Esce oggi la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello

Middle-earth mapCon un anno di ritardo – costellato di polemiche di cui non parleremo – giunge finalmente in libreria la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello a firma di Ottavio Fatica e con la collaborazione dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST). Comunque la si pensi sull’argomento, si tratta di un evento fondamentale per la storia di Tolkien nel nostro paese, visto che per la prima volta l’opera del Professore viene affrontata con un’operazione editoriale di livello degno di un Classico della letteratura del Novecento. Non che la Rusconi – non prendiamo qui in considerazione l’edizione Astrolabio perché rimasta incompiuta – avesse presentato l’Opera in modo diminutivo, ma l’approccio editoriale era stato cauto e la storia della traduzione e della pubblicazione ne aveva inevitabilmente risentito, con la ormai famosa “incursione” di Quirino Principe che aveva radicalmente modificato, se in meglio o in peggio ancora si discute, la traduzione originale di Vittoria Alliata di Villafranca, risultando in un testo comunque pregevole, e per questo molto amato, ma non unitario, come testimoniato plasticamente, solo per dirne una, dal termine “Gnomi” comparso nella prima edizione del 1970 – ripreso dall’Astrolabio del 1967 – poi sostituito da “Elfi” nel 1974 con un “Mezzognomo” al posto di “Mezzoelfo” sopravvissuto (1) sino all’edizione del 2003 riveduta e corretta con la collaborazione della Società Tolkieniana Italiana (STI).

A 49 anni dalla pubblicazione della prima edizione, Bompiani, con un atto che meriterebbe rispetto anche solo per la dedizione all’Opera implicita nella scelta, per nulla obbligata, di cessare di dormire sugli allori di uno dei long seller più longevi della Storia, decide di investire su una nuova traduzione e, a rimarcare l’importanza del capolavoro di Tolkien, la affida a Ottavio Fatica, uno dei più grandi traduttori italiani nel cui curriculum figurano, tra gli altri, autori del livello di Rudyard Kipling, Herman Melville, Jack London, Robert Louis Stevenson e Joseph Conrad, ai quali, dato il contesto, è il caso di aggiungere Wystan Hugh Auden, che conosceva personalmente Tolkien per cui nutriva grande ammirazione al punto di farsene entusiasta sponsor nei confronti di lettori ed editori statunitensi. La scelta di un traduttore di tale peso non è certamente frutto del caso, ma, come accennato all’inizio, si inquadra evidentemente in un percorso volto a collocare Tolkien tra i Grandi del Novecento, liberandolo – finalmente, è il caso di dire – dai limiti di una peraltro poco fondata appartenenza di genere. Anche la scelta della controversa copertina “marziana”, come già accennato nell’articolo qui pubblicato il 30 settembre 2019, potrebbe essere l’espressione della suddetta volontà di “uscire dal genere”, che una copertina più “figurativa” non avrebbe rimarcato.

Passando alla traduzione, oltre all’indubbia qualità generale del risultato, è importante dal punto di vista tolkieniano la cura dedicata a due aspetti in particolare, ossia la resa dei nomi e quella dei registri linguistici. Sarebbe giusto anche parlare delle poesie, ma la cosa richiederebbe un tempo e uno spazio che al momento purtroppo non sono sufficienti.

I Nomi

Punto sensibilissimo per appassionati e studiosi in egual misura, la resa dei nomi è stata affrontata da Fatica con estrema cura e tenendo ben presente la Guide to the Names in The Lord of the Rings scritta appositamente – e precauzionalmente – da Tolkien come aiuto per i traduttori, nonché altre informazioni fornite qua e là sempre dall’Autore. Così, se Passolungo per Strider non introduce tutto sommato un grande cambiamento e Valforra per Rivendell ricorda in parte Lo Hobbit di Adelphi, chi dovesse rimaner spiazzato dalla sostituzione di Samvise con Samplicio dovrebbe fare un salto all’ “Appendice F” e riscoprire che il nome hobbit originario di Sam, Banazîr, significa “half-wise, simple”, reso da Tolkien con Samwise rifacendosi all’Anglosassone samwís che ha un significato molto simile. Fatica non solo rende quindi il nome con fedeltà, ma lo fa ricalcando un vero nome italiano in tempi passati relativamente diffuso, come testimoniato dal fatto che il Cattolicesimo Romano venera numerosi San Simplicio. Per rimanere agli Hobbit vediamo scomparire Gaffiere, soprannome ricalcato sull’originale Gaffer ma del tutto privo di significato, che viene sostituito con Veglio a rendere il significato originale di anziano degno di rispetto. Ancora fra gli Hobbit troviamo il cambio di cognome Oldbuck/Brandybuck, reso con un Vecchiodaino/Brandaino che suona decisamente meno singolare di Vecchiobecco/Brandibuck, non tanto per l’uso di “becco” – la Guide lascia un margine di ambiguità tra i due animali – ma perché ci si sarebbe aspettato “Brandibecco”; infine, non possiamo che chiudere con Barliman Butterbur che, privilegiando la fedeltà alla botanica rispetto all’allusione alla fisicità, difficili da ottenere contemporaneamente, viene reso come Omorzo Farfaraccio (come chi scrive sperava avendo sottolineato l’incongruenza botanica già nel 2017 nella presentazione alla Children’s Book Fair di Bologna). Anche Castaldo per Steward farà discutere, ma persino i più conservatori dovranno ammettere che per una città come Gondor la carica di chi “presso i Longobardi” era “l’amministratore delle rendite del re, posto sotto la sua immediata dipendenza, con attribuzioni civili, militari, giudiziarie e di polizia, entro i limiti del territorio affidatogli” (Vocabolario Treccani) è una resa di validità indiscutibile. Citiamo infine il caso di Farthing, usato da Tolkien nell’accezione originaria – e pressoché perduta – di “quarta parte di”, che Fatica rende con Quartiero mantenendo il senso di area di superficie espresso dall’originale ed evitando elegantemente, con la “o” finale, il conflitto con il diverso significato assunto nel tempo dalla parola “quartiere”.

Naturalmente non bisogna pensare che tutte le scelte ci trovino d’accordo. Forestali per Rangers, per quanto tecnicamente ineccepibile, trasmette a nostro parere una visione riduttiva e prosaica del ruolo dei Dúnedain, ben più alto e complesso di quello che la parola italiana ricorda; Cutèrrei e Nerbuti per Fallohides e Stoors, pur entrambi fondati, suonano un po’ inappropriati per un popolo gioviale come quello Hobbit, e Circonvolvolo per Withywindle sostituisce il Salice (withy) con il convolvolo (withywind), che Tolkien cita sì nella Guide ma come modello per la forma e non per il significato del nome.

I registri linguistici

Una delle ricchezze della prosa di Tolkien è l’uso di registri linguistici che mutano adattandosi alle circostanze e ai personaggi. Il linguaggio è rustico e informale quando gli hobbit della Contea, Veglio Gamgee in primis, parlano fra loro; Sam parla rustico fra sé e sé ma prova a parlar forbito con Frodo e Gandalf, con risultati comici; Frodo, Merry e Pippin scherzano fra loro con linguaggio giocoso, ma diventano cortesi quando si rivolgono a Elfi o interlocutori di alto rango; Bombadil è ritmato – spesso addirittura “metrico” in una sorta di prosa poetica – e un po’ folle; gli Orchi sono decisamente militareschi; gli Elfi aulici, e così via. Di tutto ciò Fatica si rende perfettamente conto e costruisce una resa linguistica che conserva, per quanto possibile, le differenze citate.

Hildebrandt: "Tom Bombadil"Il Veglio Gamgee parla una lingua efficace ma sgrammaticata, con “affocare” a rendere drownded – vulgar per drowned, dice l’OED – ed espressioni come “gli ha imparato a leggere e a scrivere” a rendere l’originale “has learned him his letters” – ancora vulgar – e “ci dico” per “I says to him”. Sam cerca di darsi un aria deferente chiudendo le frasi con appendici del tipo “mi segue?” o un ancora troppo confidenziale “non so se ci capiamo”. Tom Bombadil meriterebbe un’analisi a parte perché il suo esprimersi ha radici che affondano direttamente negli studi classici di Tolkien. Questo rende molto difficile la resa italiana, e in effetti la traduzione trasmette un certo ritmo e molta sana follia ma non il suono di prosa-poesia dell’originale:

E allora, miei piccoli compari,
dov’è che andate sbuffando come mantici?
Che cosa succede? Sapete chi sono?
Sono Tom Bombadil. Ditemi qual è il problema!
Tom va un po’ di prescia. Non mi schiacciate le ninfee!”(2)

In definitiva, il Traduttore si è posto l’obiettivo di mantenere la diversità socioculturale ed estetica delle parlate originali, arricchendo in tal modo il testo di una dimensione in più che gli fornisce verosimiglianza, spessore e varietà; non vediamo l’ora di vedere come sarà reso nelle Due Torri il registro basso-militaresco (e non solo) degli Orchi.

La collaborazione dell’AIST

Ottavio FaticaConcludiamo questo breve articolo parlando della collaborazione dell’AIST al progetto editoriale della nuova traduzione. Tolkien non è un autore come tutti gli altri, e la quantità di rimandi, non detti, sfumature e particolari solo apparentemente insignificanti presenti nel testo – quali ad esempio un’importantissima virgola – possono ben sfuggire anche al più esperto traduttore qualora questi non sia anche un conoscitore del mondo e dell’opera tolkieniana. Qui è entrata in gioco l’AIST, che ha messo la sua conoscenza a disposizione di Traduttore ed Editore fornendo un servizio che è stato più di “consulenza” che di “revisione”, anche considerato che è evidente per chiunque che un traduttore dell’esperienza e del calibro di Fatica non aveva certo bisogno della seconda. Dopo due laboriose riletture e alcuni interventi dell’ultimissima ora – a bozze quasi in stampa – rivendichiamo dunque il piacere e l’onore di aver fornito una nutrita serie di osservazioni, piccole e grandi, che non menzioneremo ma di cui possiamo dire che sono state accolte in percentuale superiore all’ottanta per cento. Se la traduzione è dunque di Ottavio Fatica, che com’è ovvio ha avuto l’ultima parola su ogni cosa, possiamo affermare con un certo orgoglio che la collaborazione dell’AIST ha indirizzato nel verso giusto una serie di scelte che, pur se tecnicamente corrette, nel contesto dell’arazzo tolkieniano sarebbero risultate inappropriate.

La via prosegue senza fine … e presto porterà a Le Due Torri.

Giampaolo Canzonieri

Postilla sulla nuova traduzione della poesia dell’Anello

Se della traduzione delle poesie e canzoni presenti nel romanzo potremo parlare in seguito, vale tuttavia la pena anticipare almeno un’analisi della più famosa, che sta in esergo al romanzo, cioè la poesia dell’Anello.

La prima cosa che salta agli occhi è che nella prima metà la traduzione di Fatica non rispetta la rima del testo originale inglese ABABA. Il motivo è quasi certamente la scelta in favore di una maggiore aderenza al significato originale, rispetto al quale sarebbe stato necessario prendersi notevoli licenze per trovare la rima (come in effetti era nella traduzione storica). Tuttavia anche Fatica, come ogni traduttore, si prende delle libertà, in base a una ratio che possiamo indagare.

Il primo verso, “Three Rings for the Elven-kings under the sky”, è stato reso praticamente alla lettera:

Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo.

Lo stesso dicasi per il secondo verso: “Seven for the Dwarf-lords in their halls of stone”, che diventa:

Sette ai Principi dei Nani nell’Aule di pietra.

Cade l’aggettivo possessivo, ma il significato è immutato. La parola inglese “hall” significa infatti sala, aula, ovvero vasto ambiente chiuso, come la hall degli alberghi o la great hall dei college inglesi, o ancora quella delle regge degli antichi sovrani germanici. I Nani di Tolkien infatti scavano le loro sale nella roccia, in quelle che sono regge ipogee.

La traduzione del terzo verso – “Nine for Mortal Men doomed to die” – è un po’ più libera:

Nove agli Uomini Mortali dal fato crudele.

Letteralmente sarebbe: “destinati a morire”. Evidentemente Fatica ha voluto evitare la ridondanza tra “mortali” e “morire”, che in inglese non si avverte giacché invece “mortal” e “die” non hanno alcuna assonanza. Scelta opinabile, ma comprensibile. Quanto al “fato crudele”, il verso fa sì parte di una poesia elfica, ma l’uso del termine “doom”, che ha sempre un significato infausto e negativo, indica chiaramente che la descrizione è data dal punto di vista degli Uomini i quali, ad eccezione di pochi illuminati (solo Aragorn nel Signore degli Anelli), percepiscono la morte come una crudele condanna.

