La recensione: Tolkien e il Silmarillion di Kilby

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StudiareChe un autore sia un grande autore è probabilmente suggerito, tra le altre cose, anche dalla mole di letteratura critica che si sviluppa a partire dalla sua opera letteraria. Indizio, se si vuole, promettente ma anche estremamente incerto, dal momento che la critica ora stronca testi destinati a diventare dei classici e ora ne esalta altri che non reggono alla prova del tempo, ora getta luce su aspetti fondamentali delle opere letterarie e ora cade in clamorosi travisamenti, ora adorna gli scritti di un autore come un’edera rigogliosa su un antico tronco d’albero e ora li aggredisce e li soffoca come una pianta infestante. Tolkien, notoriamente avverso a critici, biografi e simili, non ha potuto impedire nemmeno in vita che si scrivesse di lui e più volte ha palesato il suo disappunto nei confronti di alcune distorsioni anche aberranti della sua opera. Tuttavia, col tempo, sono emersi contributi metodologicamente attrezzati e di innegabile valore esegetico – basti pensare ai saggi di Humphrey Carpenter, Tom Shippey, Verlyn Flieger o Thomas Honegger – che hanno consolidato una letteratura critica di riferimento per lo studio dell’opera tolkieniana.

Tolkien e il Silmarillion: contenuto e limiti

Kilby Tolkien e il SilmarillionQuella che ho tra le mani, in questo momento, è un’opera importante nel panorama della critica tolkieniana, un’opera che si può a buon diritto datare alla preistoria dei Tolkien Studies (insieme a tutta una generazione di studi pioneristici di Paul H. Kocher, John S. Ryan, Richard C. West, Eric Gerald Stanley, Charles E. Noad, Colin Manlove e Jared Lobdell). Si tratta di Tolkien & the Silmarillion dello statunitense Clyde S. Kilby, un volumetto pubblicato nell’ormai lontano 1976 e finalmente disponibile in una pregevole edizione italiana per i tipi dell’editrice barese L’Arco e la Corte. Anche se nel 2016, il volume è stato in pratica ristampato – compone un terzo del volume A Well of Wonder: CS Lewis, JRR Tolkien, and the Inklings di Clyde S. Kilby, a cura di Loren Wilkinson e Keith Call. Brewster (Paraclete Press, 348 pp.) – la scelta è ricaduta su questa edizione del 1976. Coordinata da Giuseppe Scattolini, curata da Greta Bertani e tradotta da Luca Manini – che, com’è noto, è il traduttore ufficiale degli inediti di Tolkien per Bompiani dal 2014 –, questa edizione italiana non propone una semplice traduzione del saggio di Kilby, ma una insolita versione commentata e aumentata: un nutrito gruppo di studiosi dei Tolkieniani Italiani, infatti, ha prodotto una notevole mole di commenti all’opera, dei quali si è scelto di rielaborare una parte in forma di note al testo e un’altra pubblicata in un’apposita espansione online accessibile però soltanto tramite QR-code. Si può sperare, perciò, che i materiali di commento siano oggetto di continuo approfondimento nel futuro. Infine, purtroppo non è compreso il capitolo su Il Silmarillion, originariamente previsto, che fu espunto dalla pubblicazione inglese su richiesta di Christopher Tolkien che pensava rivelasse gran parte della trama del libro. Kilby, volendo mantenere rapporti cordiali con la famiglia Tolkien, si attenne ai desideri di Christopher. Il capitolo è stato poi pubblicato nella rivista specialistica Seven: An Anglo-American Literary Review, Volume 19, 2002. Di quest’ultimo capitolo esiste addirittura il manoscritto, conservato nella collezione speciale su J.R.R. Tolkien (codice 5.1-4-6) della Marquette University.

