambientali, non al comportamento. È chiaro che per mantenere invariata la parola “buono”, la precedente traduttrice aveva scelto di sacrificare il senso del gioco di parole. Io ho fatto il contrario, ho scelto di far prevalere il senso. Partendo dal fatto che to feel good significa anche sentirsi bene, e to be good on significa passarsela bene, trascorrere bene il tempo, ho tradotto così:
“Cosa intendi?” disse. “Mi stai augurando una buona giornata, o intendi dire che è una bella giornata che io lo voglia o no; o che oggi ti senti bene; o che è una giornata da trascorrere bene?”
Nello stesso passaggio si potrà avvertire anche un’altra differenza rispetto al passato. È quando Bilbo, per due volte, usa come intercalare di cortesia l’espressione «I beg your pardon».
Jeronimidis Conte aveva tradotto: «Vi chiedo scusa». Di conseguenza Gandalf rispondeva con «Sei scusato». [In questo caso non considero la revisione del 2013 di Ciuferri, perché traduceva le due occorrenze con due espressioni diverse, cioè «Ti chiedo scusa» e «Perdonami», privando così di senso la frase di Gandalf sul fatto che Bilbo gli abbia chiesto perdono due volte: «Yes, you have! Twice now. My pardon. I give it you». Non sono l’unico a fare errori marchiani, anche se il male comune non è mai mezzo gaudio]. Io ho reso le due occorrenze rispettivamente con «Ti chiedo perdono» e «perdonami». Questo perché credo che sia proprio il concetto di perdono qui a essere in ballo. La formula di cortesia di Bilbo rivela l’inconscio del personaggio e non è un caso che Gandalf la prenda alla lettera, come se Bilbo avesse davvero bisogno di essere perdonato. Perdonato per essersi dimenticato del sé bambino, del senso di meraviglia davanti al fantastico, della propria madre… Non del tutto, per fortuna, qualcosa riaffiora e su questo, dice Gandalf, si può lavorare: «that is not without hope» e quindi «I will give you what you asked for», «ti darò quello che hai chiesto», cioè il perdono, più che le sue scuse – ego te absolvo… – insieme a una bella spinta fuori dalla porta di casa.
Ho sovrainterpretato? Il gancio è lì, basta tirare. Tanto più che non vado da nessuna parte. E soprattutto, ho appena cominciato a nutrire i troll.
Troll
Nell’originale inglese i Troll parlano cockney. Usano parole storpiate come «tomorrer», «yer», «blimey», «lumme» ed espressioni monche come «’Ere, ’oo are you?» o «what the ‘ell» o ancora antepongono una “a-” davanti ai gerundi, come «a-thinking», «a-arguing», «a-talking».
La traduzione storica non aveva riportato questo aspetto se non blandamente. Io ho calcato la mano, attingendo al mestiere. Nell’Armata dei Sonnambuli, un romanzo di una decina d’anni fa, noi Wu Ming ci inventammo la parlata della plebe parigina di fine Settecento. Un’intera linea narrativa era tenuta dalla voce collettiva del proletariato urbano, con una specie di grammelot che ricorreva a vari dialettismi e storpiature dell’italiano. Non ho proceduto allo stesso modo, ma mi sono ispirato a quello.
Ad esempio:
A William andò tutto di traverso. “Chiudi ‘sta bocca!” disse appena ci riuscì. “Mica puoi pretendere che la gente si ferma qui solo per farsi pappare da te e da Bert. Tra lui e te vi sarete pappati un villaggio e mezzo da quando siam venuti giù dalle montagne. Chevvuoi di più? E c’è stato un tempo che m’avresti detto ‘grazie Bill’ per un bel pezzo di montone ciccio e tenero come ‘sto qua.”
O ancora:
“Mi cecassero, Bert, guarda cos’ho acchiappato!” disse William. “Che cos’è?” dissero gli altri avvicinandosi. “Mi venga un colpo se lo so! Chessei?” “Bilbo Baggins, uno scass… hobbit,” disse il povero Bilbo, tutto tremante, mentre si chiedeva come fare il verso del gufo prima che quelli lo strozzassero. “Uno scasshobbit?” dissero loro un po’ allarmati. I troll sono lenti di comprendonio, e molto diffidenti di qualunque cosa risulti nuova. “‘D’ogni modo checcentra uno scasshobbit con la mia tasca?” disse William.
Per la cronaca, a un certo punto avevo ipotizzato di rendere il dialetto cockney con il romanesco, slang della capitale per slang della capitale. Ma l’effetto era quello dei film con Tomas Milian e Bombolo. Non propriamente tolkieniano.
Allitterazioni, arcaismi
A Tolkien l’allitterazione piaceva un bel po’. È vero che è una cosa tipica dell’inglese, in poesia e anche in prosa, e che di per sé in italiano potrebbe anche essere lasciata cadere, ma appunto, conoscendo il nostro professore, sciogliere la lingua gli piaceva, quindi valeva la pena provare.
Un esempio possono essere i due participi riferiti a Bilbo che si affretta ad andare ad aprire la porta di casa: «bewildered and bewuthered». Nella traduzione storica era reso con «sconcertato e sconvolto», che io ho reso con «tutto in subbuglio e imbufalito» esaltando l’aspetto della rabbia di Bilbo che si precipita alla porta («Bilbo rushed along the passage, very angry»), e cercando di mantenere al centro dell’assonanza il suono della lettera “w”. Quel bewuthered è un neoarcaismo che mi ha fatto pensare a Wuthering Heights, cioè Cime Tempestose (1847).
Non sempre sono riuscito a rendere gli arcaismi, soprattutto quelli creativi. Quel «Confusticate and bebothered these dwarves!», sempre nel primo capitolo, non ho saputo renderlo meglio di chi mi aveva preceduto. Jeronimidis Conte aveva un bellissimo «Vadano in malora tutti quanti, questi nani!». Io ho optato per un più secco e colloquiale «Maledizione a questi nani!» che mi suonava adatto allo sbotto di esasperazione di Bilbo (nelle altre due occorrenze di «confusticate» ho usato espressioni analoghe).
Altre volte invece ho usato la fantasia per rendere l’arcaismo. Nella canzone provocatoria di Bilbo per i ragni, Tolkien gli mette in bocca la parola «attercop» (letteralmente “testa di veleno”), che è un nome per i ragni in Middle English, a sua volta derivato dall’Old English, e presente in una poesia medievale che Tolkien conosceva bene, The Owl and the Nightingale, sopravvissuto in un dialetto del nord dell’Inghilterra e nello scozzese ettercap.
In questo caso ho ragionato alla maniera di Fatica. Ho cercato una parola arcaica italiana e ci ho aggiunto un suffisso dispregiativo, per rafforzare il senso dell’insulto. Ecco com’è nato «aracnaccio», con un suono cacofonico che mi sembrava ancora più adatto all’uopo. Non ero obbligato a farlo, certo, potevo seguire chi mi aveva preceduto, col suo «Sputaveleno». Ma in italiano “sputaveleno” significa “malalingua”, lo si dice di una persona che parla male degli altri. Non c’entra con il senso della canzone di Bilbo. Inoltre volevo provare a rendere l’arcaismo, appunto. E così ho azzardato.
Un arcaismo invece l’ho mancato. Ma rimedierò nella prima ristampa. Ho tradotto «butler» con «maggiordomo», come già aveva fatto Jeronidimis Conte, sapendo che il maggiordomo nelle magioni inglesi derivava il suo nome proprio dall’essere il detentore della chiave della cantina. Di per sé non è scorretto. Ma butler viene dal francese medievale bouteillier. E l’amico Riccardo Ricobello mi ha fatto notare che proprio in quel senso Tolkien probabilmente lo intendeva. Non già quindi come capo della servitù di palazzo con la chiave delle cantine, ma come domestico «bottigliere», ossia addetto allo smistamento di bottiglie e botti. Lo conferma il Treccani: «Bottigliere, s. m. – Cantiniere, chi ha in custodia le bottiglie di una cantina (in case signorili, principesche, ecc.». Nell’Italia medievale questa figura era chiamata così. In Francia e Inghilterra il nome è rimasto attaccato al capo della servitù. Credo quindi che l’elfo ubriacone raccontato da Tolkien sarebbe meglio descritto come bottigliere o cantiniere che come maggiordomo. Per la ristampa.
Una delle prime cose che si imparano traducendo – oltre al fatto che l’errore stupido è sempre dietro l’angolo – è che la coperta è quasi sempre corta. Non si può avere tutto. Per esempio il fatto che con la parola worm < wyrm l’inglese medievale indicasse sia il verme sia il drago genera un gioco di parole quando Bilbo ricorda il detto di suo padre: «Every worm has his weak spot». Lì worm era reso da Jeronimidis Conte con «drago», già saggiamente rivisto da Ciuferri in «verme». Suona altamente improbabile che Bungo Baggins pronunciasse detti a proposito di draghi. Mentre è facile che «Ogni verme ha il suo punto debole» possa riferirsi al deterrente naturale per un parassita che infesta le piante o gli animali d’allevamento. Ma Bilbo può usare lo stesso detto riferendosi a Smaug. In italiano ovviamente rendere questo doppio senso è impossibile, tocca fare una scelta, e sicuramente andava confermata quella di Ciuferri.
Eufonia e onomatopea
Ci sono parole di cui Tolkien si innamora. Alcune ricorrono spesso nel romanzo, altre in poche occasioni, ma significative. Certi suoni li inflaziona, altri li centellina come il vino buono. Anche qui due esempi.
Un aggettivo che gli piace molto è «grim», con questo suono breve, secco e arrotato. Rende l’idea, ma un’idea vasta. Infatti sembra quasi che lui si diverta a usarlo in tutte le sue varie accezioni. E la sfida per il traduttore è coglierle, invece di appiattirle. Ci sono più di venti occorrenze di «grim» e «grimly» nel romanzo. Spesso è riferito ai Nani, che hanno un’aria «truce» o «torva». Quando però si riferisce alla voce di Bard, prima, e alla sua espressione, poi – l’ordine è questo perché è un personaggio che entra in scena come voce fuori campo («a grim-voiced man») e solo in seguito acquista una presenza fisica («grim-faced» / «grim of face») – sfuma piuttosto nel significato di «severo». In questo caso ho sacrificato l’eufonia e l’omofonia alle sfumature di senso.
Un altro esempio è «ominous», un latinismo che ha il suo corrispettivo in italiano e che io, come ha fatto anche Fatica, ho mantenuto in «ominoso». Nello Hobbit compare soltanto due volte: una riferito al gestaccio che gli abitanti di Città del Lago rivolgono in direzione della Montagna dove dorme il drago; e una riferita a un corvo che volteggia da quelle parti, il tipico uccello del malaugurio, che in inglese è detto “bird of ill omen”. Ma quanto è più eufonico «ominoso»… rispetto a «del malaugurio» o «malaugurante». Per me non c’è confronto, e ho tradotto di conseguenza.
A volte sembra quasi che Tolkien voglia trasmetterci i suoni di ciò che accade, e allora, ad esempio, nella scena in cui i barili vengono fatti rotolare nel fiume sotterraneo attraverso la botola delle cantine degli Elfi, c’è una sequenza di verbi come questa: «thudding», «smacking», «jostling», «knocking», «bobbing»… che purtroppo non trovano tutti un effetto altrettanto “sonoro” in italiano. Io non sono riuscito a fare di meglio di «cadendo», «schiantandosi», «andando a sbattere», «cozzando», «sobbalzando». Tant’è, la lingua ha i suoi limiti.
Titoli
I titoli dei capitoli dello Hobbit sono frasi fatte o doppi sensi ironici.
Per esempio, nel titolo del primo capitolo, An Unexpected Party, noi tutti traduciamo “party” con “festa”, e non si può fare altrimenti, perché il collegamento è con il titolo del primo capitolo del Signore degli Anelli, A Long Expected Party. Ma se nel successivo romanzo la festa è proprio quella di compleanno di Bilbo, nello Hobbit si tratta piuttosto di una “riunione” inattesa. Gandalf convoca a casa di Bilbo una riunione segreta, non organizza proprio nessuna festa. Anche qui, come nel caso di “worm”, il doppio senso non riesce a passare nell’italiano, se non attribuendo appunto alla parola “festa” un senso ironico.
Il titolo del capitolo quarto: Over Hill and Under Hill fa certamente riferimento al fatto che la compagnia di Thorin sale su per i Monti Brumosi e poi viene trascinata sotto gli stessi, ma ho provato a cercare una resa che tenesse sia il senso materiale sia quello figurato di stare in alto e poi in basso. Così ho optato per Sali e scendi la china, visto che “to be over hill” è anche un modo di dire (avere scollinato nel senso di avere passato la mezza età, non essere più giovani).
Per il titolo del capitolo nono, Barrels Out of Bond, Jeronimidis Conte molto liberamente aveva storpiato un modo di dire italiano: La botte piena e la guardia ubriaca. Ciuferri aveva optato invece per Barili in libertà. Ma “out of bond” si dice di merci che sono uscite da un magazzino doganale e hanno passato il confine, ecco perché ho optato per Barili sdoganati, perché mi sembrava cogliere il doppio senso rispetto a quello che succede.
Lo stesso dicasi per il titolo del capitolo dodicesimo: Inside Information era stato precedentemente tradotto con Notizie dall’interno, che non è certo scorretto, ma tralascia l’effetto ironico. Una “inside information” può essere l’Informativa interna, nel senso della circolare per il personale di un’azienda o di un ufficio. Ecco spiegato il titolo che ho scelto.
Canzoni e indovinelli
Nelle canzoni e nelle filastrocche si può tirare finché si vuole, di ganci ce n’è in quantità. Per fortuna ho avuto la revisione di Beatrice Masini, perché certo da solo non ci sarei riuscito a tradurle come si deve. La linea guida che mi sono dato è quella di non modificare per quanto possibile lo schema delle rime, ma di cercare di rispettarlo anche in italiano. Forse questa è la differenza più evidente rispetto a chi mi ha preceduto nell’impresa. E anche il fatto che io ho cercato di non aggiungere parole, di non allungare i versi per renderli più tondi.
Questo è capitato anche negli indovinelli di Bilbo e Gollum. Un esempio è l’indovinello del vento, che ha una rima ABAB:
Voiceless it cries, Wingless flutters, Toothless bites, Mouthless mutters.
Jeronimidis Conte aveva usato quattro rime uguali, facendo rimare tra loro i verbi (la traduzione è riproposta identica da Ciuferri):
Non ha voce e grida fa, non ha ali e a volo va, non ha denti e morsi dà, non ha bocca e versi fa.
Io invece ho provato un’altra strada:
Grida senza voce, Senz’ali il volo spicca, Senza denti è mordace, Borbotta senza bocca.
Un buon esempio della stessa diversità d’approccio è la canzone del ritorno del Re sotto la Montagna:
The King beneath the mountains, The King of carven stone, The lord of silver fountains Shall come into his own!
His crown shall be upholden, His harp shall be restrung, His halls shall echo golden To songs of yore re-sung.
The woods shall wave on mountains And grass beneath the sun; His wealth shall flow in fountains And the rivers golden run.
The streams shall run in gladness, The lakes shall shine and burn, All sorrow fail and sadness At the Mountain-king’s return!
Jeronimidis Conte (e Ciuferri si discostava di pochissimo, cambiando appena qualche parola) traduceva così:
Il re degli antri che stan sotto il monte e delle rocce aride scavate, che fu signore delle argentee fonti, queste cose riavrà, già a lui strappate!
Sul capo il suo diadema poserà, dell’arpa ancora sentirà il bel canto ed in sale dorate echeggerà di melodie passate il dolce incanto.
Sui monti le foreste ondeggeranno, ondeggeranno al sole l’erbe lucenti, le ricchezze a cascate scenderanno ed i fiumi saranno ori fulgenti.
I ruscelli felici scorreranno, i laghi brilleran nella campagna e dolori e tristezza svaniranno al ritorno del Re della Montagna!
Rispetto all’originale io ho provato a rimanere più asciutto, come si capisce già dalla brevità dei versi:
Il Re sotto l’ombra dei monti, Il Re della roccia scolpita, Signore di argentee fonti Ritorni alla sua terra avita!
Lui innalzerà la corona, E l’arpa sarà riaccordata, Già l’aula preziosa risuona Di quella canzone obliata.
I boschi a danzare sui monti, Nel sole biondissimo i prati; Ricchezza a fiottar dalle fonti E fiumi a fluire dorati.
