Trovarsi di fronte per la prima volta alla grande opera stesa dal genio del professore inglese non è affatto facile, ma, una volta assorbita, ti entra dentro e ogni qual volta ci si trova dinanzi a una qualche forma d’arte fantastica, sia essa letteraria o cinematografica, non si può far a meno di creare un paragone tra l’immensa creazione di J.R.R. Tolkien e ciò che ci si trova davanti. Molti sostenitori, o per meglio dire fan, di quella che oggi è diventata la fantascienza tentano da anni di ipotizzare un legame fra gli scritti tolkieniani e le successive saghe sci-fi cui qui ci riferiamo, ma soltanto all’indirizzo Star Wars. Trattare di fantascienza è cosa particolarmente ardua e altamente ingannevole, perché non si può assolutamente attribuire a Tolkien il fatto di aver “inventato” questo genere, ma si fa addirittura fatica a inserirlo nel suddetto filone letterario, che risale a molti molti secoli addietro.
Si pensi al trattato incompiuto di Francis Bacon, La Nuova Atlantide, saggio filosofico misto di racconto utopico del XVII sec. dove alcuni viaggiatori, naufragati sull’isola di Bensalem, compiono esperimenti scientifici che rivelano alcune delle tecnologie tutt’oggi esistenti. Alla stessa maniera si possono classificare come pre-fantascientifici I Viaggi di Gulliver, il Frankenstein di Mary Shelley fino ad arrivare alle opere di Jules Verne e H.G. Wells con il scientific romance. Entrati ormai nella fantascienza di stile utopico non si possono non menzionare grandi scrittori russi come Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov con Krasnaja zvezda (Stella rossa, 1908) e Inžener Menni (Ingegnere Menni, 1912), ambientati in una società socialista utopica sul pianeta Marte, e Evgenij Ivanovič Zamjatin con My (Noi, 1921) probabilmente il manifesto precursore del romanzo a sfondo distopico.
Fino ad arrivare a quella che è conosciuta come l’Età d’Oro (o Golden Age) della fantascienza, quel periodo fra gli anni ’30 e ’50, che precede la fantascienza sociologica dei successivi decenni (nella quale possiamo inserire autori famosi come Robert Sheckley, Richard Matheson, Mack Reynolds e Philip K. Dick), dove primeggia John W. Campbell, redattore e curatore di molte riviste fantascientifiche, fra le quali citiamo ad esempio Astounding Science Fiction, nella quale apparsero i primi racconti di Isaac Asimov. Sono questi dunque gli anni in cui J.R.R. Tolkien scrive e successivamente pubblica Il Signore degli Anelli, coincidenza interessante ma potrebbe darsi come del tutto casuale.
Categoria: Influenze
Il modello economico ideale? Non è la Contea
Chi ha letto il Signore degli Anelli o visto la trilogia di Peter Jackson può essere spinto a desiderare uno dei modelli di società ritratti nel volume da J.R.R. Tolkien. Si tratta della Contea degli Hobbit (The Shire), una comunità agricola nella zona nord-occidentale della Terra-di-mezzo: sembra un paradiso sia dal punto di vista sociale sia da quello economico. Gli Hobbit convivono pacificamente, impegnati nei loro affari quotidiani: il lavoro nei campi, la vendita di beni elementari e l’immancabile pinta di birra serale al pub Il Drago Verde. Ce n’è abbastanza per avere nostalgia di un mondo che, in effetti, non è mai realmente esistito, anche se assomiglia da vicino alla vita di campagna che si faceva fino alla metà del Novecento. Allora, ci si può fare una domanda: è possibile riprodurre la Contea?
Quando Neil Gaiman sognava J.R.R. Tolkien
Sempre più scrittori riconoscono il proprio debito letterario nei confronti di J.R.R. Tolkien. Uno di questi è Neil Gaiman. Lo scrittore inglese, sceneggiatore di fumetti di enorme successo come Sandman e The Books of Magic, è autore di romanzi come Nessun dove (Neverwhere, edito in Italia da Fanucci), Stardust (pubblicato per la Magic Press) e Good Omens, scritto a quattro mani con Terry Pratchett. Il suo romanzo American Gods (pubblicato in Italia da Arnoldo Mondadori Editore) è stato premiato con un Hugo quale miglior romanzo. Di Gaiman è anche Coraline (pubblicato in Italia da Mondadori nel 2004), romanzo vincitore del Premio Hugo e del Premio Nebula per il miglior romanzo breve, da cui è stato realizzato un film d’animazione intitolato Coraline e la porta magica.
