A lungo i Primogeniti dimorarono nella loro prima casa accanto all’acqua sotto le stelle, e percorsero la Terra pieni di ammirazione; e presero a formare discorsi e a dar nome a tutte le cose che scorgevano. Chiamarono se stessi Quendi, che significa “coloro che parlano con voci”.
Come tutti sappiamo, il germe che sta alla base del legendarium di J.R.R. Tolkien è il suo amore per le lingue: fu per dare vita alle lingue elfiche che il Professore decise di creare un popolo che le parlasse, e un mondo nel quale questi potessero vivere e dare origine a storie e leggende. Le lingue elfiche hanno quindi un lessico, una grammatica, un proprio sistema di scrittura, una storia e un’evoluzione legate ai popoli che le parlano, proprio come succede per le lingue naturali.
Si tratta quindi di un argomento che da sempre suscita curiosità e affascina i lettori: per questo motivo l’AIST ha deciso di dedicare proprio alle tengwar il primo volume di una nuova collana dedicata alle lingue della Terra di Mezzo.
Le lingue della Terra di Mezzo
Questa collana, scritta e curata dall’AIST, è edita in collaborazione con Polini editore, nell’innovativo formato del quart: i libri sono manuali tascabili senza dorso, che si sfogliano con una sola mano. In questo modo, è possibile prendere appunti con l’altra mano o esercitarsi nella scrittura. I volumi sono illustrati e a colori, corredati di schemi riassuntivi volti a semplificare la lettura. L’obiettivo di questa collana è infatti quello di proporre libri fruibili anche da chi si avvicina per la prima volta a questo tipo di argomenti, sempre basandosi strettamente sui testi di Tolkien e mantenendo un alto livello di rigore filologico. Le fonti principali utilizzate sono infatti i testi di Tolkien e le riviste specializzate Parma Eldalamberon, Vinyar Tengwar e Quettar; inoltre, i primi due volumi usciti possono vantare la supervisione di Edouard Kloczko, il più affermato studioso di lingue elfiche, autore di Lingue Elfiche, dizionario e grammatica del Quenya, uscito in Italia per la Tre Editori. La collana completa comprenderà nove volumi: siccome sulla quarta di copertina ognuno di loro riporta una porzione della mappa della Terra di Mezzo, completando la collezione sarà possibile comporre l’intera mappa.
Scrivere in Tengwar
Questo volume è nato per essere un manuale di agile consultazione sull’arte di scrivere in Tengwar. Questo sistema di scrittura fu inventato da Tolkien verso il 1931: il suo obiettivo era quello di creare un sistema armonico e raffinato. All’interno del legendarium, l’inventore delle Tengwar fu Fëanor, un Elfo della stirpe dei Noldor, il creatore dei Silmarilli. Si tratta di una serie di segni grafici che gli Elfi adattavano ai loro modi di scrittura per rappresentare i segni delle varie lingue. Scrivere in tengwar infatti non significa automaticamente scrivere in elfico: tradurre un nome o traslitterarlo semplicemente sono due cose ben diverse. Così come accade per l’alfabeto latino, il segno grafico “A” ha un certo suono quando è usato per la lingua inglese, e un altro per la lingua italiana. Per questo motivo il libro prende in esame il modo generico, che gli Elfi usavano quando si trattava di opere di linguistica o per rappresentare lingue straniere; il modo Classico, usato dai Noldor (quindi perlopiù per il Quenya), quello del Beleriand usato dai Sindar (quindi perlopiù per il Sindarin) e una proposta di modo italiano. Infatti, siccome Tolkien usava spesso le tengwar per scrivere in inglese, mettendo a confronto questa modalità di utilizzo e quella da lui usata per rappresentare il latino, è possibile ipotizzare un modo adatto per abbinare tengwar e fonemi della lingua italiana.
Il libro comprende quindi, oltre a queste informazioni, le pagine dedicate a ognuna delle 24 tengwar principali più 13 aggiuntive, che mostrano la tengwa nel rigo di scrittura, ne riportano il nome in elfico e in italiano e il suono che rappresenta nei modi sopraelencati.