Ruscelli che scorrono gai, Rilucerà d’or l’acqua stagna, Spariscono dolore e guai Se torna il Re della Montagna!
Bene. Offro ancora un ultimo gancio prima di lasciare il lavoro di demolizione ad altri.
Mappa e Nota
Non ho traslitterato in rune naniche la traduzione italiana di certe frasi che compaiono nella mappa di Thrór e nella nota introduttiva, come era stato fatto nelle edizioni precedenti. Ho lasciato la traslitterazione dell’inglese, sia nel titolo dello pseudobiblion (The Hobbit or there and Back Again) sia nella mappa. Rispetto a cinquant’anni fa oggi in Italia un po’ di inglese lo conoscono in tanti di più, e cambiare quelle scritte avrebbe significato amputare anche la nota introduttiva, che si riferisce appunto a quelle e ad altre caratteristiche del testo. In passato questa era stata la soluzione. In quella nota lo pseudotraduttore/narratore fornisce la chiave di lettura delle rune e fa riferimento a suoni della lingua inglese. Trattandosi di un oggetto che compare nel testo, e la cui riproduzione è addirittura allegata al libro, ho ritenuto che non andasse toccato, che dovesse rimanere come lo ha concepito l’autore (e di conseguenza ho dovuto fare lo stesso per la mappa delle Terre Selvagge, anch’essa allegata al volume). Tanto più che forse per la prima volta è stato riprodotto l’effetto trasparenza per leggere le rune naniche, quello che Tolkien avrebbe voluto fin dalla prima edizione del romanzo. Lasciare la mappa di Thrór in originale è stata una scelta tanto più coerente con un volume come questo, letteralmente infarcito di immagini realizzate da Tolkien medesimo, ma vuole anche essere un invito a superare la diatriba sulla resa in italiano della toponomastica e nomenclatura tolkieniana, che ha sottratto tantissimo tempo alla critica propriamente letteraria. Meglio non dimenticarsi che quei nomi hanno una versione originale, ed è quella davvero importante. E ovviamente anche questa scelta, quella di lasciare le mappe con le loro scritte originali, trattandole come fossero “oggetti di scena”, potrà essere criticata e smontata.
Buon lavoro a chi ci si metterà d’impegno.
Wu Ming 4
P.S. Chi volesse ascoltare Riccardo Ricobello, introdotto dal sottoscritto, leggere brani della traduzione, può venirci a sentire a Lucca Comics and Games, venerdì 1 novembre, dalle ore ore 12.30 alle 13.30 in Sala Ingellis.
Qui invece la lunga intervista che mi ha fatto Paolo Nardi per il suo canale YouTube:
Mentre sulla piattaforma di Amazon Prime vengono trasmesse le puntate della seconda stagione della serie Gli Anelli del Potere, con relativo strascico di polemiche tra i fan, sabato 21 settembre, a Fantastika, verrà presentato il quarto numero dei «Quaderni di Arda», la rivista realizzata dall’AIST e pubblicata per i tipi delle Edizioni Eterea (p. 403, €25), intitolato Oltre il testo: Tolkien al cinema, alla radio, in tv. Il tema monografico non potrebbe essere più attuale, perché riguarda proprio gli adattamenti dell’opera di Tolkien con i mezzi audiovisivi di massa. Gli articoli ripercorrono l’intera storia dei rapporti tra il corpus tolkieniano, la radio, il cinema e la tv. Da questo punto di vista si tratta di un libro vero e proprio, ancorché composito e scritto a tante mani, che fornisce al fandom tolkieniano del nostro Paese una panoramica unica, senz’altro la più completa esistente in italiano.
Storia delle trasposizioni
Per facilitare la ricostruzione della vicenda, che è davvero complessa e originale, è stato scelto un ordine rigorosamente cronologico, e che potrebbe essere suddiviso in tre fasi, o, se si volesse ironizzare, tre ere. 1) 1954-1970: la prima era nella storia delle trasposizioni comincia già negli anni Cinquanta, con il radiodramma della BBC tratto dal Signore degli Anelli – per il quale Tolkien offrì la propria consulenza – e con la sceneggiatura per il cinema di Ackerman e Zimmermann, quest’ultima invece bocciata dall’autore. Si sa che il professore non era molto elastico nell’approvare modifiche alle sue storie, e benché si fosse autoimposto la regola «o arte o contanti», in fin dei conti non c’era cifra abbastanza grande da farlo soprassedere sulla banalizzazione e volgarizzazione dei contenuti. I due articoli di Fiammetta Comelli ed Eleonora Amato raccontano proprio la storia di questi primi controversi rapporti di Tolkien con i mass media. Seguono gli sviluppi degli anni Sessanta, dopo che Tolkien nel mondo anglosassone era diventato un autore di culto per i “figli dei fiori” e la controcultura giovanile. Paolo Nardi ricostruisce con dovizia di particolari il celeberrimo progetto dei Beatles di realizzare un film, da loro stessi interpretato, tratto dal Signore degli Anelli; mentre Paolo Pizzimento racconta e analizza la sceneggiatura di John Boorman per la United Artits, che probabilmente ha rappresentato il tentativo più strutturato, ancorché abortito per motivi di budget, di portare al cinema Il Signore degli Anelli ante Peter Jackson. Come scrive l’autore dell’articolo «un progetto inevitabilmente ambizioso come Il Signore degli Anelli» era «tanto fuori tempo massimo rispetto all’epoca dei kolossal quanto troppo in anticipo sul successivo ritorno in grande stile dei blockbuster». 2) 1971-1991: la seconda era delle trasposizioni è quella del decennio successivo. Flavio Perinelli esamina i film d’animazione di Rankin e Bass, tratti dallo Hobbit (1977) e dal Ritorno del Re (1980), intervallati dall’incompiuto Signore degli Anelli di Ralph Bakshi (1978), del quale scrive invece Roberto Arduini. Si tratta di due lunghe e approfondite disamine, senza precedenti in italiano, che dimostrano quanto sia stato travagliato e costellato di insuccessi o mezzi fallimenti il cammino verso una valida trasposizione cinematografica delle opere di Tolkien.
Non bisogna poi dimenticare che negli anni Ottanta, forse un po’ inaspettatamente, un paese nel quale le trasposizioni tolkieniane hanno avuto spazio è stata l’Unione Sovietica. Ne parla dettagliatamente l’articolo di Alena Afanasyeva, che ne ricostruisce la storia a partire dal primo adattamento teatrale dello Hobbit nel 1980, passando per lo spettacolo televisivo tratto dallo stesso romanzo nel 1985, fino all’adattamento della Compagnia dell’Anello per la tv nel 1991.
3) 2000-2024: Se per certi versi gli anni Novanta rappresentano un po’ un “buco” in questa vicenda, va detto che è sul finire di quel decennio che ha iniziato a prendere vita il progetto di Peter Jackson, il quale avrebbe visto la luce all’alba del nuovo millennio, dando origine alla terza era delle trasposizioni. Alla prima trilogia di Jackson sono dedicati due articoli di taglio molto diverso. Quello del critico cinematografico Alberto Crespi è un’analisi magistrale dell’efficacia delle licenze poetiche ne Le Due Torri, che molti improvvisati esperti di trasposizioni audiovisive dovrebbero leggere per rendersi conto di cosa significa lavorare su un testo letterario per adattarlo a un medium radicalmente diverso. Il secondo articolo è invece firmato da Alessio Vissani e consiste in una valutazione complessiva dell’impatto della prima trilogia di Jackson sull’immaginario collettivo, sul mondo dell’intrattenimento e sugli studi tolkieniani, con il conseguente rilancio di Tolkien come fenomeno culturale.
Segue poi la dotta analisi di Nicola Nannerini sul rapporto tra le due trilogie di Jackson, ovvero sul paradosso rappresentato dalla trilogia dello Hobbit come prequel narrativo, ma che è sequel cinematografico, quindi per forza di cose opera derivata più da Jackson che da Tolkien, con tutto ciò che ne consegue. Due articoli ha meritato anche la prima stagione della serie tv Gli Anelli del Potere. Il primo, scritto da Roberto Paura, è un’acuta individuazione del grosso problema riscontrato nella serie Amazon, vale a dire l’attualizzazione delle tematiche del racconto, al netto dell’ambientazione più o meno filologica, più o meno coerente con le fonti. Il punto, sostiene Paura, non è contare cosa coincida col testo letterario, ma dover registrare che la diversità, l’alterità della Terra di Mezzo rispetto al nostro mondo primario è stata totalmente appiattita: «Ciò che c’è di più inquietante […] non è tanto la scelta del cast multietnico […], quanto il fatto che tutti i personaggi agiscono come se vivessero al tempo presente, che è esattamente quello su cui tanto Tolkien quanto Lewis mettevano in guardia: il rischio di non riuscire nemmeno a immaginare che possano esserci altri schemi di pensiero, altre concezioni del mondo, ingabbiando la realtà in un eterno presente». L’articolo di Wu Ming 4 invece mette in luce come certe polemiche sulla mancata aderenza filologica abbiano rischiato di sviare da quello che è un evidente fallimento narrativo, cioè di scrittura, e come questo abbia fatto il gioco – almeno in una fase iniziale – dell’onnipotente Jeff Bezos.
Ultimo ma non ultimo, l’articolo di Corrado Mallia illustra la grande quantità di fan film proliferati dopo il successo dei film di Jackson. Si tratta di una disamina davvero di ampio respiro, che documenta quanto il fandom abbia saputo fare proprie le trasposizioni, praticandole dal basso.
Gli altri saggi
La sezione OFF, dedicata ad articoli “tangenti” il tema centrale, conta tre contributi eterogenei. Il primo è quello di Tania Todeschi, che prende in esame il biopic cinematografico di Dome Karukoski del 2019. Il secondo è un lungo e articolato contributo di Marika Michelazzi sul ruolo e la trasformazione delle figure folklorico-fantastiche e di quelle femminili nel passaggio dalla letteratura ad altri mezzi narrativi. Il terzo è il pezzo di Dawn Walls-Thumma dal taglio originale, nel quale viene analizzato, dati alla mano, l’impatto delle trasposizioni cinematografiche sul fandom tolkieniano e sulla conseguente produzione di fanfiction.
Nella sezione EXTRA si trovano invece due belle recensioni. Quella del Lai di Aotrou e Itroun, firmata da Francesca Titolo, recentemente pubblicato in traduzione italiana, e che segna una nuova tappa della riscoperta dell’opera di Tolkien estranea alla Terra di Mezzo; e quella del Sir Gawain e il Cavaliere Verde, scritta dallo stesso traduttore, Luca Manini, ormai uno dei massimi esperti di poesia tolkieniana nel nostro Paese.
In conclusione ci piace ricordare che su diciotto contributi, ben quattordici provengono da soci e socie dell’AIST e hanno dato forma a un volume prezioso e polifonico, che rappresenta una primizia nel panorama degli studi tolkieniani italiani. Ne parleremo a Fantastika, in quel di Dozza (BO), presso la sede dell’AIST, sabato 21 settembre alle ore 15:00.
Roberto Arduini, Ieri, oggi e domani: la lunga storia delle trasposizioni tolkieniane
FOCUS
Fiammetta Comelli, Tolkien radiofonico: la BBC e la trasposizione delSignore degli Anelli
Eleonora Amato, “Incantesimi, luci azzurre e qualche magia irrilevante”:la sceneggiatura di Zimmerman e Ackerman per Il Signore degli Anelli (1957-1958)
Paolo Nardi, Il Tolkien psichedelico: il progetto di adattamento dei Beatles
Paolo Pizzimento, «Frodo Lives!». Sull’irrealizzato Signore degli Anelli di John Boorman
Fabio Perinelli, The Hobbit eThe Return of the Kingdella Rankin/Bass
Roberto Arduini, L’incompiuto di Ralph Bakshi
Alena Afanasyeva, Adattamenti sovietici di Tolkien per il teatro e la televisione
Alberto Crespi, Mescolare un mazzo di carte: Le Due Torrie il buon uso della licenza poetica
Alessio Vissani, Tolkien anno zero: la trilogia spartiacque di Peter Jackson
Nicola Nannerini, Un adattamento inaspettato: Lo Hobbit di Peter Jackson e i processi di rielaborazione transmediale nella postmodernità
Roberto Paura, La vera creazione richiede sacrificio: sulla prima stagione degli Anelli del Potere
Wu Ming 4, Il dito nella piaga del fantasy: Gli Anelli del Poteretra fallimento narrativo e successo polemico
Corrado Mallia, I fan film tolkieniani: se la passione diventa tributo
OFF
Tania Todeschi, Il conforto delle cose antiche: bellezza e assenzain Tolkien, il film
Marika Michelazzi, Le creature fantastiche, il pubblico e il ruolo delle personagge
Dawn Walls-Thumma, Diventare un Libroverso: i film di Jackson come punto d’inizio per il fandom dei libri di Tolkien
EXTRA
Francesca Titolo, Il Tolkien ri-scrittore oscuro: Il Lai di Aotrou e Itroun
Luca Manini, Tradurre l’ordine: Sir Gawain, Perla, Sir Orfeo
L’edizione 2024 di FantastiKa, biennale d’arte e illustrazione fantastica, che si terrà a Dozza (BO) il 21 e 22 settembre prossimi, sarà tra le più ricche di sempre. A dieci anni dalla prima edizione, e in corrispondenza del compleanno di Bilbo e di Frodo, gli appassionati di arte e cultura fantasy potranno godere di una due giorni straordinaria, con incontri, mostre, conferenze, premiazioni, workshop, cosplaying, concerti, dimostrazioni di arceria, sessioni di gioco di ruolo, che riempiono il denso programma del festival. Tutto questo ovviamente potendo usufruire degli stand gastronomici e dei mercatini artigianali lungo le vie del borgo medievale.
Nel ricchissimo programma che invitiamo a consultare per intero, si possono segnalare alcuni eventi particolari. Per quanto riguarda l’arte, l’illustrazione e la calligrafia, segnaliamo in particolare il workshop di illustrazione fantastica tenuto dalla socia AIST Marika Michelazzi, e quello di scrittura elfica con il nostro socio Roberto Fontana, nonché la grande mostra che centra il tema della manifestazione di quest’anno, Draconis Forma, Mythomorphosis: Draghi ed elfi, come li vedo io. Sul medesimo tema si terrà una sessione di incontri introdotti dalla socia Lisa Emiliani: I draghi di Nausicaa e Dragon Trainer, con Francesco Filippi; I draghi nelle leggende del Nord Italia, con Francesca D’Amato; e I draghi di Dune, con il traduttore e presidente AIST Stefano Giorgianni.
Ancora, dall’incontro tra arte e letteratura, il format “Parole dipinte”, con tre incontri tenuti da altrettanti soci durante i due giorni del festival, intorno a tre ritratti di personaggi tolkieniani realizzati da Ivan Cavini, il mentore di Fantastika. Si comincia con Lo specchio di Galadriel, raccontato da Elisabetta Marchi; per proseguire con L’orrore di Morgoth, raccontato da Barbara Sanguineti; e concludere in Dialogo con Gollum, tenuto da Wu Ming 4. Va segnalata anche la conferenza che terrà Roberta Tosi dal titolo: Quando i mostri erano nemici degli dei: il bestiario tra Aldrovandi e Tolkien; al quale si aggiungono le presentazioni del libro del socio Paolo Nardi, Tempo, trascendenza e destino nell’opera di Tolkien (Fede e Cultura, 2024) e la presentazione del nuovo numero della rivista “I Quaderni di Arda”, fresco di stampa.
E ancora le sessioni di giochi di ruolo tenute da Black Isle Society, insieme ai dibattiti sul ruolo sociale dei giochi di ruolo (Simone Errani e Andrea Cavini) e il racconto di come un gioco di ruolo possa diventare una saga di romanzi (Ivan Sgandurra e Lorenzo Pierangeli). Non mancherà, vista la vicinanza temporale e il tema caldo, un incontro sulla serie Amazon Gli Anelli del Potere, a cura di Paolo Nardi, ma anche la presentazione del Sir Gawain e il Cavaliere Verde, con il traduttore Luca Manini: Gawain, un cavaliere tra caos e cosmos. Infine vanno annunciate due anteprime nazionali. La prima è quella del documentario 1998-2023 Area Performance Silver Anniversary: the storycon, con Emanuele Vietina, e gli artisti di LuccaComics&Games. La seconda è quella della nuova traduzione dello Hobbit, con Wu Ming 4 e ancora Emanuele Vietina, e con le letture di alcuni passi del romanzo realizzate dal doppiatore Riccardo Ricobello.