Il quarto verso, “One for the Dark Lord on his dark throne”, diventa:

Uno al Nero Sire sul suo trono tetro.

Qui Fatica si è preso la licenza di non rispettare la ripetizione della parola “dark”, che, per altro, non significa propriamente nero, bensì scuro/oscuro. Più letterale – ma più farraginoso – sarebbe stato “Uno all’Oscuro Sire sul suo trono oscuro”, dove a prevalere sarebbe stato il suono “u” reiterato cinque volte. Ma è chiaro che Fatica ha voluto invece rafforzare il più duro suono “r”, e in particolare l’assonanza fonetica tra le ultime due parole dominate dal suono “tr” (“trono tetro”).

Una licenza maggiore sembrerebbe invece quella nel quinto verso, in originale: “In the Land of Mordor where the Shadows lie”, che Fatica traduce:

Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano.

Il verbo “to lie” ha in inglese due possibili significati immediati, derivanti da etimologie diverse: mentire e giacere. Nel verso in questione sembra evidente che indichi uno stato in luogo, e che quindi sia il secondo significato quello appropriato. Tuttavia il verbo può assumere una sfumatura ulteriore, riportata dall’Oxford English Dictionary, nell’accezione di “to remain in a state of inactivity or concealment”, ossia, per l’appunto, “celarsi”. A Mordor le ombre non si limitano a “giacere”, bensì “si celano”, nascondono se stesse, in attesa del momento opportuno per uscire. È lì che Sauron riorganizza in segreto e cela le proprie forze, pianificando di invadere la Terra di Mezzo. Per altro la scelta di Fatica salvaguarda la possibilità di un’ambiguità voluta dall’Autore stesso nell’uso del verbo to lie, giacché “celarsi” può facilmente collocarsi semanticamente a mezza strada tra il restare immobile in qualche luogo e il mentire.

Ecco invece i tre versi finali:

One Ring to rule them all. One Ring to find them,
One Ring to bring them all and in the darkness bind them
In the Land of Mordor where the Shadows lie.

Tradotti da Fatica così:

Un Anello per trovarli, Uno per vincerli,
Uno per radunarli e al buio avvincerli
Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano
.

Nel terzultimo verso Fatica inverte l’ordine dei verbi: “trovarli” / “vincerli” – ed è la vera grossa libertà che si è preso – per motivi anche qui facilmente intuibili: mantenere la rima e l’assonanza con il finale del verso successivo (“find them” / “bind them” = “vincerli” / “avvincerli”). To bind viene dall’antico inglese bindan, col significato di legare, mettere in vincoli, imprigionare. Dunque “avvincerli” ci sta e corrisponde per altro a ciò che accade nel racconto: l’Anello Unico avvince, cioè tiene legati a sé, gli altri anelli.

Al di là delle mille valutazioni che si possono trarre, quello di Fatica è da un lato uno sforzo di rendere il significato dei versi e la loro connessione con la trama, privilegiando questo aspetto anziché cercare più facili e appaganti ornamenti estetici, dall’altro di conservare il ritmo della poesia stessa, come si evince confrontando la cadenza della sua traduzione con la lettura dei versi originali fatta da Tolkien stesso:

Wu Ming 4

Note:
1. Nel capitolo “Viaggio sino al Crocevia”.
2. La suddivisione in pseudo-versi è naturalmente stata qui introdotta al solo scopo di facilitare la comprensione.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Bompiani: le novità tolkieniane ottobre 2019
– Leggi l’articolo La traduzione della Compagnia a ottobre
– Leggi l’articolo Ritradurre Il Signore degli Anelli: l’intervista
– Leggi l’articolo L’AIST raddoppia, al Salone di Torino e col FAI
– Leggi l’articolo Tolkien alla Bologna Children’s Book Fair

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213 Comments to “Esce oggi la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello

  1. Norbert ha detto:

    Articolo molto interessante. Grazie della spiegazione.
    Ora non mi resta che mettere le mani su una copia della nuova traduzione

    • jake (il n. 4) ha detto:

      Risparmia i soldi…

    • Corniola ha detto:

      Nella poesia dell’Anello trovo assolutamente sbagliata la scelta di omettere la ripetizione della parola “Anello”. Quella ripetizione per me, da semplice lettrice che nella vita non si occupa di letteratura, imprime il ritmo ed il dramma a quei versi fondamentali.

  2. Finrod ha detto:

    “La via prosegue senza fine”.
    Lapsus molto interessante.

    • Giampaolo ha detto:

      Ci sarà pure stato un motivo se nell’articolo ho parlato di “testo molto amato” riferendomi alla precedente traduzione

  3. Francesco ha detto:

    Da che ho visto nell’anteprima, appaiono un “Valfano”(?!?), The Prancing Pony diventa Il Cavallino Inalberato (?!?!), l’Erba Pipa diventa Erba Piparina, molti toponimi diventano cacofonici e di difficile comprensione, tant’è che anche se ho letto il testo inglese più volte (come quello italiano) non riesco a collegarli o a farmene un’immagine (Landaino?!? Sarebbe Buckland?!?)… Poi ci sono i Pededegno, Direi che passo.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      “Valfano” per “Harrowdale” si spiega facilmente. Nella guida ai nomi del SdA Tolkien dice che “harrow” è inteso nell’accezione arcaica di un antico luogo sacro, ovvero un tempio pagano. E infatti Harrowdale nel romanzo è proprio un antico luogo sacro dei Rohirrim.
      Nel mondo latino la parola corrispondente è, appunto, “fanum”. Dunque “dale” (valle) + “harrow” (fano) = Valfano.
      Questo esempio serve a capire che Fatica ha cercato, ogni volta che è stato possibile, di rigiocare il gioco di Tolkien, cioè di rendere il significato delle parole/nomi arcaici nell’universo linguistico latino-neoromanzo.
      “Landaino” per “Buckland” e quindi “Brandaino” per “Brandibuck” e “Vecchiodaino” per “Oldbuck” è l’applicazione letterale del consiglio di Tolkien ai traduttori, laddove spiegava che “buck”, nei suoi composti, sta appunto per “young deer”. Aggiungeva anche – ma come secondo significato – “maschio della capra”, che in italiano sarebbe “becco” (e che oggi sopravvive solo in “stambecco” e nel significato volgare di “cornuto”). Probabilmente quindi le traduzioni Brandibecco e Vecchiobecco sarebbero state corrette e più simili all’originale, anche se ho il presentimento che al 99% dei lettori avrebbero fatto pensare a tutt’altro animale, cioè a un pennuto, piuttosto che a un ovino o a un cervide. Credo quindi che la scelta di Fatica sia stata in definitiva la più filologicamente corretta. E poi Beccolandia o Lanbecco sarebbero stati pessimi.
      Con il nome di Samwise il procedimento è stato lo stesso, come illustrato nell’articolo qui sopra. Trasferire il significato del nome Samwise (che nella finzione tolkieniana è già una resa del nome originale hobbit) in un nome simil-latino. Senza dubbio nessun lettore del SdA che non abbia spulciato le Appendici ha mai colto il significato del nome Samwise (traslitterato in Samvise), che è proprio quello di “semplice”, “mezzo-saggio” e che flirta con il sottotesto evangelico del romanzo.
      Quanto all’Erba Piparina per “pipe-weed”, non suona certo tanto diversa dall’Erba Pipa e ricorda la parola italiana “piperina”, che indica la sostanza presente nel pepe nero, e che ha svariati effetti benefici sull’organismo umano.
      Infine il Prancing Pony… che da un lato diventa un “cavallino”, dato che il pony non è il generico puledro, ma appunto una razza di cavallo di piccola taglia, ma poi si “inalbera” anziché “impennarsi”, con un arcaismo, giacché in araldica il termine inalberato “si applica al cavallo che si rizza sulle reni” (Wiki) e trattandosi di un’insegna/stemma…ci può decisamente stare.
      La verità è che la traduzione perfetta sarebbe “il cavallino rampante”, ma in Italia avrebbero pensato tutti alla Ferrari e alle auto da corsa. Decisamente inadatto.
      Rispetto a “Pededegno” per “Proudfoot” c’è poco da dire: si avvicina certamente più all’orginale rispetto a “Tronfipiede”, dato che “proud” non ha di per sé un’accezione negativa come ha il termine “tronfio”.

      • “una leggenda locale e secondo la credenza popolare” è una brutta frase, esteticamente indigesta, l’italiano tollera poco la ripetizione dei suoni. e ciò accade nella prima pagina, la più visibile, di un’opera somma.

      • Francesco ha detto:

        Lessi il Signore degli Anelli che avevo 12 anni nella traduzione Alliata, poi in inglese a 18, trovando l’adattamento italiano interessante e ben ragionato. Tolkien è un autore che ho amato sia in italiano che in inglese, a differenza di altri (Erikson è inaffrontabile in italiano, la Rowling assolutamente insipida in inglese e godibile in italiano ecc).

        La cosa che mi colpì era la semplice bellezza, anche delle poesie e dei nomi, che la nuova traduzione perde quasi completamente con costruzioni fonetiche inascoltabili e gratuitamente erudite per il gusto di esserlo. Un opera letteraria non può prescindere dalla piacevolezza della lingua. Harrowdale ha un suono epico, Valfano è un comune umbro-marchigiano
        L’operazione poteva funzionare per una edizione in inglese con testo a fronte. Qui tra l’altro la traduzione leziosa dei nomi fa sembrare che la Contea non sia più una terra Fantasy ma un pezzo di Italia centrale con gli hobbt che cantano “ma quant’è bella l’erba piparina/o quant’è bello saperla vendemmiar…”

        • Wu Ming 4 ha detto:

          Va da sé che le scelte di Fatica possono non piacere o non essere confivise, ci mancherebbe altro. Tuttavia l’effetto che Tolkien ricerca quando descrive la Contea è proprio quello di una terra che ha poco o nulla di fantasy. La descrive più o meno come una regione delle Midlands Occidentali del XVIII/XIX secolo “come se” la Conquista normanna e la rivoluzione industriale non ci fossero state. Gli Hobbit di Tolkien non parlano la lingua perfetta e colta che faceva parlare loro Alliata-Principe, ma una lingua più rurale e colloquiale,a tratti perfino sgrammaticata. Anche i nomi delle località della Contea, oltreché delle famiglie Hobbit sono molto espliciti in questo senso. L’effetto “importazione” in un contesto linguistico-culturale diverso può non piacere, ma è una scelta orientata da Tolkien stesso, in un certo senso. L’indicazione che dà nella sua guida ai traduttori è più o meno quella di provare a tradurre i nomi che si possono tradurre mantenendone il significato (Dunclivo e Clivovalle di certo non seguono questa logica). Il motivo di questo suggerimento, pare evidente, è quello di riprodurre lo stesso effetto ottenuto nell’inglese. Per questo in un altro commento ho usato l’espressione “rigiocare il gioco di Tolkien”. È quello che fece Eco traducendo gli Esercizi di Stile di Queneau. Mi pare che Fatica abbia seguito la stessa linea.

          • Francesco ha detto:

            Non metto minimamente in dubbio la competenza di Fatica, o il suo tentativo di essere fedele. Però se leggo “Brandaino di Landaino” (un mio amico ha immediatamente commentato “che giocano a nasconDaino? Dai, no…”) l’effetto è Brancaleone alle Crociate… Se la Compagnia è Frodo, Aragorn, Gandalf e Simplicio, Simplicio è del tutto fuori posto. Se ho i Bolger e i Tanatasso nella stessa città, l’effetto è straniante.
            Quando eravamo ragazzini e giocavano al GIRSA, pensare di essere al Puledro Impennato era esaltante, al Cavallino Inalberato mi aspetto i Teletubbies. QuarierO mi sembra un errore di stampa, non un luogo che vorrei visitare. Valforra è in provincia di Reggio Emilia e ci abita mio zio, non Elrond Mezzelfo.

            Non contesto minimamente l’intento, ma il risultato : è come la Nona di Beethoven arrangiata in modo che ogni tanto, al posto del corno si senta una trombetta di carnevale…..

          • Marius ha detto:

            È Samplicio, non Simplicio, e non mi è chiaro perché questo nome dovrebbe suonare fuori posto accanto ad altri come Frodo o Bilbo.

          • Simone ha detto:

            Effettivamente, la traduzione pone un grosso problema. Da un lato, il testo in generale sembra trarre notevole beneficio dalla nuova traduzione (il tutto scorre molto meglio e il linguaggio perde quella pesantezza che non avevo mai amato). Personalmente apprezzo anche la nuova traduzione della poesia dell’anello. Per dire che sono molto favorevole e aperto ai cambiamenti.

