Appunti sul discorso di Ottavio Fatica a Trento

Convegno di TrentoIl primo intervento al convegno “Fallire sempre meglio: tradurre Tolkien, Tolkien traduttore”, il 30 novembre scorso, è stato quello di Ottavio Fatica, che ha esposto le impressioni e le riflessioni ricavate da due anni di lavoro sul testo del Signore degli Anelli. Il traduttore si era già espresso in altre occasioni, ma in questa circostanza ha tirato le somme, concedendosi uno sguardo più complessivo, e nient’affatto comodo o compiacente.
Per larghi tratti il suo intervento è parso rivolto a noi tolkieniani, come volesse ricordarci che Tolkien è un autore tra molti, e che di nessuno è possibile decretare in anticipo quale sarà il posto nel pantheon letterario. Ergersi a difensori o detrattori a oltranza di un’opera artistica è come difendere o attaccare una trincea a prescindere dalle dinamiche della guerra, per sola fede nella centralità della posizione. Libro Cultura Convergente Henry JenkinsUn’attitudine che ha portato allo stallo e allo stillicidio della Grande Guerra, tanto per dire.
Si potrebbe chiosare che acquisire questa lezione fa la differenza tra essere esclusivamente dei “fan” (fanatic) o essere anche dei lettori critici, cioè in grado di vedere le cose in prospettiva. Nell’epoca della cultura partecipativa non è necessario che le due attitudini siano in contraddizione, come sostiene da tempo il professor Henry Jenkins, e vale la pena credergli.
Bene, dunque, che Fatica abbia ripreso le più celebri stroncature del masterpiece tolkieniano, passandole in rassegna e cercando il loro nocciolo di verità. Un’attitudine corretta, appunto, se si vuole evitare lo stallo di cui sopra, dato che né le opere né le critiche vanno prese per oro colato, ma sempre contestualizzate.

Elio VittoriniInnanzi tutto Fatica ha ricordato la bocciatura dei primi editori italiani che ebbero in visione Il Signore degli Anelli, dovuta a una circostanza particolare: negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia stavamo ancora metabolizzando il realismo americano degli anni Trenta, essendo rimasti isolati dal mondo anglofono per tutto il ventennio del regime fascista. Il Signore degli Anelli era in totale controtendenza e incomprensibile per l’intellighenzia italiana in quel momento storico. Vittorini & co. non peccavano di chiusura o snobismo, ma erano aperti in direzione della grande letteratura americana con due decenni di ritardo. Ogni intellettuale è figlio del proprio spaziotempo. A questa riflessione Fatica ha aggiunto anche un’ulteriore appunto: all’epoca i grandi nomi firmavano le traduzioni, ma in realtà per loro lavoravano i ghost writer. Leggere tra le righe: non è affatto detto che al romanzo, anche con una firma di richiamo, sarebbe toccata miglior sorte di quella che poi ebbe. I bei tempi non sono mai esistiti.
Harold BloomQuindi Fatica ha rievocato le celeberrime stroncature dei due mostri sacri della critica letteraria statunitense, Edmund Wilson e Harold Bloom (il secondo non a caso tanto avverso a quella controcultura americana che invece trovò in Tolkien un autore di riferimento).
Per costoro Tolkien era un romanziere dilettante. Ed è innegabile che lo fosse: la sua professione era un’altra e in vita ha pubblicato soltanto due romanzi e qualche racconto. Se per i grandi critici della East Coast aveva lavorato con l’ingenuità del neofita sugli stereotipi letterari, Fatica ha aggiunto che gli mancava la disinibizione e la prolificità degli autori popolari e seriali, perché la sua non è narrativa popolare vera e propria, bensì segretamente ambiziosa, colta, con più livelli di lettura. Eppure gli è toccata la sorte della letteratura popolare, fino a sprigionare tutta la «forza mitopoietica dell’archetipo» e plasmare l’immaginario collettivo di un’epoca. Ottavio FaticaIn questi equivoci del destino si cela il segreto del “caso” Tolkien.
Ancora: Il Signore degli Anelli è ripetitivo, Bloom dixit. Oh, sì. Ma noi oggi possiamo dire reiterativo, il suo ritmo è questo, è ripetitivo come lo è l’Odissea, o il ciclo arturiano. Questo, Fatica non l’ha detto. Ha detto invece che la marcia degli Ent è «grandiosa».
Per Bloom i giochi linguistici di Tolkien tradivano una lingua «troppo cosciente di sé». Altroché! Mr Canone Occidentale aveva ragione, ma non considerava un fatto: che quel giocare con la lingua sfociava nel revival di certi «trucchi» medievali riutilizzati non già per citazionismo o divertissement, ma perché Tolkien credeva nell’efficacia del loro effetto e voleva riportarli in auge (vedi la lettera 171 e vedi l’intervento della prof. Roberta Capelli allo stesso convegno trentino).

Tolkien Weekend: OrcoE poi la questione degli Orchi, falciati come burattini, come se non fossero anime perse. Quante volte gli è stato rinfacciato in vita e dopo? E non ne stiamo forse ancora parlando a distanza di decenni? Non è rimasto un problema irrisolto anche per Tolkien, che ha continuato a rimuginarci sopra fino all’ultimo? Significa che lui stesso era consapevole che qualcosa non tornava e che alla sua coscienza di cattolico rimordeva l’aver lasciato margine al predestinazionismo, ancorché per creature ripugnanti. Chi lo ha detto che certe critiche snob non possono cogliere nel segno anche se mirano da un’altra parte?
Ancora: il gioco della provvidenza. Qui lo sguardo letterario di Fatica ha dribblato le annose elucubrazioni sulla visione della storia nell’opera di Tolkien, fatte in un’ottica teologico-filosofica, per ricordarci che ogni autore, in quanto sub-creatore produce il proprio mondo letterario, dunque può svolgere la trama secondo un piano provvidenziale e affermare che questo è il senso della storia del mondo – di quel mondo, come del nostro. Ma è troppo facile farlo affermare a Gandalf, cioè a uno dei propri personaggi. È come se in un romanzo poliziesco un detective ipotizzasse chi è l’assassino (Gollum) prima ancora che il delitto venisse compiuto (ruolo e morte di Gollum) ed evocasse anche le possibili conseguenze (eucatastrofe).
IncantesimoFatica ha anche riflettuto sull’Incantesimo, chissà se è stato colto. Anche questa stoccata probabilmente era rivolta a noi lettori fan. Il teatro feerico è un’arma a doppio taglio, perché se si arriva a prendere troppo sul serio la realtà secondaria, a crederci, si rischia di sfociare nella «Illusione Morbosa». Si potrebbe aggiungere che quando un mito viene trasmesso agli altri con una finalità, messo a disposizione di un apparato di potere, cioè quando viene tecnicizzato (avrebbe detto Furio Jesi), le cose non vanno mai a finire bene. Nel Novecento si è scherzato parecchio con questo fuoco, con risultati catastrofici. Ma questo vale anche su una scala più piccola: occhio a non trasformare Tolkien in un demiurgo onnipotente, in un genio assoluto, in un sub-creatore da adorare. Rimane pur sempre un autore di storie, e peregrinare nelle sue terre alle quali sentiamo di appartenere, come direbbe qualcuno, è un’esperienza che non deve azzerare il nostro spirito critico, il nostro senso della prospettiva e delle proporzioni.
Da questo punto di vista, ha detto ancora Fatica, un vero scrittore non ha bisogno di essere difeso da chi lo critica, perché la migliore difesa è la qualità della sua scrittura. E le qualità a Tolkien non mancano, ha detto Fatica: «fantasia, visionarietà, ritmo narrativo incalzante, senso animistico della natura, solida tenuta nei passi di crescendo epico, e molto altro ancora». Infatti l’opera del Professore gode di ottima salute mezzo secolo dopo la sua morte. Che bisogno ha di essere sostenuto se non sta cadendo?
La stessa constatazione si può spendere per il testo narrativo, che non coincide con le sue traduzioni nelle lingue XY, e che non può essere sacralizzato, né caricato di «Verità», a meno che non si intenda fondare una religione (e qualcuno che vorrebbe beatificare il Professore pure esiste), trasformandosi da fan a fanatici religiosi, appunto. Se qualcuno pensa che il passo non sia breve dia un’occhiata alla storia della Chiesa di Scientology.

Tolkien writingA questo lungo preambolo sono seguiti gli appunti tecnici, che in molti, diciamocelo, avremmo voluto più estesi. «Poi ci sono i versi nascosti nella prosa. Non insisterò mai abbastanza su questo punto», ha detto Fatica. E ha spiegato che questa è una caratteristica dello stile di Tolkien, come di altri autori: Dickens, Melville, perfino Calvino. La prosa poetica nel Signore degli Anelli è la sua scoperta – come già era stato per Moby Dick – e nessuno può togliergliela. La scoperta di uno che la letteratura e il tradurre letteratura li conosce come nessun lettore italiano di Tolkien, ahinoi, anche se noi sappiamo la differenza tra hröa e fëa; uno che affronta la questione da traduttore, appunto, e sa che se la parola “soul” non compare nel romanzo (eccetto in una singola occorrenza, in un’immagine figurata), inserirci “anima” in traduzione è sia un problema concettuale e di lealtà al testo, sia un problema di registro. Altroché se lo è.
La prosa di Tolkien è a strati, dunque. C’è la superficie, e c’è tutto il resto, di cui nemmeno un madrelingua inglese è tenuto ad accorgersi, perché servirebbe una competenza da specialista o da accademico, qual era Tolkien, infatti. Eppure solo così si possono cogliere i punti di forza linguistici (ad esempio certe accezioni recondite) e i punti deboli sintattici (ad esempio l’abuso di avverbi), nonché le tantissime suggestioni letterarie che il testo contiene.
Poi c’è la questione che Fatica stesso ha definito spinosa. Quella degli anacronismi e delle parole fuori contesto.
Fatica ha cercato di evitare gli anacronismi, ha detto, o quanto meno di non inserirne arbitrariamente. Quindi niente “fila indiana”, “in picchiata”, “panorama”, “ciao”, “valigie”, ecc. Tutti termini ultracontemporanei in italiano. Tuttavia poi si è accorto che Tolkien non era affatto così puntiglioso come il suo traduttore. E non solo per il celeberrimo drago che passa «come un treno espresso», all’inizio del romanzo.
Ad esempio Fatica nota che Tolkien ha usato gratuitamente l’espressione «night-walkers», resa celebre da Yeats nella poesia Byzantium, in cui come nel romanzo, guarda caso, si descrive un’alba (e che Fatica traduce, quasi mantenendo l’ambiguità alla fonte, con «creature della notte»).
Fatica nota pure che, in un composto simile, Tolkien si è spinto ancora più in là: «nightshade», per ogni vocabolario e per ogni anglofono il nome di una pianta, cioè la morella o la belladonna (sì, proprio l’erba che dava il nome alla mamma di Bilbo e che nel primo romanzo era evocata col nome “italiano”), e che nel Signore degli Anelli compare due volte, nel senso letterale di night / shade, ombra notturna, ma scritto in una sola parola composta. Forse un divertissement, un riferimento criptico al romanzo precedente, o forse un gioco di rimandi interni e al tempo stesso ancora più estesi, se la prima accezione è connessa a Beren e Lúthien e la seconda ad Aragorn. Chissà.
driadeTolkien ha anche usato «dryad», cioè driade, la ninfa degli alberi nella mitologia greca. Cosa ci fa nella Terra di Mezzo?, si è chiesto Fatica, definendola la nota più stonata del libro. È vero, stona, ma talmente forte che non può non essere voluta. Per scoprirne la ragione forse bisognerebbe chiedersi dove si trova questa parola, cioè nella descrizione dell’Ithilien: «Ithilien, the garden of Gondor now desolate kept still a dishevelled dryad loveliness». Nel gioco di trasposizioni geografiche di Tolkien, l’Ithilien è l’Italia, è la parte meridionale della Terra di Mezzo corrispondente all’Europa mediterranea. Tolkien ce lo trasmette a modo suo, con una parola “spia”. E non una parola a caso: “driade” ci giunge sì dal greco, ma è parola d’origine celtica, viene da “drus”, cioè quercia, e ha la stessa etimologia di “druido”. È una parola ponte tra le culture europee, che collega il Mediterraneo al continente. Ecco l’Italia, appunto, un giardino abbandonato (definizione perfetta) e decadente come l’immaginario evocato dalla figura della ninfa. Insomma potrebbe essere l’ennesimo gioco di parole-concetto in stile Tolkien, che conferma la sua autoindulgenza.
GeronzioFatica ha pure preso una cantonata, va detto, attribuendo la parentela del Vecchio Geronzio a Barbalbero (anziché a Pippin), ma sulla ridondanza onomastica ha ancora colto nel segno: Geronzio è nome greco-latino, in questo caso nome proprio di persona, che significa “Vecchio”. Se nella finzione narrativa i nomi hobbit sono tradotti in inglese, il significato del suo nome originario reso dal fantomatico traduttore con l’anglo-latino “Old Gerontius” quale doveva essere? “Vecchio Vecchietto”? “Vecchio Vetusto”? Ma del resto, compare un hobbit di nome Sancho, come il celebre scudiero di Don Chisciotte. A volte per Tolkien la voglia di giocare con i nomi era più forte delle esigenze di plausibilità.
Così, ha fatto notare ancora Fatica, nel testo compaiono “pencils”, “devils”, “devilry”, e perfino un “Lor bless you” o un “jovial”, nonché svariate citazioni bibliche. E via così.