Ma ci sarà anche la consegna dei draghi d’oro da parte degli organizzatori del festival e dei rappresentanti dell’amministrazione comunale, come già era stato nella precedente edizione, il premio per le personalità che hanno dato un particolare contributo alla diffusione del fantasy in Italia. Quest’anno tocca alla scrittrice, giornalista e radioconduttrice Loredana Lipperini, al traduttore e saggista Edoardo Rialti, all’illustratore e pittore Vittorio Bustaffa, al character desgner e animatore Sandro Cleuzo. Ciascuno dei premiati terrà anche nei due giorni una propria conferenza. E ancora ci saranno ulteriori workshop, firmacopie di artisti, incontri con illustratori e illustratrici, un concerto dell’Arthuan Rebis Duo, visite guidate alle mostre personali e collettive, tavole rotonde, sfilate di cosplayer. Gli incontri si terranno tra la Rocca, il Teatro comunale e la Tana del Drago (museo e sede AIST), ma tante attività si svolgeranno anche per le strade e i vicoli del borgo.
Se ne vedranno e sentiranno delle belle. Qui il programma completo.
Va in stampa in questi giorni il quarto numero dei «Quaderni di Arda – Rivista di studi tolkieniani e mondi fantastici», che quest’anno ha il suo focus nelle trasposizioni dell’opera di Tolkien sui mass media (Eterea Edizioni, €25, p. 403).
Quando sul finire degli anni Dieci, l’AIST immaginò di dare vita a una rivista di studi sull’opera di J.R.R. Tolkien e le sue molte influenze e diramazioni, non fu certo per competere con le più illustri riviste internazionali del settore, bensì per avere un punto di raccolta del lavoro svolto e dare a questo una periodicità. Quanto più è ampia l’accezione della parola “studi” che compare nel nome dell’associazione tanto più concreto deve essere l’approccio e possibilmente sedimentare qualcosa per chi verrà dopo di noi. Nell’epoca dei volatilissimi social media, dove è emigrata una gran parte del discorso d’occasione su Tolkien, fondare e portare avanti una rivista nel corso degli anni è un segnale in controtendenza e decisamente vintage. Scripta manent. E ogni nuovo numero non scaccia quello precedente, ma si somma allo stesso, dando conto, anno dopo anno, del nostro percorso di studi e andando a comporre una serie di prestigio. Questo è il modo di lavorare che predilige l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, e vale più di qualunque biglietto da visita o tirata autocelebrativa. In particolare nelle pagine della rivista si cerca di far dialogare tra loro studiosi e studiose di professione con chi invece Tolkien lo studia soprattutto per diletto, facendo collidere creativamente – anziché confliggere – cultura accademica e fandom.
I numeri precedenti
Il primo numero dei «Quaderni di Arda», uscito per il biennio 2019-2020, portava il sottotitolo “Tolkien e la letteratura della Quarta Era”, e trattava appunto della relazione tra Tolkien e i suoi contemporanei ed epigoni, raccogliendo gli atti di un convegno su questo tema tenutosi all’Università di Trento:
«L’auspicio è che studi come quelli qui raccolti aiutino il dibattito italiano ad andare oltre il frusto santino di un Tolkien estraneo al proprio tempo, sorta di eremita intento a rimpiangere un Medioevo ideale, in esclusivo dialogo con le fonti letterarie a lui care. Ormai da oltre un decennio il dibattito internazionale su questo autore è giunto a riconoscere che il dialogo di Tolkien era anche con la letteratura, l’arte e la cultura contemporanea, benché questo non rispondesse all’esigenza di essere engagé o fare parte di un qualche Parnaso letterario. Più si approfondisce l’indagine più si scoprono similitudini, minimi gradi di separazione, attriti e al tempo stesso reciproco interesse tra Tolkien e i modernisti, all’insegna di un comune riuso del mito, anche se con modalità molto diverse, o perfino contrapposte. Tolkien va molto oltre Tolkien, sia perché lui stesso era assai meno avulso dal mondo di quanto si potrebbe pensare, sia perché la sua produzione narrativa ha influenzato e contaminato la letteratura della seconda metà del Novecento e continua a essere un punto di riferimento per gli autori di genere e non solo, oltre a essere oggetto di sempre ulteriori riletture». (QdA#1, editoriale)
Anche il secondo numero, pubblicato nel 2021, conteneva gli atti di un convegno nella medesima università e il tema era “Tolkien e la traduzione”, dove si coglieva l’occasione della nuova traduzione del Signore degli Anelli per fare una ricerca e una riflessione ad ampio raggio sia sul modo in cui Tolkien è stato tradotto nelle varie lingue, sia sulla sua attività di traduttore e poeta “New Old English”:
«Dopo avere letto le sezioni Focus e Off, la conclusione può apparire evidente: ogni traduzione è una rilettura, il traduttore è il co-autore invisibile che in questi ultimi anni la critica sta valorizzando, con una propria voce ben riconoscibile. Avere una traduzione da parte di un altro autore è risvegliare il potenziale infinito che è in ogni testo classico. Del resto è proprio quello che scriveva Tolkien: “Lo sforzo per tradurre o per migliorare una traduzione ha valore non tanto per la versione che produce, quanto piuttosto per la comprensione dell’originale che risveglia”. È questa la chiave di tutto. Ed è questa l’intenzione dei Quaderni di Arda: guardare da una nuova prospettiva le opere di Tolkien, con attenzione maggiore verso il suo stile così particolare, che ha nel Signore degli Anelli il suo vertice massimo; inaugurare una nuova fase della critica letteraria sull’opera dello scrittore inglese, come accaduto nei Paesi anglosassoni per altri importanti autori». (QdA#2, editoriale)
Il terzo numero della rivista, uscito per il biennio 2022-2023 si intitolava “Beowulf a Oxford: lo stile di Tolkien” ed è forse il più vasto – se non l’unico – studio monografico italiano sull’argomento, che tentava appunto di approcciare l’opera di Tolkien dal punto di vista stilistico:
«Tanto più raro è questo approccio di lettura tra gli studiosi italiani, che si sono per lo più disinteressati allo stile di Tolkien. Basti dire che qui da noi per aprire un dibattito – per altro parecchio inquinato da pregiudizi e idiosincrasie – sullo stile del Signore degli Anelli è stato necessario che venisse pubblicata una seconda traduzione del romanzo, dopo che per mezzo secolo lo stile dell’unica traduzione italiana era stato scambiato per quello di Tolkien. Proprio il caso del Signore degli Anelli fornisce la cartina al tornasole di questa disattenzione. Per decenni siamo rimasti ancorati a quanto l’autore ha scritto sopra il proprio lavoro, dimenticando che anche quella dell’autore è una percezione soggettiva e parziale. In buona sostanza a forza di ripeterci che la subcreazione tolkieniana muove dalle lingue immaginarie di sua invenzione, abbiamo finito per non considerare a sufficienza in quale lingua ha scritto tutte le sue storie, cioè l’inglese moderno». (QdA#3, editoriale)
Ognuno di questi numeri contiene inoltre recensioni e articoli “fuori tema” per i quali è prevista l’apposita sezione Extra, che può essere più o meno nutrita, a seconda dei casi.
Il quarto volume
“Oltre il testo: Tolkien al cinema, alla radio, in tv”. Questo il titolo del quarto numero dei «Quaderni di Arda» che verrà presentato a Fantastika, biennale d’arte fantastica, a Dozza (BO), il prossimo 21 settembre. Si tratta forse del numero più partecipato di tutti, con ben quindici articoli di soci e socie AIST, e altri quattro di contributori esterni. Il tema è particolarmente pop, perché appunto viene ripercorsa tutta la storia dei vari tentativi, realizzati o abortiti, di trasporre l’opera di Tolkien sui mass media e attraverso la settima arte. Ne esce una cavalcata sontuosa attraverso la seconda metà del Novecento e i primi vent’anni del XXI secolo, e attraverso lo sviluppo delle tecnologie e i vari approcci artistici, dove spesso anche Tolkien dice la sua in prima persona. Pubblichiamo qui in anteprima l’indice e la copertina completa, per dare un’idea di cosa ci sarà all’interno:
QdA#4: Indice
EDITORIALE
Roberto Arduini, Ieri, oggi e domani: la lunga storia delle trasposizioni tolkieniane
FOCUS
Fiammetta Comelli, Tolkien radiofonico: la BBC e la trasposizione delSignore degli Anelli
Eleonora Amato, “Incantesimi, luci azzurre e qualche magia irrilevante”:la sceneggiatura di Zimmerman e Ackerman per Il Signore degli Anelli (1957-1958)
Paolo Nardi, Il Tolkien psichedelico: il progetto di adattamento dei Beatles
Paolo Pizzimento, «Frodo Lives!». Sull’irrealizzato Signore degli Anelli di John Boorman
Fabio Perinelli, The Hobbit eThe Return of the Kingdella Rankin/Bass
Roberto Arduini, L’incompiuto di Ralph Bakshi
Alena Afanasyeva, Adattamenti sovietici di Tolkien per il teatro e la televisione
Alberto Crespi, Mescolare un mazzo di carte: Le Due Torrie il buon uso della licenza poetica
Alessio Vissani, Tolkien anno zero: la trilogia spartiacque di Peter Jackson
Nicola Nannerini, Un adattamento inaspettato: Lo Hobbit di Peter Jackson e i processi di rielaborazione transmediale nella postmodernità
Roberto Paura, La vera creazione richiede sacrificio: sulla prima stagione degli Anelli del Potere
Wu Ming 4, Il dito nella piaga del fantasy: Gli Anelli del Poteretra fallimento narrativo e successo polemico
Corrado Mallia, I fan film tolkieniani: se la passione diventa tributo
OFF
Tania Todeschi, Il conforto delle cose antiche: bellezza e assenzain Tolkien, il film
Marika Michelazzi, Le creature fantastiche, il pubblico e il ruolo delle personagge
Dawn Walls-Thumma, Diventare un Libroverso: i film di Jackson come punto d’inizio per il fandom dei libri di Tolkien
EXTRA
Francesca Titolo, Il Tolkien ri-scrittore oscuro: Il Lai di Aotrou e Itroun
Luca Manini, Tradurre l’ordine: Sir Gawain, Perla, Sir Orfeo
Il 21 e 22 settembre, nel borgo di Dozza, in provincia di Bologna, si terrà la settima edizione della Biennale d’Illustrazione FantastikA, l’evento che vede alla direzione culturale l’AIST fin dalla sua nascita e organizzato dalla Fondazione Dozza Città d’arte con il patrocinio del comune di Dozza. Il titolo di questa edizione è “LA FORMA DEL DRAGO” e si preannuncia davvero ricca di ospiti ed eventi. FantastikA quest’anno festeggia insieme all’AIST il suo decimo anniversario con il risveglio del gigantesco drago Fyrstan e tante attività artistiche, ludiche e culturali, sia nel castello sia in punti strategici del borgo dipinto di Dozza, tra cui il Centro Studi dell’AIST. Alto oltre 3 metri, con un’apertura alare di 10, il grande drago Fyrstan che dal 2016 riposa nella torre del castello di Dozza, finalmente sta per svegliarsi dopo un lungo sonno di due anni.
Una festa attesa a lungo
FantastikA è una manifestazione che per la sua ambientazione – un borgo medievale posto sulle verdi colline dell’imolese, dominato dalla rocca sforzesca – e per le sue atmosfere richiama le tematiche del fantasy, ma soprattutto, fin dal 2014 ha saputo attivare la partecipazione volontaria di professionisti dell’illustrazione e un programma artistico/culturale sul fantastico in genere, che ha pochi eguali in Italia.
Il titolo di quest’anno è “La forma del Drago” scelta dalla direzione artistica per porre attenzione alle origini delle creature fantastiche e ai loro significati nell’araldica, nel folklore, nel cinema e nella letteratura, con importanti approfondimenti su Tolkien, ma soprattutto sul bestiario di Ulisse Aldrovandi, il naturalista bolognese che nella seconda metà del Cinquecento interpretò la storia naturale con l’aiuto di uno staff di illustratori, traducendo per la prima volta in immagini un groviglio di creature reali, draghi e superstizioni fantasiose. Le creature fantastiche, il loro aspetto e la loro mitopoiesi, saranno il filo conduttore di questa settima edizione.
Anche quest’anno sarà possibile passeggiare tra banchetti di libri, di artigianato e oggettistica a tema; inoltre, attraverso l’acquisto di un braccialetto con validità giornaliera, si potranno ammirare le mostre e le performance artistiche nella bellissima rocca sforzesca, ma anche gli incontri nel Teatro comunale e alle conferenze più specialistiche del Centro Studi “La tana del drago”, l’unico museo italiano dedicato a Tolkien.
A questo proposito si preannuncia un’anteprima nazionale, vale a dire letture tratte dalla nuova traduzione dello Hobbitrealizzata dal socio AIST Federico Guglielmi, in arte Wu Ming 4. L’edizione che uscirà ufficialmente solo il 30 ottobre, arricchita dalle illustrazioni dello stesso Tolkien, sarà oggetto di letture di estratti domenica 22 settembre. Un’altra anteprima sarà la proiezione del documentario “1998-2023 Area Performance Silver Anniversary – The story” di Luca Bitonte per Lucca Comics&Games, sabato 21 settembre. Poi ci saranno le mostre nella rocca, che saranno almeno cinque e comprenderanno opere di artisti del panorama nazionale e internazionale. In particolare la mostra dedicata al bestiario di Aldrovandi sarà una novità assoluta che abbinerà la criptozoologia all’illustrazione: una sorta di wunderkammer tutta da esplorare, composta di illustrazioni inedite e reperti di strane creature. Ci sarà anche una mostra dedicata agli artisti di Area Performance (Lucca C&G), una mostra di abiti a tema, una mostra fotografica e una di bassorilievi a tema tolkieniano.
Una delle novità di quest’anno riguarda gli incontri di approfondimento artistico/culturale ideati appositamente per questa edizione. Quello più innovativo è forse “Parole dipinte”, un format che vuole valorizzare l’arte tolkieniana: studiosi e studiose dell’AIST metteranno in scena un dialogo teatrale, con un personaggio della Terra di Mezzo rappresentato da un dipinto posto su un cavalletto. Sul palco si alterneranno Gollum, Galadriel e… Melkor!
Ma ci saranno anche dibattiti sui giochi di ruolo, sulla serie Tv Gli Anelli del Potere, la presentazione dei “Quaderni di Arda” #4, e poi workshop di scrittura elfica, e ancora musica e spettacoli pirotecnici.
Il Drago d’oro
Nelle scorse edizioni sono stati premiati: Angelo Montanini, Emanuele Vietina, Paolo Barbieri, Tom Shippey, Dany Orizio, Alberto Dal Lago, Edvige Faini, Stefano Bessoni, Carlo Zoli, Andrea Romoli e Michele Rubini. Mistero ancora sui nomi che riceveranno l’ambizioso riconoscimento che ogni due anni premia i professionisti del settore, ma possiamo annunciare almeno il premio a Loredana Lipperini, giornalista, conduttrice radiofonica di RadioRai3 e autrice di romanzi e saggi dedicati al fantastico. Possiamo inoltre anticipare che da ora in poi, oltre agli illustratori, finalmente si darà il giusto riconoscimento anche ad altre figure fondamentali dell’entertainment e del fantastico, come disegnatori del cinema d’animazione, ma anche professionisti della scrittura e della traduzione.
FantastikA è divenuta ormai uno dei più importanti eventi artistici italiani dedicati all’immaginario fantastico, lo dimostrano le migliaia di persone che accorrono ad ogni edizione, le centinaia di persone coinvolte nella manifestazione, la collaborazione fissa con Lucca Comics&Games e la Nemo Academy di Firenze, ma soprattutto il coinvolgimento culturale dell’AIST, le decine di artisti che accorrono nel piccolo borgo dipinto per autografare i loro progetti editoriali, disegnare dal vivo ed esibirsi in performance pittoriche (in collaborazione con Area Performance ODV) che da ormai dieci anni danno vita ai più noti personaggi dell’immaginario collettivo del cinema e della letteratura fantastica.Ecco la Artist Alley di quest’anno (piano nobile in rocca): Alberto Dal Lago, Andrea Piparo, Maria Distefano, Laura Pauselli, Cristiano Marchesi, Dany Orizio, Elisa Ellie Serio, Denis Medri, Cristiana Leone, Marika Michelazzi, Giacomo Galligani, Emanuele Manfredi, Piero Ruggeri, Luca Trentin, Paolo Barbieri, Laura Di Paoli, Giovanni Calore, Mirti, Melissa Spandri, Riccardo Rullo. Artisti in bottega live (Pinacoteca in rocca): Antonello Venditti, Davide Romanini, Emanuele Manfredi, Livia de Simone, Giacomo Galligani.