            Dall’altro lato, però, i nomi sono stati tradotti spesso in modo poco convincente, per usare un eufemismo.

            1- Quello che salta più all’occhio è certamente l’impossibile Brandaino di Landaino… come già notato da altri.
            Bene la necessità di tradurre Buck, ma da profano assoluto mi sembra che anche solo scegliere un “cervo” avrebbe offerto maggiori e migliori possibilità combinatorie… i Brandicervo di Cerveterre (o Cervaterra, o simili), la città di Borgocervo, il cambio di cognome del patriarca Cervovecchio/Brandicervo potevano suonare comunque meglio di Brandaino di Landaino, Borgodaino o Vecchiodaino/Brandaino. Noto che i Milwaukee Bucks hanno come simbolo un cervo, non un daino.

            2. Sinuosalice era una bellissima traduzione, una delle più azzeccate. Non l’avrei mai toccata. E Circonvolvolo non fa assolutamente lo stesso effetto.

            3. Gli Sturoi erano una trasposizione fonetica valida. Nelle note di Tolkien, si suggerisce che una traduzione di Stoors basata sul suono potrebbe essere migliore, non essendo necessario tradurre il significato dell’antica parola inglese Stor. E la scelta Nerbuti non convince per niente.
            Mentre Cuterrei, per quanto un pò posticcio, lo si potrebbe anche accettare, come traduzione quasi perfetta di un’espressione anticheggiante che significa “paleskin”.

            4. Non sono ancora arrivo a Samvise, ma ho letto che è stato tradotto con Simplicio, o Samplicio che dir si voglia. Questo è impossibile quanto Brandaino! Ma come Simplicio? Pippin non è più Pipino (ottimo!) e poi Samvise diventa Simplicio?
            E allora facciamo che Tom Bombadil è Tommaso Buonbadile e Gandalf magari lo chiamiamo Gandolfo.

        • Marius ha detto:

          Il percorso attraverso il quale Fatica è arrivato a “Samplicio” è spiegato nell’articolo qui sopra, quello che stiamo commentando:
          «il nome hobbit originario di Sam, Banazîr, significa “half-wise, simple”, reso da Tolkien con Samwise rifacendosi all’Anglosassone samwís che ha un significato molto simile. Fatica non solo rende quindi il nome con fedeltà, ma lo fa ricalcando un vero nome italiano in tempi passati relativamente diffuso»
          Di tutto questo, in “Samvise” non c’era niente.

      • Ricky ha detto:

        Brandibecco e Vecchiobecco mi sarebbero piaciuti! Però è anche vero che sono nato e cresciuto in una zona in cui il maschio della capra si chiama becco e basta, probabilmente dovuto al preponderante uso del dialetto. Mai sentito nessuno usare la parola “caprone” per dire.

      • Eleir ha detto:

        Buongiorno. Se posso, vorrei esprimere da profano un’ultima nota in merito alla nuova traduzione – con un intento di partecipazione ma senza ovviamente mettere in discussione la qualità del lavoro di Fatica. Ringrazio tra l’altro Wu Ming per essere un appassionato, sia di Tolkien che di T.E Lawrence
        Ora, da appassionato di cavalli, posto una nota sul “cavallino inalberato”: faccio notare come tecnicamente in campo equestre tutto i cavalli da 1,48 m al garrese in giù siano considerati pony – proprio così, in italiano pony, non “cavallini”! La parola pony si usa in lingua italiana. Pertanto, l’insegna di una buona locanda ai confini della Contea si poteva rendere in perfetto italiano con All’insegna del Pony rampante (non cavallino!!!). Inoltre, esercitare un termine italiano erudito come inalberato per una locanda vernacolare (la locanda ideale di Tolkien) non è azzeccato per nulla. Non è realistico, vi pare che Omorzo avrebbe attribuito nel suo Ovestron volgare alla sua locanda un nome così forbito ? Proprio no! il SdA deve essere realistico

      • Andrea Minini Saldini ha detto:

        The Prancing Pony inn
        La locanda “Il Puledro Impennato”.
        La locanda “Il Cavallino Inalberato”.

        Come in molteplici altri passaggi, il nuovo traduttore tradisce le premesse che hanno portato a questa nuova traduzione.

        Se il desiderio era quello di rendere il registro linguistico originale, si dovrebbe spiegare perché si sia scelto di utilizzare un termine proprio unicamente dell’araldica “Inalberato”, quando Tolkien scelse di non usare l’equivalente “Rampant” ma adottò un più comune “Prancing”.

        D’altronde, vogliamo davvero pensare che Omorzo fosse un esperto di araldica? Difficile.

        • Marius ha detto:

          Davvero ha “tradito le premesse”? Conoscendo l’attenzione di Tolkien per l’etimologia e i sensi nascosti delle parole, non ci giurerei.
          Sull’etimologia di “Prance”, riporto:

          «late 14c., originally of horses, of unknown origin, perhaps related to Middle English pranken “to show off,” from Middle Dutch pronken “to strut, parade” (see prank); or perhaps from Danish dialectal prandse “to go in a stately manner.”»

          Insomma il verbo contiene un elemento di nobiltà, solennità, o anche alterigia, desiderio di imporsi all’attenzione.
          Io trovo che il verbo “inalberarsi” in qualche modo rimandi a questo, mentre “impennarsi” è più piatto, ha un significato solo.

          • Marius ha detto:

            tra l’altro, nell’italiano di oggi l’impennata è soprattutto quella che fai col motorino o con la bici.

          • Andrea Minini Saldini ha detto:

            Certo che ha tradito le premesse, Marius.

            Se Tolkien avesse desiderato utilizzare un termine araldico avrebbe utilizzato Rampant, che equivale a Inalberato.

            Non lo ha fatto.

            E di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare diversi. Di casi in cui, dopo aver criticato la traduzione precedente per non aver rispettato il registro linguistico originale, non viene rispettato in modi nuovi, diversi e altrettanto “liberi”.

          • Andrea Minini Saldini ha detto:

            Rispetto al motorino impennato, direi che sia preferibile non andare in quella direzione. Diversamente potremmo trovarci a dover commentare l’adozione di Forestali al posto di Raminghi.
            Cosa questi siano ne “l’italiano di oggi” non penso valga la pena perder tempo a spiegarlo.

            Posto che se una persona leggendo “Cavallino impennato” dovesse pensare ai motorini, forse farebbe meglio a posare il libro e dedicarsi ad altro.

          • Marius ha detto:

            No. «Inalberarsi» non è un verbo solo araldico, anzi, sul dizionario Treccani ha un sacco di accezioni, una delle quali è ad esempio «Insuperbire, assumere un’aria di gloria, di trionfo», e l’araldica non è nemmeno menzionata.

      • anvaccar ha detto:

        Giusto per comprenderci.
        Se erba Piperina è simile a Erba pipa (pipe weed), quale necessità ci stava di dargli una nuova traduzione?
        Prancing Pony: dato che pony come dici bene è il nome di una razza specifica di cavalli, perchè tradurlo? Perchè non lasciarlo con Pony inalberato, Pony rampante? Le parole inoltre non hanno solo un significato, ma anche un potere evocativo, quanto evocativo è il “cavallino inalberato” in un romanzo epico/fantasy?
        Da profano penso che non vada visto solo “quanto sia corretta” la traduzione del singolo nome o del singolo toponimo, ma vada preso in considerazione il “quanto sia OPPORTUNO”: nella maggioranza dei casi il cambio dei nomi non migliora l’esperienza narrativa, non è percepita come “più fedele all’originale”, ma crea caos.
        Il Signore degli Anelli non è solo un libro, bensì è il corpo centrale di un universo immaginifico che ha ormai invaso molti media diversi, un universo fatto di libri, film, giochi di ruolo, da tavolo, per PC e console. Un nuova traduzione della Trilogia non può non tenere conto di questa stratificazione e di quanto profonda sia la sedimentazione dei vecchi termini e nomi nei fruitori dell’opera attraverso i diversi media.

        • Wu Ming 4 ha detto:

          Non ho idea di quale “necessità” ci fosse di tradurre “pipe-weed” in un modo diverso dal precedente. Suppongo che a Ottavio Fatica suonasse meglio, forse perché “erba-pipa” è la traduzione letterale di una parola composta alla maniera inglese, cioè accostandone due con il trattino. Boh. Ogni traduttore fa le sue scelte. E meno male.

          Su “pony” concordo: io non l’avrei tradotto. È una parola inglese ormai entrata nell’italiano da tanto tempo. Quindi “pony inalberato” o “pony impennato” per me sarebbero andati benissimo (“rampante” meno, perché, con buona pace di Enzo Ferrari, è scorretto per gli equini). Poi «quanto evocativo è il “cavallino inalberato” in un romanzo epico/fantasy?»… Boh. “Puledro impennato” era più evocativo? Non mi pare. Hai perso un puledro (che non c’è mai stato nell’originale, per altro) e al suo posto hai un cavallino. L’epos forse sta in altri elementi del romanzo, imho.

          Sul fatto che «nella maggioranza dei casi il cambio dei nomi non migliora l’esperienza narrativa, non è percepita come “più fedele all’originale”, ma crea caos» vanno dette un paio cose.

          Ciò che è più fedele all’originale nella nuova traduzione non è la nomenclatura (anche quella, in realtà, ma è davvero poco importante), bensì la prosa. È la prosa della nuova traduzione che assomiglia di più a quella dell’inglese di Tolkien rispetto alla vecchia traduzione. Tutta l’insistenza sulla nuova nomenclatura è stata una montagna di fumo che ha nascosto l’arrosto. E l’arrosto è una traduzione migliore dall’inglese all’italiano, per il semplice fatto che Ottavio Fatica è un traduttore esperto, scafato, navigato (si scelga l’aggettivo che si preferisce), che si è cimentato con Melville, Kipling, Conrad, Auden, ecc., colui al quale, per intenderci, un certo Roberto Calasso ha lasciato la casa editrice da lui fondata, e che è stato coadiuvato da un consulente esperto dell’AIST, traduttore a sua volta. Non può esserci competizione con la traduzione di una ragazzina di diciassette anni qual era Vicky Alliata nel 1967. Non è nemmeno giusto paragonarli, sarebbe sleale.

          Il caos poi a cosa sarebbe dovuto? Al fatto che in italiano oggi molti nomi tolkieniani esistono in due versioni, se non addirittura in tre (ché certi nomi cambiano pure nello Hobbit)? Be’, a me ha sempre fatto confusione invece che nella Contea ci fossero quattro decumani, dato che a scuola mi hanno insegnato che il decumano è uno, ed è una linea retta, intersecata perpendicolarmente dal cardo, nella pianta delle città romane, non certo delle contee medievali. E mi ha sempre fatto caos anche il fatto di non sapere cosa diavolo significasse la parola “Gaffiere” con cui Sam invoca il padre, un nome totalmente inventato, che mi fa pensare al francese “gaffeur” cioè uno che fa delle gaffe, delle brutte figure, o in alternativa a un pescatore che usa la gaffa, cioè un gancio da pesca, appunto. E il “Trombatorrione”? Ogni volta che lo sento penso a un’espressione apotropaica livornese. Potrei continuare.

          Ad ogni modo, risulta che il romanzo sia stato ritradotto anche in Francia, Svezia, Germania… e che i lettori siano sopravvissuti. Gli unici nomi intoccabili sono quelli dati da Tolkien, tra l’altro nella lingua più nota e parlata in giro per il mondo, non in swahili. Quelli restano e forse sarebbe ora che gli appassionati iniziassero a usarli nella loro versione originale. Ché di traduzioni più ce n’è meglio è.

  4. Marco N. ha detto:

    Meglio avrebbe fatto a non toccare le poesie. Penso che provvederò a modificare l’ebook ripristinando le precedenti traduzioni e probabilmente utilizzando i nomi originali… “Brandaino”, “Samplicio” e compagnia bella sono inascoltabili.

    • Marius ha detto:

      Anche “Samvise” et similia erano nomi assurdi e ridicoli, all’inizio e se si è in grado di pensarci con distacco, senza la forza dell’abitudine.

