Se l’ispirazione è Tolkien

«Al di sopra del Marese, della Valle dell’Acqua, dei Monti Brumosi, del Bosco d’Oro,
della Montagna Solitaria, delle nubi, dei mari, al di là del Fuoco Dorato, della Rete di Stelle
e dei confini delle Cerchie del mondo…».

Pezzi del MonopoliCi si può divertire con i libri di Tolkien? La risposta è sì e spesso si va oltre il piacere della lettura. Basta prendere spunto dalle sue storie e, soprattutto, condividere la propria passione con gli amici. È quel che fa il cosiddetto Fandom (da “Fan’s Kingdom”), vale a dire, l’insieme degli appassionati «tolkieniani», che si riconoscono in una serie di riviste, siti internet, rituali e attività varie tutte legate al mondo creato dal loro autore preferito. Famoso – e studiatissimo – è stato “l’effetto fantasy” generato dal Signore degli Anelli, che ha dato vita, oltre che a una profonda e diffusissima tradizione di giochi di ruolo (come il più famoso Dungeons & Dragons), videogiochi e opere fantasy che al suo modello si ispirano (su questo argomento può essere utile leggere Introduzione a Tolkien, a c. di Franco Manni, Milano, Simonelli Editore, 2002, pp. 18-19).

La comunità di appassionati delle opere di Tolkien ha prodotto talvolta risultati notevoli in molti campi: dai videogiochi appunto agli studi sulle lingue inventate dallo scrittore, dai giochi di ruolo come “Merp” alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, anch’egli prima di tutto fan del professore di Oxford. Del resto, come diceva Henry Jenkins (Cultura Convergente, 2007), «le elaborazioni e le congetture dei fan arrivano ad espandere un’opera letteraria in varie direzioni». È lo stesso Tolkien a riconoscere che uno dei segreti del successo di pubblico del Signore degli Anelli risiede negli accenni che la sua opera contiene ad altre leggende e a una storia ben più ampia di cui il lettore non conoscerà nulla (Lettera 151). Da studioso della letteratura antica e medievale sapeva quale enorme attrattiva poteva esercitare sul lettore l’ingresso in un mondo e in un’epoca sconosciuti. Le vicende narrate si svolgono, infatti, in un contesto in buona parte ignoto, dai confini inevitabilmente vaghi per un pubblico non specializzato. Questa “vaghezza” fornisce alla narrazione un effetto di profondità, di tridimensionalità, che ne aumenta il fascino. Questa sorta di incantesimo, scrive Tolkien nel saggio Sulle fiabe, «genera un Mondo Secondario nel quale possono entrare sia l’artefice sia lo spettatore, a soddisfazione dei loro sensi mentre vi si trovano».

Provare per credere

Il romanzo fantastico sembrerebbe in grado anche autonomamente di scatenare la ben nota dinamica del «make believe». La lettura, l’ambito di maggiore elezione di quest’attività, è in grado di costruire diversi possibili «mondi d’invenzione», dai giochi dei bambini, alle opere d’arte e di letteratura, ai sogni (o ai sogni a occhi aperti), accomunati, nelle loro distinte specificità, dal fatto di appartenere tutti a una stessa categoria logica, che pone al suo centro una necessaria capacità d’immaginazione e d’identificazione. In questa prospettiva, la lettura suggerisce al lettore le «regole che prescrivono di immaginare i dettagli di un certo mondo, spingendolo… a recitare un ruolo in un vero e proprio gioco di fantasia».
Seguendo il modello ideale proposto da uno dei libri più famosi – Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll – il romanzo fantastico diviene un modo per andare «attraverso lo specchio» ed entrare in un mondo alternativo e possibile, basato sulle leggi d’identificazione del make believe, diventa, cioè, il luogo privilegiato del romance. È possibile allora ripetere a proposito del legame tra lettori e romance ciò che ha detto Tolkien in Sulle fiabe: «Relegato nella stanza dei giochi» (Sulle fiabe, Milano, Rusconi, 1976, p. 44), perché troppo pericoloso e frivolo, dagli adulti ormai cresciuti, il romance torna a farsi strada nell’«immagine della letteratura giovanile, dove poteva ancora venire esaltato come luogo del libero sfogo della fantasia».
Ma è sempre Tolkien ad auspicare che, prima o poi, le ampie zone da lui lasciate in ombra nella storia della Terra di Mezzo avrebbero potuto attirare nuovi esploratori disposti a illuminarle, facendo addirittura convergere differenti media. Scrive, infatti, lo scrittore nel 1951 (Lettera 131): «Alcuni dei racconti più vasti li avrei raccontati interamente, e ne avrei lasciati altri solo abbozzati e sistemati nello schema d’insieme. I cicli sarebbero stati legati in un grande insieme, e tuttavia sarebbe rimasto lo spazio per altre menti e altre mani che inserissero pittura e musica e dramma». Di tutto questo parla un saggio molto approfondito, “Tolkien e i Cohabiters”, dello scrittore italiano Wu Ming 4, e pubblicato sul numero 12 di “Endóre”, rivista diretta da Franco Manni, uscito sulla rete in gemellaggio con la rivista Carmilla e il blog “Lipperatura” di Loredana Lipperini. Il sottotitolo, assai significativo, è “il romanzo come incanto e comunità”.