Cover Volume unico FaticaMa perché tutto questo insistere sugli anacronismi lessicali? In fondo Fatica ha premesso che l’espediente narrativo del Signore degli Anelli è quello del manoscritto ritrovato e tradotto, dunque una parola più moderna può tranquillamente essere imputata al fantomatico traghettatore del testo verso il pubblico odierno. È proprio questo l’inghippo. Fatica “sgama” Tolkien che ricorre al suddetto espediente per garantirsi mano libera nei divertimenti lessicali, per poi diventare etimologicamente seriosissimo quando vuole indulgere nel suo vizio segreto. Così se per caso qualcuno pensava di far risalire il nomignolo “Sharkey” a “shark”, cioè “squalo”, o magari di farlo derivare dal germanico “schorck”, cioè “mascalzone”, svelando il gioco etimologico dell’autore, Tolkien in nota si premura di cambiare le regole: spiacente, ma è linguaggio orchesco, non anglosassone, e significa “vecchio uomo”. Riprova, sarai più fortunato. Inutile dire che giammai si permetterebbe questi giochetti con l’elfico o certe parole-asterisco dell’Old English, laddove invece prende assolutamente sul serio il proprio “vizio”, dedicandosi a ricostruzioni e genealogie infinite.
Questo, ha detto Fatica, è sleale nei confronti del lettore, che non può orientarsi nel rimando di specchi della “traduzione della traduzione” e al tempo stesso però è invitato a farsi linguista e fonoesteta. Nella migliore delle ipotesi questo implica l’uso di due pesi e due misure, nella peggiore equivale a invitarlo a giocare con le carte truccate. L’unico demiurgo di quel mondo, lingue incluse, è Tolkien stesso, infatti, che stabilisce norme ed eccezioni, etimi anglosassoni e traduzioni da lingue immaginate, scherzo e serietà. A queste condizioni (né potrebbero esservene altre) nessuno può davvero giocare con lui al suo gioco linguistico, per quanti ci abbiano provato e continuino a farlo. Perché la lingua viva, la lingua-mito, in cui lui credeva, esiste davvero soltanto nella storia vissuta, non inventata, e lui questo lo sapeva (non spese a caso la parola “Vice”, vizio appunto), e perché Il Signore degli Anelli non è davvero una traduzione.

microfono pubblicoQuesta è in effetti l’unica vera imputazione di Fatica a Tolkien, mossa mentre ce ne svela trucchi, giochi di parole e riferimenti a chiave, come parte integrante del suo stile letterario. Per il resto il traduttore ha imputato molto a se stesso: sviste, alcuni errori, imprecisioni, eccessive cautele in certi casi, ripensamenti tardivi. E per fortuna che la comunità tolkieniana si è mossa per segnalare quanti più errori e migliorie possibili in vista delle nuove edizioni. Questa, c’è da credere, è stata una bella novità per Fatica, forse perfino una lezione, se nel suo discorso ha sentito di riconoscere questo contributo. Chapeau. Perché i fan sono così: buoni o cattivi, ben disposti o paranoici, frustrati o conservatori… ma comunque partecipativi. E questa è la metà piena del bicchiere del fandom, ovvero il rifiuto di quella concezione «referendaria» della letteratura – così stigmatizzata da Roland Barthes – in nome di una narrativa vissuta (re)attivamente.
Difficile dire quanti presteranno ascolto a Fatica. È facile supporre invece che in molti preferiranno fraintenderlo, magari perché non si sono trovati d’accordo con le sue scelte traduttive o perché non ha mai mostrato la necessaria reverenza per Tolkien. Resta il fatto che al convegno trentino abbiamo ascoltato il pezzo di uno specialista, finalmente, come l’AIST ha sempre voluto. Uno specialista non già dell’opera omnia di Tolkien, ma di letteratura, lingua, traduzione, che si è cimentato con Tolkien. Se ci ha detto cose poco piacevoli, senza blandire né l’autore né i lettori, dovremmo essere contenti di questa schiettezza, perfino nel caso considerassimo irricevibile ogni suo argomento. Perché di questo sguardo esterno, disincantato, professionale, noi tolkieniani abbiamo bisogno per arieggiare il nostro ambiente, se non vogliamo che diventi autoreferenziale, asfissiante, asfittico.
Occorre resistere alla tentazione di tornare al calduccio del nostro abituro hobbit e chiudere fuori il mondo esterno, come dice Gildor Inglorion della Casa di Finrod, citando il quale Fatica ha concluso il suo intervento. Il mondo esterno va sfidato e attraversato. De nobis fabula narratur.

 

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– Leggi l’articolo La versione di Fatica: contributo per una messa a fuoco

LINK ESTERNI:
– Vai al sito del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’università di Trento

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56 Comments to “Appunti sul discorso di Ottavio Fatica a Trento”

  1. Claudio A. Testi ha detto:

    Fatica ha detto cose a mio avviso interessanti e importanti, mai sentite in Italia e forse nemmeno all’estero, specie nella parte finale della relazione, e non vorrei che questi miei appunti facessero perdere di vista il meglio del suo intervento, tra cui va incluso anche il fatto che Fatica ha ammesso più volte di aver sbagliato, tanto che nella versione in tre volumi ha corretto decine di refusi che gli hanno indicato i fan o di cui lui si è accorto: e qua tutti i tolkieniani dovrebbero lodare la Bompiani, che in tempi non lontani avrebbe certo rifiutato di rimettere mano al testo.

    Scrivo infatti perché, nonostante questa tuo bel articolo, resto ancora perplesso sul rilievo mosso a Tolkien circa gli anacronismi. Tu scrivi:

    “Fatica ha cercato di evitare gli anacronismi, ha detto, o quanto meno di non inserirne arbitrariamente. Quindi niente “fila indiana”, “in picchiata”, “panorama”, “ciao”, “valigie”, ecc. Tutti termini ultracontemporanei in italiano. Tuttavia poi si è accorto che Tolkien non era affatto così puntiglioso come il suo traduttore. E non solo per il celeberrimo drago che passa «come un treno espresso», all’inizio del romanzo”

    Io non capisco il senso di questo rilievo. Che un traduttore non debba mettere anacronismi dove non ci sono, mi pare corretto. Che Tolkien in questo non sia stato puntiglioso come il suo traduttore, mi pare un dato di fatto. Ma la tua frase sembra voler dire che Tolkien “doveva” essere puntiglioso come il traduttore, e quindi doveva evitare anacronismi: ma questo per quale ragione?
    Tolkien è un autore e fa quello che vuole: se mette un anacronismo, il traduttore deve tradurre con un anacronismo e se non lo mette, il traduttore non deve introdurre anacronismi (questo peraltro è quello che ha fatto Fatica, correttamente, e migliorando la traduzione precedente che invece li introduceva). Ma,ripeto, perché mai si avanza una sorta di critica a Tolkien?
    L’esempio del treno espresso è macroscopico e dimostra appunto che Tolkien VOLEVA usare anacronismi. “Express train” è introdotto da Tolkien non da subito ma nella seconda versione di ‘A Long-expected Party”, e sopravvive a tutte le altre 4 versioni successive (si veda HoME vol 6): questo è un argomento forte alla luce del quale si può dire che TOLKIEN LO HA MESSO E LASCIATO INTENZIONALMENTE. Dunque, ripeto, non capisco proprio il rilievo per questo e gli altri anacronismi: ‘driade’ è quasi altrettanto eclatante per cui non può essere sfuggito a Tolkien.
    Inoltre Tolkien può benissimo giustificare l’uso di anacronismi perché, come peraltro ha detto giustamente Fatica all’inizio della relazione, egli si finge traduttore del Libro Rosso, dunque poteva introdurre e giustificare tutti i termini inglesi almeno in essere al momento della “sua” traduzione: da qui il rilievo su “pencil” che nella lingua inglese appare solo nell’800 non lo capisco proprio.
    Al limite si può rimproverare a Tolkien di non essere stato un traduttore fedele 😉 perché ha tradotto termini Ovestron con termini inglesi che non potevano essere presenti nella versione di Bilbo perché scritta millenni addietro…

    Per questo non capisco bene cosa intendi quando scrivi:

    “Fatica “sgama” Tolkien che ricorre al suddetto espediente [del traduttore] per garantirsi mano libera nei divertimenti lessicali, per poi diventare etimologicamente seriosissimo quando vuole indulgere nel suo vizio segreto”.

    Ma cosa c’è da “sgamare”? Tolkien poteva introdurre tutti gli espedienti che voleva, e alla luce di questi giustificare tutti gli anacronismi che voleva: perché aspettarsi il contrario?

    Ad ogni modo, penso che il testo scritto di Fatica che apparirà su I QUADERNI DI ARDA, ci farà meglio capire il senso di questi rilievi.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      «Ma la tua frase sembra voler dire che Tolkien “doveva” essere puntiglioso come il traduttore, e quindi doveva evitare anacronismi: ma questo per quale ragione?»

      Per nessuna ragione. Infatti non è quello che intendevo né che ho scritto. Io non ho proprio nessun suggerimento o racomandazione per Tolkien.
      Può darsi che nei miei appunti io non sia stato sufficientemente chiaro nell’esporre la questione sollevata da Fatica circa gli “anacronismi”.
      Proverò a rispiegarlo nel modo più chiaro che mi riesce, e per farlo partirò dall’espediente del racconto ritrovato, ovvero tradotto dal Westron all’inglese contemporaneo, come lo espone Tolkien nell’appendice F, cap. II, del SdA:

      «Nel presentare la materia del Libro Rosso come una storia da far leggere ai contemporanei, l’intero impianto linguistico è stato tradotto nei limiti del possibile in termini attuali. Soltanto le lingue diverse dalla Lingua Comune sono state lasciate nella forma originale; ma più che altro sono presenti nei nomi di luoghi e di persone.
      La Lingua Comune, quella degli hobbit e dei loro racconti, è stata inevitabilmente trasposta nell’inglese moderno. Così facendo, la differenza tra le varietà osservabili nell’uso dell’Ovestron si è attenuata. Si è tentato di rappresentare queste varietà usando diversi registri dell’inglese; ma lo scarto fra la pronuncia e l’idioma della Contea e l’Ovestron parlato dagli Elfi o dai nobili di Gondor era maggiore di quanto non risulti da questo libro. Gli hobbit in realtà parlavano per lo più un dialetto rustico, mentre a Gondor e a Rohan era in uso una lingua più antica, più formale e più forbita».

      Questo brano spiega perché il fantomatico traduttore, cioè l’alter ego finzionale di Tolkien, può permettersi di fare tutti gli inserti lessicali moderni e incongrui che vuole: train, pencil, devils, babel, jovial, dryad, Lor bless you, ecc.; può perfino introdurre neologismi presi da celebri poesie («night-walkers») o inventarsi nuove accezioni («nightshade») o ancora ricorrere a espressioni bibliche o a latinismi; oppure può rendere i nomi hobbit con giochi di parole ridondanti (Old Gerontius) o con nomi letterari, ammiccando a noi lettori suoi contemporanei (Sancho). Forse questo stona un po’ con il suo rammarico per non riuscire a rendere le varietà nell’uso dell’Ovestron o lo scarto di pronuncia tra i vari popoli della TdM, ma tant’è; il fatto saliente è che il traduttore-narratore è libero di rendere l’Ovestron in inglese moderno come più gli aggrada, infilandoci dentro elementi del suo mondo, del suo tempo, della sua cultura.
      Bene.

      Ora, questo traduttore-narratore è lo stesso che dissemina nel testo parole arcaiche o con accezioni rare (farthing, harrow, mark, nuncheon, moot, anigh, launds, meads, coomb, gaffer, ecc., alcune delle quali come hapax, cioè spese una volta sola in tutto il romanzo, quindi scelte appositamente) e che ignora certe forme plurali dell’inglese moderno per usare ipotetiche forme arcaiche (dwarves, turves, scarves, ecc.); che prende prestiti o non traduce dall’Old English (làthspell, éored, dwimmerlaik, weregild, mearas, gore, ecc.); o che riproduce forme sintattiche antiche come la prolessi dell’oggetto («Helms too they chose, and round shields»); che rende la prosa poetica dell’ipotetico originale con una resa analoga in inglese moderno, con tanto di allitterazioni e a volte pure di metrica («was rough with broken stone and slanted steeply down»). In certi casi poi ricorre alle lingue non tradotte: l’elfico, l’orchesco, l’entese, ecc.

      Dunque è un traduttore/narratore che quando vuole fa il filologo (germanico o elfico) e quando vuole si diverte a usare immagini figurate e forme lessicali prese dal suo mondo contemporaneo o reinventate, rasentando perfino l’effetto ironico. Passa cioè dalla filologia alla narrativa e viceversa come e quando gli pare. Non c’è una ratio, né può essercene una, perché i due approcci stilistici, in effetti, sono opposti: o fai sul serio o ci scherzi sopra (vedi il giochino Sharkey/Sharku). Invece Tolkien pretende di far entrambe le cose a intermittenza.

      E certo che può fare tutto, è l’autore, cioè l’autorità, il sub-creatore. Ma l’incoerenza d’approccio resta tale. E Fatica sostiene che questo è anche un escamotage per avere sempre una via d’uscita, necessaria proprio perché l’architettura – linguistica e narrativa, con tanto di espediente del manoscritto ritrovato – è talmente impostata da richiedere l’impossibile: cioè che “Il Libro Rosso della Marca Occidentale” esista davvero e che esistano davvero la lingua e le lingue immaginarie in cui sarebbe stato scritto.

      Ma per esistere una lingua, Tolkien stesso lo dice, ha bisogno di storie narrate da una collettività, ha cioè bisogno di storia vissuta, non soltanto immaginata.
      Di fronte a questo limite – che lui aveva chiarissimo – ha preferito continuare a giocare seriamente alla filologia immaginaria e alle traduzioni immaginarie, cioè coltivare il vizio segreto, concedendosi una strizzatina d’occhio al lettore ogni tanto. Questo lo rende umano, cioè uno che compensava il vizio con molte virtù, ma non deve impedirci di vedere il limite della sua subcreazione, appunto.

      Sono riuscito a spiegare meglio?

      • Claudio A. Testi ha detto:

        Ho cercato di seguire il tuo discorso, ma imho c’è un punto FONDAMENTALE che non tieni presenti. Scrivi:
        “Passa cioè dalla filologia alla narrativa e viceversa come e quando gli pare. NON C’È UNA RATIO, né può essercene una, perché i due approcci stilistici, in effetti, sono opposti: o fai sul serio o ci scherzi sopra (vedi il giochino Sharkey/Sharku). Invece Tolkien pretende di far entrambe le cose a intermittenza. E certo che può fare tutto, è l’autore, cioè l’autorità, il sub-creatore. Ma L’INCOERENZA d’approccio resta tale” (maiuscoli aggiunti)
        Io non condivido questa frase perché:
        – che Tolkien passi dalla filologia alla narrativa è vero,
        – che non ci sia una ratio è sbagliato (oh, sempre imho).
        Il punto è che per Tolkien filologia e narrativa sono un’unità inscindibile, per cui considerare questa una “incoerenza” è mettere tra parentesi un punto fondante dell’opera tolkieniana. Il mondo di Tolkien nasce dalla lingue-storie e dentro questa unità si sviluppa. Un parola indica una storia e una storia una parola: su questo si veda ad esempio il bell’articolo di Arduini ???. Dunque è sbagliato definire “incoerenza” questo continuo passare della filologia alla narrazione.

        E, ripensandoci, è pure sbagliato parlare di “anacronismi”, che implicano un riferimento a un certo tempo storico rispetto al quale una parola non veniva usata. Il punto è che la vicenda del SDA è collocata in un tempo immaginario (Tolkien su questo è esplicito) in cui palesemente convivono contemporaneamente epoche storicamente ispirate a tempi diversi della nostra storia: età primitiva (Ghan-Buri-Ghan), alto medioevo (Rohan) basso medioevo (Gondor) lega anseatica (Pontelagolungo), società vittoriana-edwardiana (la Contea), età contemporanea (i mulini a vapore inquinanti di Sharkey). Queste sono palesi “anacronismi” che dovrebbero stupire ancor di più che l’uso della parola “pencil”. Ma, ripeto, lo stesso concetto di “anacronismo” è errato per Tolkien, perché presuppone che le vicende della TdM siano collocate in un tempo determinato della nostra storia, rispetto a cui poter dire che quella parola (ad es. “pencil”) a quel tempo (ma quale?) non era usata.

        NB: Questa mia osservazione spiega l’uso tolkieniano di “anacronismi”, per la cui giustificazione basterebbe il già citato espediente della traduzione del Libro Rosso.

        • Wu Ming 4 ha detto:

          Forse ho intuito qual è il punto che non stai cogliendo, Claudio; ma non sei il solo, quindi la faccenda va sviscerata bene bene e bisogna che io provi a farlo per quanto è nelle mie capacità dialettiche.