Completano il volume, come anticipato, tabelle riassuntive, esempi d’uso e le bellissime illustrazioni diSimona Calavetta; la copertina è disegnata sempre dalla stessa artista e colorata da Ivan Cavini.
I numeri in Tengwar
Il secondo volume è sempre legato al popolo degli Eldar, nello specifico a come venivano scritti i numeri in elfico e alle modalità che gli Elfi usavano per contare. Ancor più delle tengwar, si tratta di un argomento finora mai analizzato nel dettaglio, che permette però di aprire un’interessante finestra sulla vita quotidiana degli Elfi.
Il libro spiega quindi entrambe le modalità di numerazione degli Elfi, quella decimale e quella duodecimale, mostrando anche quando preferivano la prima e quando la seconda.
Anche qui, abbiamo le pagine dedicate a ogni singola cifra, mostrata sul rigo di scrittura, e corredate, ove presente del nome in Quenya e in Sindarin. Successivamente, viene spiegata l’interessante questione del conteggio con le mani: come gli Elfi le disponevano, e come questo sistema si è evoluto nel tempo. Questo fatto ha inciso quindi sull’etimologia dei nomi: nomi dei numeri e nome delle dita sono legati tra di loro. Non solo: i bambini Elfi si divertivano a inventare filastrocche con le dita, immaginando la mano come fosse una famiglia; dunque risulta interessante anche confrontare come i nomignoli dati dai bambini alle dita abbiano influito sulle nomenclature dei numeri.
Nella parte finale del libro è quindi possibile scoprire la storia di questi nomi e i loro legami, partendo dall’Eldarin comune per arrivare al Quenya e al Sindarin.
Anche questo libro comprende tabelle riassuntive ed esempi pratici, volti soprattutto a chiarificare l’utilizzo del sistema duodecimale, al quale solitamente non siamo abituati, e le illustrazioni di Simona Calavetta, con la copertina colorata da Ivan Cavini.
Per chi volesse acquistare questi volumi, potete venire a trovarci allo stand negli eventi in cui siamo presenti, oppure scrivere direttamente all’indirizzo mail shop@jrrtolkien.it e saremo felici di spedirvelo!
Scrivere in Tengwar
testi di Sara Gianotto; a cura di Roberto Arduini con la supervisione di Edouard Kloczko e Lorenzo Gammarelli. Illustrazioni di Simona Calavetta, colori copertina di Ivan Cavini.
Polini Editore e Associazione Italiana Studi Tolkieniani, 2017
100 pagine, colori
12 euro
I numeri in Tengwar
testi di Roberto Arduini; editing di Sara Gianotto, la supervisione di Edouard Kloczko. Illustrazioni di Simona Calavetta, colori copertina di Ivan Cavini.
Polini Editore e Associazione Italiana Studi Tolkieniani, 2017
100 pagine, colori
12 euro
Il Tolkien Day 2017 si sta avvicinando in maniera inesorabile. Come ogni giorno continuiamo a proporvi dei contenuti esclusivi per accompagnarvi fino al giorno dell’evento, il 25 marzo, giorno in cui si terrà la manifestazione organizzata dall’Associazione Italiana Studi Tolkieniani in collaborazione con LudoManiacs. Il programma è stato oramai comunicato da qualche giorno e, in precedenza, vi abbiamo presentato alcuni degli ospiti e dei temi che occuperanno la giornata, tra cui la poesia, la musica, con special guest gli Holy Martyr. Oggi è la volta di Roberta Tosi, critica e curatrice d’arte oltre che presidente della Compagnia degli Argonath di Verona, che terrà una conferenza intitolata Esiste un’arte Elfica? Tolkien e la creazione letteraria nella Terra di Mezzo alle 16.15 presso il Macro Cafè. Nell’intervista che segue si parlerà di Elfi, di arte e del nuovo romanzo fantasy dell’autrice Nicolas Kee e il Viaggiatore del Domòn (Delmiglio editore).