Insomma, ci vediamo a Dozza il 21 e 22 settembre, per festeggiare degnamente il compleanno di Bilbo e Frodo con una scorpacciata di fantastico.
E così anche re Théoden ci ha lasciati. Nel 2020 era toccato a Sir Ian Holm, l’interprete di Bilbo nella trilogia del Signore degli Anelli; pochi giorni fa è scomparso Bernard Hill, attore iconico di due di quei film, che tutti i tolkieniani ricordano nei panni del re dei Rohirrim mentre arringa i suoi cavalieri prima dell’ultima carica di cavalleria.
Ci sono attori che diventano talmente famosi da sopravvivere a qualunque personaggio possano avere interpretato in carriera. Hill non era tra questi, aveva recitato in molti film importanti, ma mai da protagonista e il suo viso è associato a quello di alcuni celebri ruoli.
La carriera
Prima di impersonare Théoden il suo ruolo più noto era stato quello del capitano Edward Smith del Titanic nell’omonimo film di James Cameron (1997); ancora un comprimario, per quanto importante. Ma nella sua lunga carriera aveva recitato in Gandhi, di Richard Attenborough (1982), nel ruolo di un sergente britannico, o ne Le Montagne della luna, di Bob Rafelson (1990), con un cameo in cui interpretava il celebre esploratore David Livingstone, e in altre pellicole ad alto budget come Il re scorpione di Chuck Russell (2002), prima di entrare nel cast del Signore degli Anelli. Successivamente aveva partecipato a molti altri film, ma nessuno l’aveva reso famoso come quelli di Peter Jackson. Classe 1944, Hill aveva iniziato a recitare per la BBC negli anni Settanta, ottenendo ruoli in diverse produzioni televisive, ma quella che lo aveva lanciato era la parte di Jimmy “Yosser” Hughes, prima nel film per la tv The Black Stuff (1980) poi nel seguito, la miniserie in cinque episodi della BBC Boys from the Blackstuff, di Alan Bleasdale (1982). Per interpretare un operaio di Liverpool, neodisoccupato in seguito alla crisi industriale, Hill aveva attinto alle proprie origini mancuniane e working class (veniva da una famiglia di minatori di Manchester) per dare vita a un personaggio che entrò nell’immaginario collettivo degli anni Ottanta britannici. Soprattutto il suo tormentone in slang “gizza job”, cioè “give us a job”, divenne una citazione comune durante i primi anni del governo Thatcher, quando la disoccupazione nel Regno Unito salì alle stelle, sopratutto nel settore industriale.
La scena iconica
Possiamo star certi che saranno senz’altro i panni di re Théoden quelli per cui Bernard Hill verrà ricordato nella storia del cinema. Un personaggio secondario ma importantissimo, al quale la sceneggiatura assegna alcuni monologhi di grande livello. Oltre al già citato discorso agli Eorlingas davanti a Minas Tirith, bisogna ricordare anche la scena della vestizione del re prima della battaglia del Fosso di Helm. Hill tocca lì un apice interpretativo, con la telecamera a una spanna dal viso e la luce alle spalle, mentre dialoga con il fido Gamling, ma in realtà con se stesso, assalito dai dubbi sull’essere all’altezza del proprio ruolo e sulla decadenza del proprio popolo:
– Who am I, Gamling? – You are our king, Sire. – And do you trust your king? – Your men, my lord, will follow you to whatever end. – To whatever end… Where is the horse and the rider? Where is the horn that was blowing? They have passed like rain on the mountains. Like wind in the meadow. The days have gone down in the West. Behind the hills, into shadow. How did it come to this?
Un personaggio la cui fine eroica – ancorché stigmatizzata nel romanzo, ma non nel film – regala un altro momento di grande pathos, quello in cui Théoden accomiatandosi per l’ultima volta da Éowyn, pronuncia la celebre frase: «I go to my fathers, in whose mighty company I shall not now be ashamed».
Tuttavia il contributo creativo di Hill al film di Jackson è un altro, vale a dire la celeberrima scena in cui Théoden tocca con la spada le lance dei Rohirrim prima di guidarli alla carica. Un’idea di Hill stesso, che il regista assecondò volentieri. Un piccolo colpo di genio – come se la spada del re potesse infondere forza alla lancia di ogni cavaliere – che dimostra quanto Hill fosse entrato nel personaggio e avesse saputo leggerlo e farlo proprio.
«Come fai a raccogliere le fila di una vecchia vita? Come fai ad andare avanti, quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?» si domanda Frodo alla fine della versione cinematografica del Signore degli Anelli. Ecco una riflessione universale, che trascende lo specifico del personaggio, e che parla di tutti noi quando arriviamo alla cosiddetta mezza età, ci voltiamo indietro e improvvisamente ci compare davanti la distesa della vita, con tutto quello che abbiamo fatto. È questa l’aria che si respira tra le pagine del secondo Middle Artbook di Ivan Cavini (Eterea Edizioni, €50), un volume che porta il sottotitolo significativo di “disegnare e costruire nella Contea”. Attenzione, non “la Contea”, ma “nella Contea”. Coreografi, scenografi, digital designer si occupano di ricostruire la Contea; un artista come Ivan ci vive dentro. E in quelle pagine, che sono anche pagine di vita, appunto – dove compaiono perfino i figli, in veste di modelli per le illustrazioni – il suo ormai lungo viaggio nell’universo tolkieniano è raccontato in lungo e in largo. Ivan Cavini infatti è uno degli artisti italiani che più hanno contribuito a dare forma e dimensione alle storie di Tolkien. Perfino le tre dimensioni, perché Ivan non è soltanto un illustratore, ma anche autore di sculture e installazioni.
Se si dovesse trovare una cifra poetica per l’opera di Ivan forse potrebbe essere questa: la mescolanza dei due mondi, quello primario e quello secondario. Elementi naturali, architettonici e perfino personaggi del nostro piano di realtà confluiscono, rivisitati, nella Terra di Mezzo. È il caso ad esempio del monumento a Walter Scott di Edimburgo, che diventa la torre di Orthanc; o di certe vette delle Dolomiti che campeggiano sullo sfondo di alcune illustrazioni; o ancora della vaga somiglianza di Beorn con Jason Mamoa. Il messaggio è chiaro: come lo scrittore pratica la contaminatio, riadatta modelli narrativi della tradizione a storie e contesti nuovi (Tolkien era un maestro in questo), così in un certo senso fa l’artista, ricontestualizzando elementi del mondo primario in quello secondario, e dimostrando così plasticamente che l’uno permea l’altro, ma anche che non si dà fantasia senza ragione, che non c’è invenzione che non necessiti di una sua ferrea ratio… e che «noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», per citare il Bardo d’Inghilterra. Le visioni fantastiche di Ivan sono infatti sempre riportate sulla terra… di mezzo. La sua personale Contea è un lembo di Romagna incastrato tra gli Appennini e la Via Emilia. È quel borgo di Dozza dove nel corso della vita ha accumulato ricordi, immagini, visioni, e opere d’arte non soltanto sue, ma anche di tanti colleghi e colleghe, all’interno della Tana del Drago e della Rocca Sforzesca. Un paesaggio di dolci colline coltivate, con la pianura giù in fondo, un grappolo di case cresciuto intorno alla rocca, dentro la quale dorme il drago Fyrstan, una delle creazioni di Ivan, mentre altri rettili dimorano nel fossato. Un luogo dove la giovialità e il gusto del buon vivere fanno parte del carattere degli indigeni. Questo è un posto per hobbit, viene davvero da pensare sfogliando le fotografie dei luoghi dell’anima dell’artista. Quella di Ivan è ovviamente anche una reinterpretazione, o un reenacting, se vogliamo, con elementi originali. Ci si perde a scoprire dettagli nei disegni dell’artbook, come l’apparizione del professor Tolkien nei panni di Bilbo vicino al mulino di Ted Sandyman; o l’espressione perennemente triste di Théoden in ogni disegno in cui compare, figura resa in modo particolarissimo e non filologico, chissà forse per raccontarne la predestinazione, l’eccedenza, o piuttosto un alter ego dell’artista, un cameo hitchcockiano. Ma ancora guardando il suo Radagast sciamano con la pelle olivastra, la pittura rituale in faccia e il bastone intarsiato con figure d’animali, non può non tornare su la delusione per il modo comico-grottesco con cui Peter Jackson ha rappresentato questo personaggio nello Hobbit. Quanto saremmo stati più felici di vedere sullo schermo il Radagast di Ivan Cavini – magari interpretato da Morgan Freeman o da Wes Studi – che in un singolo ritratto ci racconta molto di più sul personaggio di quanto non abbia fatto il cinema trasformandolo in un clown.Meno originale, ma estremamente evocativa la sua Galadriel, attorniata di gigli bianchi, in un omaggio evidente all’Art Nouveau, o ancora il suo ultimo Nazgûl, che invece s’ispira ai fumetti anni Ottanta come Metal Hurlant, e che campeggia in copertina. Se le statue a grandezza naturale di Barbalbero, del troll e del balrog esposte al Greisinger Museum di Jenins sono molto legate all’immaginario jacksoniano, il drago Fyrstan è invece un esemplare unico. Accovacciato sotto le proprie ali, come sotto un tepee indiano, Fyrstan dorme nel mastio della rocca di Dozza, per risvegliarsi ogni due anni in occasione di Fantastika, il festival dell’arte e dell’illustrazione fantasy. Nella sua ultima edizione il festival ha visto premiato con il drago d’oro niente meno che Tom Shippey, e in dieci anni ha visto transitare da Dozza i maggiori artisti fantasy italiani. Fyrstan veglia sul suo uovo. Dunque è femmina. Dunque c’è un secondo drago che prima o poi nascerà, il ciclo si compie, la strada va avanti, anzi… prosegue senza fine.
Si è cominciato parlando di uno sguardo retrospettivo sulla vita e la produzione artistica. C’è una frase di Ivan Cavini che apre una delle sezioni del libro e che risuona di eco tolkieniane: «La Terra di Mezzo mi invita a rivolgere lo sguardo indietro, alla ricerca delle cose buone che abbiamo dimenticato nella frenesia del mondo moderno». Ecco, quello di Ivan non è uno sguardo nostalgico, ma indagatore, la sua è una ricerca, una quest, a cui viene voglia di partecipare. Viene voglia di conoscere l’artista, diventare suo amico. E quando la vita ha già esaudito questo desiderio, non si può che compiacersene.
Sabato 25 novembre, presso il Dipartimento di Fisica dell’Università Tor Vergata di Roma (aula Gismondi), si terrà il convegno dal titolo “La cosmologia e J.R.R. Tolkien”. È un evento e un momento di studio originale, dato che non capita spesso che l’opera di Tolkien venga affrontata dall’angolazione delle cosiddette “scienze dure”, in questo caso la fisica e la cosmologia. È un’ottima opportunità per tutti gli appassionati di Tolkien che condividono interessi scientifici, nonché l’occasione di dimostrare come l’epocale separazione tra discipline umanistiche e scientifiche possa essere superata e ricomposta. Che questo avvenga sotto il nome di Tolkien è una cosa estremamente interessante e che non può che fare piacere. Non stupisce la presenza nel programma della scrittrice Licia Troisi, astrofisica di formazione, laureatasi proprio all’Università di Tor Vergata.
Riportiamo qui la presentazione nelle parole degli organizzatori.
«Questa terza giornata di studio – rivolta alla diffusione della cultura scientifica e aperta al pubblico – è incentrata sul rapporto tra la cosmologia, i miti cosmogonici storici e quello creato da J.R.R. Tolkien.
Licia Troisi
Tratteremo pertanto di alcune tra le principali rivoluzioni scientifiche e delle problematiche attuali in relazione alla visione astronomica e cosmologica presente nei testi di Tolkien. La Terra di Mezzo può infatti essere utilizzata – al pari di altre cosmogonie e osservazioni archeo-astronomiche – come strumento per aiutarci comprendere il mondo attuale. In particolare, l’impossibilità di riconciliare la mitologia della Terra di Mezzo, le cui origini risalgono al periodo del primo conflitto mondiale, con le accresciute conoscenze astronomiche dei decenni successivi, rappresentano uno dei principali motivi che impedirono a Tolkien di concludere la sua opera magna, Il Silmarillion, prima della sua morte, avvenuta nel 1973. Tuttavia, questo “fallimento” rappresenta forse uno dei più importanti lasciti scientifici del Professore di Oxford. Infatti, l’inconciliabilità delle misure astronomiche con la cosmogonia dei popoli della Terra di Mezzo echeggia con le varie crisi e successive evoluzioni scientifiche che si sono avvicendate nei millenni della nostra storia, inclusa quella che stiamo attraversando attualmente. Le attuali conoscenze sia del mondo microscopico che di quello macroscopico sembrano infrangersi contro una serie di osservazioni e problemi teorici che condividono le metodologie e le problematiche riscontrate dall’autore nella sua sub-creazione. L’obiettivo non è quindi di evidenziare fortuite o forzate coincidenze, ma di trarre spunti ed insegnamenti presenti nel dettagliato mondo speculativo di Tolkien per l’investigazione e la comprensione del nostro universo.
La giornata di studio è rivolta ad un pubblico non specialistico ed ha carattere interdisciplinare.»
Ed ecco i programma:
09:00-09:30 Saluti istituzionali: Roberta Sparvoli (Direttrice Sezione INFN di Roma Tor Vergata) , Pasquale Mazzotta (Direttore Dipartimento di Fisica, Università di Roma Tor Vergata)
9:30-10:05 Luca Signorelli: Una Materia Oscura: l’evoluzione della cosmologia di Tolkien fra tradizione epica, storiografia e scienza
10:05-10:40 Francesco Berrilli (Dip. Fisica, Università di Roma Tor Vergata, Accademia Nazionale dei Lincei): La mutevole visione del Sole, da centrale a carbone a fucina termonucleare
10:40-11:15 Licia Troisi (astrofisica, autrice): La Sub-creazione tra realismo e sospensione dell’incredulità
11:15-11:45Coffee break (sala adiacente Grassano)
11:45-12:20 Giuliano Giuffrida, (Biblioteca Apostolica Vaticana): Le stelle e Tolkien
12:20-12:55 Roberto Buonanno (INAF, Dip. Fisica, Università di Roma Tor Vergata): Irruzione del concetto di infinito nella Scienza
12:55:13:50 pranzo (sala adiacente Grassano)
13:50-14:25 Massimiliano Lattanzi (INFN e Università Ferrara): Crisi cosmologiche: dalla Terra di Mezzo alla cosmologia moderna
14:25-15:00 Marco Casolino (INFN): Niente magia siamo elfi: il rapporto tra scienza, tecnologia ed arte in Tolkien
15:00-15:35 Dario Gasparrini (INFN): Sbirciando oltre la Porta della Notte: lo spazio profondo e Arda
15:35-16:10 Delio Proverbio (Biblioteca Apostolica Vaticana): La terra sospesa fra le corna di un toro. La tradizione di un mito cosmologico pre-islamico
16:40-17:15 Mafalda Stasi, (Coventry University): Scontro tra titani: Genesi e sviluppo di un “fatto” scientifico
17:15-17:30 Dario Del Moro (Dip. Fisica, Università di Roma Tor Vergata,): Comprendere l’Universo: Galileo, metodo scientifico, osservazioni e deduzioni dal cosmo
17:30-18:30 Il cosmo e Tolkien. Tavola rotonda.
18:30-19:30 Visita presso Laboratori camere pulite università – INFN
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Il quinto volume della Storia della Terra di Mezzo
È il segreto di Pulcinella o, se si preferisce, il segreto di chi studia, traduce, compulsa le opere di Tolkien, che la Storia della Terra di Mezzo sia un mare magnum difficile da gestire. Tra l’altro, leggendola oggi, finalmente in traduzione italiana, traspare anche lo sforzo dei redattori editoriali per rendere ben distinguibili le parti di testo vero e proprio intervallate dai lunghi commenti filologici e dai raccordi inseriti da Christopher Tolkien (1924-2020), il curatore dei dodici volumi. Quello che infatti Christopher tenne a mostrare in quest’opera monumentale era il processo creativo di suo padre, per accumulazione, correzione, riscrittura. Nella prima parte di questo quinto volume, ad esempio, si tratta delle varie versioni della Caduta di Númenor; nella seconda, si trovano invece ulteriori versioni degli Annali di Valinor, di quelli del Beleriand e dell’Ainulindalë.