    • Norbert ha detto:

      Beh, almeno adesso la poesia su Luthien ha tutte le strofe che ha in inglese

      Inoltre a me la canzone di Galadriel è piaciuta molto

      Altre mi on piaciute meno

  5. Davide Prette ha detto:

    Articoli ben scritti e meditati. Ho preso oggi il volume tradotto da Fatica (storcendo il naso non per le nuove rese italiane ma per la mancanza di una carta geografica che mi aspettavo e che attendevo), aprendo immediatamente il libro alle prime pagine per la lettura della poesia incipitaria, curioso di vedere quali sarebbero state le scelte del traduttore. Tutto sommato sono soddisfatto (ad eccezione della mancata anfora di Ring nei versi finali), e ho quindi molto apprezzato la breve analisi di Wu Ming 4 di questa traduzione, specialmente per quanto riguarda le precisazioni inerenti al verbo “to lie”, pregevoli ed acute. Su una cosa però non concordo: il terzo verso sugli uomini “doomed to die” non credo rifletta una concezione negativa della morte vista dagli Uomini, bensì una considerazione degli Elfi stessi riguardo al dono di Ilùvatar ai Secondogeniti; dono anche per loro incomprensibile ed amaro, basti pensare alle parole di Arwen ad Aragorn alla fine della loro permanenza nella Terra-di-Mezzo (cito dalla vecchia traduzione, parla Stella del Vespro): “Perché se questo è, in verità, il dono dell’Uno agli Uomini, è assai amaro da ricevere”. Frase che, a mio modesto avviso, denota anche da parte elfica una valutazione della morte per nulla positiva.

    • Norbert ha detto:

      Anch’io sono stato molto contrariato dall’assenza delle mappe: quella della Contea disegnata da Tolkien e quella della Terra di Mezzo

      Particolarmente utili, dato che cambiano moltoi nomi di luogo

  6. Paolo ha detto:

    Più che sui nomi a me interessa il senso. Un esempio eclatante è al cap.2 punto fondamentale dove si parla della pietà usata da Bilbo nei confronti di Gollum. Fatica traduce con una domanda, l’Alliata con abbondanza di particolari, entrambi inesistenti.

    (Tolkien) What a pity that Bilbo did not stab that vile creature, when he had a chance!’
    ‘Pity? It was Pity that stayed his hand.

    (Alliata) Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!”.
    “Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano.

    (Fatica) Ma per pietà, perché Bilbo non ha trafitto quell’ignobile creatura quando ne ha avuto l’occasione?”
    “Pietà? È stata la Pietà a fermargli la mano.

    (Google ) Che peccato che Bilbo non abbia pugnalato quella vile creatura, quando ne ha avuto la possibilità!
    Pietà? Era la Pietà che gli teneva la mano.

    Che ne pensano gli esperti?

    • Marius ha detto:

      Fatica è l’unico a salvare (e rendere) in italiano il gioco di parole su “pity” che c’è nello scambio di battute originale.

      • Niccolò farina ha detto:

        Scusami? Ma in quale universo uno dovrebbe risposndere con le stesse parole volendo dire una cosa diversa? Se io ti chiedo se è per pietà, tu perché dovresti sispondermi “pietà?è per pieta che non l’ha fatto” come se mi avessi risposto con un concetto diverso… in italiano questa risposta non ha un senso e la gente ti prende per scemo lo rispondi in questo modo, ti direbbero “ma cha cazzo ho detto io, ma ci fai?”

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Io non sono un esperto, ma pare evidente che Fatica – come si è detto – abbia optato per una traduzione più aderente all’originale. Quindi in questo caso ha mantenuto in italiano il doppio senso del termine”Pity/pietà”, come ha fatto Tolkien. Nella traduzione Alliata/Principe questo si perdeva, dato che “Peccato” e “Pietà”non sono affatto la stessa cosa.

      • Paolo ha detto:

        Ok per mantenere il doppio senso ma la frase esclamativa originale è molto più forte e categorica di quella interrogativa di Fatica. A me pare una traduzione molto meno aderente però, ovviamente, è solo una mia opinione.

        • Marius ha detto:

          Volgere la frase all’interrogativo era l’unico modo per poter usare in modo plausibile l’espressione «Per pietà». È una questione di scelte: lasciare il doppio senso voluto da Tolkien (“what a pity” nel senso di “che peccato” seguito da “pity” nel suo senso letterale di “pietà”) oppure mantenere la forma affermativa della frase? Fatica ha optato per mantenere il doppio senso e secondo me ha fatto bene, perché il doppio senso rende lo scambio più ricco letterariamente.

          • Marius ha detto:

            L’esempio riportato, tra l’altro, è tipico del metodo Alliata: rendere le frasi molto più lunghe e pesanti aggiungendo parole che nell’originale non ci sono, quasi sempre aggettivi, e in altri casi specificazioni inutili. Qui ci sono entrambe le cose: «vile» che diventa «vile e ignobile», e «stab» che diventa «trafitto con la sua spada». In una sola frase due parole, dopo il trattamento Alliata, diventano ben otto. Potremmo chiamarlo il «metodo del quadruplo». Lo stile che ne risulta potrà anche piacere, e si può capire che chi ha conosciuto il SdA in quella veste sia rimasto affezionato, ma è uno stile lontanissimo da quello di Tolkien, che non ne rispetta quasi nessuna scelta.

          • Paolo ha detto:

            Non vorrei essere stato frainteso. Non difendo l’Alliata. Ho riportato entrambe le traduzioni (e pure quella di Google) proprio per mostrare che, per il mio modo di vedere le cose, sono entrambe lontane da Tolkien anche se motivate.

          • Marco ha detto:

            Per mantenere il doppio senso ha stravolto il senso originale…la frase di Bilbo si può tradurre solo con “che peccato”

          • Marius ha detto:

            Non mi sembra abbia stravolto nulla, il contenuto dello scambio di battute è intatto e in più ha salvato il doppio senso di “pity”.

      • Bobbadil ha detto:

        Avendo letto il SdA da ragazzino, l’ho amato per com’era nella traduzione Alliata, ma era indubbiamente un testo ridondante e pesante da leggere.

        Ero e sono tutt’ora molto favorevole ad una profonda revisione della traduzione di Alliata a costo di perdere significato nei termini (es vile significa é si vile, ma dire anche ignobile aveva permesso a me di non ricorrere al dizionario probabilmente)

        Per quanto riguarda “what a pity”, personalmente l’avrei tradotto in Che vergogna che Bilbo non abbia…eccetera. Vergogna? È stata la vergogna a; che cambia sicuramente parte del significato, ma mantiene il qui pro quo.

        • Wu Ming 4 ha detto:

          Eh ma invece è proprio la virtù della “pietà” il concetto chiave, che viene ripreso anche altrove nel romanzo. Non per niente Tolkien riconosceva il sostrato “cristiano e cattolico” dell’opera. Non è stata la vergogna a fermare la mano di Bilbo, ma la pietà. È un concetto ben diverso.

    • Norbert ha detto:

      A me, invece, la traduzione di Fatica è piaciuta molto. Ho trovato elegante il modo in cui è riuscito a usare il “What a pity” senza trasformarlo in un, peraltro correttissimo, “che peccato”.
      Così è Frodo a parlare per primo di “pietà” e Gandalf si richiama sottolineando l’importanza della pietà

      • Marco ha detto:

        (Tolkien) What a pity that Bilbo did not stab that vile creature, when he had a chance!’
        ‘Pity? It was Pity that stayed his hand. Pity, and Mercy: not to strike without need.

        (Alliata) Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!”.
        “Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità.

        (Fatica) Ma per pietà, perché Bilbo non ha trafitto quell’ignobile creatura quando ne ha avuto l’occasione?”
        “Pietà? È stata la Pietà a fermargli la mano. La Pietà e la Misericordia: non colpire senza necessità.

        Sì, posso dire di essere d’accordo. Difficile fare di meglio. La via più facile era tradurre alla lettera e affidare a una nota la spiegazione del gioco di parole originale.
        Altrimenti, volendosi cimentare in un adattamento non letterale, al massimo io ero riuscito a pensare qualcosa del genere:

        “Non posso compatire che Bilbo non abbia trafitto quell’ignobile creatura, quando ne ebbe l’occasione!”
        “Compatire? Fu la Compassione a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: non colpire senza necessità.”

        Nel mio modesto tentativo, Frodo usa “compatire” nel senso di tollerare e giustificare. Gandalf lo porta su un altro livello con il “compatire” nel senso di patire insieme e avere “Compassione”. Poi alza ancora di più la posta e parla di “Pietà” e “Misericordia”, in cui la Pietà/Compassione (Pity) è ovviamente altra cosa rispetto a Pietas, la Pietà/Devozione (Piety).

        • Valen ha detto:

          Anche io credo che la soluzione di Fatica sia di gran lunga preferibile in questo caso, e come dici giustamente tu Marco, difficile fare meglio.
          Tradurre in altro modo e spiegare nelle note son capaci tutti, troppo comodo. La sfida del traduttore è trovare una resa appropriata.
          E qui la sfida era usare correttamente Pietà, non un’altra parola. E Fatica l’ha fatto con eleganza e arguzia.

        • Luke Atreides ha detto:

          Bella la tua osservazione Caro Marco.
          Bel lavoro.
          Come avresti tradotto tu tutto il pezzo di Gandalf:

          ‘Pity? It was Pity that stayed his hand. Pity, and Mercy: not to strike without need. And he has been well rewarded, Frodo. Be sure that he took so little hurt from the evil, and escaped in the end, because he began his ownership of the Ring so. With Pity.’

          Vorrei tanto saperlo.

    • Ricky ha detto:

      Sono 2000 anni che non leggo Tolkien, non sono un grande appassionato in effetti e non sono neanche un traduttore, quindi la valenza delle mie affermazioni è già tutto un dire. Però io l’avrei reso con una frase a metà tra le due traduzioni:

      “Ma per pietà, perché Bilbo non ha trafitto quell’ignobile creatura quando ne ha avuto l’occasione?”
      “Per pietà dici? Fu proprio la pietà a fermargli la mano.”

      Perché io sinceramente ho dovuto rileggere più volte la frase di Gandalf per capire cosa stesse dicendo, allo stesso modo, però, mi piace che ci sia il gioco di parole con Pietà come nell’originale.

  7. Wu Ming 4 ha detto:

    @Marius
    Concordo. Secondo me, al di là delle scelte sulla resa dei nomi di luoghi e personaggi, che possono piacere o non piacere, alla distanza sarà lo stile di un traduttore professionista e navigato a marcare la differenza.

    • Marius ha detto:

      Secondo me, vista la frequenza per pagina di parole in più – cioè aggiunte nella traduzione Alliata/Principe senza che il testo originale le giustificasse – ci sono almeno, e dico almeno, cinquanta pagine di “eccedenze”. Il risultato non è tanto una traduzione quanto una parafrasi, una “spiegazione” del Signore degli Anelli fatta da Alliata e Principe. Ripeto, con lo stile originale di Tolkien e con le sue scelte di ritmo, di fraseggio, l’edizione che circola in Italia da mezzo secolo ha davvero pochissimo a che vedere.

      • Wu Ming 4 ha detto:

        La domanda che sorge spontanea quindi è: com’è possibile che con tanti ammiratori di quel romanzo e una conoscenza media dell’inglese che nel corso dei decenni è andata aumentando non ce ne si sia mai accorti?
        La risposta che mi do è semplice: il romanzo è lunghissimo e quindi sono pochissimi quelli che hanno avuto voglia di affrontarlo in lingua originale, e ancora meno sono stati quelli che una volta letto in inglese sono andati a riprendere la traduzione italiana per fare confronti.
        Sono convinto che anche gli aficionados della traduzione storica che oggi storcono il naso siano (legittimamente) legati a un testo che però non hanno mai confrontato con l’originale.
        Tra l’altro in mezzo secolo le teorie della traduzione sono cambiate parecchio e se a questo si aggiunge che la traduzione di allora venne realizzata da una principiante e rivista sì da un traduttore, ma traduttore prevalentemente dal tedesco, non ci si dovrebbe meravigliare che il confronto con Fatica sia impietoso. Lo sforzo di mezzo secolo fa fu encomiabile proprio per le modalità e le circostanze “pionieristiche” in cui si produsse, ma per lo stesso motivo oggi non può reggere il paragone con il lavoro di un esperto.

        • Anfotero ha detto:

          In teoria le traduzioni servono ESATTAMENTE a chi non sa la lingua originale del testo, non a chi può “fare confronti”.
          Poi francamente da traduttore e persona che il confronto di cui parli l’ha fatto, la versione Alliata ha mille problemi ma questa di Fatica in certi punti è asciutta che pare Google Translate. L’aderenza al testo non è tutto e tradurre significa anche riadattare.
          Il confronto con Fatica è impietoso ma nel senso inverso: propone una traduzione, da quel che ho visto finora, che ha tanti problemi quanto quella vecchia, quindi a che pro?

          Evito poi di parlare della nuova Poesia dell’Anello – che a mio parere è un orribile biglietto da visita – perché c’è chi lo ha fatto meglio di me: https://kelopoeta.wordpress.com/2019/10/26/fatica-tradurre-poesia/

          • Marius ha detto:

            Per quanto riguarda la nuova traduzione della Poesia dell’Anello, che a me piace, mi convince molto di più la riflessione di WM4 nel post qui sopra piuttosto che quella di Kelopoeta linkata nel tuo commento.

