Bologna diventa Mordor: un murale per Tolkien

Blu04: l'AnelloMetabolizzare J.R.R. Tolkien. È un auspicio tra i più sfrenati che si possano desiderare: la società che non solo si scrolla di dosso tutte le incrostazioni ideologiche del passato, restituendo all’autore il ruolo che gli è proprio tra i classici della letteratura, ma assume la visione che lo scrittore aveva del mondo e che viene trasmessa dalle sue opere. È un azzardo pensare concretamente che si possa giungere fino a questo punto, e raramente accade di poterlo constatare nei fatti. Ebbene, qualche giorno fa è avvenuto proprio questo: Tolkien è stato metabolizzato fino al punto di divenire strumento nelle lotte sociali della nostra società. Ma andiamo con ordine.

Verlyn Flieger: «J.R.R. Tolkien, autore che ha anticipato i tempi»

Locandina Tolkien SeminarTra pochi giorni, dal 25 al 26 novembre 2011 si terrà a Modena il primo dei Tolkien Seminar italiani, organizzato dall’Istituto filosofico di studi tomistici e dalla nostra Associazione, con il patrocinio della Tolkien Society inglese e della Provincia di Modena. Sarà anche l’occasione di un confronto diretto all’interno del Gruppo di studio sullo Hobbit con chi analizza e insegna negli Usa le opere del Professore di Oxford. Il momento pubblico del seminario si svolgerà venerdì 25 novembre, nella sede della Camera di Commercio di Modena (via Ganaceto, 134). Alle ore 21, a ingresso libero, sarà possibile ascoltare Verlyn Flieger e Giovanni Maddalena nella conferenza Mito e verità: la narrazione tra realtà e mistero. In vista del seminario, abbiamo già pubblicato un intervento del professor Maddalena. Ora, in esclusiva, pubblichiamo un’intervista alla professoressa americana, considerata la maggiore studiosa di Tolkien a livello mondiale insieme a Tom Shippey. Ha infatti curato Sulle Fiabe e Il fabbro di Wootton Major, dirige la rivista accademica Tolkien Studies: An Annual Scholarly Review, ha vinto ben due Mythopoeic Award per i suoi studi e in questi mesi sta dando alle stampe una raccolta di suoi saggi (Green Suns and Faerie, ne abbiamo parlato qui) e il suo secondo romanzo, The Inn at Corbies’ Caww.

1) Come si è interessata alle opere di Tolkien? Quando ha letto per la prima volta Il Signore degli Anelli?
«Mi sono sempre piaciuti il mito e le fiabe, fin da quando ho imparato a leggere. Sono cresciuta con le storie di Re Artù, Robin Hood, Giasone e gli Argonauti, la Bella e la Bestia e Jack e la pianta di fagioli. Nell’inverno 1956-57 mi prestarono Il Signore degli Anelli da un mio collega delle Biblioteca Folger Shakespeare a Washington. Avevo appena finito un corso in traduzione del Beowulf e riconobbi subito i riferimenti anglosassoni e arturiani nel romanzo. Rimasi impressionata dalla cultura di Tolkien, specialmente perché all’epoca non sapevo che fosse un professore e uno studioso. Non sapevo nemmeno come pronunciare il suo nome».

2) Sono tanti anni che include Tolkien nei suoi corsi all’Università del Maryland. Qual è ora la sua idea sull’insegnamento delle opere di Tolkien?
Verlyn Flieger«È difficile rispondere. Più insegno Tolkien e più diviene complicato insegnarlo. La sua opera è al tempo stesso
medievale, moderna e post-moderna; combina aspetti di epica, romance, fiaba e tragedia. È insieme profondamente ispirata e profondamente pessimista. C’è molto da insegnare agli studenti di scuola inferiore, superiore e anche all’università, soprattutto ora che è passata la moda legata ai film di Peter Jackson. Penso sia importante vedere Tolkien nel contesto culturale del suo secolo, per ricordare che quella dello scrittore è la generazione sopravvissuta alla Prima Guerra Mondiale. William Morris, Lord Dunsany e George MacDonald possono anche essere state le sue influenze più immediate, mai i suoi pari sono Ernest Hemingway, Siegfried Sassoon, Robert Graves, T.S. Eliot e Ezra Pound. Tolkien non avrebbe potuto fare quel che ha fatto con Frodo se se non fosse passato attraverso l’esperienza della guerra».