L’intervista
Benvenuta Roberta nel sito dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Siamo felici di averti qui e grazie del tempo. Iniziamo questa discussione parlando ovviamente di come hai scoperto J.R.R. Tolkien.
Mi sento onorata di essere qui, grazie a voi. Venendo invece subito alla prima domanda, posso dire di aver scoperto Tolkien per caso. Quando frequentavo il liceo (ormai un bel po’ di tempo fa) nessuno dei miei amici sapeva chi fosse quest’autore, all’epoca non erano ancora usciti i film. Io sono sempre stata una grande lettrice, da ragazzina divoravo letteralmente i libri e più erano voluminosi, più ci andavo a nozze. Quando vidi per la prima volta sul bancone di una libreria di Verona, Il Signore degli anelli, fu amore a prima vista. Non avevo idea di cosa fosse, né di cosa parlasse ma quel libro stava chiamando me! Non potei comprarlo subito, perché per le mie finanze era un po’ costoso ma alla prima occasione me lo feci regalare.
Qual è stata la tua prima impressione quando hai finito il primo libro di Tolkien?
Credo di aver pianto alla fine, per il distacco, la separazione nella storia e perché io stessa ormai l’avevo finito. Tuttavia, avevo anche chiara la sensazione di aver letto qualcosa di grandioso, di epico, che facevo fatica a lasciare andare.
Assieme alla tua attività con la Compagnia degli Argonath hai sempre portato avanti la passione per l’arte, che poi è diventata il tuo lavoro. Come sappiamo J.R.R. Tolkien era anche un buon illustratore, tu in che modo lo definiresti?
Tolkien è sorprendente, anche in questo. La stessa accuratezza con la quale crea le sue storie potremmo dire che viene riportata anche nel disegno, nell’illustrazione, nell’acquerello, che era la tecnica da lui più utilizzata. Non lascia niente al caso, neppure qui. Non era un professionista ma per la cura che riservava alle sue illustrazioni, si comportava come tale.
Se dovessi avvicinare Tolkien a un grande della pittura, chi sceglieresti e perché?
Se ci riferiamo alla sua espressività narrativa, all’infinità di particolari e dettagli che arrichiscono l’affresco delle sue storie, lo avvicinerei a un artista fiammingo, di quelli vissuti tra 4-500. Un Jan Van Eyck per intendersi, oppure un Hans Memling, anche se quest’ultimo era di origine tedesca, dove non mancano gli elementi soprannaturali, in certi casi potremmo dire quasi fantastici, ma sono resi con una precisione molto realistica così come ogni singolo particolare, ogni stelo d’erba è rappresentato con una cura infinita.
Al Tolkien Day terrai una conferenza sugli Elfi e l’arte. È, secondo te, questa razza a rendere maggiormente l’armonia della pittura? Se sì, in che modo?
Io credo che più che l’armonia della pittura, gli elfi incarnino proprio una sensibilità particolare nei confronti della realtà, che è tipica degli artisti. Ci sono vari indizi in cui Tolkien ci mostra questa loro specificità. Nel SDA, per esempio, vi è quel dialogo molto bello tra il concreto Gimli e l’acuto Legolas riguardo alle azioni degli uomini in cui il primo ne vede solo l’aspetto fallimentare “ed essi non portano a compimento la loro promessa”. L’altro invece ha uno sguardo che va oltre, anche se non ha tutte le risposte:
“Eppure è raro che i loro semi non germoglino”. Questo è l’atteggiamento tipico dell’artista che dà vita alla propria opera perchè sente che quella è la strada da percorrere, che i frutti del suo lavoro sono sempre davanti a lui, non alle spalle.
Gli Elfi sono sicuramente la razza che più affascina gli amanti del fantasy, anche al di là del mondo tolkieniano. Qual è il motivo, secondo te?