  8. Walter ha detto:

    I “nuovi” nomi non effettivamente duri da digerire, dopo tanti anni non poteva che essere così. Le poesie però sono rese benissimo

  9. Ugo Truffelli ha detto:

    Ormai saranno 10 anni che non leggo più Tolkien in italiano ma solo in lingua originale, credo comunque che comprerò e leggerò la nuova traduzione per “cronaca”. Era il momento è vero di una traduzione più aderente all’originale anche nel registro, ma trovo certe scelte di nomi eccessive e non necessarie (senza contare che ora in italiano avremo tre traduzioni per Rivendell).

    Tuttavia vorrei soffermarmi un punto della poesia dell’anello chiave in cui la traduzione snatura e inverte il significato originario ed è sbagliato anche la riflessione fatta nell’articolo. «doomed to die». Non è vero quello che dite, ovvero “ma l’uso del termine “doom”, che ha sempre un significato infausto e negativo” o per lo meno non lo è nell’uso nel legendarium tolkieniano. Oltre al famoso Doom of Mandos, o allo stesso Túrin Turambar “Master of Doom” (turún’ambartanen e la relazione tra ambar/umbar come Mondo ma anche Doom ovvero luogo del Doom che è esso stesso parte del Doom dove si svolge il Drama) vorrei sottolineare l’Athrabeth dove tra l’altro il termine Doom (proprio in questa eccezione) ma anche il verbo è utilizzato quasi esclusivamente da Finrod, ovvero un Elfo, proprio in questo contesto preciso. Tolkien usa “Doom” in luogo di “destino, fato” collegato si alla morte ma intesa come Morte e non solo, collegato al significato originario anglosassone di “statute, judgement”. Stravolgendo anche il messaggio profondo di Tolkien per cui “Death is not an Enemy”.

    Quindi no mi spiace, ma «Nove agli Uomini Mortali dal fato crudele» è una traduzione sbagliata che stravolge il significato della frase. Poco inoltre convince parlare di “evitare ripetizione assenti nell’originale tra mortale e morte” in quanto la frase originaria è Mortal Men Doomed to Die (m-m d-d) e per lo meno mortale/morte avrebbe conservato una caratteristica.

  10. Ugo Truffelli ha detto:

    Scusandomi per la poca linearità del mio commento precedente scritto di getto sul treno aggiungo una riflessione: «destinati a morire» o «destinati alla morte» avrebbe inoltre conservato l’ambiguità di giudizio del «doomed to die» nella quale alle stesse parole (è l’incipit del libro) il lettore in prima battuta da un significato nella sua eccezione negativa (culturalmente è quello il significato che attribuiamo alla morte) salvo alla fine poterci vedere invece il significato positivo di quelle parole senza doverle cambiare. «fine crudele» (come «la triste morte attende» anche se non volutamente questa vecchia traduzione poteva lasciare uno spazio) è invece un giudizio morale inappellabile: la morte è crudele. E invece no, non lo è.

  11. Matteo Leoni ha detto:

    Non so se sia già stato segnalato da altri e non se se questo è il luogo giusto per farlo, ma nella nuova traduzione – che sto leggendo in questi giorni – c’è un errore a pag. 226, nell’ultima riga.
    La frase parla di Pippin ma in effetti dovrebbe essere riferita a Merry: Tolkien descrive il sonno dei quattro hobbit e nella nuova traduzione si parla due volte di quello di Pippin e non di quello di Merry, il che non ha senso.
    Non ho controllato nell’originale inglese ma nella mia vecchia Bompiani c’è Merry, non Pippin (o Pipino).

  12. “una leggenda locale e secondo la credenza popolare” è una brutta frase, musicalmente indigesta, l’italiano non tollera facilmente la ripetizione dei suoni. non mi aspetto cadute di questa portata, e addirittura nella prima pagina.
    sono d’accordo con chi attacca, non si può prescindere dal valore estetico: il daino può diventare orso se serve.
    chissà cosa sarebbe venuto fuori con la traduzione affidata a quelli di harry potter (sublime).

    • Marius ha detto:

      No, il daino non può «diventare orso se serve» perché Tolkien diede suggerimenti piuttosto chiari su come tradurre nomi di persona e toponimi e se in quel nome avesse voluto piazzarci e vederci un orso lo avrebbe fatto e anche detto, mentre ci ha piazzato un cervo/daino e si è auspicato che anche i traduttori ce lo piazzassero. È tutto nero su bianco.

      • col risultato di brandaino? la filologia così affossa la lingua restituendomi solo un puntiglio nocivo. ricordo che è un libro da leggere.
        quella dell’orso è una provocazione (c’è, come detto da altri, la possibilità di usare ad esempio ‘cervo’, che è già ottimo) ma brandiorso vince sicuramente su brandaino.
        poi non capisco questa applicazione del metodo anche se ammazza l’atmosfera: siamo in terra inglese, diamo un minimo di armonia di nomi e contesti, e una benedetta scorrevolezza.
        così l’unico tolkien rimasto rischia di essere quello dei suoi suggerimenti al traduttore.

        • Marius ha detto:

          “brandiorso vince sicuramente su brandaino”

          L’uso dell’avverbio mi sembra gratuito, a me brandiorso fa veramente schifo, per dire, mentre Brandaino suona bene, in ogni caso è questione di abitudine, chiaro che se c’è un partito preso i “nuovi” nomi non piaceranno a prescindere.

        • Marius ha detto:

          Più partito preso di così…

      • Francesco ha detto:

        Il punto di Annibali, per quanto capisco, potrebbe essere “la bellezza della lingua viene prima di tutto”, punto che condivido appieno. Se la traduzione più brutta (“brandaino”) non ha un valore essenziale, va evitata. Cosa guadagna la nuova traduzione nel passare da “Meriadoc Brandybuck” (costrutto fonetico gradevole) ad un guazzabuglio come “Meriadoc Brandaino”? Cosa guadagna il lettore che passeggiava lungo il Sinuosalice (un nome che è una una piccola gemma) a trovarsi al Circonvolvolo (nome difficile da leggere, da pronunciare e particolarmente astruso)?

        • esatto, la lingua è prioritaria, è lì che si sorregge la bellezza, e siamo tutti qui per la bellezza di questo libro.
          alcuni preferiscono il valore etimologico, e sono stati accontentati. ma senza grazia questo valore diventa un bagaglio molesto, sembra un patchwork di esiti conflittuali.

        • Wu Ming 4 ha detto:

          D’accordo. Ma se bisogna valutare la “bellezza della lingua” allora non ci si può fermare ai soli nomi di luoghi o persone. E appena allarghi lo sguardo alla lingua del romanzo, non c’è dubbio che la lingua di Fatica sia non soltanto più vicina allo stile di Tolkien, ma anche molto più fluida e scorrevole di quella barocca e piena di aggiunte arbitrarie di Alliata/Principe. Sembrano davvero due romanzi diversi, e personalmente non ho dubbi su quale delle due traduzioni prevarrà alla lunga (a prescindere dalla nomenclatura).

          Aggiungo che i nomi possono non suonarci bene all’orecchio, ma dobbiamo sempre considerare che è un orecchio abituato ai nomi precedenti da sempre. Se negli ultimi 50 anni avessimo avuto nell’orecchio Brandaino secondo me oggi non ci suonerebbe così strano (né cacofonico, dato che in fondo non lo è).

          C’è però anche un altro aspetto da considerare: il misto di tradotto e non tradotto. Nella traduzione francese del LOTR hanno tradotto Baggins con un corrispettivo francese, che ora non ricordo, e ovviamente Bag End con Cul-de-sac. In italiano si sarebbe potuto tradurre Baggins con Sacconi, Sacchetti, o Borsari… Tolkien nella guida dice che si sarebbe potuto farlo, perché il senso doveva rimandare a una borsa/bisaccia, appunto. Ma come sarebbe suonato Frodo Borsari o Frodo Sacchetti? Alquanto orribile, no? Dunque è stato mantenuto Frodo Baggins, l’originale.
          Altri cognomi Hobbit invece sono stati tradotti (ma non tutti, ad esempio Gamgee no, perché è intraducibile). Mi pare evidente che, con l’eccezione di Baggins, la ratio seguita è stata quella di tradurre i cognomi laddove era possibile, per rendere l’effetto che Tolkien desiderava. Brandibuck è assonante nel finale con Meriadoc e sono parole lunghe uguali, nessuna traduzione sarà mai bella come i nome e cognome originali. Tuttavia è altrettanto vero che prima d’ora nessun lettore italiano aveva colto la presenza di un animale nel cognome di quella famiglia, e in paticolare di un cervide. Ma la caratteristica dei cognomi Hobbit è proprio quella di significare qualcosa di molto concreto (a cominciare da Baggins), che ha a che fare con una caratteristica fisica o il luogo di provenienza. I Brandybuck vivono a Buckland, una zona tra i boschi e il fiume, dove diversi luoghi hanno nel nome la parola “buck” (Bucklebury, Buck Hill). La famiglia aveva in origine un cognome un po’ diverso, cioè Oldbuck, e si è rinominata Brandybuck quando si è stabilita presso il fiume Brandywine. Insomma pare proprio che questo “buck” sia molto connotativo per loro, come se fosse una specie di animale totemico del clan, dato che se lo portano dietro e lo usano per nominare se stessi e i luoghi in cui vivono. Dunque “daino” o “cervo” che si preferisca, non sembra affatto sbagliato tradurlo in italiano e dare conto di questa particolarità del clan, allo stesso modo in cui si traduce Proudfoot in Tronfipiede o Pededegno.
          Viene da pensare che forse addirittura si sarebbe dovuto avere più coraggio e fare come i francesi, tradurli tutti, e avere quindi Frodo Sacchetti e Peregrino Tocco (ma comunque sarebbe rimasto fuori l’intraducibile Gamgee, quindi la coperta è sempre corta…). Non credo che si possa trovare un approdo sufficientemente solido da dirsi definitivo.

          • Wu Ming 4 ha detto:

            Mi sovviene ora un’altra analogia. Quella con i nomi/soprannomi dei capiclan vichinghi. Spesso non vengono tradotti, per amore filologico o per conservare l’effetto “vichingo” di tutte quelle gutturali e quei suoni aspri. Ragnar Lothbrok suona gagliardo, mentre Ragnar Brache-pelose (il significato letterale) suona ridicolo. Eppure i soprannomi di quei capi lo erano spesso: “Dente-azzurro”, “Barbaforcuta”, “Senz’ossa”, ecc. Dunque non sarebbe affatto sbagliato né sconveniente tradurli per trasmettere in italiano lo stesso *effetto*, perché a quanto pare quei nomi sono *anche* ridicoli (i vichinghi avevano un senso dell’umorismo tutto loro).
            Con i cognomi hobbit dunque la questione è analoga. Andrebbero tradotti tutti, almeno secondo il suggerimento dell’autore del Signore degli Anelli, proprio per preservare l’effetto che fanno. Brandaino dunque ci sta eccome.
            Più ci penso più credo che i francesi abbiano fatto la scelta più giusta e coerente. Tradurre tutto. Anche Baggins. La butto lì: un cognome simil-veneto, vagamente assonante con l’originale potrebbe essere “Sàcchin”.
            Bilbo e Frodo Sàcchin. Residenti a Fondosacco.
            Ok, sparatemi pure… 🙂

          • Mattia Carli ha detto:

            No, non Frodo Sacchetti! Ricordiamoci dei Sackville-Baggins! 😀

          • la presenza di un gandalf e di un sauron (presumo intoccabili) ci dà dei perni in cui lavorare attorno. i nomi evocano di per sé stessi, la sonorità evoca, come sapeva italo calvino che usava termini calzanti musicalmente (si comprende la frase anche senza dizionario). i nomi dei nani con la scelta delle k d z, suoni duri come la roccia che scavano, o quelli eterei e molto vocali degli elfi danno già gran parte dell’effetto e di un paesaggio (tolkien ha costruito la storia dalla lingua). ben venga la concretezza gioviale degli hobbit, ma mantenendo qua e là i suoni di quella terra. io preferisco una mescolanza di sonorità originali e qualche nome tradotto, come brache pelose, per dare colore ma conservando buona parte dell’aura di partenza. frodo sacchin è come mangiare gli spaghetti (anzi la polenta) quando si va a parigi, ma non sarebbe meglio provare il cibo francese? mi ricorda quando anni fa incappai in un oliviero twist di carlo dickens, probabilmente un libro comico 🙂
            la lingua della alliata è fluida e nobile, ma eccessivamente creativa; quella di fatica è corretta, ma spesso laboriosa e a tratti artificiale, di questo ci lamentiamo.
            ma ci sono anche cose belle, bisognerà scriverne.