Qualche pregio

Clyde S. KilbyClyde S. Kilby (1902-1986), professore di inglese al Wheaton College (Illinois), protestante evangelico, fu uno dei primi studiosi dell’opera di C.S. Lewis e ben presto si interessò anche a Tolkien, che visitò per la prima volta nel settembre 1964 e poi di nuovo, nell’estate del 1966, per collaborare con lui alla chiusura del Silmarillion (che tuttavia, com’è noto, fu pubblicato postumo solo nel 1977 grazie a Christopher Tolkien e Guy Gavriel Kay). Nel 1965, inoltre, Kilby fondò il Marion E. Wade Center del Wheaton College, facendone un importante centro per lo studio degli Inklings, dei loro amici (come Dorothy Sayers) e delle loro influenze (come George McDonald e G.K. Chesterton).
Tolkien & il Silmarillion non è né una biografia né un saggio in senso stretto. La prima parte, infatti, contiene un resoconto esteso degli incontri tra il Professore, la cui fama dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli era in rapida ascesa, e lo stesso Kilby. Già durante il primo incontro tra i due, Tolkien parla del Silmarillion, «osservando che il problema maggiore che incontrava era la mancanza di un tema dominante che legasse le varie parti» (p. 30) ed auspicandone la pubblicazione entro il 1966. Accenna anche al vecchio progetto comune con C.S. Lewis sulla fuga nel tempo e nello spazio; progetto che, come è noto, ha portato a Lontano dal pianeta silenzioso (Out of the Silent Planet, 1938) e all’incompiuto The Lost Road, primo vero nucleo della materia di Númenor. Da quel primo incontro, tra Tolkien e Kilby nasce, se non un’amicizia, almeno una familiarità sorretta da «una piccola corrispondenza» (p. 35), con la prima lettera di Tolkien scritta l’11 novembre 1964 e l’ultima scritta l’8 marzo 1973. Tra gli argomenti, l’istituzione di un centro presso il Wheaton College che raccogliesse le opere dello stesso Tolkien e degli altri Inklings. Il Wade Center conserva quattordici lettere di Tolkien a Kilby, di cui solo alcune parzialmente pubblicate ne Le lettere. In questo periodo, però, si concretizza soprattutto una sorta di collaborazione tra Tolkien e Kilby, che si configura nei termini di un’«assistenza editoriale e critica» (p. 38) alla revisione del Silmarillion con gli auspici e le speranze del paziente editore Rayner Unwin («che sperava potessi essere io la persona in grado di sistemare Il Silmarillion e renderlo pubblicabile», p. 39). Kilby acquisisce così una specola privilegiata sul laboratorio scrittorio di Tolkien ma ben presto si rende conto delle enormi dimensioni e delle intrinseche difficoltà del lavoro di composizione del Legendarium, palesando più volte il timore che un’opera mastodontica come il Silmarillion non vedrà mai la luce.
Kilby: "Tolkien and the Silmarillion"L’autore, inoltre, documenta con precisione le difficoltà personali e artistiche di Tolkien così come le lungaggini e i continui ritardi nel suo lavoro di scrittura, le incertezze sul valore letterario delle sue opere, il bisogno più di incoraggiamenti che di critiche (positive o negative che fossero), l’assillo della corrispondenza, la frustrazione di fronte agli elogi allo Hobbit e al Signore degli Anelli. Offre anche alcune preziose testimonianze di prima mano sull’origine dei racconti di Tolkien: «Mentre parlavamo insieme, mi parve che tutto fosse iniziato, come diceva lui, al momento della sua nascita. A volte, avevo l’impressione che fosse qualcosa di prenatale. La parola distintiva […] è “composizione”, ossia il tempo