          Il punto è che proprio perché, come scrivi, «per Tolkien filologia e narrativa sono un’unità inscindibile», è sleale che l’autore ci giochi a proprio piacimento. O prendi sul serio la filologia (ma lui può farlo soltanto come vizio, come tic, come passione, perché è sia l’inventore sia il filologo delle proprie stesse lingue) o ci scherzi sopra con giochetti linguistici ironici come quelli che segnala Fatica… Oppure ancora resti a oscillare nel mezzo, avvalendoti di un narratore schizofrenico, che appunto a tratti usa immagini del nostro spazio-tempo (treno espresso, driade, diavoli, ecc.) e a tratti invece recupera parole e stilemi dell’Old English, o si permette di non tradurre dall’elfico certi versi per farcene assaporare l’eufonia.

          Il punto è che tutti noi ci ripetiamo da decenni una formula, lo fai anche tu: «Il mondo di Tolkien nasce dalla lingue-storie e dentro questa unità si sviluppa». Ma questa è soprattutto una percezione, una proiezione creativa. Quelle lingue non esistono *davvero*. Esistono per quanto le ha inventate un singolo individuo, ovvero fin dove è arrivata la sua inventiva. Non esistono come lingue diffuse, articolate, sviluppate storicamente. Sono finzioni. Quando il traduttore/narratore del SdA dice: «lo scarto fra la pronuncia e l’idioma della Contea e l’Ovestron parlato dagli Elfi o dai nobili di Gondor era maggiore di quanto non risulti da questo libro. Gli hobbit in realtà parlavano per lo più un dialetto rustico, mentre a Gondor e a Rohan era in uso una lingua più antica, più formale e più forbita», sta fingendo, cioè questo fa parte della fiction. Con le lingue elfiche Tolkien si è spinto più in là, certo, ne ha elaborato ampie articolazioni, ma rimangono fiction anche quelle. Dunque le sue lingue non coprono tutta la sua costruzione di mondo: dicevo che il SdA non è *davvero* una traduzione, perché l’Ovestron non esiste. E questo consente a Tolkien di scherzare con la lingua quando/quanto gli pare e piace, se in quel momento ha deciso di non prendersi sul serio.

          Non basta dire che lui è l’autore quindi esercita l’autorità assoluta. Questo è sempre vero. L’autorità assoluta può essere esercitata coerentemente e correttamente oppure no. Se io WM4 oggi mi mettessi a scrivere un romanzo in cui il narratore prima ammicca e ironizza con i nomi hobbit o le parole westron, e poi invece decide di farci sopra filologia, credo che troverei filo da torcere da parte di editor e …di me stesso, prima ancora che della critica letteraria.

          Gli “anacronismi”, dunque, sono la prosecuzione dello stesso argomento. Forse non è il modo più corretto di definirli, ma Fatica infatti ha poi allargato il concetto nel suo discorso, parlando di “pencils” come di “devil” o “babel” o delle citazioni a chiave. Questo ha mandato molti in confusione, perché Fatica non si riferisce ad anacronismi temporali, nel senso delle epoche storiche, ma ad anacronismi stilistici, perché presuppone sempre la necessità di una coerenza stilistica, che invece non è un punto per Tolkien. Perché Tolkien è un grandissimo narratore, come Fatica stesso riconosce, ma non è un romanziere professionista, ergo non si mette i problemi degli scrittori professionisti.
          Per questo è necessario cercare di parafrasare il discorso di Fatica, perché secondo me (chiedo venia per la presunzione) nessuno ha davvero capito quale fosse il suo rilievo.

          Per farlo proverò a comporre rozzamente un periodo pseudo-tolkieniano, che condensi le caratteristiche del suo stile linguistico, in modo da esaltare la contraddizione che individua Fatica:

          As they watched the towers of the city far below them like white pens or pencils touched by sunlight, lo!, fireworks exploded in the sky and passed over them like express trains or flying devils, while the mearas rode across the plain led by the faithful servant Lightfoot’s foal, swift Snowmane, fast and proud they seemed in the rising dawn, and the eoreds remembered those who fought and fell in a far country and a babel of jovial shouts came up from the city, filling the coomb from the small harrow on the hill to the highlands meads, and for many times half an hour the two hobbits, young Sancho and Gerontius ancient of days, enjoyed the spectacle of that landscape that had the dishevelled dryad loveliness freed from nightshade, smoking pipe-weed.

          Traduco alla lettera perché anche in italiano ci si possa rendere conto dell’effetto:

          Quando videro le torri della città sotto di loro come bianche penne o matite toccate dalla luce del sole, ecco!, i fuochi d’artificio esplosero nel cielo e passarono sopra di loro come treni espressi o diavoli volanti, mentre i mearas galoppavano nella piana guidati dal servo fedele, Crindineve progenie di Pieleggero, veloci e fieri sembravano nell’alba crescente, e le eored ricordavano quelli che perirono pugnando in un paese lontano e una babele di grida gioviali saliva dalla città, riempiendo la comba dal piccolo fano in cima alla collina fino ai paschi sull’altopiano, e per molte volte mezz’ora i due hobbit, il giovane Sancho e Geronzio antico di giorni, godettero lo spettacolo del paesaggio che aveva la bellezza scarmigliata della driade, libero dalla [belladonna/]ombra della notte, fumando erba-pipa.

          L’effetto concentrato è caricaturale, ovviamente. Serve soltanto a mostrare l’indizio del problema.
          Fatica fa notare che lo stile del romanzo è anarchico, senza un criterio di coerenza nelle forme e pieno di anacronismi, appunto: dovrebbe essere una traduzione in inglese moderno e saccheggia elementi, immagini, registri e stilemi antichi e moderni a proprio totale piacimento, senza porsi una regola. Questo è anche il divertimento di Tolkien, lo si percepisce chiaramente. Ovvero un approccio non professionale, non serio, ovvero serio soltanto a tratti, allo stile linguistico con cui si narra una storia.

          Osservare questo non sminuisce né la portata del suo racconto, tant’è che – come fa notare Fatica stesso – il SdA gode di splendida salute e seguita ad affascinare generazioni di nuovi lettori, né il lavoro di Tolkien sulla lingua, che è certosino, ma, appunto, anarchico, a suo assoluto piacimento.
          Questo spiega uno dei motivi per cui la critica letteraria non lo prese sul serio. Non era solo colpa dello snobismo dei criticoni americani o britannici, c’era un elemento naif nella stessa scrittura di Tolkien, perché lui non doveva dimostrare niente a nessuno né doveva seguire alcun criterio che non fosse quello che gli suggeriva la sua voglia/vizio.
          Questa libertà assoluta è bellissima. Ma al tempo stesso rappresenta un limite, quello che impedisce a Tolkien di essere nella letteratura inglese non dico al livello di Conrad o di Joyce, ma nemmeno di Woolf e Forster.

          • Claudio A. Testi ha detto:

            Allora Federico, il tuo esempio è molto chiarificante, però a questo punto dovresti usare una parola diversa da “anaCRONIsmo”, che richiama NECESSARIAMENTE un aspetto temporale, avendo nel suo etimo il tempo (“chronos”). La tua frase seguente in quest’ottica non ha imho senso, salvo dare al termine “anacronismo” un significato che non ha e quindi fare quei giochi linguistici alla Humpty-Dumpy che stai criticando ;-):
            “Fatica non si riferisce ad anacronismi temporali, nel senso delle epoche storiche, ma ad anacronismi stilistici, perché presuppone sempre la necessità di una coerenza stilistica”. Ma un anaCRONIsmo è sempre “almeno” temporale!
            In sintesi, un conto è dire che nel LOTR non c’è uno stile coerente, un conto è dire che ci sono anacronismi.
            Ora, se il rilievo al LOTR è è che non c’è uno stile coerente, lo capisco molto meglio. Che poi sia un rilievo centrato o meno, ci devo pensare.

        • Roberto Arduini ha detto:

          Claudio, mi permetto di citarti quando scrivi:
          «Il punto è che per Tolkien filologia e narrativa sono un’unità inscindibile, per cui considerare questa una “incoerenza” è mettere tra parentesi un punto fondante dell’opera tolkieniana. Il mondo di Tolkien nasce dalla lingue-storie e dentro questa unità si sviluppa. Un parola indica una storia e una storia una parola: su questo si veda ad esempio il bell’articolo di Arduini ???. Dunque è sbagliato definire “incoerenza” questo continuo passare della filologia alla narrazione».
          Qui non si tratta di mettere tra parentesi il concetto linguistico perseguito da Tolkien, che sappiamo tutti deriva da Owen Barfield dell’unità semantica. Tra l’altro evidenzio subito che quel concetto anche per Tolkien era all’origine delle cose e poi si è perduto con l’evoluzione dell’uomo e del linguaggio. La questione a mio avviso è letteraria, anzi proprio meta-narrativa: posto che per Tolkien c’è un legame fortissimo tra un nome e storia, ci sono dei limiti in cui una lingua può far coincidere significante e significato, e di questo se ne era accorto e se ne lamentava anche Tolkien e che ripetutamente tematizza nella trama de Il Signore degli Anelli (vedi i discorsi di Barbalbero sulla perdita dei nomi delle cose o le questione legata a Lothlórien).
          Io me ne sono occupato nel saggio sui limiti del linguaggio in Tolkien e i Classici 2, e non è un caso che Ottavio Fatica accosta Joyce a Tolkien. Forse avrà letto il mio saggio forse no, ma è proprio la questione che accomuna i due autori e che Fatica, da traduttore di entrambi ha, per così dire, «riscontrato sul campo»!
          Ripeto la questione è meta-narrativa: Nell’Appendice F, “A proposito della traduzione”, il «curatore» rivela che non solo ha modificato, ma ha anche tradotto il materiale del Libro Rosso. La Lingua Corrente, essendo il linguaggio degli Hobbit e dei loro racconti, è stata trasposta in lingua moderna. Questa «traduzione» rafforza l’autenticità del Signore degli Anelli come manoscritto storico e questo è lo scopo del Tolkien scrittore. Ma quando si apprende che nomi familiari come, per esempio, Sam e Merry si chiamavano in realtà con i nomi stranieri di “Banazir” e “Kalimac”, e che la Contea era in realtà chiamata “Sûza”, la realtà secondaria costruita nel Signore degli Anelli improvvisamente diviene estranea ai lettori, la cui risposta viene così sottovalutata. Il traduttore-redattore all’interno dell’opera prima richiama l’attenzione sul fatto che la lingua può essere il fondamento di entrambe le realtà e, al tempo stesso, lascia poi che questa credenza collassi.
          Se l’insoddisfazione per il linguaggio primario porta Tolkien all’invenzione dei linguaggi secondari (vedi le spiegazioni etimologiche con derivazioni elfica o orchesca, come Sharkey), la creazione di spiegazioni miste tra linguaggi primari e secondari crea una paradosso (cioè va bene una derivazione secondaria in un mondo secondario, ma una derivazione primaria in un mondo secondario non può essere spiegata con una prospettiva solo interna a quel mondo). Ma qui il paradosso è ancora maggiore perché per stabilire il mondo secondario (con l’impostazione delle lingue secondarie) bisogna usare la presunta lingua insufficiente del mondo primario, cioè la sua traduzione in inglese: anche se lo avrebbe tanto voluto, Tolkien infatti afferma che NON avrebbe potuto scrivere Il Signore degli Anelli in “elfico” o “Westron” (altrimenti lo avrebbe potuto leggere solo lui!!!): doveva per forza di cose essere «tradotto».
          «Il linguaggio, niente di più, niente di meno, non è altro che un mondo di parole. La conclusione definitiva di questa visione pessimistica deve essere quella che il linguaggio non può riuscire in tutto, c’è un limite a quel che una lingua può descrivere», da “I limiti del linguaggio in J.R.R. Tolkien e James Joyce”, in Tolkien e i Classici 2, pp. 199-201.

          Tolkien, quindi, gioca con le parole, da demiurgo del suo mondo quale è, ma lo fa con la consapevolezza che ci sono limiti di linguaggio che può superare soltanto usando etimologie secondarie e primarie a seconda del momento. Infatti, è la stessa cosa che fa anche nel vico Scarcasacco e di cui avevo scritto nell’articolo che hai citato:
          «Nella sua Guide to the names in The Lord of the Rings, lo scrittore spiega che il vico fu costruito dopo che Bungo Baggins, il padre di Bilbo, aveva edificato Casa Baggins. Per quanto riguarda l’origine del nome, Tolkien spiega che l’etimologia di Bagshot è inventata seguendo la tradizione popolare della Contea. Il termine è composto da due elementi: bag- ripete quello di Bag End ed è derivato da esso, quindi in italiano “borsa” o “sacco”; il secondo elemento -shot (al contrario di quanto scrivono in molti pensando a “sparo” o “colpo”) si riferisce a una antica voce dialettale shot “divisione della terra” e molto più probabilmente a *scēot, “ripido pendio”, termine antico inglese non riportato, ma ipotizzato da Eilert Ekwall in Concise Oxford Dictionary of English place-names, che compare ad esempio Shotover, villaggio a est di Oxford che significa «Collina su un ripido pendio», come riportano Hammond e Scull in The Lord of the Rings – a Reader’s Companion»…
          Quindi “Bagshot Row” è il risultato dell’unione di una etimologia secondaria – “Bag-” che, bada bene non in inglese, ma nella “tradizione popolare della Contea” riconduce a “borsa, sacco” – e di una etimologia primaria – “-shot” che si può spiegare come “ripido pendio” soltanto con un toponimo di un villaggio a est di Oxford, che è impossibile trovare nella Terra di Mezzo… Anche se c’è un’incongruenza logica come puoi vedere, in Tolkien tutte queste cose si tengono benissimo e, anzi, permettono allo scrittore inglese di suggerire anche il fatto che un tempo Tassi e Hobbit si contendessero la Contea, cosa che andava a basarsi su etimologie dei termini bag “borsa” e badger “tasso” nel nostro mondo primario! In conclusione, è grazie alla “sua” filologia che Tolkien faceva narrativa…
          Chi volesse approfondire qui: https://www.jrrtolkien.it/2020/08/03/quante-storie-dietro-il-vico-scarcasacco/

          • Claudio A. Testi ha detto:

            Grazie Roberto, hai fatto benissimo a linkare il tuo articolo su via Sarcasacco: nel mio post andava messo al posto dei ‘???’ ma mi sono scordato ;-).
            Comunque io condivido totalmente questa tua precisazione.

          • Wu Ming 4 ha detto:

            L’esempio dei nomi “veri” degli Hobbit è perfetto. E sottoscrivo in pieno l’ultima frase, che centra il punto: «è grazie alla “sua” filologia che Tolkien faceva narrativa».

            Credo che per far quadrare il cerchio sulla questione degli anacronismi, si potrebbe metterla in questi termini: l’incoerenza nel SdA è stilistica, ma ha comunque a che fare con l’anacronismo, perché il fantomatico traduttore dal Westron decide arbitrariamente di riccorere/riportare termini anglosassoni, termini obsoleti e vecchie accezioni – il che presuppone un’attitudine filologica -, ma non si fa scrupolo di usare oggetti a noi contemporanei per le sue metafore e immagini figurate, dimostrando poca o nulla attitudine filologica in questo, dato che di certo nel fantomatico Libro Rosso originale non potevano esserci riferimenti ai treni, citazioni bibliche, neologismi contemporanei, driadi, ecc.

