Gli Anelli del Potere:
il sesto episodio

Gli Anelli del Potere giunge al sesto episodio, che inaugura la fase conclusiva di questa seconda stagione dello show targato Amazon. Come il precedente (ne abbiamo parlato qui), anche questo offre uno spettacolo a tratti persino piacevole ma paga il fio di tanti problemi di trama che si sono accumulati nel corso dello show.

Qualcuno volò sul nido dell’Eregion

La parte senz’altro più importante dell’episodio è quella ambientata nell’Eregion, sempre più il centro nevralgico di questa seconda stagione: qui, un Celebrimbor vieppiù stanco ed afflitto è ancora alle prese con la forgiatura degli Anelli ma, mentre con i Tre ed i Sette è filato tutto liscio come l’olio, i Nove sembrano proprio – non chiediamone il perché – dargli del filo da torcere. Così, il maestro elfico ora sbatte la testa sui bozzetti, ora si lambicca senza costrutto su quali metalli utilizzare («Più argento, più mithril») come se il potere degli Anelli dipendesse da miserrime scelte di design o di materiali. Avevo già scritto che la serie sembra rappresentare Celebrimbor più che come il maestro artigiano che è, come il più abusato stereotipo del CEO miope e meschino: ed in questa puntata l’impressione è riconfermata da una scena che più telefonata non si potrebbe, in cui questi battibecca con l’elfa già vista nella precedente puntata (colpevole solo di preoccuparsi per lui) e le lancia un odiosissimo «What’s your name again?». Tralasciamo che la forgia di Celebrimbor non è – non dovrebbe essere – un’azienda di Wall Street il cui boss possa ignorare il nome dell’ultima stagista ma qualcosa di più simile a una bottega d’artista popolata di esseri millenari (quindi, è un po’ come se il Verrocchio non ricordasse il nome di quel giovanotto con cui ha dipinto Il battesimo di Cristo). Agli showrunner, però, un siparietto così trito non basta: occorre proprio mostrare che Celebrimbor non ricorda davvero il nome della malcapitata («Certo che lo rammento, è solo… dammi un minuto»), anzi, che sta proprio perdendo colpi! Nelle intenzioni degli autori, tutto questo dovrebbe dare la misura del titanico sforzo che la forgiatura degli Anelli comporta e, più sottilmente, dell’influsso crescente di Sauron su Celebrimbor; eppure l’effetto è talmente stantio e maldestro da immiserire (ancor più di quanto fatto finora) uno dei personaggi più importanti del legendarium tolkieniano, presentandolo né più né meno come uno che ha già una camera riservata all’RSA degli Elfi. Roba che, in confronto, il trattamento jacksoniano della follia di Denethor è pura filologia.
Ovviamente, il Signore dei Doni non esita ad aggiungere il reato di circonvenzione d’incapace alla sua fedina penale, relegando Celebrimbor nella sua forgia e, di fatto, esautorandolo dalla signoria dell’Eregion mentre le ombre della guerra incombono minacciose. Trovo molto suggestiva la scena in cui il maestro elfico ode i trambusti che preludono alla battaglia e, imponendosi di uscire a vedere cosa succede fuori, cade vittima dell’illusione di Annatar; eppure, persino un momento così ben realizzato sortisce un effetto particolarmente tedioso all’interno di una narrazione così claudicante.
Il problema sempre più evidente è che avendo stravolto non solo la cronologia, ma il senso stesso degli Anelli del Potere e della loro forgiatura, gli showrunner si sono costretti a mettere in piedi una linea narrativa del tutto traballante e priva di senso. Episodio dopo episodio, emerge con forza crescente l’assurdità dell’idea di un Celebrimbor che prima realizza gli Anelli elfici (i quali dovrebbero rappresentare l’apice della sua Arte) e dopo fatica a creare quelli degli Uomini – inopinatamente innalzati a rappresentare «la perfezione dei Tre». Agli showrunner sarebbe bastato seguire fedelmente Tolkien e mostrare un personaggio che, pur attratto dalla sapienza di Annatar, rimanesse guardingo, accettasse i rischi di una collaborazione che sapeva benissimo essere pericolosa e, infine, realizzava in segreto i Tre, immacolati dall’influenza dell’Oscuro Signore. Qual è la miglioria che gli stravolgimenti operati della serie apportano alla storia originale? Anche a non voler chiamare in causa questioni di fedeltà al testo di partenza (che lasciano il tempo che trovano di fronte a uno show che, pur pretendendo di basarsi su Tolkien, ne reca solo un’esilissima traccia), in che modo presentare la forgiatura degli Anelli in questa sequenza delirante avrebbe senso anche solo da un punto di vista narrativo?

