Tolkien e l’arcaismo nel Signore degli Anelli

1. Hugh Brogan… chi era costui?

Hugh BroganDenis Hugh Vercingetorix Brogan (1936-2019) è stato uno storico, biografo, accademico a Cambridge e all’università dell’Essex. Membro di una famiglia di intellettuali e studiosi – il padre, Sir Denis Brogan, era uno storico americanista; la madre, Lady Olwen Francis Phillis Brogan, era un’archeologa; uno zio e un fratello erano giornalisti – Hugh Brogan è noto anche per essere stato tra i corrispondenti epistolari di J.R.R. Tolkien. Il loro fu un rapporto di penna molto particolare, che durò negli anni. Nell’epistolario tolkieniano pubblicato si trovano sei lettere di risposta a Brogan, tra il 1948 e il 1955. La prima, la n. 114, è datata 7 aprile 1948, quando Brogan aveva dodici anni ed era un lettore entusiasta de Lo Hobbit, intento a scrivere all’autore con la tipica frustrazione del fan che ne vuole ancora. Da quel momento il rapporto epistolare tra lui e Tolkien proseguì in modo molto schietto nonostante la grande differenza d’età e Brogan si rivelò un ammiratore tutt’altro che acritico, cioè uno di quei lettori che a Tolkien piacevano e che incoraggiava con le sue risposte.
Brogan fu uno dei lettori con i quali Tolkien parlò anticipatamente del Signore degli Anelli e con cui discusse delle sorti del romanzo al momento della pubblicazione. Il corpus di lettere a Brogan, all’interno dell’epistolario, contiene in effetti alcune riflessioni importanti sulla creazione della Terra di Mezzo, sull’effetto di profondità temporale, e perfino sagaci sferzate sulle politiche editoriali e i prezzi di copertina. Tra queste, c’è la bozza di una lettera mai spedita, la n. 171, nella quale Tolkien risponde ad alcune osservazioni critiche di Brogan circa lo stile arcaizzante del Signore degli Anelli. Nella bozza, Tolkien utilizza gli stessi esempi portati da Brogan per chiarire il proprio pensiero poetico e fare alcune affermazioni stilistiche piuttosto significative.
Poems of OssianIn una lettera del dicembre 1954, Brogan aveva definito lo stile del Signore degli Anelli «ossianico», cioè artificiosamente arcaico. Il riferimento era al celeberrimo caso del poema pseudo-storico scritto dallo scozzese James Macpherson I Canti di Ossian (1760), che tanta parte aveva avuto nel gettare le basi del romanticismo e della reinvenzione della tradizione europea occidentale. Macpherson aveva mimato lo stile poetico antico attribuendo il poema al leggendario bardo celta Ossian, e riuscendo quasi a far credere che l’opera fosse un autentico ritrovamento (il dibattito sull’autenticità dei materiali utilizzati sarebbe continuato fino al XX secolo). Brogan aveva altresì condiviso il parere di un critico del SdA, che aveva parlato di «abuso di arcaismi». Insomma, il ragazzo riportava le critiche di quei commentatori che avevano impallinato Il Signore degli Anelli per lo stile anacronistico e apparentemente ingenuo in cui era stato scritto.

2. Finto antico, moderno… o tolkieniano

Here be dragonsNella bozza di risposta scritta nel 1955, Tolkien lamenta la tendenza a permettersi qualunque «manomissione» della lingua in nome dell’arte o del gusto personale e proprio per questo dice di disapprovare ogni forma di «arcaismo deliberato», che è soltanto il rovescio della stessa medaglia. E aggiunge:

«Il vero ‘abuso di arcaismi’ è quella roba fintamente ‘medievale’ che tenta (senza alcuna cognizione di causa) di ottenere un presunto effetto temporale inserendo imprecazioni come tush [perdinci], pish [poffare], zounds [perbacco], marry [ohibò] e così via. Ma il vero inglese arcaico è molto più conciso rispetto a quello moderno; inoltre molte delle cose dette non potrebbero esserlo nel nostro idioma fiacco e spesso frivolo». (n. 171)

Tolkien fa notare che l’inglese antico era più diretto di quello moderno, più concentrato, per così dire, e per evocarlo non serve ricorrere a parole-teaser che creino un effetto artificioso. Infatti lui non lavora sulla lingua in questo modo, proprio perché ha nell’orecchio più facilmente strutture sintattiche dell’inglese antico o medio, grazie alla propria formazione e ai propri interessi di studio, e tende a riprodurre quelli.
Per confermarlo, passa ad analizzare l’esempio stigmatizzato da Brogan, vale a dire una battuta di dialogo – tratta dal libro III, “Il re del Palazzo d’Oro” – che re Théoden rivolge al mago Gandalf:

“Nay, Gandalf!” said the King. “You do not know your own skill in healing. It shall not be so. I myself will go to war, to fall in the front of the battle, if it must be. Thus shall I sleep better”.