            La cosa bella è che tutto questo non toglie che l’incoerenza stilistica/anacronismo possa essere comunque un punto di forza del successo del romanzo, ovvero un’originalità accattivante per i lettori.

  2. don Daniele Pietro Ercoli SDB ha detto:

    Sacralizzare un testo letterario, caricarlo di «Verità», fondare una religione, non c’entra nulla con il dichiarare che Tolkien sia in Paradiso, perché questo è in sintesi una canonizzazione. Un inciso in questo contesto sembra quasi messo con dileggio.

  3. Claudio A. Testi ha detto:

    Per completezza verso chi leggerà questo bello scambio, imho molto chiarificante sul concetto di “anacronismo”, vorrei aggiungere due note sulla questione fëa/anima/spirito.

    Come hai scritto “soul” appare solo una volta nel LOTR, mentre la versione Alliata/principe usa “anima” almeno 20 volte, Fatica una sola proprio quando la usa Tolkien e in questo si dimostra più fedele al testo.

    “Fëa” non appare mai nel LOTR da solo, però appare 17 volte come prima parte del nome Fëanor.
    Va ricordato che Tolkien riflette sulla distinzione fëa/hroa in grandissima parte DOPO la scrittura del SDA, anche a seguito di domande ricevute concernenti il tema della reincarnazione degli elfi, sulla quale il lettore italiano può leggere il completo testo da noi curato J.R.R. Tolkien, La Reincarnazione degli Elfi e altri scritti, Marietti 1820 ( https://www.mariettieditore.it/9788821191695-la-reincarnazione-degli-elfi).
    In sintesissima, per Tolkien il fëa corrisponde all’anima razionale: ecco solo un paio di riferimenti inequivocabili:
    – “ ‘rational soul’ or fëa” (Home, X, Morgoth’s Ring, p. 410)
    – 349 “fëa …it corresponds, more or less, to ‘soul’ “ (Home, X, Morgoth’s Ring, p. 349)
    Il fëa è proprio l’anima razionale che hanno appunto gli esseri razionali e che non hanno le piante o gli animali, Per questo il fëa si differenzia dal concetto aristotelico di anima /psiché che era posseduta anche da piante e animali (vedasi il “Peri psiché” ovvero “De anima”): per questo è fëa si avvicina all’idea di spirito.

    Tolkien quando parla di “fëa” usa infatti “spirit” e “rational soul” in modo quasi sinonimico: si veda volume indicato per varie occorrenze di “spirit”. Da ricordare che “siprit” è parola ben più cristiana di ‘soul’, che è appunto di origini greche: la tripartizione corpo-anima-spirito è tipicamente paolina. Come noto infatti nella Scrittura non si parla strettamente di immortalità dell’anima (che per il grande teologo protestante Cullman è un’idea quasi anti-cristiana).
    Si noti infine che gli Ent, sono esattamente “anime” che abitano alberi (“the Ents were either souls to inhabit trees”, (Home XI, War of the Jewels p.341) a dimostrazione della sinonimia tra “soul” e “spirit” in questo contesto: si ricordi infatti che nel Silmarillion cap. 2 gli “spirits from afar” spiegano probabilmente la genesi degli Ent.

  4. Matteo ha detto:

    Tutto molto interessante.
    Ma quando un traduttore usa A OCCASO per tradurre il semplice termini inglese WEST (OVEST); e solo per il titolo di un capitolo usa la parola OCCIDENTE, mi fa temere solo una cosa: che qualcuno ha spinto perché si usasse un tono “evocativo”, “aulico”, per non dire pomposo e “difficile” in modo ossessivo ed eccessivo.

    Posso capire gli errori nel mettere FALESIA dappertutto. Anche quando il termine non è propriamente corretto geologicamente.

    Ma quando il semplice OVEST deve diventare una parola che più la leggi e più ti infastidisce, sapendo che nel testo è un semplice WEST, ripeto: ti fa sorgere il dubbio che sia stato “instradato”, perché non può tradurre, con la sua esperienza, un termine del tutto estraneo al testo.

    Sinceramente pensavo fosse un termine “particolare” usato da Tolkien. Mi sfugge qualcosa?

    Ma sommare occaso, a falesia, e quei termini che usa a mo di “stampino” più che rovinare la lettura, rovina la traduzione, l’operazione in se di “ritradurre il libro” rimanendo fedele al testo il più possibile.

    Poi cosa c’è nell’articolo?
    “Fatica ha cercato di evitare gli anacronismi, ha detto, o quanto meno di non inserirne arbitrariamente. Quindi niente “fila indiana”, “in picchiata”, “panorama”, “ciao”, “valigie”, ecc. ”

    Gandalf al consiglio di Elrond: “…i suoi calcoli andranno a farsi benedire”.
    Dove il testo dice: if we seek this, we shall put him out of reckoning.
    A FARSI BENEDIRE?
    Dove sarebbe nel testo inglese? Poteva scrivere “manderemo all’aria i suoi piani”, o “rovineremo i suoi calcoli”.
    Tanto valeva scrivere “Lo metteremo fuori gioco”, allora.
    “Se lo faremo, rovineremo i suoi calcoli”.

    Il problema è che Alliata-Fatica spesso “inventavano”. Se ci si mette anche Fatica a farlo, anche se in meno punti, non si può dire che ci sia stato un miglioramento. Generale forse si.
    Ma saltano di più all’occhio queste cose. E’ come cercare dei puntino rossi in mezzo a puntini grigi quando nell’altro caso si trattava di trovare puntini rossi in mezzo a puntini viola. Di la li notavi meno. C’era un generale appiattimento o il discostarsi dal testo.
    Di qui ogni singolo “errore ed esagerazione” salta all’occhio in modo pazzesco.

    Per questo secondo me, molti stanno andando contro la traduzione di Fatica. Il suo lavoro non è perfetto. Ma quando commette errori o imprecisioni o scelte infelici, risaltano molto di più in un testo meglio tradotto.

    Per esempio, Faramir che da del Messere a Sam non esiste. Un pretendente al Trono, non darebbe mai del Messere ad un giardiniere. Alliata-Principe traducono Messere da Master, se non erro. Fatica capisce che questo termine può essere reso come Mastro. E lo usa. Quindi fa capire come Fatica stia attento al testo. Ma poi “cade su cose più semplici” e si vede. Come se un Leonardo sbavasse con una pennellata, dando dei baffi alla Gioconda.
    Non so se sono stato chiaro. Ma il concetto è che in Fatica ogni errore si amplifica intorno ad un testo che trovo sostanzialmente migliore del precedente. Ma che nell’altro tutto si mischiava ed era più omogeneo nel suo risultato (alto o basso che fosse).

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Il tuo discorso è molto chiaro, Matteo. E secondo me in buona parte anche condivisibile.
      Il miglioramento generale è innegabile – da tutti i punti di vista – ma siamo ancora lontani dall’ottimale. In particolare sottoscriverei questa tua frase:
      «Ma quando [Fatica] commette errori o imprecisioni o scelte infelici, risaltano molto di più in un testo meglio tradotto».
      Detto questo, ti posso assicurare che nessuno ha potuto spingere Fatica o instradarlo da qualche parte. Quello è lo stile che lui ha scelto per tradurre il romanzo. E c’è una ragione a mio avviso decifrabile, che ti “sfugge”, come dici. A te come a molti altri, in effetti.
      Prima di darti una risposta, però, distinguerei due aspetti diversi della questione che poni:

      1) Ci sono ancora imperfezioni nella traduzione di Fatica che andrebbero e, c’è da augurarsi, verranno emendate nelle future edizioni. “andranno a farsi benedire” è un’espressione idiomatica che anche a me suona fuori luogo. Hai ragione: ci poteva stare un’altra frase con lo stesso significato.
      “Ciao” per “Hullo”, invece, checché ne dica Fatica, secondo me ci può stare, dato che è il saluto italiano più informale tra due amici e non saprei quale alternativa ci potrebbe essere.
      Tuttavia, mentre si fanno giustamente le pulci alla nuova traduzione, meglio non dimenticarsi da dove venivamo… Dalle file indiane, sì, ma anche da «battezzare luoghi», o da Gandalf in seduta sul lettino del dottor Freud a Vienna: «- Capii allora cos’avevo inconsciamente temuto» [!!!!]. O da errori marchiani come gli stagni fetidi («noisome pools») delle Paludi Morte diventati «botri pieni di rumore» (sarà stato il gracidare delle rane? O i morti che facevano festa nelle fosse?). O ancora da frasi aggiunte arbitrariamente, oppure saltate a piedi pari, rendendo illogiche perfino certe scene-madre: vedi il tentativo di assassinare Frodo da parte di Saruman nel finale.
      Con tutte le riserve che si possono nutrire sullo stile di Fatica, almeno adesso abbiamo una traduzione completa, fluente, e senza clamorose sviste.
      In realtà abbiamo molto di più, ma ne dico qui sotto.

      2) Questione diversa è la scelta di Fatica di tradurre alcune parole inglesi moderne con parole arcaiche italiane, come l’esempio che fai: West => Occaso. Ma se ne potrebbero fare svariati altri. Spesso nella nuova traduzione ci si imbatte in verbi alquanto demodé (es: «rugghiare»), o utilizzati in un’accezione demodé (es: «palpeggiare»). Ebbene, non si tratta di “invenzione”. Questo è il modo in cui Fatica ha recepito e cercato di rendere lo stile di Tolkien. Nessuna traduzione letterale potrà mai restituircelo, infatti. Se hai letto i due articoli sull’arcaismo che o scritto in questo blog magari hai notato che questa cifra stilistica, l’arcaismo appunto, in Tolkien è piuttosto articolata e frutto di scelte specifiche. Il risultato non è banale né scontato da rendere. A volte Tolkien usa veri e propri termini arcaici, altre volte obsoleti; in altri casi può usare parole moderne ma in una costruzione sintattica arcaica, o sfruttando l’allitterazione, cioè in prosa poetica, rifacendosi ad antichi modelli; ecc.
      Dunque secondo l’interpretazione di Fatica lo stile di Tolkien ha un’aura arcaizzante ottenuta con vari mezzi e che che in qualche modo va resa in italiano. Arcaizzante non significa necessariamente aulica: a volte può esserlo, a volte no; a volte Tolkien usa espedienti poetici alti, a volte vocaboli antichi ma di registro basso, ecc.
      Non è per niente facile escogitare il modo di tradurre uno stile come questo in un’altra lingua, che non può necessariamente sfruttare gli stessi espedienti.
      Fatica quindi ha evidentemente scelto un lessico che desse un certo effetto “arcaico”, ma non troppo, o poetico all’occorrenza, usando qua e là termini ricercati.
      È una scelta contestabile, certamente, ma anche piuttosto comprensibile, a mio avviso (se si vuole comprenderla, of course,e non pensare che Fatica sia un matto). E soprattutto, ribadisco: teniamo presente che è il primo traduttore italiano che prova a mettersi questo problema, cioè non quello di cogliere il fantomatico “spirito” del romanzo, che aleggia da qualche parte, ma di coglierne lo stile letterario, che si trova nella lingua scritta.

      P.S. Invece non capisco perché “falesia” per “cliff” non andrebbe bene. Il significato è quello di una costa rocciosa, no? Considera che una delle difficoltà dichiarate da Fatica è stata quella di trovare una corrispondenza per ogni sostantivo “geologico” usato da Tolkien. Sembra quasi che si sia divertito a scegliere la maggior quantità di opzioni disponibili nella sua lingua. Anche in questo caso, se un traduttore coglie questo “tic” stilistico, cerca di riprodurlo come meglio gli riesce (finché gli bastano le parole).

      • Matteo ha detto:

        Mi sono forse espresso male. Falesia funzione bene nel 90% dei casi. Sono pareti a picco, molo alte, spesso costiere. Le “Bianche Costiere di Dover” sono in effetti falesie. Ma dentro ad un “bosco” se si incontra una parete che ti impedisce di proseguire, sono solo delle pareti rocciose, non sono propriamente falesie. Non tutte le pareti di roccia sono falesie. Fatica mi sembra che usi, come ho detto, “a stampino” alcuni termini.

        Però come dici: “usando qua e là termini ricercati.”
        E’ proprio questo “qua e là” che “non mi piace”. Poteva usare un termine “ricercato” per parole… diciamo già complesse, non certo per un punto cardinale !!!!! Ovest è Ovest. Tanto più che lo usa praticamente sempre quando deve indicare il moto del sole, o una indicazione generica per l’ovest quando indica l’ovest come destinazione. Perché quando invece ne parla in altri termini, come semplice punto cardinale, usa tranquillamente ovest.
        In “Smèagol Domato” scrive: “Impossibile procedere oltre: bisognava ora girare verso ovest o verso est.”
        Quinto usa Ovest e non occaso, è come se fosse una indicazione “destra sinistra”. Quando usa OCCASO sembra sia una indicazione geografica, più di una indicazione di un “verso della mappa”.

        Comunque mi sfugge una cosa; forse avrò capito male. Ma il supporto che avete dato a Fatica per la traduzione in cosa verteva? In refusi, o spiegazioni di un Mondo complesso che non poteva conoscere perché magari non aveva mai letto il libro? Di scelte stilistiche non ne avete mai fatte menzione?
        Perché mi sembra che di modifiche al testo nel Volume illustrato e alla Terza Ristampa ne siano state fatte: Galndalf la prima volta che nomina il “Monte Fato” lo chiama adesso Montagna di Fuoco, o non Monte Fiammeo come la prima stampa. Aule è diventano aule, nella poesia dell’anello.

        Comunque il testo è considerato concluso, o a monte di talune “lamentele” o riletture, è possibile che venga revisionato di nuovo in altre parti? Nel caso fosse così non pensate che molti potrebbero lamentarsi per un volume illustrato del costo di 50 euro, per poi trovarsi magari in una edizione economica la sistemazione di taluni refusi, o scelte ripensate?

        Intanto ti auguro Buon Natale. Con le restrizioni Nazionali farò un Natalino domani solo in tre persone. E poi devo finire il Libro. Non l’ho ancora concluso 🙂

        • Wu Ming 4 ha detto:

          Eppure, Matteo, una ratio c’è nella scelta di Fatica. Non mi pare una scelta random la sua.
          Fatica traduce “occaso” quando l’espressione inglese riguarda il muoversi del sole o della luna. In questi casi Tolkien è piuttosto incostante nelle espressioni che usa (“west”, “westward”, “westering”) , quindi è facile che anche Fatica abbia avuto difficoltà a regolarsi. Comunque mi pare che la sua linea sia stata questa. Mentre ha usato “ovest” in tutti gli altri casi.

          Quanto al supporto a Fatica è consistito in una rilettura da parte di una persona designata dall’associazione che ha letto per primo la traduzione mano a mano che veniva fatta, e ha dato delle dritte al traduttore, il quale non conosceva a menadito né il romanzo né la Terra di Mezzo. Ma le scelte stilistiche sono del traduttore, è il suo stile, non di qualcun altro. A parte segnalare le sviste, si è potuto convincerlo magari a cambiare la resa di un nome o di un toponimo, ma non gli elementi del suo stile traduttivo.