3) Tolkien, quindi, merita di essere inserito nei corsi universitari con gli altri grandi scrittori inglesi come Chaucer, Shakespeare e Milton?
«Assolutamente sì. Tolkien è uno dei grandi scrittori della letteratura inglese ed è rappresentativo della sua epoca come Shakespeare, Chaucer e Milton lo furono della loro».

4) Cosa insegna di Tolkien nei suoi corsi all’università?
«Ho iniziato nel 1974 circa, includendolo in un corso sulla letteratura fantastica (l’argomento era come Il Signore degli Anelli veniva letto negli anni Sessanta e Settanta), ma ho subito realizzato come Tolkien fosse realmente un medievista, con connessioni alle prime opere inglesi come Beowulf e tarde opere medievali come la Morte D’Arthur di Malory. Volevo allora mostrare come lo scrittore non avesse soltanto scritto racconti di letteratura fantastica, ma opere immerse in profondità nella più durevole letteratura inglese. E non era sufficiente conoscere sommariamente le opere medievale, ma gli studenti doveva leggersele molto bene per comprendere la tradizione cui Tolkien faceva riferimento».

5) Lei ha curato la nuova edizione del saggio Sulle Fiabe. Perché pensa che questo saggio sia così centrale per comprendere Tolkien? E che impatto ha avuto sulla critica che studia il mito e la letteratura fantastica?
Verlyn Flieger al Convegno "Tolkien e la Filosofia"«Il saggio Sulle Fiabe è la discussione migliore e più completa che conosca su cosa siano il mito e le fiabe, a cosa servano e perché siamo perennemente popolari. Esplorando queste tematiche Tolkien stava al tempo stesso sviluppando la sua teoria della sub-creazione, su come rendere credibile il Mondo Secondario. Leggendolo, così, questo saggio offre anche uno sguardo al pensiero di Tolkien sulle sue opere. Lo scrisse nel 1938, subito dopo la pubblicazione dello Hobbit, ed è chiaro che stava già trovando gli errori commessi in quel libro e ragionando su come correggerli nel suo “nuovo Hobbit”, che poi diverrà Il Signore degli Anelli. Nel complesso, il saggio è divenuto il testo di riferimento per la critica sulla letteratura fantastica e sulla sua scrittura. È lo stesso per l’altro suo saggio famoso su Beowulf e i mostri; si può non essere d’accordo con quel che c’è scritto, ma non lo si può ignorare. Quel testo ha cambiato il volto della critica, rendendola meno tassonomica come era stata con Vladimir Propp, e più teoretica. Sfortunatamente, dopo Tolkien, gli scrittori di fantasy hanno troppo spesso seguito la lettera e non lo spirito di quel che aveva scritto. Questi hanno solo enfatizzato gli aspetti superficiali di un Mondo Secondario – per esempio, i draghi o la magia, senza un approfondimento “storico”. Quando Tolkien scrisse Sulle Fiabe e iniziò Il Signore degli Anelli, stava già lavorando sulla mitologia del Silmarillion da oltre
vent’anni. Aveva tutto quello sfondo da cui attingere».

6) La sua area specialistica di studio è la mitologia comparata. In cosa questa disciplina può aiutare nello studio delle opere di Tolkien?
Illustrazione di Georgij Adamovič Stronk - Kullervo«Tolkien stesso fu uno studioso di miti comparati vedendo i profondi legami che uniscono tutte le mitologie, le verità universali che esprimono sulla condizione dell’uomo, e colse anche le distinzioni culturali che rendono ogni mito unico per la società che lo genera. Tolkien amava il Kalevala, la mitologia del popolo finnico, perché era così diverso dai più familiari miti europei con cui era cresciuto. Il suo più grande eroe epico, Túrin Turambar, ha aspetti del Sigurd uccisore di draghi del mito nordico/islandese, l’assenza di auto-conoscienza dell’Edipo di Euripide, ma è stato modellato essenzialmente sulla tragedia dello “sfortunato Kullervo” del mito finnico».