Lo scrittore e i suoi lettori

Del resto, quella del “fandom” è una storia vecchia. Scorrendo le pagine della letteratura si trovano numerosi esempi di “fan” di un autore che ne continuano l’opera o ne colmano gli spazi lasciati vuoti. Al primo romanzo moderno, Don Chisciotte della Mancia (1605) dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, fece seguito, nel 1614, una continuazione apocrifa firmata da un certo “Alonso Fernández de Avellaneda” (dietro la cui identità ancora si dibatte), che presenta una ricca vena narrativa e un notevole potere di satira, anche se poca comprensione dei personaggi. Cervantes ne fu così amareggiato da pubblicare l’anno seguente il vero Segundo tomo delle avventure di Don Chisciotte. E vi aggiunse un “Prologo al lettore”, nel quale l’autore denuncia l’apocrifo e promette di esaurire, con questa seconda parte e per prevenire altre riscritture, tutte le avventure dell’hidalgo fino alla morte e alla sepoltura. L’altro capostipite del moderno romanzo d’avventura, Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719), fu seguito da numerose storie di naufraghi, tanto che già alla fine del XVIII secolo si potevano annoverare oltre settecento diverse riduzioni e riscritture, incluse versioni per bambini con più immagini che testo. Tutte queste storie danno origine un genere a sé, quello delle cosiddette Robinsonaden, alcune anche di alto livello (è il caso, per esempio, del cosiddetto Robinson svizzero di Johann David Wyss, del 1812, o dei Robinson italiani di Emilio Salgari, del 1896).

Senza parlare di tutte le storie che hanno prodotto le opere di William Shakespeare, di cui sei drammi poi ritenuti apocrifi finirono addirittura in una delle prime edizioni. Nel corso del XVII secolo e oltre gli furono attribuiti tutta una serie di testi e all’inizio del XIX secolo, Charles e Mary Lamb misero in prosa, in parte modificandoli, i Racconti da Shakespeare, fino alla modernissima pièce teatrale (e versione cinematografica) Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard. Lo stesso discorso si potrebbe fare per tutta la produzione dei lettori-fan di Lewis Carroll o Jane Austen.
Nel XX secolo, l’elenco si allunga, a comprendere ancora altre possibili forme di interscambi di genere letterari e canali comunicativi diversi. Dai film di Walt Disney tratti da grandi classici come Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll o Pinocchio di Carlo Collodi, alle serie TV a cartoni animati, che hanno riadattato buona parte dei romanzi di formazione per giovani tra Otto e Novecento (da Heidi a Pollyanna, da Remì di Senza famiglia a Marco di Dagli Appennini alle Ande). Arriviamo così ai nostri giorni, prima con il lancio dei «Librigame» (introdotti in Italia nel 1987) e l’avvento, nel 1975, del gioco di ruolo con il capostipite Dungeon & Dragons, «esperienza che racchiude il doppio elemento di simulazione e narrazione». Poi con l’avvento dell’era digitale, videogiochi e internet sono divenuti il luogo d’elezione del fandom, con la sterminata proliferazione di siti web, blog, newsgroup, forum e web-zine.

Elementare, Watson!

Da Casanova a Don Giovanni, da Peter Pan a Miss Marple, sono molti i personaggi che prendono il sopravvento sui loro autori. Il successo dei romanzi e le pressioni dei lettori, portano addirittura gli stessi scrittori a far resuscitare i propri personaggi, come è il caso eclatante di Sherlock Holmes. Già nel 1892 usciva la prima di una serie infinita di parodie e riscritture del personaggio Holmes, il cui numero è proporzionale alla fama raggiunta dal personaggio “in vita” e proseguita, come vedremo, oltre la morte decretata dal suo autore. Per ben due volte l’autore Arthur Conan Doyle tentò di liberarsi del suo personaggio; la prima volta appena nel 1893 (l’esordio era avvenuto nel Natale del 1887), quando l’autore scriveva alla madre: «Sono a metà dell’ultima avventura di Holmes, dopo di che il gentiluomo sparirà per non ritornare mai più. Mi sono stancato del suo nome». Ben 20.000 lettori della rivista The Strand annullarono l’abbonamento alla morte di Sherlock Holmes. Doyle dovette alla fine cedere e lo riportò in vita, su pressioni e insistenze insostenibili, dieci anni dopo, e poi come è noto, annunciò il suo ritiro dalla scena nel 1925, e almeno questa seconda volta, la fine del detective sembrava riuscita. Non fu così: due anni dopo veniva pubblicata la raccolta di 12 racconti “Il taccuino di Sherlock Holmes” (The Casebook of Sherlock Holmes). Il personaggio ha superato però superato anche i limiti biologici del suo stesso autore: il fenomeno degli apocrifi di Sherlock Holmes è incominciato praticamente con Conan Doyle ancora in vita (il primo è del 1892) e da allora ne sono stati scritti decine di migliaia (nel 2009 ne sono stati pubblicati altri sei solo in Italia). Di alto valore letterario sono alcune delle riscritture “ortodosse”, così definite da Larry Felman nel saggio “Reloading the Canon” perché «l’autore replica stile e tematiche di Conan Doyle così fedelmente da rendere impossibile distinguere la copia dall’originale». Degno di nota in tal senso “The Man who was Wanted” , una riscrittura così convincente che quando apparve (alla fine degli anni ’40), fu creduta un manoscritto “disperso” autentico di Conan Doyle mai incluso nel canone. La confusione fu alimentata dal fatto che il testo venne ritrovato tra le carte dello stesso Conan Doyle, ma si ricostruì in seguito che il racconto era stato scritto da Arthur Whitaker che lo aveva venduto al vero autore di Sherlock Holmes per dieci ghinee per un possibile uso futuro dello spunto.