  13. eleir ha detto:

    Avendo letto e anche un po’ meditato il SdA in lingua originale, concordo in generale sulla qualità della traduzione di Fatica e sulla necessità di aderenza alla sintassi originale di Tolkien, come si sa tutt’altro che commerciale e di facile presa (appunto, non è un’opera di genere!) – tuttavia, mi sentirei di affermare che il testo originale inglese è dotato di un’aura, un “feeling”, una silenziosa musica di sottofondo, dalla quale emerge il mistero e il magnetismo della lettura, che non può essere ricondotto alla mera erudizione o alla ricercatezza stilistica dell’autore, piuttosto a certe “proprietà emergenti” che sono molto più della somma delle parti, ovvero alla tensione psichica dell’autore, così forte da trasporsi in chi legge – tensione che ha le sue basi nella tradizione nordica antica (di sé infatti diceva di essere un “pagano convertito”). Ora, di questo misterioso afflato proprio del romanzo originale cosa rimane e cosa viene a mancare nelle due traduzioni ? Secondo me è questo il punto fondamentale, e l’origine del dibattere.
    Venendo al punto, noto che a tratti la traduzione di fatica (nello sforzo meritevole di aderenza all’originale) si diluisce in una prosa intellettualmente un po’ arida, un po’ discordante, per la quale il lettore ha come l’impressione di trovarsi all’improvviso avulso dalla Terra di Mezzo senza sapere perché….Ritengo in tal senso come, ad esempio, tradurre Rangers (con tutte le sfumature narrative che Tolkien infonde a questo termine) con Forestali sia una doccia fredda, troppo fredda e per nulla evocativa del ruolo dei Dùnedain in quell’epoca e in quel contesto. I nomi sono importanti, per Tolkien fondamentali – ritengo non sia cosa da poco la mancanza di profondità del termine italiano usato da Fatica. Permettetemi di affermare che qui Alliata aveva invece centrato il “senso” del termine: Ramingo ha molto più mistero, e risolve l’afflato proprio di un popolo quasi scomparso e tuttavia presente, con un proprio percorso narrativo. Attenzione: in Tolkien conta molto il ritmo e lo stile..ma una traduzione deve anche rispettare il “senso” celato dietro ai termini. Se in generale il “senso” del libro è rispettato, allora l’una o l’altra delle traduzioni avranno fatto centro ove questo si verifichi – al di là della correttezza stilistica e sintattica. Qualcosa Fatica ha tralasciato, e qualcosa Alliata ha mancato. Leggete l’originale, e un immenso e profondo orizzonte si dispiegherà.

    • Norbert ha detto:

      Premetto che “forestale” non piace neanche a me. Però rende _uno_ dei significati di ranger. Così come faceva ramingo, che a me non è mai piaciuto.

      Non ho idea di come lo si sarebbe potuto tradurre meglio: forse la soluzione migliore sarebbe stato lasciare “ranger”

      • Eleir ha detto:

        Scusate, mi sembra che il mio messaggio si sia duplicato…involontariamente.
        Beh, ad esempio Ranger potrebbe essere reso con “gli Erranti” – vedi poesia di Bilbo. Poi in francese esiste il termine coureurs (vedi coureurs du bois, i trapper) che potrebbe essere reso con “scorridori” (dei boschi, del nord, del sud ecc..)
        Tuttavia, scusatemi – non intendo proferire sentenze da scolaretto pedante…soltanto, credo che al momento la traduzione italiana stia….maturando, e mi auguro che Fatica, da grande traduttore qual è, saprà in seguito approfondire e migliorare la traduzione.
        Da lettore, credo che ci sia ancora molto da scoprire sul SdA e vorrei concludere con il pensiero di quanto particolare sia questo testo, come risulti difficile da tradurre e di come in profondità tocchi qualcosa di ancestrale in noi.
        Grazie ancora a tutti

  14. Gabriele ha detto:

    Avendo letto e anche un po’ meditato il SdA in lingua originale, concordo in generale sulla qualità della traduzione di Fatica e sulla necessità di aderenza alla sintassi originale di Tolkien, come si sa tutt’altro che commerciale e di facile presa (appunto, non è un’opera di genere!) – tuttavia, mi sentirei di affermare che il testo originale inglese è dotato di un’aura, un “feeling”, una silenziosa musica di sottofondo, dalla quale emerge il mistero e il magnetismo della lettura, che non può essere ricondotto alla mera erudizione o alla ricercatezza stilistica dell’autore, piuttosto a certe “proprietà emergenti” che sono molto più della somma delle parti, ovvero alla tensione psichica dell’autore, così forte da trasporsi in chi legge – tensione che ha le sue basi nella tradizione nordica antica (di sé infatti diceva di essere un “pagano convertito”). Ora, di questo misterioso afflato proprio del romanzo originale cosa rimane e cosa viene a mancare nelle due traduzioni ? Secondo me è questo il punto fondamentale, e l’origine del dibattere.
    Venendo al punto, noto che a tratti la traduzione di fatica (nello sforzo meritevole di aderenza all’originale) si diluisce in una prosa intellettualmente un po’ arida, un po’ discordante, per la quale il lettore ha come l’impressione di trovarsi all’improvviso avulso dalla Terra di Mezzo senza sapere perché….Ritengo in tal senso come, ad esempio, tradurre Rangers (con tutte le sfumature narrative che Tolkien infonde a questo termine) con Forestali sia una doccia fredda, troppo fredda e per nulla evocativa del ruolo dei Dùnedain in quell’epoca e in quel contesto. I nomi sono importanti, per Tolkien fondamentali – ritengo non sia cosa da poco la mancanza di profondità del termine italiano usato da Fatica. Permettetemi di affermare che qui Alliata aveva invece centrato il “senso” del termine: Ramingo (wanderer è un sinonimo di ranger) ha molto più mistero, e risolve l’afflato proprio di un popolo quasi scomparso e tuttavia presente, con un proprio percorso narrativo. Attenzione: in Tolkien conta molto il ritmo e lo stile..ma una traduzione deve anche rispettare il “senso” celato dietro ai termini. Se in generale il “senso” del libro è rispettato, allora l’una o l’altra delle traduzioni avranno fatto centro ove questo si verifichi – al di là della correttezza stilistica e sintattica. Qualcosa Fatica ha tralasciato, e qualcosa Alliata ha mancato. Leggete l’originale, e un immenso e profondo orizzonte si dispiegherà.

  15. eleir ha detto:

    Avendo letto e anche un po’ meditato il SdA in lingua originale, concordo in generale sulla qualità della traduzione di Fatica e sulla necessità di aderenza alla sintassi originale di Tolkien, come si sa tutt’altro che commerciale e di facile presa (appunto, non è un’opera di genere!) – tuttavia, mi sentirei di affermare che il testo originale inglese è dotato di un’aura, un “feeling”, una silenziosa musica di sottofondo, dalla quale emerge il mistero e il magnetismo della lettura, che non può essere ricondotto alla mera erudizione o alla ricercatezza stilistica dell’autore, piuttosto a certe “proprietà emergenti” che sono molto più della somma delle parti, ovvero alla tensione psichica dell’autore, così forte da trasporsi in chi legge – tensione che, detto sommariamente, pone le sue basi nella tradizione nordica antica (di sé infatti diceva di essere un “pagano convertito”). Ora, di questo misterioso afflato proprio del romanzo originale cosa permane e cosa viene a mancare nelle due traduzioni ? Secondo me è questo il punto fondamentale, e l’origine del dibattere.
    Venendo al punto, noto che a tratti la traduzione di fatica (nello sforzo meritevole di aderenza all’originale) si diluisce in una prosa intellettualmente un po’ arida, un po’ discordante, per la quale il lettore ha come l’impressione di trovarsi all’improvviso avulso dalla Terra di Mezzo senza sapere perché….Ritengo in tal senso come, ad esempio, tradurre Rangers (con tutte le sfumature narrative che Tolkien infonde a questo termine) con Forestali (in inglese Ranger e Wanderer possono essere sinonimi) sia una doccia fredda, troppo fredda e per nulla evocativa del ruolo dei Dùnedain in quell’epoca e in quel contesto. I nomi sono importanti, per Tolkien fondamentali – ritengo non sia cosa da poco la mancanza di profondità del termine italiano usato da Fatica. Permettetemi di affermare che qui Alliata aveva invece centrato il “senso” del termine: Ramingo possiede molto più mistero, e risolve l’afflato proprio di un popolo quasi scomparso e tuttavia presente, con un proprio percorso narrativo. Attenzione: in Tolkien una traduzione deve anche rispettare il “senso” celato dietro ai termini. Se in generale il “senso” è rispettato, allora l’una o l’altra delle traduzioni avranno fatto centro ove questo si verifichi – al di là della correttezza stilistica e sintattica. Qualcosa Fatica ha tralasciato, e qualcosa Alliata ha mancato. Leggere l’originale è la vera alternativa, un immenso e profondo orizzonte.

    • Norbert ha detto:

      Beh, direi che leggere l’originale non è “una alternativa”: è LA cosa da fare, se si conosce la lingua inglese.

      Nessuna traduzione può rendere tutte le sumature, spesso molteplici (e la parola “ranger” è solo un esempio) dei termini originali

    • Wu Ming 4 ha detto:

      La resa di Ranger con Forestale è una delle scelte decisamente contestabili della traduzione di Fatica. “Ramingo” (colui che non ha dimora ed è costretto a un continuo peregrinare) aveva più inerenza al significato almeno per quanto concerne i Ranger del Nord. I Ranger del Sud invece sembrano essere meno vagabondi e piuttosto inquadrati nelle attività militari di Gondor, tanto che sono guidati da uno dei figli di Denethor. Di fatto si tratta di truppe di frontiera che svolgono una guerra di guerriglia boschiva contro gli incursori Haradrim. Nella storia degli eserciti italiani potrebbero forse essere l’equivalente dei “Cacciatori”, come i Cacciatori delle Alpi o i Cacciatori di Sardegna. In quel caso Forestali non suonerebbe troppo lontano dal significato. Resta il fatto che è inevitabile per il lettore italiano odierno pensare alle Guardie Forestali, quindi a conti fatti resta comunque una scelta infelice.

      • Alessandro ha detto:

        Anche Ranger potrebbe aver avuto in inglese doppia valenza, d’altronde i ranger in terminologia militare sono dei soldati super specializzati molto abili ad agire su terreni difficili e, alle volte, in piccole unità, come effettivamente agiva nelle missioni in profondità Faramir con i suoi uomini in Ithillien. La traduzione con forestali è pessima, meglio mantenere Ranger. Alle volte sarebbe meglio chiedere consulenza a nerd che masticano il fantasy anche nell’ambito GDR, che non tradurre in maniera teoricamente ineccepibile, ma fuori contesto e con risultati grotteschi…

      • Alessandro ha detto:

        Nella tradizione militare i ranger sono una fanteria leggera specializzata in azioni militari speciali su terreni difficili, tra cui anche imboscate in profondità nel territorio nemico, come ad esempio la missione di Faramir in Ithillien. Non c’entrano niente con i forestali (e neanche con i cacciatori delle alpi e tanto meno con i cacciatori di Sardegna, che è una unità di cavalleria). Se per quelli del nord l’immagine dei raminghi si adatta alla perfezione, per quelli del sud si avvicina fi più a quella delle forze speciali…

      • Giorgio ha detto:

        Grazie della risposta (prima ancora che io abbia fatto la domanda!)
        Effettivamente questa traduzione non la comprendo e sarebbe interessante chiedere a fatica (senza alcuna polemica) il perché della scelta.

  16. Marius ha detto:

    «“una leggenda locale e secondo la credenza popolare” è una brutta frase»

    Non è una frase. È un moncone di frase isolato apposta per far sembrare ci sia una qualche “ripetizione”. La frase è questa:

    «Le ricchezze riportate dai viaggi erano diventate una leggenda locale e secondo la credenza popolare, inutilmente smentita dagli anziani, la collina di casa Baggins era piena di gallerie imbottite di tesori.»

    Io non ci vedo nessuna bruttura, e non si capisce dove stia la ripetizione, non si ripete nulla.

    • locale-popolare ale-are è un suono sciatto. mi risulta evidente e disturba come una mosca su una tela bianca, e mi dispiace trovarmi una prima pagina con questa roba.

      • Marius ha detto:

        Questo “risulta evidente” è gratuito come l’avverbio “sicuramente” nel tuo altro commento. A me non risulta affatto evidente, ale-are nel contesto della frase intera e non monca come l’avevi proposta tu non mi suona né come ripetizione né come “suono sciatto”, per me la frase funziona.