Secondo Tolkien questo è un buon esempio di «arcaismo moderato o diluito», perché compaiono le forme comuni medio inglesi nay e thus, non così obsolete né auliche da suonare stranianti, e per il resto l’effetto arcaico è dato dal tono e dalla formulazione delle frasi. Non si tratta cioè di arcaismi ostentativi, ma spesi con parsimonia in armonia con il tono del discorso.
Tolkien aggiunge che se avesse voluto far parlare Théoden come una certa vulgata massimalista immagina che debba parlare un re antico, gli avrebbe fatto dire qualcosa tipo:

“Nay, thou (n’)wost not thine own skill in healing. It shall not be so. I myself will go to war, to fall . . .” etc

Cioè avrebbe infarcito la frase con parole gratuitamente arcaiche come thou, wost, thine e con un’astrusa doppia negazione n’ + not. Mentre se Théoden avesse parlato come un inglese moderno avrebbe probabilmente detto:

“Not at all my dear G. You don’t know your own skill as a doctor. Things aren’t going to be like that. I shall go to the war in person, even if I have to be one of the first casualties”.

Ciò che Tolkien intende è che Théoden non può parlare con uno stile arcaico ridondante e ostentato, perché sembrerebbe una caricatura; e non può nemmeno parlare come un uomo moderno, perché sembrerebbe anacronistico rispetto al contesto. In entrambi i casi la lingua sarebbe implausibile.
La via all’arcaismo scelta da Tolkien si sviluppa in una direzione diversa, in cerca di un equilibrio sottile tra sintassi, tono della frase, uso di stilemi e vocaboli arcaici.
Per spiegarsi ancora meglio, Tolkien fa un secondo esempio, scelto tra i bersagli di Brogan. In questo caso non si tratta di una battuta di dialogo, ma di una descrizione, tratta dallo stesso capitolo. È la scena della vestizione di Aragorn, Legolas, Gimli e Gandalf per la guerra, dove si legge:

Helms too they chose, and round shields.

Libro: copertina Lettere 1914-1973Di fronte alla critica di Brogan, che evidentemente considerava l’inversione di verbo e complemento oggetto come un arcaismo forzato, Tolkien difende la propria scelta dicendo che non si tratta di un’inversione, ma di una prolessi enfatica dell’oggetto a cui si vuole dare preponderanza, che è uno stilema dell’inglese antico, a cui lui ricorre perché lo trova efficace. Senz’altro alle orecchie di un lettore odierno suonerebbero più famigliari espressioni come: «They also chose helmets» o «they chose helmets too», o ancora «They also picked out some helmets and round shields». Ma rinunciare a un “trucco” efficace solo perché antico sarebbe un impoverimento, dal suo punto di vista. Bisognerebbe reimparare a usarlo, anzi, quel trucco. «E qualcuno deve iniziare a insegnarlo, dando l’esempio».
Il pregiudizio di cui occorre sbarazzarsi, secondo lui, è che «gli usi odierni abbiano una qualche validità in sé semplicemente in quanto ‘contemporanei’ […], e che quindi siano al di sopra di quelli di ogni altra epoca, tanto che non usarli (anche quando siano inadatti per il tono) diventi un solecismo, una gaffe, un qualcosa che gela o mette in imbarazzo gli amici».
Questa tendenza all’appiattimento su stilemi contemporanei e a un certo conformismo del gusto, Tolkien lo definisce «campanilismo temporale» (parochialism of time). La sua sfida stilistica quindi consiste nel seguire il proprio orecchio, nel quale riecheggiano parole e stilemi provenienti dal passato, e nell’elaborare uno stile neoarcaico efficace per l’effetto di profondità temporale misurato non già sul pregiudizio dominante, bensì sulla plausibilità rispetto al contesto specifico.