          La domanda sul volume da €50 e le future edizioni con ulteriori correzioni bisogna rivolgerla a Bompiani. L’Aist sulle scelte editoriali della casa editrice non ha voce in capitolo. Io posso dire soltanto che le correzioni si fanno mano a mano che vengono scovate le cose da correggere. E in un volume così lungo e complesso ci sta che ci voglia più tempo per raccoglierle dai vari lettori. Nel frattempo Bompiani non può lasciare scoperte le edizioni andate perdute – come ad esempio quella deluxe illustrata da €50, appunto -, perché il contratto di acquisizione dei diritti stranieri di una qualunque edizione prevede che l’opera resti disponibile in libreria, pena il decadimento del contratto. In questo caso HarperCollins, l’editore inglese di Tolkien, è stato comprensivo, diciamo: quando Bompiani ha spiegato loro come si era messa la situazione con la vecchia traduttrice, a Londra hanno chiuso un occhio, in attesa che Fatica finisse il lavoro. Dopodihé però l’edizione deluxe andava rifatta, non c’erano più deroghe possibili.
          Va da sé che se Bompiani avesse avuto ancora nella disponibilità la vecchia traduzione avrebbe potuto prendersela più comoda, probabilmente, ma visto come sono andate le cose ha dovuto affrettarsi a rifare le varie edizioni con la traduzione nuova. L’editoria ha le sue leggi.

          Su “falesia” mi sa che hai ragione. O meglio, probabilmente Fatica si è rifatto al secondo significato del termine, quello “improprio”, secondo il Treccani, entrato però nell’uso:
          «2. Con uso improprio, in alpinismo, qualsiasi parete rocciosa utilizzata come palestra di arrampicata, anche quando abbia genesi e ambientazione diverse da quelle delle falesie propriamente dette».

          Auguri anche a te.

    • Giuspee ha detto:

      Posso essere anche d’accordo che certi svarioni si possano notare di più in una traduzione di buona fattura come questa, come il falesia da te citato che non piace neppure a me, ma attenzione a non esagerare con la puntigliosità delle critiche.
      Mi riferisco alla questione di occaso: ho voluto fare una ricerca tramite copia digitale e viene fuori che nell’interezza del testo è usato – se ho contato bene – 9 volte, di cui una in un testo poetico, e si concentra prevalentemente nella seconda parte della traduzione del libro. Da un rapido sguardo, tolta quest’ultima occorrenza poetica, è usata solo in descrizioni del narratore per tradurre west, westward e westering. Proprio westering mi pare sia un termine ricercato rispetto all’uso medio della lingua inglese, quindi lì sarebbe più giustificato. Negli altri casi bisognerebbe vedere con calma com’è l’intero brano; infatti, come avrai notato, spesso Fatica s’impegna a rendere lo scarto stilistico verso l’alto di una descrizione del testo originale con l’uso di questi termini particolari (letterari o non comuni).
      Io non penso, insomma, che qualcuno lo abbia “instradato” ma che sia la sua cifra stilistica nel tradurre autori dallo stile particolare come Melville e Tolkien stesso. Chi sarebbe stato a spingerlo a fare così? e per quale motivo?

      • Matteo ha detto:

        “Chi sarebbe stato a spingerlo a fare così? e per quale motivo?”

        Alliata nella sua lettera aperta, senza leggere una sola riga aveva detto in modo presuntuoso, che la nuova traduzione sarebbe stata adattata ai nostri giorni. Nel suo intento denigratorio era quello di far sorgere il dubbio che gli Hobbit si sarebbero messi a parlare come i giovani d’oggi. Cosa che poi non è assolutamente risultata vera.

        Leggendo occaso invece che semplice ovest, mi era sorto il dubbio che qualcuno avesse spinto Fatica a discostarsi da una traduzione semplice anche quando in verità lo era. In modo da creare un vero e propio “solco” tra il suo adattamento e il precedente.

        Fatica è un esperto traduttore, e non c’era motivo di rendere occaso quando nel testo si legge proprio west, come ho riportato. Io mi sono chiesto: “Come può un traduttore della sua esperienza usare un termine del genere per il semplice ovest, nella banale descrizione del moto del sole, che sale, si nasconde dietro alle fogli degli alberi, in alto e poi tramonta a ovest” ? Tutto qui. Se non c’è stata spinta, come dice Federico però Fatica “mette qui e là” termini arcaici… Lo dico io non lui, però mi sembra “un po a caso”. O almeno: cosi merge dalla lettura da parte mia. LUI (Fatica) l’avrà studiata, ma a me fa sorgere dubbi che possono none essere veri. Avesse usato a mancina per dire sinistra, sarebbe stato lo stesso? “E adesso dove andiamo Gollum?” “A mancina Padron Frodo”. poi il problema è leggere proprio occaso in un capitolo che intitola “La Finestra a Occidente”

        • Stefano Annibali ha detto:

          sono d’accordo con matteo, e con tanti altri infastiditi dal disomogeneo.
          premetto che sono favorevole a una nuova traduzione, che non ho legami invincibili con la precedente e che mi disinteresso della parte politica.
          la traduzione di fatica è un lavoro che toglie pace: si porta avanti con buon ritmo e colore in un paesaggio armonioso per poi STRIDERE con termini irritanti, fuori contesto, sgradevolmente inaspettati, piovuti dal dizionario. grazie al lavoro di wu ming 4, so che è il suo modo di rendere le espressioni non comuni di tolkien, ma l’effetto qui da noi NON suona bene, catapulta fuori dalla lettura, toglie l’unità formale dell’opera.
          il ‘chiedo venia’ degli hobbit mi fa proprio inalberare come il cavallino, una scelta che proviene da un altro mondo, da un altro temperamento, non dalla contea; e quando ho letto ‘AVEA’ nella descrizione di arwen ci sono rimasto così male che ho chiuso il libro. è ancora fermo là. nessun senso di antico, ma di osceno, di un gioco che tradisce le regole.
          se si tralasciano le poesie, che sono a mio avviso incomprensibili e bruttissime, soprattutto l’imperdonabile poesia dell’anello, per il resto sarebbe una bella traduzione, gustosa, varia, abbondante, e invece frequenti pasticci la sfregiano, tolgono la concordia, danno imbarazzo.
          mi chiedo perché ci siano problemi solo nel signore degli anelli, come mai le sensazioni siano rotonde ed omogenee in tutte le altre traduzioni, nell’hobbit, silmarillion, hurin, gondolin, beren e luthien e qui no.

          • Wu Ming 4 ha detto:

            Pensa che per me è vero il contrario, Stefano: Fatica avrebbe dovuto tradurre con “Chiedo venia” tutti i “Begging your pardon, sir” di Sam o di altri hobbit, per distinguerli dai “Sorry” che pure ci sono. Lo ha fatto in effetti in quasi tutti i casi, ma non in tutti.
            Sono due espressioni diverse, una più reverenziale e l’altra più colloquiale e gli hobbit le usano entrambe a seconda dell’interlocutore che hanno davanti, quindi è giusto rendere questa differenza.
            In italiano “Scusa” o “chiedo scusa” è più basso di “chiedo perdono” “chiedo venia”.

            Per quanto riguarda la descrizione di Arwen, secondo me hai ragione nel dire che Fatica fa una forzatura nel suo modo di rendere l’effetto dell’originale. La sua traduzione del passo in questione è chiaramente in prosa poetica, ed evoca la poesia medievale o rinascimentale, sia per quanto riguarda il ritmo metrico sia per la scelta del lessico (quindi nella sua resa “avea” è perfettamente contestualizzato):

            «Giovane era, e pur non tanto. Non tocche da brina le trecce della nera chioma; le bianche braccia e il chiaro volto lisci e senza pecche, e negli occhi luminosi, grigi come una notte senza nubi, avea la luce delle stelle; e pur regale era nel portamento, e nello sguardo avea sapienza e riflessione, il portato degli anni e delle tante cose conosciute. Sul capo una cuffia d’argento contesta di piccole gemme che luccicavano bianche; ma la morbida veste grigia come ornamento avea solo una cintola di foglie d’argento.»

            Quello che dobbiamo chiederci è se questa scelta è motivata oppure del tutto arbitraria. Quindi guardiamo l’originale:

            «Young she was and yet not so. The braids of her dark hair were touched by no frost, her white arms and clear face were flawless and smooth, and the light of stars was in her bright eyes, grey as a cloudless night; yet queenly she looked, and thought and knowledge were in her glance, as of one who has known many things that the years bring. Above her brow her head was covered with a cap of silver lace netted with small gems, glittering white; but her soft grey raiment had no ornament save a girdle of leaves wrought in silver.»

            La descrizione tolkieniana è basata sull’inversione dei predicati nominali (Young she was/queenly she looked); su altre espressioni di registro medio-alto:”were touched by no frost”, “above her brow”; su forme arcaiche come “raiment” e “wrought”; e su allitterazioni: “bright/night”, “knowledge/known”, “things/bring” (a cui si allaccia “brow”), “raiment/ornament”.
            Le immagini evocate sono basate nella prima parte sulla contrapposizione chiaro/scuro: “dark hair/white arms”, “light/night”, “bright/grey”, e nella seconda parte sulla visualizzazione della luce argentata: “silver lace”/”small gems”/”glittering white”/”girdle of leaves”/”wrought in silver”.

            La struttura lessicale ha un ritmo poetico. Prova a leggerla così:

            Young she was and yet not so
            The braids of her dark hair
            were touched by no frost,
            her white arms and clear face
            were flawless and smooth,
            and the light of stars
            was in her bright eyes,
            grey as a cloudless night;
            yet queenly she looked,
            and thought and knowledge
            were in her glance, as of one
            who has known many things
            that the years bring.
            Above her brow
            her head was covered with
            a cap of silver lace
            netted with small gems,
            glittering white;
            but her soft grey raiment
            had no ornament
            save a girdle of leaves
            wrought in silver.

            Aggiungici che sembra di leggere la descrizione di un’icona sacra, di una Madonna, o di una dama Pre-raffaelita e il cerchio si chiude, almeno per quanto riguarda Fatica. Giusto o sbagliato che sia, lui te la rende in prosa poetica “alta”.

            Il tuo senso di straniamento e la contestazione sono comprensibili, Stefano. E vorrei aggiungere che sono anche preziosi. Perché a me resta l’impressione di capire qualcosa di più dello stile di Tolkien leggendo una traduzione come quella di Fatica che un’altra più letterale. Basti dire che senza questa impressione di straniamento non saremmo mai andati ad analizzare così nel dettaglio il brano originale, accorgendoci di una serie di cose che altrimenti chissà se avremmo mai notato.

          • Wu Ming 4 ha detto:

            Dimenticavo. Quando dici: «mi chiedo perché ci siano problemi solo nel signore degli anelli, come mai le sensazioni siano rotonde ed omogenee in tutte le altre traduzioni, nell’hobbit, silmarillion, hurin, gondolin, beren e luthien e qui no», la risposta è lapalissiana. Le altre traduzioni le hanno fatte traduttori diversi e soprattutto sono testi scritti molto diversamente da Tolkien stesso, senza il grado di complessità linguistica del LOTR. Ricordiamoci che Tolkien definì il LOTR “un trattato di estetica linguistica”. Non mi risulta l’abbia mai detto di nessuna sua altra opera.

  5. Oldschool ha detto:

    Mah! Io ho l’impressione di un traduttore che ha preso di petto un autore complesso senza essersi preparato adeguatamente, che cerca di giustificarsi per un lavoro che richiedeva ben altra delicatezza e cura.
    Fatica è entrato a piè pari in un immaginario consolidato ottenendo – spero non cercando – uno stravolgimento che in realtà era del tutto non necessario.
    Non ho per niente apprezzato come abbia introdotto termini del tutto fuori contesto che spezzano il ritmo narrativo mentre la mente cerca di dar senso ad un “Occidenza” o ad apparenti errori di stampa come “occhi felli” o ad abomini come “Marese” o “Fanclivo”, o cercato di ammantare tutto di una inutile “erudizione” dove Tolkien invece usa termini del tutto consueti (“Errabondi” dove l’originale è “Those who wander”)…
    L’intento di Tolkien era di ricreare l’atmosfera di una saga nordica inglese, Fatica invece ci fa piombare in una toscana medioevale abbastanza caricaturale.
    Poi discuteremo in eterno sull’uso di questo o quel costrutto, ma io credo che una buona traduzione, come tutta l’arte, debba essere la spiegazione di se stessa – come una buona battuta di spirito, se me la devono spiegare vuol dire che non funziona.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Capisco il tuo punto di vista, Oldschool, è più o meno quello che qui hanno espresso anche Stefano e Matteo, ma ho l’impressione che tu abbia scelto esempi poco efficaci.

      «Occhi…felli» (duro scambiarlo per il refuso di “belli”, visto che si sta descrivendo lo sguardo del capo dei Nazgul) dipende dal fatto che nella ristampa in volume unico Fatica ha scelto di rendere l’aggettivo arcaico utilizzato da Tolkien «fell» con l’analogo italiano arcaico «fello», che ha la stessa origine e significa la stessa cosa. Sul piano traduttivo se c’è una scelta inattaccabile di Fatica direi che è proprio questa. Per un anglofono “fell” è il passato di “fall”, non altro, ma una delle cifre stilistiche di Tolkien sono certi arcaismi, appunto. Perché non si dovrebbe renderli in traduzione? Perché Tolkien deve scrivere come vogliamo noi?

      «Occidenza» è altrettanto difficile da contestare. Come tradurresti una parola inventata da Tolkien come «Westernesse» per distinguerla dai comuni “West” e “Western”? La soluzione di Fatica risulta piuttosto ingegnosa.

      «Marese» è meno comune di “palude”, certo. Ma possiamo criticare Fatica perché ha scelto la parola italiana che ha la stessa radice germanica dell’originale usato da Tolkien, cioè «marsh»? Mi pare dura.

      «Fanclivo» rende precisamente il significato che Tolkien voleva per quel toponimo, come lui stesso ha scritto nella “Guida ai nomi del Signore degli Anelli”, dove lo definisce «the heathen fane on the hillside». È Tolkien a dire ai traduttori che “harrow” sta per “fane”, cioè “fano”. Vogliamo contestare Fatica anche quando fa quello che gli dice Tolkien?

      «Errabondi» è un termine che Fatica usa in un verso poetico, per mantenere la metrica e la rima, in una delle poesie meglio rese di tutto il romanzo.

      Ma a parte gli esempi fuori fuoco, è interessante l’osservazione finale che fai:
      “io credo che una buona traduzione, come tutta l’arte, debba essere la spiegazione di se stessa – come una buona battuta di spirito, se me la devono spiegare vuol dire che non funziona.”
      Ecco ripartirei da qui per una riflessione seria non tanto su punti di forza e limiti della traduzione di Fatica, ma proprio sullo stile di Tolkien.

  6. Stefano Annibali ha detto:

    grazie della bella risposta, che resterà utile a tutti.
    ammetto di avere sempre odiato ‘chiedo venia’ che per me è fumo negli occhi quanto ‘tutto d’un fiato’, cercherò di sostituire mentalmente tutte le occorrenze in ‘chiedo perdono padron frodo’.
    capisco pure cosa fa fatica con arwen, però secondo me esagera, proponendo un inserto alieno. neanche nel nome della rosa, ambientato nel 1327, si trova un dislivello estetico simile, penso alla descrizione del portale, perfettamente mimetica senza ricorrere al lessico dei poeti provenzali. ma cosa c’è in comune tra quest’opera e il signore degli anelli? nulla, a parte forse cercare un lettore, e parlare di un tempo simile al medioevo.
    detto questo, ormai ho capito che siamo di fronte a un ibrido strano, inaspettatamente psichedelico, e a un divertimento personale. forse è il caso di arrendersi.