Vermi di mare e vermi incoronati

Voliamo a Númenor, dove Pharazôn ha la possibilità di sbarazzarsi di un Elendil ridotto in catene ma, chissà perché, gli offre la grazia in cambio della fedeltà: un gesto del tutto insensato, che pare messo lì solo per coprire minutaggio e dare al nobile Capitano un’occasione per rifiutare sdegnosamente ogni compromesso con un discorso che più in stile «Sono Massimo Decimo Meridio…» non si potrebbe. Anche allora, l’usurpatore non ordina la pena capitale perché «non desidera inimicarsi ulteriormente i Fedeli» – gli stessi a cui ha inflitto purghe, arresti, distruzioni di templi e via dicendo: evidentemente non sono ancora così arrabbiati. Boh! Alla fine, esce fuori un’antica legge e si dispone che Elendil venga sottoposto al giudizio dei Valar con un’ordalia. Immancabili la scena del condannato che incontra la bella dama in cella (da Braveheart al Gladiatore al Trono di Spade, l’abbiamo vista in tutte le salse) e l’accenno di romance tra Elendil e Míriel (in questa serie gli amori si sprecano proprio) che sciupa l’encomiabile fedeltà del Capitano trasformandola in un attaccamento personale; eccoci infine tra le aspre scogliere númenóreane, in attesa che il Verme del Mare decida del fato dei Fedeli. Mentre Elendil si appresta con coraggio al supplizio, interviene Míriel con un cavillo che manco “Robin Hood ha diritto a un altro tiro!” e poi è tutto un «Vado io», «No vado io», «Va bene vai tu». L’indomita regina, novella Andromeda, si getta tra i flutti e un polpo-squalo nasuto (in CGI un po’ cheap) la risputa a terra: ed è subito un po’ Richard Benson, “Manco er Tevere t’ha voluto!”. Ma pazienza, il responso è stato dato e Míriel riprende il trono mentre Pharazôn, il vero verme della situazione, rimane a bocca aperta. A questo punto, qualcuno tra i presenti dovrebbe alzare un dito e chiedere come mai i Valar, tra Aquile e Vermi, inviino segni così contrastanti ma niente: tutti inneggiano a Míriel e anche questa puntata l’abbiamo portata a casa.
Che dire? Quella di Númenor, insieme a quella di Khazad-dûm, resta la linea narrativa meno pasticciata della serie ma sembra proprio che gli showrunner stiano lavorando di gran lena per rovinarla. Ho già notato in precedenza come sia una prerogativa dello show targato Amazon presentare l’Arda della Seconda Era come un mondo già ampiamente corrotto, con o senza lo zampino di Sauron. Ebbene, anche la rappresentazione del popolo númenóreano segue questa logica e non lesina meschinità, codardia e gesti ignobili. Sarebbe stato più coerente con le fonti originali e più convincente dal punto di vista narrativo mostrare una decadenza graduale, la corruptio optimi di cui parlavo in precedenza, e raccontare di un popolo nobile irretito e portato alla follia dalle trame dell’Oscuro Signore. Ma niente da fare: agli autori occorre proprio mostrare i númenóreani come se fossero usciti dal Trono di Spade (in cui, però, l’amoralità e l’assenza di figure del tutto positive o negative è parte integrante della storia). Non dico che sia sbagliato in sé inserire materiale narrativo nella cronaca degli ultimi giorni di Númenor, di per sé estremamente scarna nelle varie fonti tolkieniane: ma aggiungere colpi di scena banali e plot twist mediocri solo per allungare il brodo in una storia di cui anche il più digiuno di Tolkien sa già il finale non è certamente una prova di buona scrittura.

I Nani hanno paura dei pipistrelli

Frattanto, a Khazad-dûm, Re Durin scopre le leggi del mercato (l’aumento della domanda influisce sul prezzo dell’offerta, genio!) e rifiuta di offrire ad Annatar altro mithril ma solo per giocare al rialzo nelle contrattazioni successive. Non che questo fermi l’intraprendente Signore dei Doni: questi, infatti, riesce a procurarsi in qualche modo il prezioso materiale. La dinamica padre-figlio continua a trainare questa linea narrativa: Durin jr. chiede al re di togliersi l’Anello per dimostrare che non ne è schiavo e questi tenta ma fallisce e reagisce con ira (confermo: a me Peter Mullan piace davvero tanto). Così, Durin e Disa organizzano una resistenza ai lavori di scavo in stile No-TAV: la scena in cui Disa scaccia i minatori con un urlo vibrante (Na na na na na na na na) che richiama i pipistrelli sembra uscita da Batman Begins e costituisce l’unico exploit di una manciata di scene certamente non memorabili.

Tom Boh… mbadil

Infine, tra le riarse pietraie del Rhûn, lo Straniero continua il suo apprendistato con un Tom Bombadil un po’ Yoda, un po’ maestro Miyagi. Questi gli offre perle di saggezza come «Molti che muoiono meritano la vita eccetera» (l’allievo se ne ricorderà a tempo debito) e lo informa che finora ha fallito tutte le prove cui è stato sottoposto. Rimane l’ultima, dopo la quale «non ce ne sarà un’altra»: la ricerca del suo bastone, a conferma definitiva che gli showrunner confondono il legendarium tolkieniano e il wizarding world rowlingiano. Ma trovare questo benedetto pezzo di legno in mezzo al nulla comporta una scelta: l’apprendista Stregone, infatti, dovrà decidere se correre in aiuto di Nori e Poppy o compiere questa missione da cui dipende il destino di molti. Così, Tom gli dice: «Troverai il tuo vero bastone solo quando la visione del tuo cuore sarà solo una al servizio del Fuoco Segreto». Ora, che lo Straniero sia o meno Gandalf (a questo punto, ci potremmo aspettare di tutto), egli è in ogni caso un Istar e l’idea che non sia già al servizio del Fuoco Segreto è una pura e semplice follia narrativa.