7) Con Splintered Light (Schegge di Luce, Marietti 2006) e A question of time lei ha evidenziato l’importanza centrale delle tematiche legate alla “luce” e al “tempo” in Tolkien. Pensa che ci siano altri temi centrali nelle sue opere?
"Schegge di luce" di Verlyn Flieger«Sì, un tema importantissimo è quello della “morte”, più evidente nel Simarillion che nel Signore degli Anelli, ma presente anche lì. Una delle più belle poesie è il lamento allitterativo per i guerrieri caduti nella battaglia dei Campi del Pelennor. La “possessività” è un altro tema, il desiderio di tenere per sé qualcosa. L’elemento centrale della trama nel Signore degli Anelli è la necessità di lasciar andare le cose a cui si è legati: Pipino si disfa persino della sua spilla, Sam sacrifica i suoi utensili per cucinare, ma quando viene il momento, Frodo non riesce ad abbandonare l’Unico Anello, e questo causa la sua caduta e la sua tragedia. Questo ci porta al tema a esso legato, quello della “perdita”. Molto di ciò che c’è di bello e meraviglioso della Terra-di-mezzo svanirà per sempre».

8 ) Nel suo saggio Tolkien On Fairy-Stories lei e l’altro autore Douglas A. Anderson scrivete che l’analisi che Tolkien fa dei racconti di fate «anticipa il pensiero modernista e post-modernista della sua epoca e quello successivo» (pag. 20). Può spiegarci cosa intendete?
«Posso comparare Il Signore degli Anelli alla Terra Desolata di T.S. Eliot, un classico della letteratura modernista, in quanto entrambi descrivono un mondo frammentato, un mondo in decadenza, afflitto dalla guerra e incerto sulle sue verità. Quando Aragorn dice a Éomer: “Bene e male non sono cambiate
rispetto al passato”, Tolkien sta parlando del e al suo secolo travagliato, che non era per nulla sicuro di esser nel giusto. È proprio quel che stava facendo Eliot. Tolkien è uno scrittore post-modernista in quanto il suo testo interroga sé stesso, parla di sé, è conscio di sé stesso come testo. Nella scena tra Sam e Frodo sulle scale di Cirith Ungol, Sam si domanda in che tipo di storia si trovano, e come la gente in una storia reagisce diversamente dalla gente che la ascolta. Egli vuole essere in “un grande librone con lettere rosse e nere”. Quando Frodo dice, “Perché Sam, ascoltarti mi rende allegro come se la storia fosse già scritta”, il lettore realizza che il racconto è già scritto, lo sta tenendo in mano in quel momento e che Sam non lo sa. Questa è la quintessenza del post-moderno. Non ci può avere più meta-narrazione di questa».

9) Quale è stata, secondo lei, l’influenza di Tolkien sulla letteratura fantastica nel suo complesso?
«Tolkien ha permesso di far considerare seriamente la fantasy. Se Tolkien non avesse scritto Il Signore degli Anelli, George Lucas non avrebbe potuto produrre Guerre Stellari. Il suo impatto è stato enorme, e non ha generato il genere Fantasy più di quanto non ne sia un’espressione. Gli scrittori che si sono ispirati a lui, sono per lo più semplici imitatori, che hanno replicato gli elementi superficiali delle sue opere – un piccolo eroe o un anti-eroe, una quest, un oggetto magico, una mappa con luoghi esotici, alcune parole in corsivo per rappresentare un’altra lingua. Ciò che non hanno saputo riprodurre è l’umanità di Tolkien, il suo senso profondo che ci si trova in un mondo caduto, con le gioie e dolori che segnano le caratteristiche della sua Terra-di-mezzo».