necessario per riunire le parti in un insieme pubblicabile» (p. 81). Kilby scrive del processo di scrittura di Tolkien: «Qualcosa della portata del perfezionismo di Tolkien può essere percepito notando che lui, come C.S. Lewis, pensava che una storia fosse composta adeguatamente solo dopo che l’autore aveva prima scritto il tutto in poesia e poi l’aveva ritrasformato in prosa. Parte del manoscritto de Il Silmarillion è in forma di versi. È un concetto che ricorda la massima di Orazio secondo cui un autore rielabora i suoi scritti per nove anni prima di darli al pubblico» (pag. 32). Come ammette candidamente, la missione di Kilby fallisce completamente perché lo studioso non è in grado di muovere Tolkien nemmeno di un centimetro verso il completamento del suo compito. L’autore si distrae facilmente e trascorre le giornate scrivendo lettere o facendo solitari. Quando aveva accettato l’offerta di Kilby di venire ad aiutarlo con il libro, aveva ancora difficoltà ad applicarsi al compito. Kilby nota: «Sarebbe soddisfacente registrare che ho sempre trovato [Tolkien] impegnato nella sua scrittura, ma non è vero. A volte lo trovavo impegnato nelle sue lingue elfiche, un’attività che gli sembrava infinitamente più interessante» (p. 26). Kilby contribuisce a imporre un po’ di ordine nelle versioni disordinate dei manoscritti, ma non può fare altro per portare il libro più vicino alla pubblicazione. Tolkien è diventato sempre più isolato – senza lo stimolo continuo degli Inklings – e di conseguenza si ritrova sempre più incapace di scrivere.
Il compito secondario di Kilby (assegnatogli da Rayner Unwin) è di fargli finire l’introduzione alla traduzione moderna di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, che avrebbe bisogno solo di qualche giorno di lavoro in più per essere pronto, ma si era bloccato a questo punto da molti anni. Kilby fallisce anche in questo – e Tolkien annuncia («quasi trionfalmente») alla fine dell’estate: «Beh, non l’ho scritto io!». Il libro è stato poi pubblicato postumo da Christopher, nel 1975. Kilby, in ogni caso, assiste e consiglia Tolkien nella pubblicazione de Il Fabbro di Wootton Major e interpreta la storia come «un testo sul processo creativo e sui problemi particolari che incontra uno scrittore di fantasy come Tolkien» (p. 67), sebbene quest’ultimo neghi recisamente che si tratti di un’opera autobiografica.
I capitoli successivi di Tolkien & il Silmarillion si soffermano su vari aspetti di grande interesse. Assai importante è quello sulla Cronologia della composizione, nel quale Kilby tenta di ricostruire il percorso di scrittura creativa del Professore e afferma che addirittura già «nel 1906 aveva in mente lo svolgimento generale del suo mito» (p. 83). Probabilmente è una delle prime cronologie ad essere condivisa pubblicamente, poiché Kilby aveva accesso a molto materiale che allora non era pubblicamente disponibile. L’ultimo capitolo, infine, è dedicato al legame di Tolkien con C.S. Lewis e Charles Williams, e ne indaga i rapporti personali, le relazioni letterarie e gli elementi tematici comuni. È, in sostanza, tutta questa la parte migliore del volume e la conferma ci viene da uno studioso del calibro di Thomas Honegger, che in un recente saggio scrive che «la descrizione del modo in cui il Professore lo accolse in casa sua, e delle lunghe ore passate a parlare del suo mondo sub-creato, riportano Tolkien in vita, tanto che pare quasi che dalle pagine del libro emani l’odore del fumo della sua pipa».