Se Tolkien senior fosse vissuto oggi, probabilmente niente di tutto questo sarebbe stato possibile, perché la scrittura digitale si basa essenzialmente sulla ricorsività ed è assai raro che vengano conservati i file elettronici con le bozze e le versioni di avvicinamento a un’opera narrativa compiuta. Tolkien invece conservava maniacalmente tutto. Senonché le versioni dattiloscritte a macchina delle sue bozze sono relativamente poche, per lo più scriveva a mano, spesso a matita, cancellando e correggendo, e con il passare dei decenni quella grafia è sbiadita, a tratti illeggibile. In altri casi invece i materiali si sono conservati discretamente. L’impresa nell’impresa è stata quella di Christopher, quando ha deciso di mettere in ordine quella montagna di carte.
La domanda – sempre implicita per i lettori, eppure spontanea – è “cui prodest?” Chi leggerà davvero tutto questo materiale nel dettaglio? Forse solo gli appassionati filologi della creatività tolkieniana, appunto, ma chi altri? Ecco, una risposta è questa: i cercatori di tesori. Dentro i volumi della Storia della Terra di Mezzo si celano tesori. Bisogna andare a cercarli e scavarli fuori, tra una riscrittura e un commento esterno, tra una sigla e un frammento riportato da un foglietto volante scappato fuori da un faldone.
Il quinto volume della Storia della Terra di Mezzo, da poco pubblicato da Bompiani in un’edizione bellissima – co-tradotto da Edoardo Rialti e dal presidente dell’AIST Stefano Giorgianni, con la consulenza di quattro nostri soci e una socia – porta il nome del tesoro proprio nel titolo: La Strada perduta e altri scritti.
Il tesoro
La Strada perduta è uno dei romanzi incompiuti di Tolkien, nato da una sorta di sfida o patto stretto tra Tolkien e l’amico C.S. Lewis negli anniTrenta:
«Un giorno L[ewis] mi ha detto: “Tollers, c’è troppo poco di quello che ci piace davvero nelle storie. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi stessi.” Ci accordammo che egli avrebbe provato il “viaggio nello spazio”, e io il “viaggio nel tempo”. Il suo risultato è ben noto. I miei sforzi, dopo alcuni capitoli promettenti, si sono prosciugati; era una strada troppo lunga per arrivare a quello che in realtà volevo fare: una nuova versione della leggenda di Atlantide. La scena finale sopravvive come La Caduta di Númenor. Questo affascinò molto Lewis (che la sentì leggere), e ci fece riferimento più volte nelle sue opere: per es. The Last of the Wine nelle sue poesie (Poems, 1964, p. 40). Nessuno di noi due si aspettava molto successo come dilettanti, e in realtà Lewis ha incontrato qualche difficoltà a far pubblicare Lontano dal pianeta silenzioso. E dopo tutto quello che è successo, il piacere e la ricompensa più duraturi per tutti e due è stato che ci siamo forniti storie da ascoltare o leggere che, in gran parte, ci piacevano. Naturalmente, a nessuno di noi due piaceva tutto quello che trovavamo nella narrativa dell’altro» (Lettera 294, 1967, in Lettere, p. 598-599).
In buona sostanza La Strada perduta consiste nell’incipit e nell’abbozzo di scaletta di quello che sarebbe potuto diventare il romanzo di Númenor. La vicenda è quella ambientata nella Seconda Era, meglio nota come Akallabêth, e che nell’edizione postuma del Silmarillion è narrata in forma di racconto storico, con pochissimi dialoghi diretti, quasi come fosse una cronaca. La Strada perduta fu il tentativo di Tolkien di concepire un racconto a cavallo delle epoche storiche del nostro mondo primario e della vicenda leggendaria di Atlantide, da lui riscritta come caduta di Númenor, utilizzando la forma del romanzo, con personaggi delineati, descrizioni ambientali e paesaggistiche, introspezione, ecc. Non sarebbe quindi stata soltanto la storia di un viaggio nel tempo, ma anche attraverso i mondi, ovvero attraverso il piano storico e leggendario. E il filo conduttore sarebbe stato il rapporto tra padre e figlio, forse addirittura un’indagine su questo legame primario, che si riflette anche nella religione di Tolkien. Le stesse figure di padre e figlio si sarebbero riproposte in un viaggio a ritroso dalla contemporaneità al medioevo fino alla leggenda antica, in una sorta di anamnesi di vite e legami padre-figlio precedenti.
La diversa forma narrativa produce anche un cambiamento nella storia. Nella forma romanzo il rapporto tra il padre Elendil e il figlio Herendil (che nella versione pubblicata nel Silmarillion diventerà Isildur) è decisamente più complesso. Il padre è già il primo dei dissidenti al regime instaurato dai re di Númenor, imbeccati e corrotti da Sauron, e che porterà Númenor stessa allo scontro frontale con i Valar e alla rovina. Ma se nell’Akallabêth, Isildur si affida ciecamente al padre e ne esegue le direttive, nella versione romanzesca Herendil è inizialmente restio a farlo, o per lo meno combattuto tra l’obbedienza al padre e quella al re. Addirittura appare affascinato dalla retorica del regime. Elendil gli spiega il proprio punto di vista: la prima obbedienza dovuta è ai Valar. E a un re che va contro i Valar non si è tenuti a obbedire. Un concetto che risuonerà nelle parole di Gandalf a Denethor nel Signore degli Anelli, quando quest’ultimo rivendica l’obbedienza dovutagli dai suoi sottoposti e il mago bianco replica dicendo che se i suoi ordini sono folli e suicidi, quel dovere d’obbedienza decade. Elendil quindi lascia al figlio la scelta, la possibilità di esercitare il libero arbitrio. E per amore del padre, Herendil sceglierà di restare dalla sua parte. Se il messaggio di verità giunge a separare il padre dal figlio, come sta scritto nel Vangelo, ecco che Tolkien quel legame non lo scinde, ma nemmeno lo dà per scontato. La scelta di Herendil è sofferta, anche se sarà quella giusta e sarà suggellata dall’ultima scena scritta da Tolkien prima di abbandonare la stesura. Un finale anticipato che – senza spoilerare – racchiude in sé la forza di un gesto tenero e sacro al tempo stesso, e che sembra arrivare dritto dall’Iliade o dall’Odissea, con parole altrettanto evocative.
Una leggenda contemporanea
Un altro elemento interessante del romanzo abbozzato è proprio la descrizione del regime numenoreano sotto l’influsso corruttore di Sauron, perché è a tutti gli effetti quella di un regime militarista e imperialista moderno.
La crescita della popolazione e delle attività economiche produce una spinta a lasciare l’isola di Númenor per cercare nuove terre. Per farlo occorre armarsi. E gli armamenti che Tolkien descrive sembrano alquanto anacronistici rispetto alla cultura materiale della civiltà numenoreana: navi di metallo che navigano senza bisogno del vento; torri sempre più alte, tanto robuste quanto sgraziate; fortezze inespugnabili erette contro nemici inesistenti; scudi indistruttibili e «dardi [che] sono come tuono e sfrecciano per leghe senza mai mancare il colpo».
La società si volge alla guerra anche se non ci sono nemici all’orizzonte, perché è chiaro che presto o tardi i nemici andrà a cercarseli, invadendo le terre altrui. «Le nostre armi si moltiplicano come per una guerra infinita, e gli uomini smettono di dedicare amore e cura alla fabbricazione di altre cose per l’utilità o il diletto», dice Elendil. Ed ecco che l’imperialismo è servito su un piatto d’argento: «[Sauron] ha chiesto al nostro re di allungare la mano per crearsi un Impero. Ieri a Oriente. Domani… in Occidente». Sappiamo infatti che Númenor prima colonizzerà la Terra di Mezzo, poi si volgerà addirittura verso Valinor, per combattere il Valar e strappare loro il segreto dell’immortalità. Ed è lì, come è noto, che troverà la propria rovina e verrà inabissata.
Anche la religione gioca un ruolo nel compattamento della società: la montagna centrale dell’isola viene spogliata degli alberi e sulla cima viene eretto un tempio tanto grandioso quanto terribile, dove nessuno prega. È dedicato al Possente, il Primo Potere… che però non è Eru, bensì Morgoth, il cui ritorno viene evocato. Ed è Sauron a fare le sue veci. Ma il regime lavora anche sul fronte culturale, reinventa la tradizione, impone una lingua suppostamente antica e recupera il patrimonio letterario per arruolarlo in battaglia, ovvero ricerca un legame anacronistico con un’antichità di comodo, ricostruendo un mito delle origini a cui tornare. Elendil dice che: «Le vecchie canzoni sono dimenticate o snaturate, stravolte in altri significati». E il figlio Herendil ribatte: «Ma alcuni dei nuovi canti sono possenti e infondono vigore». È proprio quella la loro funzione, accendere gli animi, dare forza e coraggio per l’impresa imperialista e folle in cui il regime si lancerà a testa bassa. Fino alla catastrofe.
Monarchia, esercito e religione formano un blocco totalizzante, che non accetta cedimenti né opposizioni interne. Disprezzare Sauron è considerato tradimento.
Quello che colpisce di questa descrizione è la sua modernità, si diceva. Tanto le dinamiche sociali, culturali e di potere quanto gli armamenti (navi di ferro senza vele e missili a lunga gittata) ricordano da vicino i regimi militaristi e dittatoriali del Novecento, quelli che negli anni della stesura di questo abbozzo di romanzo si erano ormai consolidati e marciavano rapidamente verso un conflitto esiziale. Nella seconda metà degli anni Trenta, Mussolini e Hitler si accingevano a firmare il Patto d’Acciaio che li avrebbe visti scatenare la Seconda guerra mondiale, mentre Stalin in Unione sovietica finiva di eliminare gli ultimi oppositori politici interni con le celebri “purghe”. La corsa agli armamenti era lanciata, e le società si preparavano allo scontro innescando dinamiche “totalizzanti” molto simili a quelle descritte da Tolkien per Númenor sotto l’influsso di Sauron. A volerla dir tutta, ci si potrebbe spingere fino a cogliere un valore profetico nella tragica vicenda di Númenor, che alla fine sfida gli dèi e viene schiacciata, letteralmente sommersa. Un destino che prefigura quello del Terzo Reich e dei suoi alleati, di lì a una manciata d’anni.
Lingue & Etimologie
Certo, questo quinto volume andrebbe segnalato anche per almeno un altro tesoro, cioè quello linguistico, da ricercare nella seconda e nella terza parte.
Il quinto capitolo del volume contiene infatti uno pseudo-biblion, vale a dire il Lhammas o “Relazione sulle Lingue”. Ancora ci si trova in presenza di una cornice narrativa, nella quale un soggetto immaginario redige una storia delle lingue elfiche (con tanto di diagrammi ad albero), ovvero del loro sviluppo storico in corrispondenza delle vicende di Arda, con tutte le loro divisioni, migrazioni, e conseguenti diramazioni linguistiche. Com’è noto questo è uno degli aspetti salienti della mitopoiesi tolkieniana, praticamente il suo punto di partenza. L’approccio da filologo comparato spinse Tolkien a creare una storia e un’ambientazione per le sue lingue. Consapevole che gli idiomi inventati hanno il pregio e il difetto di non avere una storia, e quindi di essere troppo perfetti (vedi l’esperanto che Tolkien aveva studiato da ragazzo, per poi abbandonarlo), Tolkien optò per creagliene una, vale a dire dotare il suo mondo immaginario di un effetto di profondità anche linguistica. Tanto più questo effetto poteva risultare realistico e credibile, e quindi funzionare, quanto più di quello sviluppo linguistico si poteva dare prova. Ed ecco che oltre alla storia delle lingue elfiche, la terza parte del volume è dedicata alle Etimologie e alle radici delle parole.
Come scrive Christopher nel suo commentario, fu un’impresa improba, perché mano a mano che le storie venivano modificate secondo l’inventiva dell’autore, anche le lingue dovevano essere adattate allo sviluppo storico. Una lingua, come la storia, è in perenne divenire, e dover svolgere due ruoli, quello di demiurgo di un mondo e di filologo delle lingue che vi si parlano, si rivelò troppo anche per Tolkien. È forse il motivo per cui non riuscì mai a produrre dei vocabolari veri e propri, se non in forma di scampoli:
«La cosa più sorprendente è il suo così scarso interesse per la creazione di vocabolari esaurienti delle lingue elfiche. Non rifece mai niente di simile al minuscolo “dizionario” della lingua gnomica originale a cui ho attinto per le appendici del Libro dei Racconti perduti. È possibile che un’impresa del genere fosse sempre rimandata al giorno, che non sarebbe mai arrivato, in cui si fosse raggiunto uno stadio sufficientemente definitivo del lavoro. Nel frattempo, quella non era per lui una necessità primaria» (p. 423).
Quella di Tolkien fu in sostanza la fatica di Sisifo, un’opera che non poteva essere compiuta, al punto che lui stesso ci rinunciò. Eppure rimane uno dei paradossi più belli e affascinanti di tutta la mitopoiesi tolkieniana, che non a caso appassiona da sempre tantissimi fan e studiosi. Certi grandiosi fallimenti individuano un’impossibilità rivelatrice, un’ossessione fertile, o, volendo, perfino un invito a proseguire il racconto per «altre mani, altre menti».
Il 18 luglio si concluderà la vendita di Libri, Manoscritti e Musica dal Medioevo alla Modernità della celebre casa d’aste Sotheby’s di Londra. In quell’occasione verrà bandita una copia del volume Oxford Poetry 1915, che rappresenta non solo una perla per collezionisti, ma anche un bellissimo esempio di “all star team” in un unico volume. Tra talenti in erba del calibro di Dorothy L. Sayers, Aldous Huxley e Naomi Mitchison, primus inter pares, compare anche un ventitreenne J.R.R. Tolkien, con la sua poesia Goblin Feet.
Il volume all’asta
Oxford Poetry è la più celebre rivista letteraria annuale con sede a Oxford, fondata nel 1910 da Basil Blackwell, e ha avuto tra i suoi redattori, oltre ai già citati Sayers e Huxley, anche poeti e scrittori del calibro di Robert Graves, Vera Brittain, Kingsley Amis, e molti altri pezzi da novanta della letteratura britannica del Novecento. Il volume del 1915 è nel suo involucro originale con la firma autografa di Sayers e le sue correzioni al proprio contributo alla breve raccolta, una poesia intitolata Lay, scritta durante il suo ultimo anno di studi all’Università di Oxford. La stima è di 1.800-2.600 sterline.
Il libro, oltre alla prima apparizione a stampa di Aldous Huxley, contiene i versi di Naomi Mitchison, che in seguito divenne non solo una celebre autrice di romanzi storici e fantasy, ma anche tra le prime estimatrici delle opere di Tolkien. Fu infatti lettrice in anteprima del Signore degli Anelli, quando la George Allen & Unwin le inviò le bozze. Celebre è la sua recensione del romanzo apparsa sul New Statesman nel 1954, e la corrispondenza epistolare che intrattenne con Tolkien in quel periodo.
Goblin Feet
Il contributo di Tolkien all’annuario, Goblin Feet, è una poesia scritta il 27-28 aprile 1915 per Edith Bratt, sua futura moglie, pubblicata per la prima volta proprio in Oxford Poetry, 1915. È quanto di più vicino possibile alla rappresentazione vittoriana delle fate si possa immaginare nelle opere di Tolkien: Edith aveva espresso la sua simpatia per «la primavera, i fiori e gli alberi, e i piccoli elfi» e la poesia con i suoi riferimenti alle «piccole corna dei folletti incantati… i loro piedini felici» rispecchia queste preferenze. Fu composta negli stessi giorni di You and Me / and the Cottage of Lost Play (Io e te e la Casetta dei Giochi Perduti) nel Libro dei Racconti Perduti vol. I. Chiaramente, la poesia ha lasciato un segno indelebile. È stata ristampata in almeno sette antologie nell’arco di quattro decenni e forse alcune altre che si sono perse. Fatte le dovute proporzioni, “Goblin Feet” è quindi stata un successo di Tolkien prima della sua ascesa nella letteratura per ragazzi dal 1937 con Lo Hobbit. Tuttavia, oggi non è di facile reperibilità: nella Biografia, Carpenter ne cita solo la prima parte e la poesia non è mai stata ristampata per intero se non nello Hobbit Annotato (LH IV n. 10). Così, essa viene riprodotta qui di seguito, mentre una traduzione completa in italiano è fornita in C’era una volta… Lo Hobbit (Marietti 2012, pp.60-61):
I am off down the road Where the fairy lanterns glowed And the little pretty flitter-mice are flying A slender band of gray It runs creepily away And the hedges and the grasses are a-sighing. The air is full of wings, And of blundery beetle-things That warn you with their whirring and their humming. O! I hear the tiny horns Of enchanted leprechauns And the padded feet of many gnomes a-coming!