    • Giuspee ha detto:

      “detto questo, ormai ho capito che siamo di fronte a un ibrido strano, inaspettatamente psichedelico, e a un divertimento personale. forse è il caso di arrendersi.”

      Ma Stefano stai parlando del romanzo stesso di Tolkien? 😀 (starò provocando ma l'”ibrido strano” e il “divertimento personale” trovo che si possano adattare al LotR in sé e alla sua natura particolare di opera letteraria).

      Sono molto d’accordo con la spiegazione magistrale di Wu Ming 4 sul passo di Arwen, nulla d’aggiungere. Personalmente gli “avea” non mi hanno disturbato (ma forse non faccio testo: ad esempio a me sono piaciute molto anche diverse poesie, che invece Stefano non ha purtroppo amato, come ha scritto in un commento sopra).

  7. Stefano Annibali ha detto:

    sì giuspee, parlavo del romanzo di quel mattacchione di tolkien.
    curioso come anche peter jackson abbia sbrodolato nello hobbit… si vede che la terra di mezzo spinge alla larghezza.

  8. Wu Ming 4 ha detto:

    Il penultimo commento di Stefano Annibali ha una conclusione molto interessante:

    «detto questo, ormai ho capito che siamo di fronte a un ibrido strano, inaspettatamente psichedelico, e a un divertimento personale. forse è il caso di arrendersi».

    Devo ammettere che le trovo perfette per descrivere la sensazione che ho maturato tornando al testo originale del Lord of the Rings durante questi ultimi mesi. C’è un’altra sua espressione che trovo molto efficace: «dislivello estetico».

    Per mezzo secolo noi siamo stati abituati a leggere in italiano un testo omogeneo, in cui l’effetto arcaico era dato soprattutto dall’enfasi sintattica, dal raddoppio dell’aggettivazione, ecc. Ma siamo sicuri che, al netto delle “esagerazioni” di Fatica che fanno notare certi lettori, la cifra stilistica del romanzo non sia propri il suo carattere ibrido?
    Più si rilegge l’originale alla luce di Fatica, più si scoprono aspetti e particolarità curiose.
    Ai molti lettori che hanno trovato stridenti le scelte di Fatica vorrei sottoporre la critica che Catherine Stimpson nel 1969 muoveva alla prosa di Tolkien:

    «come un regista che fa indossare a un attore il giustacuore e la calzamaglia per interpretare Amleto, mette un costume alla lingua inglese […]. Evitando di usare il consueto ordine del discorso, distorce anche la sintassi. Se ci aspettiamo “essi si adirarono”, scriverà invece “pieni d’ira divennero” […] Se ci aspettiamo una frase del tipo “Giunse in un’isola [island] in mezzo a un fiume”, sicuramente l’autore scriverà “In un isolotto fluviale [eyot] egli giunse» (C. Stimpson, “J.R.R.Tolkien”, 1969)

    Sembra quasi di sentire le critiche dei lettori alla traduzione di Fatica.
    Stimpson aveva ragione solo parzialmente, come solo parzialmente ce l’hanno i critici di Fatica, a mio avviso. Perché in realtà il romanzo – proprio come la traduzione di Fatica – è scorrevolissimo e comprensibilissimo, con alcune, magari anche vistose, eccezioni che costellano la prosa.
    All’inizio del millennio Brian Rosebury, in “Tolkien, un fenomeno culturale”, scriveva:

    «Lo stile della narrazione del Signore degli Anelli non è affatto uniforme: […] episodi carichi di grandiosità, solennità o violenza rivelano sfumature stilistiche o terminologiche altamente espressive. I libri III e V, dominati da eventi bellici, presentano in genere i brani più altisonanti, con occasionali ma nitidi sconfinamenti nello stile eroico».

    E ancora:

    «La variazione stilistica che si crea potrebbe produrre uno sgradevole effetto di eterogeneità, ma in realtà la narrazione è talmente ampia che permette modulazioni graduali dallo stile alto a quello dimesso».

    Rosbury analizzava in modo approfondito lo stile del romanzo, con svariati esempi e giungeva anche a constatare come la stesura così dilatata nel tempo (17 anni, includendo anche l’editing) abbia finito per produrre un’opera il cui stile muta progressivamente con l’andare della narrazione (questo lo ha rilevato anche Fatica nei suoi vari interventi). Il secondo capitolo del libro di Rosebury è davvero illuminante da questo punto di vista.

    Stefano ha anche usato l’aggettivo «psichedelico». A questo proposito vorrei far notare che attraverso l’espediente del manoscritto tradotto in inglese moderno dall’immaginario Ovestron, Tolkien si prende delle libertà e crea degli effetti che dire stranianti è poco. Lo stesso fantomatico “traduttore” che abbiamo visto descrivere Arwen con parole arcaiche, allitterazioni e inversioni sintattiche, in teoria starebbe traducendole da un’altra lingua o cercando di rendere la prosa poetica dell’Ovestron nel corrispettivo in inglese moderno (cioè starebbe facendo un lavoro analogo a quello che Fatica fa con Tolkien). Ebbene, se è così bravo, allora, mi piacerebbe capire cosa starebbe “traducendo” quando mette in bocca a Ugluk una battuta come: «- What do you think? Sit on the grass and wait for the Whiteskins to join the picnic?».
    Il fantomatico traduttore inglese vorrebbe farmi credere che un orco userebbe la parola “picnic”, un francesismo, di cui – mi dice Wikipedia – l’OED registra l’apparizione nella lingua inglese nell’anno 1748, utilizzato da Lord Chesterfield Philip Stanhope (1694-1773). Suona plausibile che un orco della TdM si rivolga agli altri usando ironicamente una frase che rimanda a un’usanza dell’aristocrazia inglese del Settecento?
    Tant’è che Fatica, come già Alliata/Principe, in questo caso proprio non se la sente di rendere alla lettera e traduce «scampagnata».

    Un altro esempio di “psichedelia traduttiva” (passatemi l’espressione): per essere un mondo in cui gli orologi vengono nominati una volta sola, nel Prologo, riferiti alla Contea, è incredibile come tutti i personaggi facciano continui riferimenti a ore, quarti d’ora, minuti e perfino secondi.
    Quando Pippin e Merry sono rapiti dagli Orchi, c’è un’immagine efficacissima, in cui Pippin vede le schiene curve e le gambe tozze degli Orchi fare su e giù mentre corrono, «beating out the night-mere seconds of an endless time» (“scandendo i secondi di un incubo senza fine”).
    Questa è un’immagine plausibile soltanto se si è abituati a usare l’orologio con la lancetta dei secondi con consuetudine.
    Quando gli hobbit tornano nella Contea e Bill Ferny non vuole aprire loro il cancello, Merry dice: «- If you don’t open the gate in ten seconds, you’ll regret it».
    Essendo una battuta del personaggio, si suppone che il fantomatico traduttore dall’Ovestron stia riportando un modo di dire originale della Contea. Modo di dire che presuppone una società in cui esistono gli orologi con la lancetta dei secondi e vederli è un fatto talmente comune da usare i secondi nelle espressioni idiomatiche del parlato.

    Dove ci porta tutto questo? È presto per dirlo. Ma una cosa si può constatare: lo stile del LOTR è stratificato e variegato (Fatica lo ha definito “anacronistico”, io “anarchico”). Certo è che se mescolo il «picnic» di Ugluk al «weregild» di Isildur, con un pizzico di «westering» del sole e della luna, una spruzzata di «lo!» e l’aggiunta finale di cronografi fantasma, ottengo un “trip” mica male. Concordo che «forse è il caso di arrendersi».

    Buon Natale a tutti e tutte.

  9. stefano annibali ha detto:

    ottimi interventi, interessanti.
    in queste settimane ho pensato un’altra cosa.
    se questa traduzione avrà successo e si diffonderà, potrebbe suscitare un effetto simile a quello che la pittura giapponese causò all’ottocento francese, ossia una nuova scoperta della lingua, un azzeramento del tempo espressivo attuale, che lascerà spazio a un linguaggio sfrenato e bizantino, in cui si pesca liberamente il termine, senza la gabbia dell’armonia, praticamente un postmoderno lessicale.
    sembrano farneticazioni, ma ho notato che certe resistenze che l’orecchio prova, a lungo andare, diventano possibilità, sta succedendo anche a me.
    buon natale commentatori

  10. Matteo ha detto:

    Ricordavo un altro passaggio:

    “Oltre ai lati e di fronte a loro si aprivano paludi e lame, che si estendevano a sud e a est nell’opaca semioscurità. Le brume fumigavano ascendendo in volute da oscure e guaste gore”.

    Ora; la prima volta che l’ho letto… l’ho riletto, e ho pesanti “Ehhh????…” 🙂

    1 => Lama – palude o terreno paludoso formato dall’accumulo di acqua di piena in zone basse.
    2 => Gora – Acqua stagnante, paludosa.

    DOPO aver usato il vocabolario. Dopo aver rimesso insieme i “pezzi”, dopo aver ben messo in mente che GAUSTE sta per malsane, fetide, o qualcosa di simile, ho potuto rileggerlo, e dire: “Fatica ha reso in modo splendido la Traduzione”.

    Però mi sono anche chiesto: quanti hanno la pazienza di leggere un testo, volendo carpirne ogni singolo passaggio, ogni scelta stilistica, assaporare, una volta “compreso le parole”, la “forma e lo stile che il traduttore ha voluto usare”?
    Mi sono risposto: pochi.
    Se i commenti che trovo su YoTube nel leggere “Le Due Torri” partono dal presupposto che un “saputello” dica: “Il fastidio maggiore è cambiare i nomi che leggiamo da 50 anni”, quando ne avrà si e no 20, o 25 al massimo, e che quindi lo avrò letto al massimo per 15 anni, che non sono pochi, ma non sono certo mezzo secolo… mi sono convinto che i detrattori di Fatica volevano si una nuova traduzione. Ma volevano i nomi NON modificati, e che ….. non sanno neppure loro come volevano il testo. Per ogni critica c’è una giustificazione. La perfezione non al raggiunge nessuno, neppure Fatica, ma si è messo di impegno e secondo me con il problema che ha avuto l’editore, ha anche dovuto correre, per poter concludere il tutto.
    Però tornado a quel passaggio: secondo me molti arrivati li, avranno detto: “Ma che……..sta a scrivere???” Con la Treccani devo leggere?
    In verità se vuoi apprezzare il testo…. si, in effetti devi capire quello che leggi, e più parole NON consoci e più spezzeresti il ritmo, dovendo andare a cercare il significato. Mentre è indubbio che se si è un Campione di “Caduta Libera” 🙂 Apprezzeresti di più il testo, al “primo colpo”.
    Quindi mi chiedo se in verità Fatica non potesse venire incontro alle esigenze di un libro che leggono tutti, frenando un po il suo modo di tradurre. Capisco che un autore non possa abbassarsi a tradurre a livello elementare, e che non possa tradurre in modo che “mesi e mesi dopo un gruppo di pivelli si lamentino di un testo arcaico poco comprensibile in alcuni punti”.
    Però sinceramente non vorrei che un gruppo di “influencer” coi loro canali YouTube facciano danni al alloro di una persona, che porterebbe di contro ad un danno economico all’editore, che rispetterebbe si i contratti di pubblicazioni delle edizioni, ma che magari ci penserebbe due volte, a fare qualcosa di più. Sopra mi sembra di aver capito che Bompiani debba pubblicare le edizioni di cui ha i diritti, ma oltre al Signore degli Anelli in versione 3 Volumi, e la ovvia versione riunita in volume unico, e quella illustrata credo che le altre versioni che abbiamo visto, come quella in cofanetto, o in versione economica da “viaggio”, siano scelte dell’editore, che potrebbe anche non ripetere a fronte di una fredda accoglienza.

  11. Matteo ha detto:

    Scusate, ma come Associazione che ha partecipato attivamente alla Traduzione del Signore degli Anelli e come Associazione che ha a cuore Tolkien, in quanto Alto Autore, non sarebbe il caso di usare “Le stesse armi” che stanno invece demolendo Fatica, la Nuova Traduzione e che in taluni casi ha preso di mira pure l’associazione stessa?

    Sto parlando di YouTube.
    Ne ho viste di recensioni.
    Tutte errate, o erronee, oppure “iniziate con un piede e finite con altro”.
    Chi in modo molto fine gli “fa c@g@r€ la m€rd@” i nuovi nomi.
    Chi parte col piedi giusto, ma poi non si accorge del cambio dello stile in Tolkien e da la colpa a Fatica per Il fatto che nel capitolo di descrizione di Aragne usa “buchi scuri”; e quindi accusa Fatica di aver creato un ottovolante in cui “si sale e si scende”; una Giostra che ti fa venire il mal di mare.
    Non hanno nessun “titolo” per dare commenti DEFINITIVi.
    Possono dare opinioni, ma forti dei “proseliti” che hanno raccolto nel tempo, è impossibile imbastire la più semplice discussione.
    Alliata-Principe e Fatica usano Buchi Scuri? Per i primi è corretto, per il secondo è una imperdonabile leggerezza nel cambiare registro di punto in bianco.
    Quando entrambi traducono con “rimbambito” l’appellativo che Theodèm si da solo… Per Fatica è assurdo per la vecchia traduzione è tutto OK.
    Per non parlare della strumentalizzazione che la sinistra sta facendo di Tolkien (secondo alcuni) perché nell’associazione ci sono i Wu Ming… anche se mi risulta che ci sia il solo Federico.

    Certo alcuni potrebbero dire: ma a che pro creare “battaglia”?
    Le stesse accuse che hanno lanciato alla nuova operazione di Traduzione, e cioè UCCIDERE UN CLASSICO, lo stanno facendo loro: Stanno convincendo, volontariamente oppure no, coi loro commenti, che la nuova traduzione è da “scartare”; e le persone non comprano il libro.

    Ora; non sono azionista di Bompiani-Giunti, e poco mi importerebbe se vendessero poco. Ma il Signore degli Anelli, volenti o nolenti vivrà orami con questa traduzione. Se male accolta, non avremo “il libro per tutte le tasche” e tutti i momenti. Non avremo edizioni da “Supermercato”, da poter leggere sotto l’ombrellone, perché tanto poco ci importa se ci versiamo copra una coca-cola…E non ci porteremo certo in treno l’edizione illustrata (da 3 Kg); non avremo edizioni di pregio per fare un regalo, come una edizione in cofanetto, ecc…
    Certo questo sono cose che riguardano la casa editrice. Potrebbero vendere 10.000.000 di copie di un libro e stampare sempre e solo la stessa edizione.

    Ma anche adesso, andare a cercare le nuove ristampe dei volumi rilegati, con le correzioni già apportate, è impossibile. Ho trovato per caso quella della Compagnia dell’Anello, e quella de Le Due Torri era rovinata, l’hanno poi ritirare il giorno dopo (era proprio staccata la rilegatura). E quindi non riesco a trovare la seconda ristampe con gli “errori” sistemati.
    Già mi trovo di fronte ad un primo problema quindi: le librerie hanno già il magazzino pieno della prima edizione di 8 mesi fa che non hanno venduto, e non richiedono nuove copie.