  17. Idril Celebrindal ha detto:

    Sinceramente mi sembra che questa nuova traduzione sia costellata più da scelte egocentriche da parte del traduttore (tanto per far vedere che lui ci capisce), che da vere necessità stilistiche…posto che a gusto mio i nomi non andrebbero mai tradotti (e chi vuole scoprirne il significato, se li studia), cambiare alcuni nomi ormai iconici non ha alcun senso …e quale valore aggiunto dovrebbe portare Valforra rispetto a Granburrone?
    Mi aspetto che magari quando passeranno al Silmarillion avranno pure la brillante idea di tradurre l’elfico con il risultato di avere qualcosa tipo Fiammanima al posto di Feanor…
    Comunque ormai Tolkien lo leggo prevalentemente in inglese, è sempre stato immensamente più godibile.

    • Norbert ha detto:

      E perché mai si dovrebbe trdurre l’elfico?

      Tolkien ha spiegato che **finge** di essere il traduttore del diari di Bilbo, scritto in Ovestron.

      Pertanto tutte le parole inglesi – fittiziamente traduzioni dall’Ovestron – andrebbero tradotte nella lingua di destinazione

      Che sia meglio l’originale inglese delle traduzioni, direi che non ci piove

  18. Axel Shut ha detto:

    per quel poco che ho potuto leggere finora mi pare evidente, come già sottolineato, come la nuova traduzione sia migliore e più aderente all’originale
    e però c’è un però, la questione dei nomi non può essere secondaria, tanto più in un romanzo fantasy e oserei dire anche per un altro motivo cioè la diffusione ormai multimediale del mondo creato da Tolkien, che non sarà un argomento filologicamente corretto ma mi pare comunque avere un suo peso, se non sbaglio già all’epoca della prima trilogia si ritoccò la vecchia traduzione per uniformare qualche nome qua e là (sempre i nomi il fulcro del problema sembra)

  19. Giuspee ha detto:

    Non so se voi siete partiti subito con la lettura del romanzo vero e proprio, ma io mi sono riletto il Prologo perché volevo saggiare un po’ di varianti di nomenclatura, e l’ho letto in versione originale, in quella dell’Alliata (edizione 2002 Bompiani tascabile) e in ultimo quella di Fatica (facevo dei confronti ogni capoverso circa; premetto che non sono un esperto di lingua inglese). Be’, basterebbe questa ventina scarsa di pagine (a prescindere dalla nomenclatura) per trovare alcuni punti in cui nella traduzione di Fatica la prosa di Tolkien emerge di nuovo nella sua sintassi e nelle sue scelte lessicali mentre, come già ha detto qualcuno nei commenti precedenti, mentre in quella della Alliata si trovano cambiamenti come soppressioni o riscritture di certi periodi. Io li ho pure segnati, se qualcuno vuole qualche brano potrei postarlo. Almeno aprirebbe gli occhi a chi già per partito preso la rifiuta senza poi leggere e confrontare.

    • Marius ha detto:

      Tra l’altro, quella che per comodità viene chiamata “la traduzione della Alliata” in realtà non è della Alliata, perché Quirino Principe praticamente la rifece da capo all’epoca in cui il testo passò dalla primissima edizione Astrolabio a Rusconi. La traduzione della Alliata è quella Astrolabio, diversissima da quella che noi tutti conosciamo e che stiamo paragonando a quella nuova. Tra l’altro, se come dice la Alliata Tolkien “approvò” la sua traduzione (mah…), come mai non gridò al sacrilegio come fa oggi quando Principe gliela trasformò radicalmente?

      • Giuspee ha detto:

        Chiedo venia, è una giustissima puntualizzazione e preso dalla foga del messaggio l’avevo scordato di specificare. D’ora in avanti mi ricorderò di attribuire correttamente la traduzione al duo Alliata-Principe.
        Comunque è un peccato che sia difficile da reperire o nessuno scansioni una copia della “Compagnia” versione Astrolabio, perché sarebbe interessante per fare dei confronti linguistici e vedere gli interventi di Quirino Principe sul testo.

        • Matteo Leoni ha detto:

          Io non ho l’edizione Astrolabio, ma da una ricerca su un vecchio NG italiano su Narkive ho trovato le traduzioni di alcuni nomi:

          Baggins => Sacconi
          Sackville-Baggins => Borsi-Sacconi
          Tuckland => Tuchilia
          Sam Gamgee => Samio Gamigi
          Thorin Oakenshield => Thorinio Ochenscudo
          Brandybuck => Brandibucco
          Boffin => Boffa
          Merry => Felice
          Maggot => Maggiotti

          Evidentemente Principe ha cambiato un bel po’ di cose…

          • Marius ha detto:

            Fosse solo questione dei nomi: Principe cambiò la traduzione radicalmente, quasi da cima a fondo. Il testo continuò a essere attribuito alla Alliata, ma qualunque confronto anche sommario tra i due testi mostra molto bene che quella non era più la sua traduzione.

          • Hieronymus U. ha detto:

            Appunto. Quelli che si lamentano di “Samplicio”, forse non ricordano (o più probabilmente non conoscono neppure) SAMIO GAMIGI. Alla stessa maniera del “tanto amato” Gaffiere, molti nomi erano stati traslati dall’inglese all’italiano su una mera base di assonanza. Ochenscudo, poi, è incommentabile.
            La nuova traduzione (che tra i tanti pregi ha quello di aver fatto scomparire l’insopportabile forma “Pipino”) innesta una marcia in più già nel citato Prologo. Non so se vi sia capitato, ma molta gente che ho conosciuto negli anni mi ha esplicitamente detto di aver mollato “Il Signore degli Anelli” all’inizio per la pesantezza del Prologo o, se non altro, di aver saltato quest’ultimo in tronco. La versione di Fatica si trangugia in qualche minuto.

  20. Anfotero ha detto:

    A “indubbia qualità generale del risultato” sollevo un’obiezione. Io per ora vedo scelte discutibili, di cui una sinceramente inspiegabile in prima pagina: “undicentesimo”? Non è che se Tolkien ha un motivo etimologico per un calco dall’old english allora in italiano si può fare la stessa cosa. Questo è traduttese ed è solo un esempio di roba che accade ovunque. A me poi risulta, ma vado a memoria, che se pure nell’appendice F Tolkien specifica l’etimo di Samwise, esso non sia tra i nomi da tradurre. Il registro delle conversazioni? Ottimo riportarlo all’originale, gli hobbit parlano in modo carino. Ma perché il registro passa dall’aulico al “nunsepo’senti'” da una paragrafo all’altro NELLA PROSA? Ma davvero? Spero Fatica lo abbiano pagato molto, molto poco. Questa roba mi pare indifendibile.

    • Marius ha detto:

      Passa da un registro all’altro anche nell’originale inglese, stati criticando un elemento essenziale dello stile di Tolkien, lo “scalino” dal discorso diretto dei personaggi a quello del narratore, dal discorso diretto a quello indiretto ecc.

      • Anfotero ha detto:

        Non parlo di quello: CERTO che si passa da un registro all’altro se improvvisamente inizia un dialogo.
        Parliamo inoltre di undicentesimo, che sono giorni che mi tormenta. Ho finalmente trovato un riscontro oggettivo e confermo che è un errore. In prima pagina. Perché “undecentesimus” (di cui Fatica ha evidentemente fatto un calco in italiano) significa “novantanovesimo”, non “centoundicesimo”.
        https://en.wiktionary.org/wiki/undecentesimus

        Io trovo che sia una roba indifendibile.

        • Wu Ming 4 ha detto:

          È indifendibile se si assume arbitrariamente l’etimologia sbagliata, certo, e la si propone come un “riscontro oggettivo”.

          Sappiamo che “eleventy-first” è un termine informale, derivato per altro dall’Old English.
          La vecchia traduzione Alliata-Principe non si preoccupava di rendere questa particolarità e, come al solito, traduceva in italiano corretto e corrente: “centoundicesimo”.

          Fatica traduce “undicentesimo”, che non è evidentemente ricalcato sul latino “undecentesimus”, dato che questa parola deriva da “undecentum” < unus + de + centum, letteralmente "uno da cento", quindi appunto 99.

          L'etimologia dunque è un'altra. E cioè, banalmente, la parola è un composto dall'italiano "undici" + "cento". È l'11+100-esimo compleanno di Bilbo. Fatica non ha fatto altro che invertire i numerali rispetto a quello che sarebbe stato l'ordine in italiano corretto, per rendere quell'effetto leggermente straniante che produce nel lettore inglese "eleventy-first".

          Può non piacere come soluzione, ma certo non è un errore.

          • Andrea Bartoli ha detto:

            Non dico se giusto o sbagliato, ma riesco a capire undicentesimo solo perché riesco a ricostruire con bastante naturalezza l’originale eleventy-first; naturalezza che non trovo con undicentesimo, il quale mi fa pensare maggiormente a 110.
            Poco importa, certo. Soprattutto dopo che la tua spiegazione ne ha assai chiarito e reso più naturale il significato.
            Ma ora il cammino verso Mordor riprende immantinente.

    • undicentesimo è un gran tocco linguistico ed espressivo, rende bene l’umore da paese allegro in cui le si sparano grosse. è la parola giusta, radicata nella terra come gli hobbit.

    • Francesco ha detto:

      Ed anche qui di “indubbia qualità del risultato” si potrebbe discutere… Io non trovo la nuova traduzione particolarmente scorrevole, come non era farraginosa la traduzione precedente… O quantomeno, era abbastanza scorrevole e piacevole da venire goduta anche da ragazzini di 12-13 anni.
      E questi cambi di registro che dovrebbero essere fedeli ed essenziali: vogliamo notare che dei popolani che non sono in grado di pronunciare “affogato” se ne sarebbero usciti col termine “Veglio” per un rispettabile anziano?

      • Wu Ming 4 ha detto:

        Sul risultato si può discutere ad libitum, per carità, anche perché esiste una percezione soggettiva ineludibile. Ma è altrettanto vero che si può scegliere un brano qualunque del romanzo e confrontare le due traduzioni accorgendosi facilmente che quella di Fatica è più aderente all’originale e *conseguentemente* assai più scorrevole, giacché lo era lo stile di Tolkien. Onore al merito ai ragazzini di 12-13 anni che lessero il romanzo nella traduzione “barocca” (absit iniuria) di Alliata-Principe, tra i quali mi annovero, per altro. Ma i tredicenni di oggi, se mai vorranno affrontare un tomo di mille pagine, hanno indubbiamente un vantaggio rispetto a noi.

        Quanto a “Veglio” è un termine obsoleto che sta per “vecchio” proprio come “Gaffer”, contrazione di “godfather”, è un termine del tardo XVI secolo per “an old man”. Il vocabolario etimologico riporta: “Originally a term of respect, also applied familiarly”.
        Insomma per rendere “Gaffer” occorre una parola italiana antiquata che originariamente suoni reverenziale ma possa essere applicata anche con familiarità.
        A me pare che “Veglio” risponda alla bisogna. Poi è sempre possibile che a qualcuno venga un’idea migliore, eh…

        • Francesco ha detto:

          …Ed anche qui, non penso proprio che i ragazzi abbiano grossi problemi. D’altro canto come nota anche lei i tempi sono cambiati: una “trilogia” come il Signore degli Anelli era una saga molto lunga per suoi tempi, mentre oggi nessuno batte ciglio se anche una serie per bambini come Harry Potter si sviluppa in 7 libri.
          Poi non mi pare che la nuova traduzione sia più scorrevole: molte delle nuove scelte sono del tutto fuori luogo, e questo toglie molto dell’immersione. Ad esempio, Pippin Took (nome indiscutibilmente inglese) e Samplico (nome medioevale italiano storpiato) nello stesso contesto stonano profondamente

          • Wu Ming 4 ha detto:

            Io ho un presentimento, invece, e cioè che se “non pare” che la nuova traduzione sia più scorrevole è perché non la si è letta. E però se ne sta parlando a iosa. Anzi, non se ne sta parlando, perché si è rimasti fermi a discutere della resa dei nomi.

            Dunque perché la convivenza di Pippin Took e Samplicio Gamgee dovrebbe dare problemi quando quella tra Merry Brandibuck e Pipino Tuc non li dava? Pippin poteva essere reso con Pipino (parola che in italiano gergale sta per una specifica parte del corpo maschile) e il suo cognome con quello di un noto cracker, mentre Samwise non può essere reso con Samplicio (che rievoca precisamente il significato del suo nome e suona assolutamente medievale come lo pseudo-anglosassone Samwise)?
            Perché Meriadoc Brandibuck della Terra di Buck (come se Buck fosse una persona) andava bene e invece Meriadoc Brandaino di Landaino (che è esattamente l’effetto significante ottenuto dall’originale inglese) non andrebbe bene?
            La risposta è semplice: l’abitudine.
            Siamo stati abituati per mezzo secolo a chiamare personaggi e luoghi in un certo modo e non vogliamo cambiare. È legittimo. Ma è un motivo irrazionale.