O! the lights! O! the gleams! O! the little twinkly sounds! O! the rustle of their noiseless little robes! O! the echo of their feet – of their happy little feet! O! the swinging lamps in the starlit globes.
I must follow in their train Down the crooked fairy lane Where the coney-rabbits long ago have gone. And where silvery they sing In a moving moonlit ring All a twinkle with the jewels they have on. They are fading round the turn Where the glow worms palely burn And the echo of their padding feet is dying! O! it’s knocking at my heart- Let me go! O! let me start! For the little magic hours are all a-flying.
O! the warmth! O! the hum! O! the colours in the dark! O! the gauzy wings of golden honey-flies! O! the music of their feet – of their dancing goblin feet! O! the magic! O! the sorrow when it dies.
Christopher Tolkien, nel Libro dei Racconti Perduti vol. I, riferisce che il padre disse: «Vorrei che quella piccola cosa infelice, che rappresenta tutto ciò che sono arrivato (così presto) a disprezzare ardentemente, potesse essere sepolta per sempre». Questa abiura dei propri albori poetici fu dovuta evidentemente alla cesura percettiva ed esistenziale rappresentata dalla partecipazione alla Prima guerra mondiale. Tolkien partì per la Francia imbevuto di letteratura vittoriana ed edoardiana – e in particolare di quella rilettura bucolica e incantata del mondo fatato che si era affermata a cavallo tra XIX e XX secolo – e tornò dal massacro della Somme con il rigetto per le fatine gentili e scampanellanti. Da quella cesura nacquero la sua nuova prosa e poesia fantastica. Ecco quindi che leggere Goblin Feet, una poesia scandita dal battere dei piedini danzanti dei Goblin, e poi leggere il capitolo dello Hobbit ambientato nelle grotte dei Goblin, dove il rumore dei piedi strascicati si mescola a quello delle catene, dà la precisa misura di quella trasformazione poetica. Verlyn Flieger ha trattato questo argomento al convegno del 2015 patrocinato dall’AIST “La generazione perduta: J.R.R. Tolkien e l’esperienza degli autori inglesi nel primo conflitto mondiale”: «Dal punto di vista artistico, questo passaggio dal fatato al realistico non fu una transizione inusuale per quel tempo. Gli storici della letteratura hanno già rilevato la trasformazione della narrativa prima e dopo la Grande guerra, da J.M. Barrie, H.H. Munro, Lord Dunsany e Max Beebholm, a Ford Madox Ford, Erich Maria Remarque e Ernest Hemingway. Quello che è interessante di Tolkien è che scrisse da entrambi i lati della cesura. Iniziò con il ‘piccolo popolo’ in una ‘piccola’ casetta tintinnante di campanelle elfiche, piena di bambini e di ‘gioiose aspettative’. Tornato dalla guerra nel 1917, mantenne le creature fantastiche, ma cambiò completamente il loro mondo. Non soltanto tramite il passaggio dalla poesia alla prosa, ma soprattutto con il passaggio dalla nostalgia al presente, dalle finestre keatsiane sul magico al qui e ora, dalle barche fatate, gli allegri marinai, le torri perlacee e i giochi perduti, alla Caduta di Gondolin, alle macchine da guerra e agli strumenti di morte sul campo di battaglia. […] La Prima guerra mondiale mise muscoli e tendini nel mondo fantastico di Tolkien. Ciò che emerse dopo la guerra fu una sorprendente combinazione di vecchio e nuovo». (V. Flieger, “Faërie and War: How Experience Changes Art”, in AA.VV., La generazione perduta, a cura di S. Giorgianni, Del Miglio, 2017, p. 160-161). Goblin Feet, la poesia rinnegata da Tolkien, è quindi un importante termine di paragone nel percorso di questo originale autore, che si formò in un mondo e sviluppò la sua prosa in un altro, quest’ultimo completamente stravolto dal trauma insormontabile della Grande guerra, che fu anche una formidabile matrice letteraria.
Dal 3 al 6 luglio si svolgerà il convegno dedicato a Tolkien all’interno dell’International Medieval Congress dell’università di Leeds. Questa è la terza edizione curata dal professor Andrew Higgins, allievo ed erede del ruolo di Dimitra Fimi. Il tema prescelto è Networks and Entanglements e verrà declinato in sei sessioni, animate da relatori provenienti da varie università europee e americane.
Le sessioni
La prima sessione consisterà in una tavola rotonda sul più recente adattamento audiovisivo della materia tolkieniana, vale a dire la serie Tv The Rings of Power, prodotta da Amazon Prime. I partecipanti dibatteranno sul modo in cui la serie è (o non è) in dialogo con i testi di Tolkien ed esploreranno ciò che questo nuovo adattamento sviluppa o rivela della sua costruzione di mondo.
La seconda sessione verterà sul lavoro di Tolkien durante la sua permanenza all’Università di Leeds dal 1920 al 1925.
Gli interventi della terza sessione esploreranno alcune delle nuove tendenze di ricerca accademica negli studi tolkieniani. Ce n’è per tutti i gusti: dai percorsi di lettura teologici, a quelli psicanalitici, fino a quelli “queer”. La quarta sessione affronterà i nuovi approcci al medievalismo di Tolkien, che vanno dagli studi sulle fonti alle letture teoriche, agli studi comparativi.
La quinta sessione riguarderà ancora aspetti del medievalismo, ma legati a certe soluzioni e rideclinazioni narrative e stilistiche escogitate da Tolkien.
Infine l’ultima sessione riguarderà specificamente la Seconda Era di Arda. Gli interventi esploreranno questo periodo cruciale della Terra di Mezzo e potranno dialogare ancora con la serie tv The Rings of Power, nonché con il nuovo volume curato da Brian Sibley, The Fall of Numenor and Other Tales, pubblicato da HarperCollins nel novembre 2022.
Va ricordato che prima della conferenza di domenica 2 luglio, la Tolkien Society organizza una conferenza di un giorno ad accesso libero, dal titolo Númenor, The Mighty and Frail.
Il commento
Si può senz’altro dire che l’IMC offre come sempre un programma denso e ricco, animato da contributori che provengono da varie aree geografiche e linguistiche, a dimostrazione di come ormai Tolkien sia un autore studiato anche al di fuori del mondo anglosassone. Alcuni argomenti e titoli suonano accattivanti, in particolare quelli della quarta e quinta sessione, forse le più inerenti al “contenitore” degli studi medievistici internazionali (vedi il programma sotto).
Tuttavia è difficile esimersi dal far notare alcune cose, che se non pregiudicheranno il risultato, tuttavia lo renderanno meno tondo.
Innanzitutto, sembra che la serie Tv Amazon Prime la faccia un po’ troppo da padrona, per dirla rozzamente. Al di là del grado di apprezzamento che può avere riscontrato presso i fan, una cosa è certa: a dispetto della cifra astronomica investita per realizzarla, questa serie non ha avuto l’impatto sull’immaginario collettivo che ebbe la prima trilogia di Peter Jackson, dalla quale si discosta troppo poco per quanto riguarda l’impianto scenografico, e troppo per quanto riguarda le tematiche tolkieniane. Viene da chiedersi se fosse davvero così forte l’esigenza di metterla al centro di due sessioni del convegno.
Dopodiché un appunto lo strappa la terza sessione, che sembra quasi voler dare un colpo al cerchio e uno alla botte, includendo le letture teologiche e quelle lgbtq+. Ben venga la diversificazione, ma alle volte seguire le tendenze/polemiche del momento – come nel caso della serie tv, del resto – può rivelare una certa quale ansia da prestazione, per così dire, e ostentazione ecumenica che lascia il tempo che trova. Soprattutto perché, terza annotazione, ci si dimentica l’approccio letterario e si studia Tolkien fuori dal contesto artistico più allargato. È decisamente la sessione mancante di questo convegno: quella sul posto di Tolkien nella storia della letteratura e sulla Terra di Mezzo come crocevia di altre narrazioni.
Ultima ma non ultima in ordine di importanza, una nota critica va espressa sul fatto che per andare a sentire questi interventi occorre pagare cifre più che ragguardevoli. Gli organizzatori motivano questa scelta con l’a necessità di adeguarsi all’inflazione galoppante e di fare i conti con la mancanza di fondi, ma per quanto i motivi possano essere validi e perfino ineludibili, il problema dell’accesso a questa manifestazione è l’elefante nella stanza. Per assistere di persona al convegno occorre sborsare £266 (€308), oppure £175 (€203) per partecipare a una singola giornata. Soltanto studenti, pensionati e le persone al di sotto di una certa soglia di reddito hanno diritto allo sconto, ma per loro il costo è comunque di £145 (€168). C’è ovviamente la possibilità di assistere alle conferenze virtualmente, alla “modica” cifra di £220 (€255) e di £105 (€121) per le categorie svantaggiate di cui sopra.
Ora, si sa che fare cultura ha un costo. Un convegno internazionale non si organizza con due spiccioli. E certo è da snob pensare che il lavoro culturale non debba essere retribuito come qualunque altro lavoro. Ma questa necessità deve restare in equilibrio con la possibilità di accesso alla cultura più ampia possibile. Perché se l’inflazione incide sui costi organizzativi, ha lo stesso effetto sul costo della vita della gente, che in questo modo finisce per potersi permettere la cultura solo come lusso. Prezzi come quelli summenzionati sono più di un disincentivo, sono un vero e proprio sbarramento di classe. L’accademia britannica purtroppo ha da tempo imboccato questa strada e il convegno dell’IMC non fa eccezione.
Il programma
The Lord of the Rings: The Rings of Power and Questions of Adaptation and Authenticity: A Round Table Discussion
Tuesday 4 July 2023: 19.00-20.00 GMT
I partecipanti includono Brian Egede-Pedersen (Independent Scholar, Nykøbing Falster), Mercury Natis (Independent Scholar, Worthing), and Kate Natishan (University of Virginia).
Tolkien’s Work and Academic Networks at the University of Leeds
Wednesday 5 July 2023: 14.15-15.45 GMT
1) The Missing Letters that J.R.R. Tolkien Received from Derek J. Wilson and R.M. Wilson – New Research and Addendum to Further Notes on J.R.R. Tolkien’s Photostats of The Equatorie of the Planets (MS Peterhouse 25) – Andoni Cossio, Facultad de Letras, Universidad del País Vasco – Euskal Herriko Unibertsitatea, Vitoria-Gasteiz
2) An industrious little devil’: Tolkien’s Development of the Elvish Languages at Leeds, 1920-1925 – Dr. Andrew Higgins, Centre for Fantasy & the Fantastic, School of Critical Studies, University of Glasgow
3) Leeds and the Medieval Foundation of J. R. R. Tolkien’s ‘Father Christmas’ Letters – Dr. Kristine Larsen, Geological Sciences Department, Central Connecticut State University
New Works, Networks, and Methods in Tolkien and Middle-earth Research;
Wednesday 5 July 2023: 16.30-18.00 GMT
1) Tolkien Studies and the ‘Theological Turn’– Mitchell Kooh, Department of English, University of Notre Dame, Indiana
2) Queer Time and Space in Tolkien’s Middle-earth-Yvette Kisor, School of Humanities & Global Studies, Ramapo College of New Jersey
3) Reading Tolkien’s First Age through the Lens of Michel de Certeau – Cami Agan, Department of Language & Literature, Oklahoma Christian University
4) Queer Phenomenology, Lesbian Ents, and the Future of Queer Tolkien Studies – Christopher Vaccaro, Department of English, University of Vermont
J. R. R. Tolkien: Medieval Roots and Modern Branches
Thursday 6 July 2023: 09.00-10.30 GMT
1) Riddles in the Mark: The Usage of ‘Riddle’ in Book III of The Lord of the Rings as Micro Level Interlacing – Christian Trenk, Theologische Fakultät, Katholische Universität Eichstätt-Ingolstadt
2) Dark are the Pathless Ways – Scott Hodgman, Department of Literature & Language, Signum University, New Hampshire
3) ’This is a serious journey, not a hobbit walking-party’: Travel and the Quest Motif in Tolkien’s Work – Eva Lippold, Faculty of Arts & Social Sciences, Open University
4) ’We swears on the precious’: Oath-Making and Oath-Keeping in Tolkien – Literary Devices or Spiritual Statements? – Gaëlle Abaléa, Centre d’Etudes Médiévales Anglaises (CEMA), Sorbonne Université, Paris
Tolkien’s Medieval Entanglements Thursday 6 July 2023: 11.15-12.45 GMT
1) The Interlaced Entanglement of ‘The King’s Touch’ – Amy Amendt-Raduege, Department of English, Western Washington University
2) The Theme of Decay and Fall in Tolkien’s Works and its Medieval Entanglements – Andrzej Wicher, Zakład Angielskiego Dramatu, Teatru i Filmu, Uniwersytet Łódzki
3) Sam the Scop: The Entanglements of Poetry in Beowulf and The Lord of the Rings – Kirsten Ogilby, Institut for Engelsk, Germansk og Romansk, Københavns Universitet
Disentangling the Second Age of Tolkien’s Middle-earth
Thursday 6 July 2023: 14.15-15.45 GMT
1) The Tale of Aldarion and Erendis: Not Just a Medieval Love Story – Dr. Sara Brown, Department of Language & Literature, Signum University, New Hampshire
2) Out of the Great Sea: Of Elendil and Legends Old and New – S. R. Westvik, School of History, University College Dublin / Historisches Institut, Universität Potsdam
3) Untangling the Second Age Tale of Years – James Tauber, Department of Literature & Language, Signum University, New Hampshire
4) The Roads to Númenor: Navigating Tolkien’s Mythopoeic Network – Clara Colin-Saïdani, Faculté Lettres et Langages, Nantes Université
Per certi versi si potrebbe dire che la prima stagione degli Anelli del Potere è servita a svelare l’identità dei due personaggi misteriosi – e futuri avversari – apparsi al principio. Purtroppo questo avviene con il più classico “contro colpo di scena”, per cui si fa credere allo spettatore che costoro non siano quelli che si aspettava…ma alla fine invece sì, erano proprio loro. Il buono quindi – coerente nell’aspetto fin dall’inizio – è pronto a intraprendere il suo viaggio, e il cattivo – anche lui con indosso un coerentissimo pastrano nero – muove verso la Montagna di Fuoco. Finalmente le pedine sono sul tavolo e il gioco può cominciare. Perché questo è stata la prima stagione: una sorta di lunga (e lenta) premessa al dispiegarsi futuro dello scenario, al termine della quale sappiamo chi sono i buoni e i cattivi, ma soprattutto abbiamo visto la forgiatura dei Tre Anelli degli Elfi che campeggiano nel titolo (gli altri seguiranno, si suppone).
Va detto che nell’ultimo episodio la perizia attoriale del cast trova la sua vetta: per il finale di stagione attori e attrici hanno dispiegato le proprie doti per caricare di pathos o inquietudine le scene, come nelle puntate precedenti erano solo parzialmente riusciti a fare. Anche gli autori lo hanno fatto, ma senza superare i limiti già segnalati da molti, cioè l’eccesso di citazionismo, che diventa ammicco allo spettatore – vedi Halbrand che cita a Galadriel le cose che lei stessa dirà nel Signore degli Anelli, e l’uomo piovuto dal cielo che cita a Nori le cose che lui stesso dirà nel Signore degli Anelli; i dialoghi dal registro quasi sempre troppo aulico e impostato; i cambi di scena “sul più bello” da una linea narrativa all’altra, che non lasciano allo spettatore il tempo di consumare e smaltire le emozioni, di fatto quindi spingendolo al distacco emotivo.