Molti limiti

A Well of Wonder- CS Lewis, JRR Tolkien, and the InklingsCome scritto, è strano che un progetto di un gruppo di appassionati si dedichi alla traduzione italiana di un’opera così datata, soprattutto quando ne esiste una sostanziale ristampa ampliata e aggiornata al 2016. Solo dal punto di vista della storia della critica può essere quantomai degno di nota che sia disponibile  un’opera, quale è quella di Kilby, che ha preceduto qualsiasi studio “classico” su Tolkien (la Biografia di Carpenter è del 1977, le Lettere sono del 1978, The Road to Middle-earth solo del 1982) e che, soprattutto, ha offerto uno primo sguardo sul Legendarium tolkieniano quando la pubblicazione del Silmarillion e della monumentale History of Middle-earth erano progetti ancora ben di là da venire. Kilby, oltretutto, pur riportando informazioni oggi vistosamente datate o dimostratesi errate, ha offerto anche valutazioni perspicaci e ancora valide su molti temi dell’opera di Tolkien.
Sono poi molto meno centrate le pagine in cui Kilby si interroga su Tolkien come scrittore cristiano e affronta le questioni della caduta dell’uomo e del mondo, dell’eucatastrofe e dell’evangelium, mostrandosi dell’idea «che Il Silmarillion sia basato tanto su un modello biblico quanto su un modello nordico e di altre mitologie» (p. 101), frase che però smentisce l’assunto di partenza. Segue l’esposizione di alcuni parallelismi, individuati dall’autore, tra la Bibbia e le opere di Tolkien, talvolta un po’ forzati ma efficaci nel fornire un quadro generale dell’influsso che il pensiero cristiano ebbe su Tolkien non solo come uomo ma anche come scrittore. Da notare che nell’edizione del 2016 questa parte è preceduta da una sezione in cui lo stesso Kilby è molto più cauto soprattutto su Il Signore degli Anelli: «Sembra avere sfumature cristiane, ma è una storia da apprezzare, non un sermone per predicare».
Clyde S. KilbyAncor più confusa è la menzione di un testo che Tolkien fa leggere a Kilby, un lungo racconto «sotto forma di una conversazione simile a quella di Giobbe, e incentrata sull’anima e sul corpo […] e sull’incarnazione di Cristo, la diffusione della Sua luce da una persona all’altra, e il compimento finale al ritorno di Cristo» (p. 105). Si tratta con ogni probabilità dell’Athrabeth Finrod ah Andreth, un testo che, com’è noto, Christopher Tolkien non accolse nel Silmarillion (e che fu poi pubblicato in HoMe X, pp. 303-365) ma che probabilmente il Professore aveva tutta l’intenzione di pubblicare. Kilby, infatti, afferma che egli «non era sicuro se dovesse includerlo nel Silmarillion oppure pubblicarlo separatamente» (p. 105). Ora la questione è dubbia in molti punti. Non c’è certamente dubbio che Kilby si riferisse all’Athrabeth in questo passaggio. Ma non esiste nessun altro scritto del legendarium di Tolkien di cui si è a conoscenza che faccia anche un solo accenno all’incarnazione. La «conversazione simile a quella di Giobbe» non ha davvero senso, ma l’argomento di «anima e corpo» e «il possibile scopo di Dio nel permettere la Caduta in modo che possa manifestare ancora di più la Sua sovranità su Satana» sono sicuramente aspetti dell’Athrabeth. Ciò che rende il modo in cui Kilby tratta quest’ultimo scritto ancora più strano è che la descrizione di Kilby nel libro, gli appunti presi dallo stesso Kilby in quel momento e il testo pubblicato da Christopher hanno poca somiglianza tra loro. Soprattutto, gli appunti originali del 1966 (ora in possesso di John D Rateliff per conto della Marquette University) non fanno menzione di Satana, né di Cristo, né della Caduta. È molto probabile che, in questo punto almeno, Kilby durante la stesura del suo libro attingesse più ai suoi ricordi della sua conversazione con Tolkien che non ai suoi appunti scritti all’epoca. Che la memoria dell’autore sia meno fedele degli appunti lo dimostra il fatto che in essi è presente qualcosa che Kilby chiama (non in questo libro!) “Conversation Between Finrod and Andreth”. In questo caso non può che trattarsi dell’Athrabeth, nonostante la descrizione che ne fa Kilby nei suoi appunti abbia poca somiglianza con il suo passaggio nel libro. L’interesse principale di questi appunti è anche nel fatto che mostrano chiaramente quali capitoli Tolkien volesse nel suo Silmarillion, che poi sono andati esattamente nella pubblicazione del 1977. Tolkien mostrò a Kilby anche The Lay of Leithien, The Wanderings of Hurin, The Annals of Aman e The Annals of Beleriand.
Se tutte queste incongruenze e falsi ricordi inficiano gli ultimi capitoli del volume, è bene non dimenticare che Kilby ha avuto appena due mesi, lavorando quasi interamente senza contesto, per leggere ben ventotto testi per un totale di circa 720 pagine (più altri lavori come Il Fabbro di Wootton Major e The Bovadium Framments). Se non altro, però, i suoi appunti aiutano a ricreare lo schema di Tolkien su ciò che all’epoca considerava facente parte o meno del Silmarillion.

Conclusioni

Tolkien & the Silmarillion, come già scritto, è molto più un ritratto dell’uomo che una valutazione critica del Silmarillion allora inedito. Letto in quest’ottica, è ancor oggi una lettura preziosa per qualsiasi studioso e appassionato tolkieniano, non per il fatto di non essere un testo “superato”, ma proprio perché lo è. È anche grazie a Kilby, infatti, che è iniziato il lungo percorso critico che ha messo in luce come Tolkien non sia un autore “per bambini” o “di genere” ma un grande classico della letteratura novecentesca. La via prosegue senza fine ma questo volume è stato 50 anni fa uno dei primi passi fuori dall’uscio di casa.

Paolo Pizzimento, Roberto Arduini

 

ARTICOLI PRECEDENTI:
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– Leggi l’articolo Recensione: Il Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher

LINK ESTERNI:
– Vai al sito del Marquette University
– Vai al sito del Wade Center

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