            Io personalmente nei miei laboratori universitari utilizzo i nomi originali e il testo originale inglese. Quando leggo una traduzione, la leggo in quanto traduzione, cioè consapevole che non ce ne potrà mai essere una sola, una giusta, e sforzandomi di capire la ratio seguita dal traduttore. E il mio consiglio è leggere la traduzione. Tutta. Non soltanto i nomi. Poi tornare qui a discuterne.

  21. Rocco Pier Luigi ha detto:

    Rimandate alla Guide to the Names in The Lord of the Ring, dove dice chiaramente alla prima riga:
    “All names not in the following list should be left entirelyunchanged in any language used in translation”

    E fate lo spiegone sul cambiamento del nome di Samvise , che _non_ compare nella lista ?

  22. Wu Ming 4 ha detto:

    Io credo davvero che la coperta sia corta. Se il principio guida è mantenere le sonorità dei nomi allora si rimarrà sempre frustrati da una traduzione, perché le sonorità sono inglesi (per di più pre-conquista normanna), giammai neolatine. Se invece il principio guida è provare a rendere l’effetto dei nomi in un contesto linguistico neolatino, allora si abbandona la via della sonorità anglosassone per abbracciare quella del significato (giocare il gioco di Tolkien). Ovviamente ci sono diverse vie di mezzo. In certi casi mi pare che Fatica abbia mediato (vedi il caso Baggins/Casa Baggins), ma tendenzialmente ha optato invece per la seconda via, con il conforto dell’autore. Ad ogni modo, nessuna scelta che non sia conservarli renderà mai i nomi originali, bisogna ribadirlo. Poi, un bel giorno, si comincerà anche a parlare della traduzione della lingua e dello stile tolkieniani…

    • Hieronymus U. ha detto:

      “È come un dito puntato in alto verso il cielo. Non ti concentrare sul dito o perderai tutta la gloria del cielo”.

      Si perde tempo sulla resa dei nomi, invece di godersi la scioltezza del testo.

  23. Marius ha detto:

    Comunque ha ragione Wu Ming4, quando questa sterile levata di scudi sui nomi esaurirà la fiammata, finalmente si potrà parlare davvero del valore complessivo della traduzione, ed emergerà che questa traduzione è molto più fedele allo stile di Tolkien, molto più fluida e bella, senza gli inutili appesantimenti e barocchismi a cui il lettore italiano era abituato, per non dire assuefatto.

    • Hieronymus U. ha detto:

      @Marius, esatto. La nuova traduzione perde quel pachidermismo linguistico che ha – uso un termine forte – “ingannato” i lettori italiani per quarant’anni, facendogli credere che Tolkien fosse a parlare in quella determinata maniera. Come dici, si tratta di “assuefazione”, un’assuefazione derivata da decenni di cristallizzazione oppiacea, e passeranno forse anni prima che i lettori se ne accorgano. Mi riferisco ai lettori ancora aggrappati affettivamente alla vecchia traduzione, ma volenterosi e dalla mente aperta. Per quelli che vogliono rimanere rinchiusi nel proprio oppido a scudi serrati, non si potrà mai far niente, ahiloro. Almeno qui si discute finalmente a un certo livello, rispetto ai social, dove si combatte a insulti e numerini.

  24. Mauro Azzolini ha detto:

    Ho cominciato a leggere questa nuova traduzione e sono arrivato circa a metà. Non ho mai letto quella della Alliata e nomi e luoghi della terra di mezzo sono scolpiti nella mia memoria grazie alla versione di Principe. Tuttavia l’essere affezionato a quella non mi sta impedendo di apprezzare le tante modifiche proposte da Fatica.
    Certo ci sono alcuni punti deboli (Forestali è un errore non in termini di resa del concetto, ma perchè sovraccarico di ulteriori significati in italiano) ma i punti di forza sono enormemente superiori.
    Sono d’accordo con chi ha elogiato la capacità di Fatica di offrire al lettore la pluralità di registri di cui Tolkien ha innervato il Signore degli Anelli. La traduzione di Principe aveva appiattito (forse inutilmente) il testo su uno stile aulico e monocorde; affascinante, di certo, ma privo di strati. E sono d’accordo anche con chi ha apprezzato il coraggio di andare a toccare – soprattutto nei nomi – qualcosa di apparentemente sacro (Samvise, Pipino, Gaffiere, ecc.).
    Penso che il merito maggiore di questa traduzione sia quello di avere reso il testo più scorrevole, più comprensibile, più leggero e forse anche più alla portata di tutti.

  25. Raffaele ha detto:

    La traduzione sembra decisamente inferiore , sia sotto il punto di vista semantico (to rule=vincerli? Molto più corretto dominarli) che come adattamento, a quella storica. Si è persa completamente la metrica e le assonanze. Sembra un lavoro fatto per spregio e ricorda il caso Evangeluon/Cannarsi. Se le premesse sono queste ci sarà da citare Fantozzi con la corazzata Potiomkin..

    • Marius ha detto:

      Per “traduzione storica” quale intendi? Quella della Alliata o quella di Principe? Perché non potrebbero essere più diverse. Nonostante i discorsi su «Tolkien approvò la traduzione della Alliata ecc. ecc. ecc.», la traduzione vera della Alliata fu già sostituita molti anni fa, basta confrontare i testi Astrolabio e Rusconi. La traduzione della Alliata non è più sul mercato da una cinquantina d’anni, e molto evidentemente non è stato Ottavio Fatica a toglierla dalla circolazione…

  26. Giuspee ha detto:

    Volevo porre alla vostra attenzione un passo tratto dal secondo capitolo del primo libro della “Compagnia dell’Anello”, ossia “L’ombra del passato”, per sapere la vostra opinione sulla traduzione di un termine in particolare.
    Il brano originale è così: “A mortal, Frodo, who keeps one of the Great Rings, does not die, but he does not grow or obtain more life, he merely continues, until at last every minute is a weariness […]”. Volevo capire cosa pensaste della traduzione di ‘weariness’ di Fatica che recita così: ““Un mortale che detenga uno dei Grandi Anelli, Frodo, non muore ma non cresce né ottiene più vita, si limita a continuare finché da ultimo ogni istante viene in uggia. […]”.
    Secondo voi quel “venire a uggia” (a prescindere da quello che ho letto in alcuni commenti o giudizi sulla forma in sé, a me non dispiace ma pare che se usi una forma che si discosta dall’italiano colloquiale di ogni giorno allora sembra che stai resuscitando un vocabolo del medioevo!) è un’interpretazione corretta? Ho visto in vari vocabolari online inglesi che il termine originale, molto pregnante, ha due accezioni; riporto quelle del Cambridge: 1)”great tiredness” 2) “the state of being bored with something because you have experienced too much of it”. Mi sembra di capire che Fatica abbia optato nella traduzione per questo secondo significato, ma per me lì forse il termine era da rendere più per la stanchezza fisica e mentale dovuta al possesso dell’anello (penso al celebre passo quando Bilbo quando dice di sentirsi “come del burro spalmato su una fetta di pane troppo grande”). Nel Nuovo De Mauro ‘uggia’ sta per “senso di fastidio accompagnato da inquietudine; noia, tedio”. Ma è quello che si prova a furia di avere da tanti anni l’anello, come Gollum ad esempio?
    Sono curioso dei vostri pareri, magari Fatica ha azzeccato il senso e io l’ho mal interpretato.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Proprio in base alla tua ricostruzione di significato, “uggia” ci sta.

      Certo è un termine arcaico, ma si riferisce evidentemente al tedio di vivere, in questo caso vivere una vita sempre più rarefatta, lontana dalla luce, tanto più lunga quanto più priva di felicità (il burro spalmato sulla fetta di pane troppo grande, appunto). È la seconda accezione del Cambridge Dictionary per “weariness”:
      “the state of being bored with something because you have experienced too much of it”.

      Chiedi se si addice a Gollum? Io credo di sì. Mi vengono in mente almeno due passi in cui questa cosa emerge.
      Uno è il celebre passo de “Lo Hobbit” – uno dei più belli, a mio avviso -, quando Bilbo grazia Gollum, proprio perché si specchia in lui, vede in lui il proprio “what if”, e ha un moto di pietà:

      “A sudden understanding, a pity mixed with horror, welled up in Bilbo’s heart: a glimpse of endless unmarked days without light or hope of betterment…”.

      L’altro – altrettanto bello – è invece uno sguardo esterno su Gollum, quello del narratore nel “Signore degli Anelli”, quando il personaggio improvvisamente appare sotto una luce diversa:

      “For a fleeting moment, could one of the spleepers have seen him, they would have thought that they beheld an old weary hobbit, shrunken by years that had carried him far beyond his time, beyond friends and kin, and the fields streams of youth, an old starved pitiable thing.”

      Anche qui torna la parola “weary”, che evidentemente si riferisce proprio alla stanchezza di vivere, al tedio esistenziale di una vita troppo lunga e malamente consumata.

      • Giuspee ha detto:

        Innanzitutto grazie mille per la celere risposta. Devo ammettere che non ricordavo quei passi (segno che è tempo di rileggere non solo “Il signore degli anelli” ma pure il “Lo Hobbit” e il resto!), né li conoscevo in lingua originale (mi ha colpito ritrovare “weary” nel secondo brano), pertanto mi rendo conto ora che la soluzione di Fatica possa esprimere bene il senso della parola del testo originale. Oltretutto, qualche riga più avanti del brano che ho citato nel precedente commento, si trova pure questo in riferimento a Bilbo che possiede l’anello: “Though he was getting restless and uneasy”, tradotto da Fatica come “Anche se stava diventando irrequieto e turbato”. E anche questi sentimenti si adattano bene all’uggia più che alla mera stanchezza.
        Grazie ancora per questo scambio di vedute, è stato molto interessante.

  27. Andrea ha detto:

    Trovo che la nuova traduzione sofrra di un problema di base: lo scopo. Questa traduzione, molto dichiaratamente, non è stata fatta per rendere fruibile in italiano un testo in inglese, è stata fatta per svincolare dal dalla suo collocazione fantasy un’opera e portarla nel mondo dei “grandi romanzi”. La causa forse è una certa frustrazione nel rapportarsi al resto della letteratura, frustrazione di cui mi pare, fortunatamente, il grosso dei lettori non soffra. La traduzione non può essere sbagliata, essendo Fatica un professionista, ma l’indirizzo che gli è stato dato credo porti ad errori, sia di lessico che di forma. Mi stupisce (o forse no) che tutte le discussioni sui termini o sulle traduzioni di frasi specifiche terminino con “ma Fatica è stato più fedele al testo originale” anche quando questa evidenza non c’è; i riferimenti alla guida ai nomi usati solo quando fa comodo, l’araldica tirata in ballo nelle insegne delle taverne, parole inglesi che non esistono nell’OED ma poi invece in quaranta secondi di google si trovano…
    Vedendo i commenti di Wu MIng 4 mi pento di avergli dato un certo credito, dopo l’ottima lettura di “Difendere la Terra di Mezzo”.

    • Wu Ming 4 ha detto:

      Solo a scanso di equivoci, Andrea, una precisazione: i miei commenti in questo thread sono ricostruzioni (più o meno plausibili) di come Fatica ha lavorato, ovvero mie ipotesi e interpretazioni del suo lavoro sul testo. Io non sono un traduttore, non conosco a menadito l’OED, non saprei dirti se le mie ipotesi possono trovare conferma o no. Tanto meno sono sovrapponibile a Fatica, a Bompiani, o all’intera operazione editoriale, che è stata gestita inevitabilmente dall’editore, dai redattori, e dal traduttore. L’AIST (e non nella mia persona) ha avuto soltanto un ruolo di consulenza.

      Detto questo, può darsi che per te fare ritradurre il più famoso romanzo di Tolkien da un traduttore letterario esperto, dopo che per mezzo secolo ci siamo tenuti una traduzione fatta da una dilettante, editata da un musicologo prevalentemente traduttore dal tedesco che non conosceva Tolkien, rivista e rammendata dalla STI, non sia uno scopo nobile. Per qualcuno invece ce n’era bisogno.
      Quanto agli errori di lessico e di forma – con l’eccezione dell’ormai stigmatizzato “Forestali” – direi che sono opinabili.