In questo modo si costringe il pubblico adulto – ma ormai non solo quello – a guardare Gli Anelli del Potere con occhio post-moderno, come si guarderebbe un quadro o un catalogo illustrato, riconoscendo qua e là elementi famigliari, easter egg, citazioni, e bellissimi scorci di ciò che sarebbe potuto essere. È la scrittura di scena all’epoca dei reboot e dei remake, che toglie il gusto alle narrazioni, trasformandole in giochetti di rimandi, ripetizioni, riconoscimenti.
A rimetterci è ovviamente l’epica. Inutile cercarne traccia, se non forse nella colonna sonora, che sembra fare il verso a quella delle trilogie jacksoniane e ricorda vagamente quella di Star Wars.
Per usare un’immagine immediata: una Terra di Mezzo senza epos è un po’ come un cono gelato senza gelato. E per quanto la pasta del biscotto possa essere buona…
Il “cringe”
I collezionisti di scene/scelte illogiche o di momenti di sciatteria narrativa hanno avuto il loro bel da fare in questa prima stagione. Si potrebbe prendere a esempio una sequenza del sesto episodio, quella dell’arrivo dei Numenoreani a cavallo con il sole che sorge alle loro spalle. I cavalieri stanno arrivando da sud-ovest in direzione est-nord-est. Questo lo sappiamo bene perché la regia ha insistito parecchio sulla mappa, mostrandoci il percorso dalle foci dell’Anduin alle Terre del Sud. Dunque non si scappa: il sole che sorge dovrebbe baciare i cavalieri sulla fronte.
Più in generale, l’intera linea narrativa in questione risulta densa di elementi che va di moda definire “cringe”, cioè imbarazzanti. Di esempi ne sono stati sottolineati tanti dagli spettatori critici: una spedizione di soccorso del possente regno di Numenor, già di per sé composta da trecento volontari male addestrati, si risolve in una scaramuccia contro poche decine di orchi, in un villaggio di quattro capanne e una locanda; un meccanismo a chiave innesca un’eruzione convogliando l’acqua di un lago di montagna dentro un vulcano; gente gravemente ferita si rimette rapidamente in piedi, e magari sale pure a cavallo. E via di questo passo. Per non parlare dell’abuso di deus ex machina: una zattera intercettata in mezzo all’oceano per ben due volte (prima da Galadriel, poi da Elendil); il puntualissimo arrivo alla carica dei “nostri” numenoreani per salvare il villaggio; minacciosi orchi trafitti in extremis, un attimo prima che l’eroe di turno soccomba sotto i loro colpi; eccetera.
A questo si aggiungono il ritmo narrativo lento e spezzettato in almeno quattro sottotrame, che in otto ore hanno appena fatto in tempo a decollare, e uno sviluppo dei personaggi che lascia molto a desiderare. Questi hanno moventi stereotipati, quando li hanno, e appaiono quasi tutti monodimensionali; le loro contraddizioni, lungi dal diventare il motore drammatico della storia, non hanno una vera e propria ricaduta sulla trama e quindi rimangono enunciate, spesso in dialoghi legnosi.
Il problema si presenta in misura maggiore in certi personaggi secondari – un esempio tra tutti: gli insulsi Elendil & famiglia – e in misura minore anche nei protagonisti. Nori, personaggio che porta in sé la contraddizione tra seguire il sentiero tracciato o batterne uno nuovo, ha impiegato sette episodi per decidersi. Lo stesso tempo occorso a Durin Jr per rompere col padre in nome dell’amicizia interrazziale con Elrond. Questi sarebbero dovuti essere i punti di partenza e non già di arrivo di una stagione lunga otto episodi.
Ma forse è Galadriel, per la sua centralità, l’epitome di questo deficit di scrittura: un personaggio che predica bene e razzola male, senza che questo le produca un fremito, ondeggiante tra ossessione vendicativa e riflessioni filosofiche su quanto l’ossessione stessa prepari il terreno al contagio del male, al punto da farsi sgamare niente meno che dal padre degli orchi, nel dialogo più bello di tutta la stagione.
E qui, anche senza indulgere nel purismo o nella critica di stampo filologico, bisogna dire che lo stravolgimento delle motivazioni dell’elfa più celebre grida vendetta. Nelle storie di Tolkien il movente che spinge Galadriel ad andare nella Terra di Mezzo è precisamente il desiderio di autonomia e autarchia: lei vuole diventare una regina. La parabola del personaggio si compirà nel Signore degli Anelli, con il rifiuto dell’Anello che Frodo le offre e il ritorno a Valinor. Negli Anelli del Potere invece è Sauron a tentare Galadriel con la prospettiva di diventare la “sua” regina (con le scontate implicazioni erotiche del caso), per essere immediatamente respinto. Quella che in Tolkien è una fertile contraddizione intrinseca al personaggio, diventa una tentazione del demonio, banalizzando così il carattere di Galadriel, che resta fedele all’immagine della santa in armatura presentataci fin dall’inizio e per la quale è impossibile provare una qualsivoglia empatia.
Questo è un tipico esempio di appiattimento rispetto alle potenzialità di una riscrittura a partire dall’originale. Originale dal quale ci si può allontanare finché si vuole, ma a condizione di produrre una rilettura avvincente e convincente. Più che il metro filologico è quello qualitativo a marcare il fallimento della scrittura. Freudianamente parlando, uccidere il padre (Tolkien) dovrebbe servire a farlo rinascere in noi in una veste nuova, facendoci diventare adulti e facendoci trovare la nostra via per la Terra di Mezzo. Se invece lo si evoca in continuazione, citandolo in lungo e in largo, invece di concentrarsi su una nuova storia che sia all’altezza della crescita, ci si condanna a rimanere prigionieri del proprio infantilismo.
Schegge di luce… nell’oscurità
Insomma la prima stagione degli Anelli del Potere, la serie Tv più costosa nella storia delle serie Tv, è paradossalmente povera. Povera di comparse, di scenografie che non siano quelle ricostruite virtualmente, e soprattutto di qualità narrativa.
Il paradosso nel paradosso è che invece risulta ricca di spunti e di temi derivati dalla narrativa tolkieniana. Uno tra tutti: la rivisitazione del problema degli Orchi attraverso un personaggio come l’elfo-orco Adar, senza dubbio il migliore visto finora. O ancora la visione degli Hobbit nella fase seminomade della loro storia, prima che si mettessero a scavare buchi. O ancora il peso dell’altra metà della Terra di Mezzo, cioè i personaggi femminili. Perfino l’attenzione per alcuni aspetti etnografici o mitici dei vari popoli, usi, costumi, leggende, ecc. (toccante e azzeccata la scena della morte di Sadoc, nella quale gli altri, come in un rituale, si siedono accanto a lui in attesa del sorgere del sole e della sua dipartita). Gli elementi interessanti non sono mancati di certo. Ma non bastano a salvare una sceneggiatura il cui scopo sembra essere quello di intrattenere un’ideale e generica famigliola americana di pochissime pretese, che forse ormai esiste solo nell’immaginario degli executives hollywoodiani. Per quanto grandiosi siano gli scenari tolkieniani rappresentati, perfetta la fotografia, belli i costumi, e acuta la riflessione sulle architetture e i panorami, tutto questo si riduce a cartolina se poi si trascurano i dettagli narrativi e l’approfondimento psicologico dei personaggi. È qualcosa che non ci si può permettere davanti al pubblico smaliziato dell’AD 2022, pena passare per sciatti scialacquatori di centinaia di milioni di dollari.
Insomma la cosa che fa rabbia è che il lavoro sulla materia tolkieniana c’è e si vede: solo che è fuori fuoco e piegato a soluzioni semplicistiche.
Avendo a disposizione le Appendici del Signore degli Anelli per raccontare la Seconda Era, gli scrittori amazonici potevano contare su un grande margine di manovra, da investire in una resa delle vicende innovativa, spiazzante, che spostasse l’asticella più in alto rispetto alla rilettura di Peter Jackson. Questo finora non è accaduto, se non appunto in alcune eccezioni: il mesmerico Adar liberatore degli Orchi, la società tribale dei Pelopiedi, il ruolo di una principessa consorte nanica, e poco altro. Un esempio di potenzialità? La versione femminile di Bilbo e Frodo, cioè quella Elanor/Nori che è la prima proto-hobbit a lasciare il sentiero consueto per intraprendere un’avventura. Un’eroina buona per il mito, insomma, in una società seminomade e comunitaria, quindi ancora paritaria sul piano dei rapporti di genere, al contrario di quella che sarà la società stanziale degli Hobbit nella Contea, fortemente patriarcale. Interessante riflessione questa, che motiva appunto il ruolo di una giovane femmina la cui intraprendenza non è ostacolata bensì incoraggiata dai famigliari (Nori:«I’ll be careful», Marigold: «No, you’ll be bold»).
Peccato davvero che questa potenzialità sia inscritta in una storia che fa del cliché la sua cifra, affidandosi all’onnipotenza del brand “Tolkien” per essere sdoganata come macchina d’immaginario. A queste condizioni è ben difficile che ci riesca, come invece c’era riuscito Jackson, pur con tutti i suoi limiti, approcciando la materia con tutt’altro spirito nella sua prima trilogia. Il neozelandese aveva invece fallito nella seconda, quella tratta dallo Hobbit, a dimostrazione che l’unicità dell’opera d’arte, pur nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – per dirla con Benjamin – e della sua riproposizione potenzialmente infinita, è qualcosa che ancora resiste evidentemente (Paganini non ripete, perché non può ripetersi). Come infatti resiste il legendarium tolkieniano, del quale Gli Anelli del Potere sembrano sancire l’irriducibilità.
Postilla sulla società dello spettacolo
«Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d’accumulazione da divenire immagine» scriveva Guy Debord alla vigilia del Sessantotto. Jeff Bezos potrebbe sottoscrivere. L’uomo più ricco del pianeta, al vertice del settore più avanzato del capitalismo, quello della distribuzione a domicilio di merci e intrattenimento, della disintermediazione commerciale, ha pensato di poter far compiere un bel giro di ruota non tanto al fatturato (non ne ha bisogno) quanto alla produzione di immaginario. Ha dispiegato mezzi mai visti prima, rimettendo in circolazione il brand “JRRTolkien” con accanto la freccia a forma di sorriso, quello del cliente soddisfatto o rimborsato. A quanto pare invece quella freccia piega verso il basso, vista la ricezione critica e la delusione che la prima stagione degli Anelli del Potere ha collezionato presso gran parte del fandom tolkieniano. Dunque ad Amazon resta il fatturato – perché il successo quantitativo è comunque certo, nemmeno i critici più accaniti eviteranno di guardare la serie, incluse le prossime stagioni -, ma al netto della gloria sperata. Anzi, l’effetto ottenuto è paradossalmente quello uguale e contrario, dato che il coro che si alza dal fandom suona come un “Ridateci Tolkien!”. Ecco, quest’ansia gelosa ha al contempo due aspetti.
Il primo aspetto si è manifestato fin dalla comparsa dei trailer della serie. È quell’atteggiamento che al politicamente corretto degli studios americani (cast multietnico, preponderanza dei personaggi femminili, ecc.) contrappone il filologicamente corretto, cioè il conservatorismo cultuale. In questo caso, Bezos – con i suoi potenti media manager – ha dovuto solo tirare su l’amo al quale in tantissimi avevano abboccato, per presentarsi come novello Abramo Lincoln osteggiato da orde di rednecks retrogradi. Ma presto questo è passato in secondo piano di fronte al fallimento narrativo, che si è posto come il vero problema della serie. Ed è qui che entra in gioco il secondo aspetto della protesta contro la colonizzazione dell’immaginario tolkieniano da parte di una delle più potenti multinazionali del mondo. Il fandom pretende che l’universo fantasy di Tolkien sia raccontato con il proprio stesso amore e devozione, ma si rende conto che la macchina mitologica hollywoodiana questo non riesce affatto a garantirlo. La frustrazione, se appunto non si esaurisce in un piagnisteo da “imbalsamatori” (per dirla con Tolkien), ma diventa presa di coscienza, può evolvere in una sana ribellione contro le draconiane leggi del copyright, quelle che perseguono con pervicacia e dispiego di mezzi polizieschi qualunque riappropriazione creativa dal basso, almeno fino a settant’anni dopo la morte dell’autore, senza il minimo riguardo per gli ordini di grandezza. Coloro che succhiano (grandi) dati dai social network e spunti creativi – magari per correggere il tiro di una serie Tv bersagliata di critiche – sono gli stessi che mantengono salde le enclosures della proprietà privata “intellettuale”, nell’interesse di chi può pagarla di più e farne ciò che vuole. Cioè lo zio Jeff.
Ecco queste due anime del fandom, mescolate tra loro, oggi sono allo specchio. E non ci sono dubbi che il loro manifestarsi è uno degli effetti collaterali più interessanti – e chissà magari anche fertili – degli Anelli del Potere. Chi vivrà vedrà.
Non c’è molto da dire su questa settima puntata della serie Gli Anelli del Potere. Si tratta di un episodio di raccordo, che di fatto si svolge tutto durante il fall out dell’Orodruin, e durante il quale non accade praticamente niente di significativo. Non è un grande spoiler dire che assistiamo alla nascita di Mordor, gli spettatori l’avevano senz’altro intuito già alla fine della puntata precedente. Le trovate interessanti di questa prima stagione riguardano quasi esclusivamente gli Orchi e gli Hobbit, e la nascita di Mordor per eruzione vulcanica è una di queste. Infatti le ceneri che oscurano il sole consentiranno agli Orchi di muoversi e agire anche di giorno con disinvoltura, senza bisogno di ingombranti tabarre e tendaggi protettivi.
Per il resto sembrerebbe di assistere alla messa in discussione del fanatismo di Galadriel, la quale si sente responsabile della catastrofe in cui si è risolta la spedizione numenoreana nella Terra di Mezzo, che è pure costata la vista alla regina. Se non fosse che la regina stessa la scavalca, uscendosene con una dichiarazione d’intenti che suona come un lugubre: “Ritorneremo!”.
Insomma 1-0 per Adar il Padre degli Orchi e la sua razza dannata in cerca di una terra («This is our land now. It is our home»), che al momento risulta il personaggio più simpatico. I Numenoreani se ne tornano oltremare scornati, mentre Galadriel e Helbrand galoppano verso il Lindon, a ricevere la probabile “lavata di capa” da re Gil-Galad.
Nel frattempo gli autori trovano il modo di infilare tre immancabili citazioni tolkieniane. La scena che vede Galadriel e il giovane Theo nascosti sotto un tronco, con un orco sopra di loro che annusa l’aria, richiama immediatamente quella più celebre del Signore degli Anelli, in cui gli hobbit vengono fiutati dal Cavaliere nero.
Poco prima, nel dialogo tra i due personaggi, Galadriel è riuscita a citare la scena del colpo di fulmine tra Beren e Luthien («We met in a glade of flowers. I was dancing and he saw me there») riferendosi all’incontro col marito Celeborn – che qui viene dato per «lost», probabilmente in vista di una rentrée successiva -; e cita anche quasi testualmente la visione provvidenziale della storia che Gandalf fornisce nel medesimo romanzo: «There are powers beyond darkness at work in this world».
Ganci buoni per il gioco degli appassionati, divertissement postmoderni degli autori, che ovviamente non possono rivitalizzare una puntata dall’andamento piatto e quasi priva di colpi di scena. Nemmeno l’apparente morte di Isildur può far drizzare qualche capello, perché anche a essere completamente digiuni di materia tolkieniana, il cliché è talmente urlato che nessuno spettatore può bersela, e il dolore del padre Elendil sfuma nello stucchevole. Un tentativo di svegliare il pubblico viene fatto nelle altre due sottotrame. Lì va appena un poco meglio. Gli Harfoot/Pelopiedi si trovano finalmente alle prese con una “storta” nelle loro solide abitudini e sono costretti ad abbandonare la via già tracciata. Ci sono volute sette puntate perché questo tema, di cui fin dall’inizio si fa carico il personaggio di Nori, trovasse uno sbocco narrativo. Alla buon’ora.
E ovviamente il mistero sull’identità dell’uomo caduto sulla Terra di Mezzo si infittisce, con l’aggiunta delle tre inquietanti inseguitrici (una delle quali sembra la versione albina di Anne Lennox da giovane). La dinamica però è farraginosa: prima gli Hobbit spediscono via l’uomo delle stelle, poi, quando scoprono che è inseguito da tre vestali incendiarie, decidono di andare ad avvertirlo, perché in fondo ha fatto loro del bene. Decidetevi. E poi c’è la sottotrama del mithril, quella che vede al centro Elrond e Durin Jr.