3. Suoni, parole… e parole

Snoopy scrittoreDalla lettera n. 171 si evince una cosa molto chiara: le scelte stilistiche di Tolkien furono tanto radicali quanto consapevoli, dichiaratamente in controtendenza rispetto allo stile maggioritario coevo.
Si può dire che lo stile neoarcaico del Signore degli Anelli è definito da almeno due componenti.
La prima è l’uso dell’assonanza e la disposizione dei suoni nella frase. Capita spesso, ad esempio, nelle descrizioni di paesaggi e azioni che Tolkien ricorra all’allitterazione.
Per descrivere ad esempio la caduta di Frodo giù per un’erta scoscesa, Tolkien ricorre all’assonanza e all’onomatopea, reiterando il suono “s”: «He swayed, slipped, and slithered downwards with wailing cry”. Oppure l’atto di inclinarsi ripidamente verso il basso è «slanted steeply down», con tre suoni consonantici che si presentano due volte nella serie slt/stl.
O ancora ecco una serie assonante di due coppie di suoni, a loro volta molto simili l’una all’altra:

«On either side and in front wide fens and mires now lay, stretching away southward and eastward into the dim half-light.»

E poco oltre, nella stessa descrizione, si trovano ben cinque occorrenze del dittongo ou, di cui quattro assonanti:

«Far away, now almost due south, the mountain-walls of Mordor loomed, like a black bar of rugged clouds floating above a dangerous fog-bound sea.»

Beowulf manoscrittoQuesta reiterazione dei suoni rimanda al verso allitterativo anglosassone, tipico della poesia antico inglese e di poemi come il Beowulf, e contribuisce anch’esso a dare un effetto arcaizzante alla prosa del romanzo di Tolkien. Il risultato è ottenuto senza forzature, cioè senza ostentare l’arcaismo in sé, ma in maniera sottile, costellando e permeando la scrittura di effetti impercettibili.
La seconda componente connotativa dell’arcaismo tolkieniano è il recupero o il conio di vocaboli insoliti. Non solo neoarcaismi in senso stretto, vale a dire parole che hanno un’evidente base arcaica che lui modifica o riadatta, come hobbit, ent, orc, eleventy-first, ecc. E non solo prestiti, come quando il racconto giunge nelle terre “germaniche” di Rohan e la prosa si costella di parole prese dall’antico inglese – làthspell, éored, dwimmerlaik, weregild, mearas, ecc. Nel corso dell’intera narrazione si rinvengono parole obsolete più che antiche, o più precisamente termini fuori corso nell’accezione per cui Tolkien li sceglie. Non necessariamente termini della lingua alta, ma più spesso della lingua bassa, d’uso comune in un’altra epoca. È il caso di vocaboli come farthing (quartino, quarto), harrow (tabernacolo, fano), mark (marca, landa), nuncheon (merenda, spuntino), moot (assemblea), ecc. Oppure capita che alcune parole note vengano riproposte in forme arcaiche: anigh (vicino, presso); launds (prato); meads (pascolo), ecc.; inclusi i celebri plurali antichi in -ves: dwarves, turves, scarves, ecc.
Steve Walker (in The Power of Tolkien’s Prose, Palgrave Macmillan, 2009) individua almeno tre modalità di agire sulle parole nella prosa tolkieniana:

«La tendenza all’antico nello stile di Tolkien non si limita a una mescolanza indiscriminata di parole più o meno arcaiche; è piuttosto una questione di movimenti linguistici definiti: parole famigliari assumono un significato arcaico […]. Termini antichi vengono modernizzati […]. Parole che usiamo abitualmente vengono presentate in una forma obsoleta». (p. 153)

È evidente che questi andamenti rappresentano una vera e propria sperimentazione linguistica e stilistica – fondata sull’arcaismo – più di quanto molti critici siano stati disposti a (o capaci di) riconoscere.

Ancora Walker:

«Parole antiche vengono richiamate in servizio dal contesto narrativo, acquisendo un nuovo slancio concettuale in contrappunto all’assunzione neologistica di significati tradizionali. In questo mondo di filologia creativa il passato linguistico e storico diventa immediatamente presente». (p. 154)

Insomma, l’effetto arcaico per Tolkien era qualcosa che andava ricercato con varie modalità e pratiche filologiche, fonetiche e sintattiche. Per lui si trattava di dare l’esempio, come scriveva a Hugh Brogan nel 1955, e se avesse scritto altri romanzi avrebbe potuto proseguire sulla strada di questa sperimentazione, con chissà quali risultati, certamente tanto meno artificiosi quanto più basati sulla filologia creativa.