Secondo me, nell’immaginario collettivo, gli elfi rappresentano il meglio di un’umanità redenta: l’uomo come avrebbe potuto essere. Sono tutti belli, saggi, vivono in armonia con la natura e mantengono un giusto equilibrio con la realtà circostante. Si occupano di poesie e canti, di arte in generale. In più sono i custodi della bellezza sulla terra (almeno sulla Terra di Mezzo). Non ultimo, sono immortali, sempre che non vengano uccisi.
In realtà Tolkien ci dice anche che “non tutto quel ch’è oro brilla”. Gli elfi non sono solo così, intoccabili e splendenti. Anche loro si lasciano sedurre e ingannare. Melkor, ne Il Silmarillon, riuscirà a rubare infatti le preziose pietre, i Silmaril, causando proprio l’esodo degli elfi e le lunghe lotte che ne seguirono. Ne Lo Hobbit gli Elfi Silvani non si presentano proprio così ospitali come la loro razza vorrebbe. E perfino nel SDA sono molto cauti nel dare il loro aiuto nel momento del bisogno.
Insomma una bella razza sì, ma meglio andarci piano con l’entusiasmo.
Sono stati pubblicati diversi libri sull’arte di Tolkien, da “L’arte de Lo Hobbit” a quella de “Il Signore degli Anelli”. Come giudichi queste opere?
Sono pubblicazioni molto interessanti che raccontano l’evoluzione del pensiero di Tolkien anche nella sua rappresentazione figurativa. Sono un tassello ulteriore nella conoscenza dell’opera del Professore che ci rivelano quanto fosse preciso, come dicevo prima, nella narrazione, di quanto avesse pensato, immaginato ma anche raffigurato le parti salienti della sua opera. Si può apprezzare, passo dopo passo, lo studio stesso di particolari come la caverna di Bilbo, o la montagna di Smaug, o l’elaborazione della mappa della Terra di Mezzo e così via… Diciamo che parlano molto della sua arte in riferimento però alle opere letterarie, non tanto come fine a se stessa
C’è qualche autore fantasy contemporaneo che ritieni in grado di eguagliare o di avvicinarsi al modo di dipingere (per iscritto) i luoghi e i personaggi di Tolkien?
Di eguagliare sinceramente no. Almeno a me non viene in mente nessuno. L’unico che forse un po’ si è avvicinato è Michael Ende, con la Storia Infinita. Non a caso Ende era figlio del pittore surrealista Edgar… Un altro artista appunto.
Per quanto riguarda te, invece, hai qualche altro scrittore fantasy di riferimento oltre a Tolkien?
La risposta sembra quasi banale ma chi, in questi ultimi anni mi ha davvero entusiasmato è stata J.K. Rowling con, ovviamente, la saga di Harry Potter.
Dopo diversi saggi scritti e mostre curate hai deciso di buttarti nel mondo della narrativa fantasy. Puoi raccontarci com’è accaduto?
Devo dire che, in questo caso, vi ha contribuito molto la mia frequentazione degli artisti. Quando parlo con loro, in libertà e mi faccio raccontare la nascita della loro opera spesso ricorre questa frase “Quando creo, mi isolo nel mio mondo”.
Quale mondo? Mi è venuto spontaneo chiedermi. In che mondo vanno gli artisti quando creano? I pittori, gli scultori, ma anche i musicisti, gli scrittori?
Questo è stato lo spunto per iniziare il mio racconto.
Il tuo primo romanzo Nicolas Kee e il Viaggiatore del Domòn sarà pubblicato a breve. Da dove viene l’idea di base?
L’idea nasce proprio da quanto detto prima e dal fatto che in molte delle vite documentate degli artisti del passato sembra sempre che ci sia un vuoto temporale in cui questi “spariscono” dalle cronache del loro tempo per ricomparire soltanto con la loro prima opera accertata. Un vuoto che mi ha consentito di rendere più concreta la mia idea di partenza.
Cos’è il Domòn e cosa ti ha ispirato nella scelta?
Il Domòn è proprio questo mondo delle idee e dell’arte, della creatività e della visione. In fondo è una sorta di mondo, come il nostro, in cui vi è qualcosa in più o qualcosa di meno a seconda del punto di vista. Mi ha ispirato la vita di un artista, in particolare, che faceva proprio al caso mio.