Che dire? In sette puntate non è successo ancora niente. Si sono evocati tramacci incrociati, tradimenti, si sono visti siparietti comici e drammatici, nonché abbozzi spionistici, ma i fatti stanno a zero. Cosa si salva, quindi? Più che il rapporto d’amicizia tra Elrond e Durin quello conflittuale tra Senior e Junior. Vero è che non è niente di originale: un conflitto generazionale tra maschio alfa e maschio beta. Però introduce per lo meno un elemento discorde nel tema dinastico, quello che connota fortemente i Nani tolkieniani, schiacciati dal peso dell’albero genealogico che portano sulle spalle. Almeno Durin è in rotta col padre perché non vuole abbandonare l’amico Elrond al suo destino di decadenza e spegnimento progressivo. Il vecchio invece se ne sbatte degli Elfi, dice che il loro destino è segnato e non dipende da lui salvarli. Niente di nuovo sotto il sole, ma almeno c’è un conflitto in famiglia degno di ogni serial, ancorché corredato di nasoni finti e barbe lunghe fino ai piedi.
Ciliegina sulla torta: nelle viscere di Khazad-Dûm si cela un balrog. Non è una sorpresa per i fan tolkieniani, ma… perché proprio identico a quello di Jackson? Davvero non era rimasto un avanzo di fantasia per pensarlo almeno un po’ diverso? Manca soltanto un episodio alla fine di questa prima stagione e viene da fare almeno una considerazione. Gli autori avrebbero dovuto mostrare più coraggio, lasciare perdere tanto il gioco citazionista, quanto la continuità estetica con ciò che era già stato portato sullo schermo.
Per mettere in scena la Seconda Era ci voleva un visionario; uno che tradisse i cliché invece di collezionarli con metodo in ossequio allo sguardo postmoderno, per lavorare invece meglio sugli archetipi (che non sono proprio la stessa cosa). Ma anche uno che rappresentasse Celebrimbor come un fabbro ferraio coperto di bruciature e sporcizia; Galadriel come un’avventuriera in cerca della propria fortuna e con un passato ambiguo da farsi perdonare; i Nani come dei metallari divisi tra avidità e onore; e i Numenoreani come Conquistadores in cerca di territori da colonizzare.
Sarebbero state scelte tanto più forti rispetto a una mezza via, in cui si è reinventata la storia banalizzandola, senza discostarsi più di tanto dall’immaginario jacksoniano. La materia su cui lavorare c’era, c’è ancora forse. Resta da sperare – senza garanzie – in qualche buon cliff hanger nell’ultimo episodio e nella capacità degli strapagati scriptwriters amazonici di fare finalmente decollare questa storia nella seconda stagione.
Alla fine di questo sesto episodio degli Anelli del Potere, quasi interamente dedicato ai combattimenti e concluso dallo stapparsi dell’Orodruin, dove sappiamo verrà forgiato l’Unico Anello, verrebbe da dire: finalmente un po’ d’azione. Non si tratta ancora delle grandiose battaglie a cui ci aveva abituato Jackson, perché in questa fase della storia le forze del male si stanno ancora riorganizzando, e non proprio coordinandosi alla perfezione, a quanto pare. Ma almeno si combatte, due sottotrame finalmente si intrecciano e – forse di conseguenza – anche i dialoghi acquistano più significato rispetto a quanto si è ascoltato finora.
Le citazioni jacksoniane in questo sesto capitolo si sprecano. L’atmosfera di attesa degli orchi al villaggio degli uomini cita alla lettera quella prima della battaglia del Fosso di Helm ne Le Due Torri, con tanto di voce fuori campo sulle immagini rallentate di donne, vecchi e bambini, e immancabile messaggio di speranza molto tolkieniano.
Il primo scontro con i cattivi invece ha una dinamica molto simile alla Battaglia di Baywater, quella con la quale sul finale del Signore degli Anelli (romanzo, non film) gli hobbit insorti sconfiggono gli usurpatori della Contea. Nella serie c’è l’aggiunta del fuoco ed è una scena notturna, ma l’idea di chiudere i nemici tra due barricate fatte con i carri e bersagliarli di frecce è un’evidente citazione letteraria. Bisogna tuttavia riconoscere che questi scontri armati sono più realistici di quelli jacksoniani. Innanzi tutto perché avvengono tra piccoli contingenti, poche centinaia o addirittura decine di combattenti, tutti interpretati da attori in carne e ossa. E in secondo luogo perché la fatica del corpo a corpo traspare di più, e l’unica che compie prodezze marveliane è la solita Galadriel, quando arriva con i rinforzi (ecco un’altra citazione, della cavalcata dei Rohirrim, anche se in questo caso sono numenoreani). Lei in effetti mentre combatte a cavallo pare un cosacco del circo di Mosca, ma tutti gli altri sono assai più normali nel modo di combattere, e con meno “addizioni digitali” rispetto ai guerrieri di Jackson. Arondir, l’elfo eroico che è rimasto a combattere con gli Uomini, lo fa in effetti con la destrezza tipica della sua razza, ma senza esibirsi nei “numeri” del Legolas interpretato da Bloom. Può perfino capitargli di essere trascinato giù da un tetto e di soccombere sotto la presa di un orco enorme, salvo intervento provvidenziale dell’amata Bronwyn. Dopodiché la gente (di qualunque razza sia) negli scontri muore perché viene infilzata da una lama o trafitta da una freccia o calpestata dai cavalli, e le ferite sanguinano sul serio, anche copiosamente. Come quella della stessa Bronwyn, che quasi ci lascia le penne (e casomai la cosa del tutto inverosimile è trovarla a battaglia vinta abbastanza in forma per colloquiare con la regina Mìriel e per acclamare il nuovo re Halbrand).
Ma inutile girarci attorno, perdendosi negli scontri armati. Perché la questione affrontata di peso in questo sesto episodio è quella degli Orchi. Lo spietato Adar, interpretato da un mesmerico Joseph Mawle, senz’altro il migliore attore della serie in scena finora, aveva già lasciato intendere di avere una visione politica. Qui finalmente la esplicita. Non solo nel discorso iniziale alle sue truppe orchesche, che chiama “fratelli” e “figli”, e che incita a prendersi un posto (non al sole) nella Terra di Mezzo. Soprattutto lo fa nel dialogo con Galadriel che lo ha catturato. I ruoli sono invertiti rispetto alla prima apparizione, quando era Adar nel ruolo di carceriere e l’elfo Arondir in vincoli. Galadriel lo interroga e le cose che gli dice lasciano trasparire la metà in ombra dell’elfa eroica; ombra che finora era stata soltanto evocata a parole. Galadriel riversa su Adar – elfo nero “orchizzato” – tutto il suo disprezzo per gli orridi Orchi. Di contro, Adar rivendica il fatto che gli Orchi sono esseri senzienti, «ognuno ha un nome e un cuore», e che sono stati anch’essi creati dall’Uno, cioè da Eru, e in un secondo tempo corrotti. Insomma anche gli Orchi sarebbero creature di Dio, secondo Adar, e di conseguenza avrebbero diritto a vivere e ad avere un posto in cui farlo. Questo fa precipitare dentro la serie uno dei grandi dilemmi irrisolti dell’opus tolkieniano, che a quanto pare gli autori non hanno avuto remore ad affrontare (si vedrà poi come e se lo risolveranno). Vale a dire l’irriducibile questione degli Orchi, che Jackson non s’era nemmeno immaginato di toccare. Sappiamo che nel corso del tempo Tolkien tornò a riflettere a più riprese sulla natura degli Orchi, i quali gli creavano un problema concettuale e teologico. Da buon cattolico non poteva digerire una razza di creature senzienti irredimibili per natura. Qualche lettore glielo fece notare, e all’amico Auden che gli chiedeva lumi su questo, Tolkien dava una risposta aperta (Lettera 269).
Nei Myths Transformed (HoMe X) passa in rassegna una serie di possibili soluzioni dell’origine e della natura di questa razza “derivata”, per così dire, e teologicamente così scomoda, ma alla fine si risolve a degradare gli Orchi al rango di bestie. «The Orcs were beasts of humanized shape», cioè sono privi di anima razionale. E a dimostrazione di questo dice che il loro modo di parlare è solo un riflesso di quello di Melkor, un po’ come i pappagalli ripetono le parole che sentono dal padrone, o come i cani che abbaiano per riprodurne la parlata, e possono pure ribellarsi per istinto, ma non per questo esercitano il libero arbitrio. Se però uno legge Il Signore degli Anelli non ha affatto questa sensazione, ma tutto il contrario. Gli Orchi appaiono come una razza dotata di linguaggio e cultura e di una propria natura, ancorché pervertita e perversa. Quella a cui approdò Tolkien nel suo rimuginare a posteriori sa tanto di una soluzione di comodo, che potesse mettere buoni i teologi cattolici (o la sua coscienza di cattolico).
Ciò nonostante sul piano letterario – e qui sta la grandezza – gli Orchi rimangono un problema aperto. Rispetto al quale Adar può dunque dire la sua, e sentirsi sputare in faccia tutto il disprezzo razzista di una Galadriel nelle vesti (letteralmente) di novella Giovanna d’Arco, disposta a minacciare torture sugli orchi prigionieri per farlo confessare, e dichiaratamente votata allo sterminio della loro razza corrotta. «Anche se ci mettessi tutta questa Era, giuro di sradicarvi fino all’ultimo», dice l’eroina della serie. Non paga, prefigura di lasciare lo stesso Adar per ultimo, in modo che prima di essere giustiziato, possa vedere scomparire tutta la sua genìa.
Di fronte a questa dichiarazione di crudeltà genocida, la risposta di Adar è forse la più saggia possibile: «Pare che io non sia l’unico Elfo vivo che è stato trasformato dall’oscurità. Forse la tua ricerca del successore di Morgoth doveva cessare nel tuo specchio». Ecco che alla fine di questo sesto episodio verrebbe da dire anche un’altra cosa: finalmente un po’ di complessità. I buoni non sono del tutto buoni. I cattivi non sono del tutto cattivi. «Ci sono più cose tra il cielo e la terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia», diceva Amleto. Si potrebbe aggiungere anche la teologia. E poi segnare un punto per la letteratura e la drammaturgia.
Sabato 17 settembre, durante Fantastika, al Centro Studi tolkieniani “La Tana del Drago” di Dozza, è stato presentato il terzo numero dei «Quaderni di Arda», dal titolo Beowulf a Oxford: lo stile di Tolkien (Eterea Edizioni, € 25). Non era scontato che la rivista dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani arrivasse a battezzare il suo terzo numero in quattro anni. Non solo perché si tratta di uno sforzo completamente volontario, ma anche perché rispetto ai primi due numeri la novità è che questa volta il volume non poggia sugli atti di un convegno con l’aggiunta di altri articoli. Infatti il numero 3 si compone di tredici saggi originali inediti, dei quali ben otto sono stati scritti da studiosi Aist e soltanto i due tradotti dall’inglese non sono stati scritti per l’occasione. Per un’associazione piccola e relativamente giovane come la nostra è un risultato straordinario. Questo riguarda anche la qualità dei saggi contenuti in questo n. 3, che non ha nulla da invidiare a quelli precedenti, e che affronta un territorio pressoché inesplorato.
Lo stile letterario di Tolkien
Tolkien non trova spazio nei libri di letteratura e la sua posizione negli studi accademici è precaria, nonostante si possa considerare uno degli autori di maggior successo degli ultimi cento anni. È sorprendente inoltre constatare che il tema dello stile letterario dello scrittore inglese – anche se forse il più ovvio – sia uno dei temi meno trattati dalla critica internazionale. Esistono appena due monografie generali, mentre la moltitudine di saggi pubblicati in passato ha sempre concentrato la propria attenzione solo su aspetti specifici dello stile letterario, a volte con acume, ma senza mai giungere a uno studio definitivo che divenisse il punto di riferimento per una critica letteraria. Gli studiosi più citati su questo versante “stilistico” risultano essere Ursula K. Le Guin, Colin Manlove, Tom Shippey, Brian Rosebury, Steve Walker, Michael Drout e Alan Turner.
Il volume e suoi contenuti
Le sezioni Focus e Off di questo terzo numero de I Quaderni di Arda sono interamente dedicate all’indagine dello stile letterario di Tolkien, un tema finora ignorato in Italia e poco indagato perfino all’estero, come scritto. Leggendo i diversi saggi si scopre, così, che uno stile tolkieniano non esiste, ma ne esistono molti. Questo perché dei testi narrativi pubblicati da Tolkien non ce n’è uno stilisticamente uguale all’altro. Nonostante questo, risultano una serie di elementi comuni dello scrittore, come il suo processo creativo, l’uso delle poesie e di quella che è chiamata la “prosa poetica”, gli arcaismi, fino a giungere all’espediente letterario del manoscritto ritrovato. Messi in fila, uno dopo l’altro, i saggi rendono bene l’immagine di uno scrittore moderno, attento alle parole, allo stile, alle mode letterarie, con una maturità notevole e una coerenza ancor più spinta, tale da rendere la sua figura nuova e quasi da rivedere, soprattutto per il suo uso del metro allitterativo in inglese. Per il nostro Paese si tratta di una primizia assoluta e speriamo anche di un primo passo verso l’avvio di ulteriori studi con lo stesso taglio. Qualcuno deve pur aprire la pista, suggerire nuovi percorsi. «I Quaderni di Arda» hanno anche questo scopo. La sezione Extra, per altro – e questo è un altro motivo d’orgoglio – contiene recensioni e saggi preziosi, anch’essi abbastanza inusuali per il nostro Paese.
Ecco dunque l’indice del numero. Premendo sull’Editoriale, è possibile scaricare il pdf del testo introduttivo scritto da Wu Ming 4.
FOCUS Colin Manlove – Lo stile di Tolkien Roberto Arduini – Preservare la scintilla: il processo compositivo del Signore degli Anelli Elisabetta Marchi – Come un battito: il ritmo del Signore degli Anelli Eleonora Amato – Come la prosa si fa poesia: la prosa poetica in Lord of the Rings Luca Manini – Un verso per evocare, un verso per narrare: osservazioni sullo stile poetico di Tolkien Matteo Stefani – Fonti storiche fittizie nel Signore degli Anelli: la Cronaca di Barahir, le morti di Denethor e Aragorn e la storiografia latina Anna Smoll, Rebecca Foster – “Il ritorno” di Tolkien e il metro allitterativo moderno
OFF Claudio A. Testi – Lo “stile” tolkieniano nei «Tolkien Studies»: una ricerca bibliografica Tania Todeschi – T. Kullmann e D. Siepman, Tolkien as a Literary Artist: Rethoric, Language and Style in The Lord of the Rings
EXTRA Roberta Tosi – John Garth, I mondi di J.R.R. Tolkien: i luoghi che hanno ispirato la Terra di Mezzo Claudio A. Testi – J.R.R.Tolkien, The Nature of Middle-earth. Late Writings on the Lands, Inhabitants, and Metaphysics of Middle-earth, edited by Carl Hostetter Nicola Nannerini – The Lord of the Rings Online: aspetti e forme transmediali di adattamento in un MMORPG Gianluca Meluzzi – Gli emblemi araldici del Silmarillion
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2 years after last activity
__utmz
Contains information about the traffic source or campaign that directed user to the website. The cookie is set when the GA.js javascript is loaded and updated when data is sent to the Google Anaytics server
6 months after last activity
_gid
ID used to identify users for 24 hours after last activity
24 hours
_gat
Used to monitor number of Google Analytics server requests when using Google Tag Manager
1 minute
__utmc
Used only with old Urchin versions of Google Analytics and not with GA.js. Was used to distinguish between new sessions and visits at the end of a session.
End of session (browser)
__utmb
Used to distinguish new sessions and visits. This cookie is set when the GA.js javascript library is loaded and there is no existing __utmb cookie. The cookie is updated every time data is sent to the Google Analytics server.
30 minutes after last activity
__utmt
Used to monitor number of Google Analytics server requests
10 minutes
__utma
ID used to identify users and sessions
2 years after last activity
_gac_
Contains information related to marketing campaigns of the user. These are shared with Google AdWords / Google Ads when the Google Ads and Google Analytics accounts are linked together.