4. Forma, ombra… e prospettiva

secret-viceSoltanto muovendo dalla prospettiva fin qui accennata è possibile valutare correttamente la celebre definizione che Tolkien diede del Signore degli Anelli come «trattato di estetica linguistica» (lettera 165), considerandola non già come un’iperbole o una provocazione, ma come una chiave interpretativa ineludibile.
Sicuramente in Italia non ci siamo mai soffermati troppo a riflettere su questi aspetti. Benché in ogni introduzione all’opera di Tolkien venga ripetuto che la sua narrativa nasce dalla filologia creativa, molto raramente Tolkien è stato inquadrato come uno sperimentatore linguistico, oltre che come inventore di idiomi e di mondi.
Ci è voluta la nuova traduzione de Il Signore degli Anelli perché qualcosa cambiasse in questo senso. Fino all’ottobre scorso nel nostro paese non si era mai riflettuto e discusso così tanto sullo stile di Tolkien e sul suo lavoro certosino di riscopritore e riforgiatore di parole inglesi per la prosa letteraria. È stata l’occasione per scoprire aspetti che perfino i fan di più antica data ignoravano, nonché l’ennesima dimostrazione che la traduzione dà profondità all’opera letteraria, Quaderni di Ardaperché è l’ombra dell’opera proiettata su un altro contesto linguistico, e il raffronto tra la proiezione e la forma originale mette quest’ultima sotto una nuova luce. Al di là di ogni ulteriore appunto sull’importanza culturale del ritradurre, per cui si rimanda all’ottimo saggio di Andrea Binelli su “I Quaderni di Arda”, il dato di fatto è che paradossalmente in questo momento l’Italia è un luogo privilegiato da cui affrontare la tematica dello stile tolkieniano. Il filtro di una nuova traduzione – che dopo mezzo secolo prova appunto a reinterpretare l’arcaismo stilistico del Signore degli Anelli – ci spinge a tornare all’originale con occhi diversi. C’è da auspicare che gli studiosi italiani non si lascino sfuggire questa opportunità.

 

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4 Comments to “Tolkien e l’arcaismo nel Signore degli Anelli”

  1. Cioban Bey ha detto:

    Buon articolo ma ho qualche appunto, abbastanza da maestrino, ma alla fine se vogliamo andare nei dettagli andiamoci bene:

    1. “Se deve nominare una folta macchia d’alberi in fondo a una forra, usa l’espressione «a fair thicket in the ravine», con un chiasmo fonico tra il suono della consonante arrotata e della dentale spirante.”

    Nell’inglese che parlava Tolkien, ossia lo standard britannico, che era ed e’ non-rotico, la “r” in “fair” non si pronuncia – o per la precisione non come consonante in quella posizione: in alfabeto fonetico /feə(r)/, dove la (r) tra parentesi indica che va pronunciata solo se seguita da vocale; quindi non in questo caso: “fair thicket” = /feəˈθɪkɪt/. Il chiasmo dunque non c’e’.

    2. “E poco oltre, nella stessa descrizione, si trovano ben cinque occorrenze del dittongo ou: «Far away, now almost due south, the mountain-walls of Mordor loomed, like a black bar of rugged clouds floating above a dangerous fog-bound sea.»”

    Ora, se per dittongo intendiamo, come si dovrebbe, una sequenza di suoni, non di lettere, nella frase in questione non tutti gli “ou” rappresentano lo stesso suono /aʊ/: quelli di “south”, “mountain”, “clouds”, “bound” si’, ma non quello di “dangerous”, che si pronuncia invece /ə/, suono vocalico centrale indistinto detto anche “schwa”.

    3. “Non solo neoarcaismi in senso stretto, vale a dire parole che hanno un’evidente base arcaica che lui modifica o riadatta, come hobbit, ent, orc, eleventy-first, ecc.”