Nuovo libro Verlyn Flieger10) Quando verrà pubblicata la sua nuova antologia di saggi, intitolata Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien? Ci sono altre pubblicazioni in vista?
«Spero uscirà per dicembre. Mi aspettavo uscisse insieme al mio ultimo romanzo fantasy The Inn at Corbies’ Caww, ma è stato pubblicato a settembre. La mia raccolta di saggi era programmata per l’agosto scorso, ma fattori legati all’editore, la Kent State University Press, lo hanno ritardato oltremodo. Si tratta di una collezione di saggi [ISBN 978-1-60635-094-2; prezzo negli Usa 24.95 dollari, intorno ai 18 euro] che riunisce molte delle mie conferenze tenute in questi anni, con l’aggiunta di alcuni studi inediti. In copertina appare l’immagine The Glittering Caves of Aglarond di Ted Nasmith».

Roberto Arduini

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George MacDonald e J.R.R. Tolkien, un’ispirazione rimpianta

George MacDonaldTra i molti scrittori che piacevano a J.R.R. Tolkien c’è anche George MacDonald (1824- 1905), scrittore, poeta e per qualche tempo pastore della Chiesa Congregazionale in Scozia. Ma è davvero così? L’occasione per parlarne ci viene data dalla pubblicazione di un suo romanzo del 1871, Al di là del vento del Nord, in una pregevole edizione arricchita da alcune illustrazioni originali ad opera dell’editore riminese Raffaelli. L’opera non è precisamente un fantasy, ma una fiaba vittoriana in cui elementi ed atmosfere fantastiche si incontrano con la dura realtà londinese già immortalata da Dickens. Tolkien non amava molta la fiaba vittoriana, ma in una lettera (n. 25) scrive che di questo genere «George MacDonald rappresenta la maggiore eccezione». Nonostante la critica tolkieniana si soffermi spesso sull’influenza dello scrittore scozzese sull’autore del Signore degli Anelli, il rapporto tra i due è un po’ più complesso di quanto sembri. Anzi, Tolkien arrivò a scrivere che era «uno scrittore per cui ho una sincera e modesta antipatia». Ma andiamo per ordine.

Diana Wynne Jones, Tolkien e la sindrome di Polly

Diana Wynne JonesÈ da poco scomparsa, Diana Wynne Jones, scrittrice per ragazzi inglese considerata tra le più importanti del Novecento. Fa parte di quel gruppo di di autrici americane e inglesi (Ursula K. Le Guin, Philippa Pearce, Susan Cooper, Natalie Babbitt) che, a partire dagli anni ’50, hanno ridefinito la letteratura fantastica per ragazzi, creando molti dei nuovi classici del genere. Jones, che ha scritto più di trenta romanzi, è conosciuta in Italia soprattutto per la saga di Chrestomanci (pubblicata da Salani) e ancor di più per la serie de Il Castello Errante di Howl (Kappa Edizioni), da cui il regista giapponese Hayao Miyazaki ha realizzato il film d’animazione nel 2004. L’autrice inglese ha vinto due dei maggiori premi letterari fantasy: nel 1999 il Karl Edward Wagner Award nel Regno Unito, premio assegnato dalla British Fantasy Society e la sezione per ragazzi del Mythopoeic Fantasy Award negli Usa, per due volte, nel 1996 per The Crown of Dalemark e nel 1999 per Dark Lord of Derkholm.