Lettori padroni

Come non ricordare il caso di Mary Poppins. Dopo aver pubblicato, nel 1944, quello che lei stessa considerava l’ultimo dei tre volumi della serie (Mary Poppins apre la porta), Pamela Travers fu costretta – a causa dell’insistenza dei lettori (oggi si direbbe del suo ‘fandom’ appunto) a dare alle stampe nel 1952 una nuova raccolta di avventure (Mary Poppins nel parco), preceduto da un’avvertenza nella quale si tenta di giustificare l’infrazione del patto magico e delle regole del make believe, che non prevedevano (né permettevano), una volta aperta l’altra porta, un ulteriore ritorno della più famosa governante inglese: «Si deve ritenere che le avventure narrate in questo libro abbiano avuto luogo durante una qualsiasi delle tre visite di Mary Poppins alla famiglia Banks. Ciò va detto nel caso che qualcuno fosse indotto a credere in una quarta visita. Ma l’ipotesi è assurda. Non è concepibile che chiunque abbia varcato la soglia dell’altra porta possa tornare indietro».

Anche Pinocchio, che Collodi lascia impietosamente impiccato a un albero al termine dell’attuale capitolo XV, viene risuscitato grazie alle insistenze dei lettori. Nell’estate del 1881 Collodi scrive “La storia di un burattino” sul settimanale il “Giornale per i bambini” che termina con Pinocchio che muore impiccato a un ramo della grande quercia a causa dei suoi innumerevoli errori. Il brusco epilogo scatena però la furia dei giovani lettori e tanto numerose sono le lettere di protesta che il 16 febbraio 1882 le puntate riprendono dal capitolo XVI, questa volta col titolo “Le avventure di Pinocchio”: nel gennaio 1883, alla definitiva conclusione del racconto, il burattino di legno diventerà un bambino in carne e ossa.

Del resto, anche Louisa May Alcott, (Piccole donne) ed Emilio Salgari (con il suo Sandokan e i suoi diversi Corsari) si trovano imprigionati nel mondo cartaceo che hanno costruito per i loro personaggi. Una situazione dipinta con acuta ironia dalla stessa Alcott nei il Ragazzi di Jo, quando descrive i comici, ma invasivi, assalti degli ammiratori alla privacy di Jo, che ha raggiunto un’insperata fama letteraria, e con essa tutti i suoi fastidiosi oneri nei confronti dei lettori. Sul complesso rapporto con il pubblico è eloquente anche una pagina del diario della scrittrice, poco dopo il successo di Piccole donne, mentre l’editore cercava di convincerla a scrivere e consegnare quanto prima il secondo volume della serie.

Non vale solo per i libri, ma anche per i film. Nel 1980 sia i critici che i fan di Star Wars espressero rumorosamente tutta la loro insoddisfazione per The Empire Strikes Back perché aveva cambiato ciò che era stato stabilito nel film precedente.

Other minds, other hands

Tornando, infine, a Tolkien e ai suoi “continuatori” si sono create esperienze molto interessanti (nei campi del cinema, musica, illustrazione, giochi, oggettistica, convention, ecc.), attivissime comunità che nel mondo, e perfino in Italia, espandono, studiano o giocano creativamente con la narrativa tolkieniana, senza scindere mai (soprattutto all’estero) l’aspetto “accademico” da quello di “fandom”, consapevoli che le due cose non sono affatto separate, ma anzi si fecondano a vicenda continuamente.

Roberto Arduini

Qualche esempio tra i più riusciti:
Cinema: “The Hunt for Gollum” e “Born of Hope
Fan fiction: “Nigglings” di Alex Lewis e “Endòre” di Franco Manni
Gioco di Ruolo: Chris Seeman, la MERP Community e la Girsa Crew italiana




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1 Comment to “Se l’ispirazione è Tolkien”

  1. Patrizia Poli ha detto:

    Cito Stephen King in “On Writing”

    “Anche dopo mille pagine non vogliamo abbandonare il mondo che lo scrittore ha fabbricato per noi o i personaggi fantastici che ci vivono. Non vorreste mollarlo dopo duemila pagine, se tante ce ne fossero. La trilogia de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R.Tolkien ne è un esempio perfetto. Mille pagine di hobbit non sono state abbastanza per tre generazioni di appassionati di fantasy del’era postbellica.”

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