    Ora, “ent” e “orc” sono effettivamente arcaismi, entrambi attestati in antico inglese – rispettivamente “gigante” e “orco” o qualcosa di simile; ma “hobbit” e “eleventy-first” non fanno parte dello stesso gruppo: sono entrambi neologismi inventati da Tolkien. Per il primo dei due poi lui si _invento’_ a posteriori un’etimologia, “hol-bytla”, “hole-dweller”, “abitatore di buchi”, usando due elementi esistenti in inglese antico, ma mai attestati in un composto – appunto perché gli anglosassoni non ebbero _davvero_ a che fare con gli hobbit. E’ un’etimologia brillantemente plausibile e che illumina il processo creativo di Tolkien, ma non e’ vera. Che io sappia “eleventy-first” e’ anch’esso un neologismo di Tolkien, basato sull’analogia con “eighty-first”, “ninety-first” eccetera; quindi non un arcaismo.

    Se mi sono preso la briga di fare questi appunti e’ proprio perché credo che, come sostiene l’autore, questi aspetti della lingua di Tolkien meritino un apprezzamento dettagliato anche da parte dei lettori italiani.

  2. Wu Ming 4 ha detto:

    Grazie degli appunti.

    Specifico.
    Convenzionalmente in fonetica si dice che la “r” postvocalica (fair) è muta, ma un’ombra in realtà ne rimane. Certo non assimilabile a quella in posizione prevocalica (ravine), quindi accolgo la correzione. Tuttavia ho un presentimento, perché l’ho notato anche altrove nel LOTR, e cioè che Tolkien tenesse in conto l’assonanza grafica (in fondo è un romanzo, si legge, non si recita) e perfino la pronuncia originale in Old English. Per esempio, a proposito di uno dei casi da me segnalati nella seconda parte dell’articolo, da un punto di vista fonetico “swept” non allittera con “sword”, perché nella seconda parola la w è muta. Vero. Ma è difficile convincermi del fatto che Tolkien scriva casualmente “Out swept his sword”, in un brano fitto di assonanze e allitterazioni. Avrebbe potuto scegliere verbi diversi per descrivere quell’azione, invece ne sceglie uno che inizia per sw. Foneticamente le due parole allitterano solo per l’iniziale s, ma graficamente per sw (e questo ci ricorda la pronuncia andata perduta). Mi viene il sospetto che valga anche altrove.
    Di questo vorrei cercare conferma nella casistica del testo, se avrò tempo. Ma sarebbe meglio che lo facessero i più puntigliosi e ferrati di me.

    “Dangerous” mi era già stato fatto notare, me lo sono pure appuntato, ma poi ho dimenticato di corregerlo. È l’occasione buona di farlo.

    “Eleventy-first”. L’ho definito un neoarcaismo perché “eleventy” è un arcaismo, ma Tolkien ci aggiunge “first”. Quindi si tratta di un neologismo basato su una radice antica. È questo che intendo per neoarcaismo.
    “Orc” e “ent” li ho inseriti nel gruppo dei neoarcaismi perché sono parole antiche a cui Tolkien attribuisce un significato diverso da quello tradizionale, dunque anche qui c’è un elemento di novità e originalità. In Old English “ent” significa gigante, come fai notare anche tu; e orc potrebbe essere rintracciato nel Beowulf come “orcneas” ma è tradotto in inglese moderno con un significato diverso da quello che gli attribuisce Tolkien. Ecco perché mi sembra un caso analogo agli altri.
    Idem dicasi per “hobbit”. È vero che l’etimologia è inventata da Tolkien, ma come noti anche tu, si rifà all’Old English: *hol-bytla < hole-byldan, cioè "hole-builder". Quindi ancora una volta Tolkien prende un'etimologia antica e conia una parola nuova.
    Ovviamente possiamo fare distinguo in questo gruppo di parole, ma mi pare che ciò che le unisce sia un approccio analogo.

  3. Wu Ming 4 ha detto:

    Correzioni al pezzo effettuate. Grazie delle segnalazioni.

    • Cioban Bey ha detto:

      Altrettanto. E questa idea dell'”allitterazione fantasma” dovuta alla consapevolezza da parte di Tolkien della storia dei suoni dell’inglese mi pare un’ipotesi non solo difendibile ma anche molto promettente (non so se e’ stato fatta ricerca al riguardo).

      Poi, si’, mi ero sbagliato malamente sul verbo “bytlan”: non “abitare”, ma “costruire”. Tolkien usa questa radice anche in certi nomi di villaggi della Contea: “Hardbottle”, “Nobottle”… (quest’ultimo esiste davvero in Inghilterra).

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