Molti romanzi fantasy hanno alla base qualche tratto autobiografico. Il tuo ne ha qualcuno?
Sicuramente sparsi qua e là ci sono degli elementi che si ricollegano al mio vissuto. Il protagonista, per esempio, è un ragazzo che legge molto, come ho sempre fatto io anche alla sua età e, allo stesso tempo, disegna e riempie album e quaderni di schizzi e disegni. Io, fino alle medie, facevo esattamente così. Ho ancora i miei quaderni pieni delle storie che inventavo, disegnando a fumetti…
Nel tuo libro occupa un posto importante la figura di Tintoretto. Come prima cosa ti direi se vedi qualcosa in comune tra Tintoretto e Tolkien…
Non vedo molte affinità tra i due perché se il primo era molto frenetico in tutto ciò che faceva, l’altro era invece molto più metodico anche se un po’ disorganizzato. Però una cosa li accomuna senz’altro: entrambi sono stati dei “visionari”, per il tempo in cui vivevano, anche se in modi totalmente diversi.
Perché proprio Tintoretto?
Non ricordo molto della storia dell’arte studiata alle superiori, per non dire quasi niente. Solo un’opera mi rimase impressa nella mente, in quel periodo, un’opera proprio di Tintoretto. Si trattava del “Ritrovamento del corpo di San Marco”. Quell’opera, non so perché, mi colpì e mi accompagnò per molto tempo fino a quando non iniziai a studiare sul serio. Tintoretto poi l’ho trovato perfetto per il mio racconto per via della sua arte, così anticonformistica nel XVI secolo, ma non tanto per i soggetti rappresentati ma per la frenesia della sua creatività, per l’impulsività della sua pennellata e il desiderio di esserci, sempre, seppur tra luci e ombre. E poi sicuramente anche per le sue vicende personali, la sua vita ma non voglio rivelare troppo…
Il Domòn è descritto proprio come fosse il paesaggio di un quadro. Avevi qualche particolare opera in mente quando lo mettevi su carta?
Beh, questo è un bellissimo complimento e me lo tengo stretto, grazie. In realtà no, non avevo un riferimento in particolare ma vivendo in mezzo alle opere d’arte, ai dipinti, credo che questi, nel procedere con la descrizione dei luoghi, mi venissero in soccorso per poterli descrivere e raccontare meglio.
Quanto hai lavorato sull’idea e sulla stesura prima di arrivare a una forma definitiva?
L’idea, una volta focalizzato il punto di partenza, in realtà è venuta da sé. Avevo chiaro l’impianto narrativo ma non sapevo ancora che forma avrebbe preso. Credo di aver lavorato quasi un anno al racconto. Poi, la stesura definitiva, ha visto mie continue riprese, correzioni, cambiamenti, accorciamenti. Un po’ come la famosa tela di Penelope… mi sembrava non potesse essere mai finito e questo si è protratto per molto, molto tempo.
Da critica d’arte ti sei affidata a un noto artista per la realizzazione della copertina. Com’è nata la tua collaborazione con Friba?
Friba è un artista straordinario, umanamente e professionalmente. Mi contattò lui stesso quasi due anni fa. Friba è originario di Rimini e aveva saputo che avevo portato al Meeting di Rimini la mostra che avevo curato dal titolo “In te c’è più di quanto tu creda”, dedicata a Lo Hobbit. Lui non aveva fatto in tempo a vederla ma mi comunicò subito la sua grande passione per Tolkien. Iniziammo così a confrontarci su tanti aspetti sia letterari che artistici, trovando molti punti in comune. In entrambi vi era il desiderio di poter realizzare qualcosa di bello insieme, che avesse a che fare col fantasy. Lo scorso anno gli parlai allora di questo mio romanzo… Io speravo davvero che l’idea gli piacesse perchè, secondo me, sarebbe stato in grado di realizzare una copertina e delle immagini favolose con un soggetto così. Volle leggere il libro, anche se non definitivamente corretto, e, devo dire, si entusiasmò. Mentre lo leggeva infatti iniziava già a realizzare dei bozzetti per delle future illustrazioni. Da lì poi il passo fu breve e oggi il frutto di questa collaborazione e della sua maestria si può apprezzare vedendo la copertina del mio libro, con l’augurio che questo sia solo il primo…
Hai già in mente se e come continuare la storia di Nicolas?