Qui ci piace ricordare come Diana Wynne Jones amasse i libri di J.R.R. Tolkien, essendo stata anche una sua studentessa. Dal 1953 al 1956, infatti, studiò letteratura inglese al St. Anne’s College di Oxford, dove assistette a una serie di lezioni pubbliche sia di C. S. Lewis, sia di Tolkien. Di entrambi aveva un ricordo vivo, riportato in diverse occasioni in interviste, nella sua autobiografia e in vari libri. «Il primo faceva il pienone in aule affollatissime, mentre il secondo mormorava a me e altri tre», raccontava. Jones scrisse un saggio sullo stile di Tolkien, The Shape of the Narrative in The Lord of the Rings, pubblicato nella raccolta Everard’s Ride e successivamente in J.R.R. Tolkien: This Far Land (in italiano si può leggere il saggio nel numero 23 di Minas Tirith). L’autrice ricorda: «Quando studiavo all’università seguii un ciclo di lezioni pubbliche che Tolkien tenne sulla narrazione, la sua forma e lo schema delle storie – o, almeno credo questo fosse l’argomento dato che Tolkien era pressoché incomprensibile quando parlava.
Evidentemente odiava tenere lezione e ho il sospetto che odiasse anche i propri pensieri. Ad ogni buon conto, egli, nel giro di due settimane, riuscì nell’intento di ridurre l’uditorio alla sottoscritta ed altri quattro ascoltatori. A dispetto dei suoi sforzi noi tenemmo duro. La sua maniera di procedere era la seguente: quando sembrava che potessimo sentire quello che diceva, era solito voltarsi e rivolgersi alla lavagna. In questo modo mi raggiungevano solo vaghi sentori di ciò di cui parlava, eppure, anche così, erano fin troppo affascinanti per poterli perdere. Tolkien cominciava con la più elementare delle storie possibili: un uomo (dal principe fino al boscaiolo) parte per un viaggio. Quindi, conferiva un obiettivo al viaggio, permettendoci di scoprire che la semplice trama picaresca si era sviluppata in una Cerca. Non sono ben sicura di cosa accadesse poi, ma so che, alla fine, stava discutendo il particolare adattamento del motivo della Cerca fatta da Geoffrey Chaucer nel Pardoner’s Tale [Il Racconto dell’Indulgenziere]».

JRR TolkienA parziale discolpa del professore per il suo comportamento, bisogna notare che le lezioni pubbliche al St. Anne’s College erano una delle mille incombenze di Tolkien come accademico, facendo egli parte del Consiglio di Facoltà di Lingua inglese, tenendo regolari lezioni (il 1953 è proprio l’anno dei corsi sul Pardoner’s Tale) e dovendo seguire come tutor per la laurea diversi studenti. Il 1953 è poi l’anno in cui Tolkien stata dando gli ultimi ritocchi al Signore degli Anelli. L’autore era comprensibilmente concentrato su quell’opera, oltre a dover presiedere sessioni d’esame e conferenze pubbliche. «Spero che i miei studenti abbiamo fatto tardi la sera, così da essere tanto confusi da non accorgersi delle gravi lacune del loro docente in materia di celtico», scrisse in una lettera poco prima della presentazione di Inglese e Gallese, pubblicata poi nel 1963.
Nella sua autobiografia Jones, poi, confessa: «Guardando indietro, sia Tolkien sia Lewis hanno avuto un’influenza enorme su di me, ma è difficile dire in che modo, tranne per il fatto che hanno avuto un’influenza anche su altri. Ho scoperto, poi, che quasi tutte le future scrittrici inglesi di libri per i ragazzi – come Penelope Lively, Jill Paton Walsh – erano a Oxford nello stesso periodo in cui ero io, ma raramente le ho incontrate e mai abbiamo parlato di fantasy insieme. Oxford era allora molto ostile alla letteratura fantastica. Guardando Lewis e Tolkien, tutti alzavano le sopracciglia e dicevano: “Sono pure studiosi eccellenti!”».

Diversi altri autori di libri per ragazzi hanno riconosciuto l’influenza diretta o indiretta di Tolkien sulle loro opere (per non parlare di autori come Stephen King, Ursula K. Le Guin e J.K. Rowling). Susan Cooper, scrittrice nota soprattutto per Il risveglio delle tenebre, saga fantasy ambientata nell’Inghilterra e nel Galles medievali e vincitrice di numerosi premi, conferma le parole di Diana Wynne Jones, anche sul fatto che nella città inglese universitaria per eccellenza in quegli anni la letteratura fantastica non era vista di buon occhio. Tolkien stesso non incoraggiava gli studenti in questo senso, ma i
corsi di studi in inglese erano influenzati della propensione del professore a trattare quel tipo di argomenti mitologici che cementarono la preferenza verso il mito e il genere fantastico già presenti in questi autori.