    Ma tornado alla prima motivazione: mi sembra che sia più facile demolire, che costruire. Andare contro che andare a favore. E di fatto YouTube, ma anche molta parte del Web, è stato instradato da “un primo grido” che ha seguito ad eco: “La Nuove Traduzione del Signore degli Anelli non leggetela. E’ brutta”. Commento talmente basso, da recensore alla prime armi su Amazon… Ma ha fatto comunque breccia.

    • Giuspee ha detto:

      Caro Matteo, che sia più facile demolire che costruire, ahimè, non riguarda solo Tolkien, ma parecchie cose del web degli ultimi anni. E’ più facile sparare a zero superficialmente su una cosa, attirando così migliaia di click e visualizzazioni, che informarsi e creare un contenuto meritevole e che sarà poi letto/ascoltato da tante persone.
      Come hai detto tu, sono persone che non hanno titoli e il cui parere conta quanto il mio o il tuo, eppure riscuotono un incomprensibile successo. Basterebbe notare che a livello di metodo la loro analisi della traduzione ha un grande errore, ossia non tirano quasi mai in ballo il testo originale, e se lo fanno lo piegano ai fini della loro visione.

      E secondo me più il tempo passa, più i discorsi faziosi e incoerenti di questi che hanno osteggiato la nuova traduzione sin da subito, e che spesso hanno diffuso bufale pur di arrivare per primi e guadagnare qualche click in più, avranno vita breve. Nel senso che il clamore si è via via indebolito e le persone, incuriosite o meno, si avvicinano alla nuova traduzione (ormai l’unica disponibile nel mercato editoriale) e giudicano con la loro testa (finalmente!). E mi pare che la maggior parte, che riesce ad andare oltre la mera nomenclatura, rimanga stupita positivamente e si penta di aver dato ascolto per mesi alle ridicole prese di posizioni che sono apparse lungo il web italiano. Secondo me, non appena usciranno le edizioni tascabili, vedremo sempre più persone che si ricrederanno. E poi, come spesso ha ripetuto qualche membro dell’AIST qui sul sito, questa traduzione guarda al futuro, ai nuovi lettori dell’opera di Tolkien sul lungo periodo, più che a noi già appassionati. E a loro, per me, non gliene importerà granché di avere Valforra al posto di Gran Burrone, o di un Samplicio al posto di Samwise.

      Colgo l’occasione per consigliare a Wu Ming 4 l’idea su un possibile saggio, magari per un numero futuro dei “Quaderni di Arda”, sulla ricezione dello stile di Tolkieniano presso i contemporanei (ad esempio la critica anglosassone) e poi specialmente in Italia, con il fraintendimento dovuto alla precedente traduzione. Sarebbe interessante analizzare le bizzarrie anacronistiche di cui ha parlato Fatica nei suoi interventi alla luce della “cornice” del Signore degli Anelli e della traduzione del Libro Rosso. Alla fine molti commenti fatti sul blog in risposta ai vari utenti potrebbero essere rielaborati in un discorso più ampio.

      • Wu Ming 4 ha detto:

        Rispondo a entrambi, cominciando da Giuspee.
        Niente andrà perduto di quanto è stato discusso qui, fidati. Diciamo che non sei il primo ad avere avuto questa idea e i thread servono anche a prendere appunti in pubblico. I Quaderni di Arda sono lì apposta, infatti. Tempo al tempo. A questo proposito, magari varrà la pena discuterne meglio anche in altra sede, se vuoi.

        A Matteo, adesso. Giuspee ha già detto quasi tutto, ma vorrei aggiungere una piccola considerazione. Occorre stare attenti a scambiare la blogsfera o Youtube per la realtà. Cose che sembrano enormi sul web, poi hanno ricadute minime nella vita di tutti i giorni. La tiratura del SdA è in via di esaurimento. Anche quella del volume unico da €50. Questo almeno fanno sapere da Bompiani, dove si dicono soddisfatti. Significa che stanno vendendo quello che avevano previsto di vendere e andranno in ristampa.
        Se davvero le canee nella blogsfera avessero effetti proporzionati al volume di fuoco che sprigionano, l’operazione editoriale avrebbe dovuto essere un flop. Se non lo è significa che forse chi passa la vita su Youtube o sui social impegnato in schermaglie e derisioni varie contro la nuova traduzione, non è necessariamente il prototipo del lettore. Come dice Giuspee, il livello stesso dei commenti denigratori fa capire che molti di costoro il libro non lo hanno letto. E uno che parla di un libro che non ha letto…appunto non è un lettore.
        Aggiungici questo. Tra qualche mese, tra un anno, due, ecc. della cagnara socialmediatica di questo periodo non sarà rimasta traccia alcuna, sarà percepita come preistoria. I tempi di metabolizzazione della rete sono rapidissimi. La nuova traduzione del Signore degli Anelli invece sarà ancora saldamente in libreria. Unica e sola, per altro. E chi vorrà leggerlo e apprezzarlo lo farà a prescindere da tutto il chiasso di oggi. Come ho scritto all’inizio di questa avventura: questo è un viaggio che non promettiamo breve. Questo perché fin dall’inizio sono certo che il tempo gioca a nostro favore.
        Aragorn direbbe che «il colpo frettoloso va sovente a vuoto»; Barbalbero dice di Saruman che «ha finito per stancarsi molto. È sempre stato un tipo frettoloso. È stata la sua rovina».
        Vale la pena fidarsi del racconto. Anche se, appunto… bisogna averlo letto.

  12. Wu Ming 4 ha detto:

    Sul sito “I cercatori di Atlantide” è uscita un’intervista ad alcuni soci dell’Aist, tra cui il sottoscritto, in cui si riassumono molte delle cose dette in questo blog:
    https://www.cercatoridiatlantide.it/aist-tolkien/

  13. Luke Atreides ha detto:

    Vorrei proporre la resa del nome Witch-king in “Re Strego di Angmar” fatta Marco nelle prossime edizioni del volume.
    Anche il termine Rondiere proposto da Valen.
    Come dissi tu nei commenti Aragorn il Forestale, uno studio filologico nel 19 Gennaio 2020 alle 13:47:
    In effetti è una resa interessante, che ovvierebbe anche il problema vero che ha “Forestale”. E cioè che mentre “Ranger” è un sostantivo derivato da un verbo, quindi contiene in sé il senso di un’azione (andare in giro attraverso un territorio, e poi per derivazione dal contesto anche sorvegliarlo, combatterci, ecc.), Forestale deriva da un sostantivo (foresta), quindi l’azione non è implicita nel nome. “Rondiere” invece ha in sé l’azione (fare la ronda, aggirarsi).
    Se si può.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Temo che la nomenclatura ormai sia quella che è stata fissata nel volume unico. E comunque noi possiamo soltanto inoltrare proposte e suggerimenti, non abbiamo alcun potere decisionale in merito.

    • Valen ha detto:

      Grazie Luke per l’apprezzamento sul termine Rondiere. Non nego che mi sarebbe piaciuto vederlo sulla carta (lo stesso credo valga anche per te con il Re Strego), ma trovo che anche il semplice dibattito e lo scambio da parte di noi semplici lettori non addetti ai lavori sia di per sé positivo e contribuisca ad alimentare la comprensione e la ratio delle scelte adottate ufficialmente da chi di dovere.
      E ammetto pure che ora come ora Forestale mi vada piuttosto a genio, nonostante le perplessità che ho avuto a caldo all’inizio. Infatti credo che ogni nuova traduzione abbia bisogno di tempo per raffreddarsi e sedimentare nel tessuto letterario, personale e collettivo.

  14. Stefano Annibali ha detto:

    credo ci siano due popoli che affrontano il libro: quello dei lettori e quello degli abitatori. per questi ultimi la lingua è un paesaggio.
    i lettori sono intellettuali della parola, che sanno ricevere, nelle varie qualità, sfide e proposte. non avranno particolari problemi ad accogliere il libro scritto da tolkien, quello vero riscoperto ora in italiano.
    gli abitatori, invece, subiscono un trauma insanabile per la perdita di un paesaggio, fortemente collegato al nome, ai nomi. per loro è come perdere il monte cervino per un monte camoscio, un anthony per antonio: col nome viene giù la forma che abitano, e quel terremoto lo odieranno con tutta la passione che hanno in corpo, corpo non a caso, perché stiamo parlando di un paesaggio.
    per chi è rimasto nei pressi della creazione originale, è un problema piccolo, solo un po’ fastidioso al principio, ma poi ricco di rivelazioni e voluttà. per chi invece è saldato nell’italiano rassicurante e premiante di prima, il paesaggio nuovo è una violenza al paesaggio precedente. per loro i raminghi subiscono un’inversione tecnica diventando forestali; personaggi nel cui nome soffia un sapore di albe ghiacciate si trasferiscono in coeve terre meridionali, che risuonano di altra vegetazione; per loro la musica di grieg non può diventare ora una musica multiforme. a loro non interessa il libro, è troppo tardi, abitano un mondo puntellato di quei termini, esteso nella lunghezza di quei suoni.

    la soluzione c’è: guardarsi i film (e le varie diramazioni plastiche e geografiche della parola) in originale, che sono sempre meglio e propongono l’unico paesaggio che aderisce al suono.
    altra pace non è possibile.

    • Matteo ha detto:

      Interessante. In effetti ho trovato strenui sostenitori della “vecchia traduzione” in persone che hanno fato giochi di ruolo, hanno approfondito il Mondo di Tolkien, e spessissimo dialogano con altre persone sui forum per far £Notare quel particolare” invisibile nel FILM, per cui c’è qualcosa che non torna, o discutono ancora sui Forum su chi possa essere Tom Bombadil. Cambiargli un nome, o usare un nuovo nome da parte delle nuove leve, sarebbe come parlare due lingue differenti. E loro non accetterebbero mai una cosa del genere.
      Io scherzando dissi, a inizio di tutto la faccenda che probabilmente chi si era tatuato la poesia dell’anello sul braccio adesso si trovava con un testo che doveva essere spiegato ai nuovi lettori 🙂

  15. Valen ha detto:

    Io non credo che un lettore non possa essere anche abitatore (e viceversa). Almeno, io mi considero entrambi. Per questo motivo, libro o film che sia, io non trovo pace ogni volta che leggo o sento Nichibrichinichi, Trombatorrione, Tumulilande, Omorzo Cactaceo e altro ancora.

    • Stefano Annibali ha detto:

      certo, i due atteggiamenti possono coesistere, ed è anche un vantaggio.
      tumulilande a me piace, quasi quanto nichibrichinichi 🙂

  16. Matteo ha detto:

    Ho riletto l’articolo sul sito “I Cercatori di Atlantide”, e con calma mi sono visto anche le foto, i rimandi ecc…
    Ma mi chiedo: A settembre 2020 al Festival del Medioevo, dove c’era anche un vostro Stand di cui compare la foto anche su Facebook… Avevate ben 5 COPIE delle traduzione di Alliata-principe ritirata dal commercio a Febbraio 2020.
    Non è che vi siete messi a vendere “copie sotto banco” perché non siete una libreria 🙂 🙂 🙂 🙂
    Ma non sono andate tutte la macero?

    • Roberto Arduini ha detto:

      Caro Matteo,
      noi siamo un’associazione culturale senza scopo di lucro e non una libreria. Al macero sono andate tutte le copie che erano presso i distributori, presso le librerie e nei magazzini di Bompiani. Per avere i libri allo stand, dobbiamo ordinarli a una libreria e pagarli prima, come fa qualsiasi cliente di una libreria. Una volta acquistato un certo numero di copie, finché non le vendiamo tutte le abbiamo in esposizione allo stand e possono essere acquistate. Noi non vendiamo nulla “sotto banco” visto che le copie sono state regolarmente comprate e il loro prezzo da noi è quello di copertina, con spesso anche lo sconto. Pensa un po’ che abbiamo anche la famosa deluxe illustrata che in giro trovi solo a 500 euro, ma noi l’abbiamo venduta sempre al prezzo di copertina… Non facciamo lucro, non facciamo nulla sottobanco e abbiamo una decina di testimoni che possono assicurare che hanno acquistato da noi i libri con prezzi fatti in amicizia, dopo aver ben specificato che la traduzione era quella vecchia e aver applicato pure uno sconto. Del resto, è anche difficile esaurirle se abbiamo avuto la possibilità di fare solo due fiere in 15 mesi…
      Finché le avremo, le troverai al nostro stand perché noi non vendiamo nemmeno online. Ed è tutto legale.
      Cordialmente
      Roberto Arduini

      • Matteo ha detto:

        Lo sapevo. Infatti forse non ha visto la serie di FACCINE SORRIDENTI…? Era solo che da quella foto, sono risalito al Post di Facebook. Quattro utenti hanno notato i volumi e avevano chiesto come comprarlo …. 🙂

        Inoltre ho scritto, come ha spiegato, che non siete una libreria, quindi potete venderne finche ne avete, che male c’è? Meglio che lucraci come fanno su eBay….

        Da qualche parte in rete ho letto che un gruppo vicino ad Alliata avrebbe fatto un’operazione del genere, sapendo in anticipo del blocco, comando un bel po di libri…

        Quindi non vi stavo accusando di nulla… Ripeto: ho messo le faccine sorridenti e messo tra virgolette il “commento”: Se vi ho offeso me ne scuso… Forse è stata una “battuta riuscita male” Tutto qui. Se non credessi che foste “Gente Seria” non sarei qui a leggere i vostri articoli, no?

      • Matteo ha detto:

        Bho? Ho postato una risposta – commento in cui spiegavo che la mia non era una critica, ma un commento “ironico” uscito un po male…

        Avevo scritto di notare l’inserimento di un bel pò di faccine sorridenti, per far capire che “scherzavo”.

        Mi sono pure scusato, se qualcuno aveva male interpretato il mio commento… Ma è sparito nei meandri della Moderazione (????) Perché?

        • Matteo ha detto:

          Il secondo commento invece è passato subito. Non capisco. Se per cortesia potete rimettere anche quello “cancellato”. A questo punto sembra che abbia scritto chissà cosa…. Dicevo in quel commento “fantasma” che se non credevo nelle Persone che hanno creato questa Associazione e questo sito, non sarei qui a leggere e commentare. E che quindi sottolineavo che ero ironico nel dire che vendevate sotto banco quelle edizioni.
          Che oltre a quello: credo talmente tanto nel “Progetto Fatica”, che ho comprato tutte le edizioni DOPPIE. Quindi 6 volumi singoli e 2 dell’Edizione Illustrata, perché vedevo un sacco di commenti negativi in rete, specialmente su YouTube….Mah… Poi di quei libri di cui parlavo con l Traduzione di Alliata, già li ho. O meglio, ho l’Edizione Illustrata, La Terza Ristampa delle Rusconi 1973 (con il termine GNOMI invece che ELFI), altre 4 edizioni varie e per ultime ho “trovato” la Prima Stampa” datata 1966 dell’Edizione Rivista da Tolkien del suo editore Allen & Unwin… Quindi non mi sembra che mi interessi molto se qualcuno vende quelle edizioni. Sempre meglio che farsi fregare i soldi su eBay a cifre stratosferiche.