Non posso anticipare troppo ma penso proprio che Nicolas non abbia concluso del tutto la sua storia e quindi sì… andrò sicuramente avanti. Se ne vedranno delle belle…
Se dovessi convincere una persona a leggere il tuo libro, su cosa punteresti per differenziarti dai molti fantasy in commercio?
Che bella domanda! Forse bisognerebbe farla ai futuri lettori però io potrei dire questo: Se ti piace leggere il fantasy ma sei stufo di elfi e draghi, se ami l’avventura e l’arte, se credi che questo mondo abbia ancora bisogno di eroi, anche se i più impensati, e, nonostante ti dicano il contrario, pensi che che la letteratura fantastica sia un modo meraviglioso per guardare alla realtà da un’altra angolatura, beh… allora sei sul libro giusto.
Questo è Nicolas Kee e il Viaggiatore del Domòn.
Tutto pronto per la nuova edizione di Lucca Comics & Games, il Festival internazionale dedicato al fumetto, al gioco e all’illustrazione, che si terrà a Lucca dal 28 ottobre al 1 novembre. Come ogni anno, l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani tiene i suoi seminari durante Lucca Comics & Games, all’interno di Lucca Games Educational con l’obiettivo di approfondire alcuni aspetti delle opere di J.R.R. Tolkien, anche su tematiche meno conosciute. Il tema di quest’anno sarà «I Signori della Terra di Mezzo». E quest’anno sarà anche l’occasione di avere un’anteprima sul nuovo libro della Collana «Tolkien e dintorni» della casa editrice Marietti 1820, che contiene una raccolta di preziosi scritti dell’autore del Signore degli Anelli tradotti per la prima volta in italiano. Il volume è in uscitain questi giorni,e sarà possibile acquistarlo allo stand dell’AIST nel padiglione Games di viale Carducci, stand A29. Il libro, curato da Roberto Arduini e Claudio Testi, con postfazione di Michaël Devaux, presenta le traduzione di tre testi di J.R.R. Tolkien sulla reincarnazione degli Elfi realizzate da Giampaolo Canzonieri, Lorenzo Gammarelli, Alberto Ladavas.
J.R.R. Tolkien LA REINCARNAZIONE DEGLI ELFIE ALTRI SCRITTI A cura di Roberto Arduini, Claudio Antonio Testi
Illustrazione di copertina: Ivan Cavini
Prezzo: € 12,00
Collana: Tolkien e dintorni
Anno di edizione: 2016
Formato: 14×21
Pagine: 112
I SIGNORI DELLA TERRA DI MEZZO:
LA REINCARNAZIONE DEGLI ELFI – Venerdì 28 ottobre ore 14:00-16:00, di Claudio Testi, filosofo, segretario dell’Istituto Filosofico di Studi Tomistici, vicepresidente dell’AIST, saggista e membro del Comitato scientifico della collana “Tolkien e Dintorni” della casa editrice Marietti.
La tematica dell’immortalità degli Elfi è una di quelle che più affascinano gli appassionati. E la reincarnazione, è di enorme importanza per la comprensione del legendarium, tanto che ha impegnato Tolkien per oltre sessant’anni, e non senza motivi. La tematica è infatti centrale per comprendere le relazioni tra la morte umana e l’immortalità elfica (intesa come perenne legame degli Elfi a Arda, in anche se uccisi potevano tornare reincarnandosi) in quanto era essenziale per l’autore rendere credibile il “meccanismo” del ritorno post-mortem degli Elfi. Da essa dipendeva la stessa portata letteraria dell’opera, che altrimenti ne avrebbe patito, perché non sarebbe stata in grado di suscitare nel lettore quella credenza secondaria necessaria per poter “entrare” all’interno della sub-creazione artistica. Il relatore si concentrerà pertanto sulle tecniche che permettono agli Elfi di tornare comunque in vita se uccisi. Tolkien cambiò idea diverse volte e alla fine modificò anche alcuni miti del suo legendarium per armonizzare gli scritti. | Per iscriverti a questo seminario vai qui.