Libro Fire and HemlockNell’eccellente fantasy, per nulla “tolkieniano”, Fire and Hemlock, una rivisitazione in chiave moderna della ballata di “Tam Lin” da parte di Jones (1984), l’eroina Polly scopre Il Signore degli Anelli all’età, sembra, di circa quattordici anni e lo legge tutto per quattro volte di seguito. Subito dopo scrive una storia d’avventura su se stessa e la figura del suo mentore/padre: «È l’avventura di Tan Coul e Hero e di come si misero alla ricerca dell’Obah Cypt nelle Grotte del Giudizio…». Dopo Il Signore degli Anelli, a Polly era molto chiaro che l’Obah Cypt era realmente un anello molto pericoloso e doveva essere distrutto: «Hero lo fece, con grande coraggio». Inviò il manoscritto al suo mentore, Tarn Lynn, ma lui rispose soltanto: “No, non è un anello. Lo hai rubato da Tolkien, devi usare le tue idee”». Questo brano è emblematico e Diana Jones ha riportato nel suo libro un fenomeno culturale all’opera dagli anni ’50: la Terra-di-mezzo è un universo così potente che molti lettori – come si può anche vedere dall’enorme quantità della “fan fiction” che si può trovare su internet – sentono l’immediato bisogno di raccontare la propria storia in essa o al suo fianco, in un mondo parallelo. In Meditations on Middle-earth, una raccolta di riflessioni su Tolkien a cura di Karen Haber e scritta da molti dei più importanti scrittori contemporanei di fantasy e fantascienza (George R.R. Martin, Raymond Feist, Poul Anderson, Michael Swanwick, Esther M. Friesner, Harry Turtledove, Terry Pratchett, Robin Hobb, Ursula K. Le Guin, Diane Duane, Douglas A. Anderson, Orson Scott Card, Charles De Lint, Lisa Goldstein, Glenn Hurdling, Terri Windling), questa “sindrome di Polly” è confermata ripetutamente dagli autori stessi.

In Tolkien, Autore del Secolo (Simonelli Editore), Tom Shippey suggerisce che in alcuni casi – in molti dei casi come quello dell’eroina di Diana Wynne Jones – le parole e le immagini di Tolkien sono state apprese così presto e così profondamente, presumibilmente con la lettura compulsiva e ripetuta dei suoi libri, che esse sono state interiorizzate e ora sono proprietà personale piuttosto che debito letterario. Il fenomeno era abbastanza comune nei secoli in cui l’epica, le saghe e le ballate erano trasmesse oralmente in formule o in versi; gli ascoltatori passivi di una tradizione si univano immediatamente ai suoi estensori attivi, divenendo a loro volta diffusori di poemi. È un cosa strana, ma non del tutto disprezzabile da vedere oggi, in quest’epoca in cui domina l’autorevolezza del singolo individuo e la difesa dei diritti d’autore.

Peter Gilliver, Jeremy Marshall ed Edmund Weiner in The Ring of Words hanno dimostrato come l’uso frequente della parola “confusticate” (forma meno usata per “
confondere”) nei libri della serie dei Chrestomanci sia sicuramente un prestito di Diana Wynne Jones da Tolkien. La stessa cosa accade ad altre scrittrici di lingua inglese (ad esempio, a Jan Siegel, pseudonimo di Amanda Hemingway e alla canadese Alison Baird) per altre parole del professore di Oxford. Se pensiamo a quel che ha detto Jones nella sua autobiografia, forse è questo il modo in cui Tolkien ha esercitato la sua influenza sulle scrittrici inglesi del Dopoguerra. E non solo: perché, come concludono Gilliver, Marshall e Weiner, «in sintesi, nella lingua inglese è iniziato il processo di assimilazione del patrimonio lessicale usato da Tolkien nelle sue opere».

Roberto Arduini