«Ti ha suonata come un’arpa» 2.0

Il primato dell’assurdità spetta però alla strana coppia Adar-Galadriel. L’intrepida dama elfica, che finora ha rifiutato sprezzantemente ogni proposta di aiuto, ora si mostra stranamente disponibile a un’intesa col Signore-Padre degli Uruk, lo stesso che rammemorava commosso la sua investitura da parte di Morgoth in persona e che ora dice di volere la pace per il suo popolo, pace che Sauron metterebbe a repentaglio. Tutto credibilissimo, Adar ha fatto anche cose buone e Galadriel trova del tutto normale fidarsene. Ad un certo punto, scopriamo perfino che la corona con cui il Signore-Padre ha “ucciso” Sauron è nientemeno che quella appartenuta a Melkor e che il suo potere (quale?), combinato con quello degli Anelli elfici, potrebbe spazzare via Sauron. Tralasciamo l’assurdità di una simile idea (dove si è mai detto che i Tre siano armi?): potrebbe essere una menzogna di Adar, dopotutto; il problema enorme è che la proposta pare non disturbare per nulla l’intrepida elfa – giusto l’unica volta in cui fare la Karen poteva avere senso – ed anzi la convince ad accettare la scomoda alleanza e a rivelare a Adar che Halbrand è Sauron, che si trova nell’Eregion e che l’esercito del Lindon è già in marcia. «L’ho sempre saputo», sussurra il Signore-Padre (ma allora perché ha lasciato andare l’acerrimo nemico quando era in suo potere?) e, ottenute tutte le informazioni che gli servivano, può liberarsi di Galadriel e radunare il suo esercito per attaccare l’Eregion. Così, Galadriel si ritrova «suonata come un’arpa» per la seconda volta, alla faccia della saggezza elfica! L’intrepida protagonista, però, deve cadere in piedi sempre e comunque: quindi, sa già che tutto questo fa parte delle macchinazioni di Sauron, il quale sta attirando l’esercito degli orchi nell’Eregion per assumerne il comando a spese di Adar (ma allora perché non l’ha fatto prima?). A questo punto, chiederei a chi legge di spiegarmi il senso di tutto ciò perché a me francamente sfugge.

I problemi del materialismo e dell’attualizzazione a ogni costo

A mio avviso, i problemi di questa serie si fanno via via più evidenti. Il primo – ne ho già parlato – è la volontà di attualizzare ad ogni costo storie, contesti e personaggi facendo apparire questa versione del Mondo Secondario di Tolkien come una copia sbiadita del nostro Mondo Primario così com’è oggi. Tutto ciò si risolve in un tedioso grigiore morale che, perfettamente funzionante in un universo narrativo come quello del Trono di Spade – ove è strumentale alle amare considerazioni di Martin sulla natura umana -, lo è meno in uno che pretende di richiamarsi a Tolkien, autore che certamente non offre visioni manichee tra bianco e nero, ma nemmeno esita a individuare eroi e nemici e a presentarli come tali. Il secondo è, invece, la continua dipendenza della narrazione dagli oggetti (il mithril, gli Anelli, il Palantír, il bastone dell’Istar e via dicendo). Si obietterà che gli oggetti hanno una parte fondamentale anche nella scrittura tolkieniana e questo è indubbio: ma è, appunto, fondamentale e non preponderante. Essi sono pur sempre strumenti nelle mani dei personaggi, ai quali spetta la decisione e la responsabilità del loro utilizzo. Nella serie Amazon, invece, la categoria dell’oggettuale ha al contempo molto meno senso e identità che in Tolkien e, paradossalmente, molta più prepotenza in termini di narrazione, mentre i personaggi paiono più che altro agiti da questo o da quell’artefatto, buono o cattivo che sia. Attendiamo con ansia il finale di stagione, sperando in un colpo di coda che salvi il salvabile.

 


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2 Comments to “Gli Anelli del Potere:
il sesto episodio”

  1. paolo ha detto:

    Potreste spiegarmi cosa vuol dire quando si parla di “Karen” (credo come archetipo narrativo)? Grazie!

  2. Paolo ha detto:

    “Karen”, più che un archetipo, rappresenta uno stereotipo narrativo che solitamente è indice di una cattiva scrittura dei personaggi femminili: in particolare della donna bianca (preferibilmente bionda), privilegiata e benestante e ciononostante petulante e pretenziosa. Il classico personaggio da cui ci si può aspettare cose del tipo “Lei non sa chi sono io”, “Lei sa chi è mio marito?” o “Posso parlare col suo direttore?”. Insomma, una macchietta fastidiosa.

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