Se la lettertura fantastica di Tolkien parla in qualche modo del “crepuscolo del mito” di fronte all’avanzata della modernità, Gaiman nei suoi cicli di romanzi e fumetti, parla di un fantastico mitologico che coabita con la modernità e le sue forme. In questo senso, Gaiman ricorda il modo con cui George R.R. Martin ha letto e assorbito le opere di Tolkien. Nel 2004, Gaiman fu ospite d’onore della 35° Mythcon, l’annuale conferenza della Myhtopoeic Society, la Tolkien Society Usa. In quell’occasione, lo scrittore parlò del suo rapporto con l’autore del Signore degli Anelli. Il discroso di Gaiman fu, poi, pubblicato nell’ottobre 2004 su una delle riviste della società, Mythprint. Qualche giorno fa, Gaiman ha reso pubblico il testo sul suo blog. E l’Associazione romana studi Tolkieniani lo ha tradotto per voi.
La Regina che illustrò Il Signore degli Anelli
Sabato, 14 gennaio 2012, la Danimarca festeggerà i 40 anni del regno di Margherita II. Un recente sondaggio ha rivelato che ben il 77% dei danesi è soddisfatto della monarchia e della famiglia reale, che ne fa i sudditi più fedeli in Europa. Il successo è probabilmente dovuto alla capacità della famiglia reale di modernizzarsi in maniera giusta, ma gran parte del merito va alla stessa regina: quando salì al trono nel 1972 solo il 42% era favorevole alla monarchia. In pochi però sanno che la sovrana danese è una grande appassionata di J.R.R. Tolkien.
Quando l’Arte Visiva legge J.R.R. Tolkien
L’arte è contaminazione. Non serve un esperto per verificare come ogni opera d’ingegno umano sia frutto anche di influenze di altre opere, in un gioco continuo di rimandi tra letteratura, pittura, scultura, musica, cinema, fumetto, e molto altro ancora. Questa volta ci occupiamo dell’estremo confine delle influenze delle opere di J.R.R. Tolkien. È un viaggio degno di un’astronave ai confini dell’universo artistico, verso mondi «laddove nessun uomo è mai giunto prima». Ma andiamo per ordine.
George MacDonald e J.R.R. Tolkien, un’ispirazione rimpianta
Tra i molti scrittori che piacevano a J.R.R. Tolkien c’è anche George MacDonald (1824- 1905), scrittore, poeta e per qualche tempo pastore della Chiesa Congregazionale in Scozia. Ma è davvero così? L’occasione per parlarne ci viene data dalla pubblicazione di un suo romanzo del 1871, Al di là del vento del Nord, in una pregevole edizione arricchita da alcune illustrazioni originali ad opera dell’editore riminese Raffaelli. L’opera non è precisamente un fantasy, ma una fiaba vittoriana in cui elementi ed atmosfere fantastiche si incontrano con la dura realtà londinese già immortalata da Dickens. Tolkien non amava molta la fiaba vittoriana, ma in una lettera (n. 25) scrive che di questo genere «George MacDonald rappresenta la maggiore eccezione». Nonostante la critica tolkieniana si soffermi spesso sull’influenza dello scrittore scozzese sull’autore del Signore degli Anelli, il rapporto tra i due è un po’ più complesso di quanto sembri. Anzi, Tolkien arrivò a scrivere che era «uno scrittore per cui ho una sincera e modesta antipatia». Ma andiamo per ordine.
Lord Edward Dunsany, nonno e nipote
Edward Plunkett, ventesimo barone di Dunsany, è scomparso il 24 maggio, all’età di 71 anni. La notizia desta un certo rilievo anche per gli appassionati di J.R.R. Tolkien perché questo Lord Dunsany era il nipote del diciottesimo barone, anch’egli Edward Plunkett, Lord Dunsany (1878–1957), scrittore amato da Tolkien. Due parole, quindi, sul nipote prima di ricordare il nonno. Edward Carlos Dunsany è stato un noto architetto e artista irlandese, che ha vissuto e lavorato a Londra, Roma e New York, per brevi periodi in Brasile e in Francia, prima del suo ritorno alla tenuta di famiglia in Irlanda, nei pressi della collina di Tara, era uno dei luoghi più venerati nell’Irlanda dei primi secoli, perché lì i re gaelici dovevano dimostrare di essere stati scelti dagli dei. A Roma visse dal 1969 al 1976, e una sua mostra, allestita alla galleria “Il collezionista” nel 1975, riscosse enorme successo di critica e di pubblico. Giulio Carlo Argan vide nei quadri di Plunkett «una soglia-diaframma tra due dimensioni che tendono a fondersi, che s’incrina e frattura, come uno schermo che ceda ad opposte pressioni, dando una doppia e tripla lettura della stessa immagine». Una sospensione della realtà (vi ricorda qualcosa?!) che si vede anche nel colore «tonalità di bianchi, di neri, di grigi e di bruni, saturi di una loro luce coagulante, al di là di ogni possibilità di vibrazione, come nei paesaggi preromantici di David Caspar Friedrich o negli interni surreali di Magritte». Alcune delle sue opere sono visibili sul suo sito personale (andando nella sezione “Catalogo”).