  17. LucaS ha detto:

    Dopo parecchie settimane dal dibattito acceso su questo thread, e da neofita del sito, volevo fare alcune considerazioni.

    Senza citare singolarmente i molti passaggi di tutti i commentatori che mi hanno preceduto, riporto in primo luogo il fatto che si è insistito parecchio sul pregio che questa nuova traduzione ha di riavvicinare il lettore al testo originale, e in secondo luogo sulla difficoltà che gli “abitatori” del paesaggio linguistico letterario italiano, cioè in massima parte coloro che si rifanno alla vecchia traduzione, hanno nel ritrovarsi e nell’orientarsi in questo nuovo, differente paesaggio. Il che mi porta a ricordare la frase già scritta da qualcuno, che sintetizza questi due punti:

    “L’intento di Tolkien era di ricreare l’atmosfera di una saga nordica inglese, Fatica invece ci fa piombare in una toscana medioevale abbastanza caricaturale.”

    Il pregio e il difetto della traduzione di Fatica mi sembrano dunque questi: dal punto di vista stilistico e traduttologico è sicuramente più fedele all’originale, ma dal punto di vista della godibilità di lettura fa storcere il naso a molti – e forse non solo a chi è affezionato al paesaggio linguistico e letterario tracciato da Alliata-Principe.

    Questo riporta a una conclusione: se il testo di Fatica ci fa riconsiderare la lingua e lo stile dell’originale, ma risulta un po’ indigesto a) perché sembra di leggere una saga ambientata in un immaginario medioevo italiano alla Fantaghirò e b) perché, per rendere al meglio gli arcaismi e la prosa poetica, ne deriva un testo da leggere con il dizionario alla mano, allora tanto vale leggere l’originale. Dizionario per dizionario, mettiamoci accanto quello della lingua inglese.

    Sarà minore il senso di straniamento perché l’intero paesaggio linguistico e letterario originale è, per i lettori italiani, già diverso ed esotico, lontano, misterioso, affascinante. E il fascino risiede per la gran parte nel senso di “anglicità”, nel sapore di saga nordica, di cui ISDA è impregnato. E di cui rimaneva impregnato, è giusto dirlo, nella vecchia traduzione. Che ha peccato di tanti errori, ma che restituiva in superficie quella sensazione di “estraneità familiare”, quello spirito riconoscibile del mondo fantasy-cavalleresco che ormai ci risulta tanto confortevole. Purtroppo, e di ciò ai detrattori di Fatica si deve dare atto, queste sensazioni non possono essere restituite da scelte come ‘Samplicio’ per ‘Samwise’, ‘Aragne’ per ‘Shelob’ o l’opzione ‘Forestale’.

    Rendere in italiano il fascino dell’alternanza di stile, delle etimologie, del gioco filologico di Tolkien, che attinge a tutto il repertorio linguistico che ben sappiamo, è forse impossibile, senza tradire quell’aura che proprio l’anglicità del testo fornisce. Se ogni traduzione è un compromesso, di volta in volta andrà deciso a chi o a cosa fare un torto. Ma sempre di torto si tratterà.

    Alla fine, e qui concludo, una nuova traduzione era necessaria, se non altro per riaprire il dibattito sulla lingua e sullo stile dell’originale. Ma, almeno per me, la nuova traduzione limita la sua efficacia a questo compito: dopo averla letta, ti rendi conto di quanto sarebbe meglio godere dell’opera nella sua veste originale. Che di per sé è un compito eccellente, ma che va a discapito dell’oggetto letterario in italiano appena prodotto, che magari non si avrà voglia di rileggere. Il merito è quello di aver costruito un ponte più solido verso la comprensione di The Lord of The Rings, ma è un ponte su cui almeno io non ho voglia di ricamminare una volta percorso.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Trovo questa considerazione interessante ed equilibrata. E siccome ho dibattuto non poco in questo thread (che parte da un mio articolo, quindi era doveroso che lo facessi) vorrei offrire un riflessione sulle conclusioni di quest’ultimo commento e una sulla tesi di partenza.

      Parafraserei le conclusioni del commento così: l’efficacia della nuova traduzione consiste nel farci riscoprire il testo originale, più che nella bellezza della traduzione stessa. Viceversa la vecchia traduzione mirava piuttosto a dare un certo «senso di anglicità» e il «sapore di saga nordica», e «restituiva in superficie quella sensazione di “estraneità familiare”, quello spirito riconoscibile del mondo fantasy-cavalleresco che ormai ci risulta tanto confortevole».

      Credo che qui si centri un punto: la vecchia traduzione ci risultava talmente confortevole e ci eravamo talmente accomodati in essa, che non ci siamo mai presi la briga, in mezzo secolo, di tornare all’originale. In buona sostanza avevamo sostituito Tolkien con Alliata/Principe.
      L’ho già scritto: decenni passati a dire che la creatività di Tolkien muoveva dal linguaggio, e nessuno in Italia si era mai preso la briga di analizzare il suo stile nella sua lingua madre, quella in cui scriveva e concepiva le sue storie, cioè l’inglese moderno. E magari però studiavamo l’elfico…

      L’effetto degli eventi recenti è però anche retrospettivo. Ammesso e non concesso che non si abbia voglia di ricamminare sul nuovo ponte (cosa che dipende in fondo dal gusto personale), quanto avremo ancora voglia di ricamminare sul vecchio? Al di là del legame affettivo di tutti noi cresciuti con la vecchia traduzione, davvero oggi riusciremmo a rileggerla con gli stessi occhi? Oggi che, dopo due anni di dibattito, sappiamo quanti errori conteneva, quante libertà si prendeva, quanta parte dello stile originale si perdeva per strada…? Io credo proprio di no. Mentre «aver costruito un ponte più solido verso la comprensione di The Lord of The Rings» rimane come fatto oggettivo, che ci consente oggi di guardare da un’angolazione diversa al testo e allo stile di un classico del Novecento.

      Quanto invece all’anglicità e al sapore di saga nordica, vorrei suggerire una considerazione. La Terra di Mezzo non coincide con un’ipotetica o fantastica Inghilterra. Senz’altro la Contea ricalca una regione rurale inglese, così come i Rohirrim ricalcano gli Anglosassoni (culturalmente e linguisticamente). Ma che dire di Gondor? La geografia e l’architettura di Gondor non hanno nulla di inglese, e la regione dell’Ithilien ha tutte le caratteristiche di una regione mediterranea (basta leggere i tipi di piante che ci crescono). Del resto, i gondoriani sono i discendenti dei Numenoreani, una sorta di scampati di Atlantide (mito greco). Gli Elfi poi, linguisticamente parlando, sono pure poco “inglesi”, se è vero che «[il quenya] è composto su una base latina con altri due ingredienti (principali) che mi donano piacere ‘eufonico’: il finlandese e il greco» (lettera 176); mentre il Sindarin è ispirato al gallese, cioè una lingua celtica. E infatti gli Elfi di Tolkien hanno ben poco in comune con gli elfi della mitologia e del folklore germanici.
      Dunque anche qui sorge un dubbio: non sarà che il rimpianto per quell’effetto di anglicità e saga norrena – elementi indubbiamente necessari nel romanzo, ma nient’affatto sufficienti – sia figlio di una lettura un po’ appiattita e “provinciale” del romanzo, anch’essa dovuta alla mediazione della traduzione storica? Non sarà che anche in questo caso giochi un ruolo un elemento di stereotipizzazione dell’immaginario «fantasy-cavalleresco» che proprio in una certa resa del testo tolkieniano getta le sue radici?

      Osservarsi dall’esterno non è affatto semplice, e al fondo è un esercizio destinato a essere frustrato. Tuttavia la sensazione è che rimettere in gioco la visione del LOTR/SDA sia un’azione il cui fall out è ancora ben difficile da misurare e che potrebbe portarci parecchio in là. Personalmente trovo tutto questo molto salutare. Ma questo perché, come Tolkien, penso che rimpiangere il passato e non essere disposti ad affrontare il cambiamento, anziché coglierne le opportunità per mettersi alla prova, sia la principale debolezza elfica. E quindi anche umana.

      • Luca Sciortino ha detto:

        Mi trovo pienamente d’accordo, soprattutto su questo:

        “La vecchia traduzione ci risultava talmente confortevole e ci eravamo talmente accomodati in essa, che non ci siamo mai presi la briga, in mezzo secolo, di tornare all’originale. In buona sostanza avevamo sostituito Tolkien con Alliata/Principe.”

        Per quanto riguarda le considerazioni sul cambiamento e sulla difficoltà di digerirlo, sottoscrivo anche questo. In fondo, come già è stato scritto, il polverone che ha sollevato questa traduzione non è poi così diverso da quello che all’epoca hanno sollevato la lingua e lo stile di LOTR. Quindi ben venga la discussione.
        Il giudizio razionale non può che premiare il lavoro di chi ha consentito di avvicinarci al testo in modo critico, e non più soltanto sentimentale. Senza nulla togliere al sentimentale: se non altro diamo a chi ha preceduto il merito di averci dato un testo che – di sicuro troppo comodamente – abbiamo abitato.

      • Matteo ha detto:

        Sono d’accordo sui concetti, ma non pienamente sul risultato.
        Ci sono passaggi in Fatica che necessitano di essere letti due volte, o presi dalla foga della lettura si “passa sopra” come se non si avesse letto nulla… perché la mente non riesce a immaginare quello che legge.

        E’ normale per tutti leggere e immaginare le scene, leggere e immaginare i paesaggi.

        Ma in certe descrizioni semplicemente non riuscivo a immaginare nulla per come avesse inserito termini “difficili” in lingua italiana uno dietro l’altro.

        Siamo sicuri, sicuri, che un Inglese non riesca a capire tutto? Che debba rileggere due volte o cercare in rete il significato delle parole?

        Forse NON coglierà determinate cose, come ho letto in altri articoli ad esempio perderà il significato di “quartiero” visto Tolkien riporta il vecchio termine di una moneta in disuso che un giovane inglese non sa neppure che è esistita.
        Ma riuscirà a capire lo stesso il concetto come da noi “quartiero” verrà interpretato semplicemente come una divisone delle Contea perdendo il giro di parole e il rimando “antico” di Tolkien?

        Fatica credo che in alcuni punti si sia soffermato “troppo” a rendere il testo di difficile lettura. Non sto dicendo che è tutto così. Anzi proprio l’opposto, ci sono poche parti che necessitano di una rilettura, e pochissimi in cui si deve cercare in rete. Ma in generale la traduzione di Fatica è, come detto, più “difficile”, come del resto la precedente era più “comoda”.

        La stessa accusa a Fatica ci fa quando tradusse Moby Dick. Non aveva fatto come Cesare Pavese, e reso semplice e abbordabile al lettura del libro di Melville. Però molti si chimono se in effetti quella sua traduzione NON fosse stata fatta per chi voleva leggere SOLO il romanzo, ma che fosse invece una traduzione più per “esperti” che volevano leggere Melville più simile possibile alla sua Arte originale.

        Credo che il Signore degli Anelli sia un ibrido.
        Quando uscì non lo voleva nessuno. Quando venne pubblicato ebbe successo, ma il Fantasy (come era stato etichettato) non vendeva certo come adesso. Ci sono voluti i tre Film per vedere volare le vendite in Editoria dei Libri e degli Autori Fantasy… Quando Tolkien in verità doveva essere visto ne il SDA come un aurore più “alto”. Forse la colpa è anche de Lo Hobbit che è molto più leggero. E l’altezza dell’autore lo si vede invece per come ha scritto Il Silmarillion.

        Rimane quindi un autore classificato ancora oggi come un mero autore Fantasy. Chi legge il SDA forse cerca solo svago. Pochi poi leggeranno tutto del Mondo di Tolkien.
        Da questo punto di vista, ad un lettore importa anche relativamente poco se gli Orchi sono Orchetti, se Sam parla come un nobile. Se viene chiamato Messere, in vece che Mastro, ecc… Insomma cercano solo svago… e forse con Fatica in certi punti si potrebbero arenare.

        Fatica e la sua tradizione sono da Ombrellone? Da leggere tanto per far passare il tempo ?
        Mi sembra che la diatriba tra molti lettori nasca anche da questo. Per alcuni è solo un libro. Che sia stato ritradotto poco importa. Che alcuni passaggi siano difficili, o lo si deve leggere con più attenzione magari gli crea un approccia diverso: non più svago ma attenzione ai dettagli e alla scrittura. Alla metrica, ecc…

  18. Paolo ha detto:

    <>

    Beh, questo non direi proprio.
    Già nella prima edizione de “La Via per la Terra di Mezzo”, Tom Shippey parla della prosa poetica in Tolkien.
    Cito, ad esempio, Shippey a pagina 162 dell’edizione italiana 2005: “…buona parte di ciò che Tom Bombadil dice è composto tipograficamente come se si trattasse di versi, e quasi tutto ciò che egli dice può essere letto come se fosse una poesia, suddiviso in frasi con due accenti fortemente marcati, con o senza rima o allitterazione, di solito con terminazioni femminili o atone…”

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Certo, Tom Bombadil parla in prosa poetica. Ma è un personaggio. Quella è la sua parlata, il suo modo poetico di parlare.
      Io invece mi riferisco alla prosa poetica del narratore del romanzo, che ad esempio sceglie di descrivere la carica di Théoden contro i Sudron infarcendola di allitterazioni, assonanze, ecc. o a certe frasi palesemente in metrica, inserite spesso nelle descrizioni paesaggistiche. Quella è una cifra stilistica che Tolkien sceglie di usare a tratti, in determinati contesti, innalzando vertiginosamente tono e stile.
      Su questo aspetto specifico io non mi sono imbattuto in saggi monografici. Magari esistono, e non li ho trovati. Comunque ho il presentimento che siano pochini.

  19. Maedhros ha detto:

    Buonasera, ho appena trovato l’utilissimo link https://iquadernidiarda.it/ottavio-fatica-fidarsi-del-racconto-ritradurre-il-signore-degli-anelli
    con le trascrizioni di tutti gli interventi del Convegno di Trento, che ho molto apprezzato.

    Avrei tuttavia una domanda: quando Fatica dichiara…

    “E poi il richiamo alla co-inerenza, ispirata a Charles Williams dalla lettura di The Wish House, tardo racconto di Kipling, quella sofferenza vicaria o sostituzione mistica paolina o pratica dell’amore sostitutivo da lui propugnata agli altri Inklings in seguito alla morte di due suoi amici nella Grande Guerra. Espressa al meglio da Sam durante la scalata al Monte Fato, vera e propria ascesa allegorica di un Monte Carmelo.”

    … si riferisce al trattato di S. Giovanni della Croce “Salita al Monte Carmelo”? Non riesco a credere che Fatica abbia confuso il Carmelo con il Calvario, e ho un sincero bisogno di chiarimenti. Grazie!

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Perdona l’ignoranza, ma non capisco cosa non funzioni nella metafora dell’ascesa del fedele al Monte Carmelo. Mi sembra calzi molto di più dell’ascesa al Monte Calvario, dato che Sam non è un alter Christus, ma casomai metafora del fedele che attraverso le tappe della salita si purifica. Almeno mi pare sia questo che intende Fatica.

      • Maedhros ha detto:

        No, l’ignoranza è mia che non conoscevo “La Salita al Carmelo”! Correggerò eventuali critiche fatte altrove.

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