La recensione
CONTENUTO E COMMENTO: Il volume J.R.R. Tolkien, l’effiges des Elfes di Michaël Devaux (Bragellone, Paris, 2014) è in realtà il terzo numero di La Feuille de la Compagnie, una rivista francese di studi tolkieniani curata e promossa da Michaël Deavaux.
Il titolo del numero è ispirato a un’idea di Tertulliano che considera l’anima come “effige” del corpo” il che, secondo Devaux, è un concetto particolarmente utile per capire le idee di Tolkien sulla reincarnazione degli elfi e le relazioni tra anima razionale (fëa) e corpo (hröa) (p. 81).
Il contenuto intero del volume è già stato segnalato in rete, ma qui ci vorremo soffermare criticamente sulla sola introduzione di Michael Devaux e Carl F. Hostetter e la parte di testi inediti di Tolkien, curati dai due studiosi.
La lunga introduzione (pp. 23-94), che diventerà un punto di riferimento negli studi tolkieniani riguardanti il difficile tema della reincarnazione degli Elfi, è divisa in tre parti:
1- la Emendatio, in cui si spiegano i principi editoriali usati nella curatela testuali;
2- la Enarration, ove si descrive il contenuto dei medesimi e si spiegano certe scelte traduttive, il tutto corredato da preziosissime e precise tabelle comparative che mostra la complessa evoluzione che l’idea del ritorno degli elfi ha avuto all’interno del Legendarium, nonché un glossiario di termini elfici curato da Hostetter;
3- Il Iudicium, in cui usando un punto di vista esterno alla narrazione si paragonano le idee elfiche circa la reincarnazione in particolare con la traduzione cattolica, rilevando le differenze e si analizzano alcune questioni annesse a questi temi tra cui l’idea di únethar (simile al concetto di isotopo), il senso dell’identità dei corpi ricostruiti (cfr. sotto) e questioni geografiche circa la collocazione di Aman (paragonata nei testi all’America!).
Riguardo ai testi tolkieniani qui editi, si tratta di una serie di testi estremamente importanti la cui esistenza e contenuto sono noti da tempo perché segnalati da Christopher Tolkien nella History of Middle-earth (cfr. sotto), ma averli qui nella versione integrale (in francese, ma con il testo a fronte originale di Tolkien) è di enorme valore e interesse. Il volume pubblica per la prima volta i seguenti brani, raccolti in tre parti:
I- The Converse of Manwë with Eru concerning death of the Elves and how it might be redressed: with the comments of the Eldar added (pp. 94-137), testo del 1959, già in parte pubblicato in Morgoth’s Ring pp. 361-366, ma che qui viene proposto nelle sue tre versioni (che indicheremo con: Converse A-B-C)
II- Re-Incarnation of Elves (pp. 138-149, che citeremo come: Reincarnation), scritto tra il 1959 e il 1966, di cui accenna il contenuto in Morgoth’s Ring p. 363-364, e nel quale Tolkien riflette “in prima persona” sul meccanismo del ritorno degli elfi nei suoi scritti. A questo testo segue (pp. 150-154) The Númenórean Catastrophe & End of ‘Phisical Arda in cui Tolkien avanza l’ipotesi che, quando Númenór fu affondata, Aman non fu rimossa da Imbar (il pianeta Terra) ma divenne l’America [sic.!].
III- pp. 154-159 Some Notes on ‘rebirth’, reincarnation by restoration, among Elves. With a note on the Dwarves, un appunto scritto anche questo “in prima persona” da Tolkien nel 1972, il cui contenuto è forse accennato in Peoples of Middle-earth 390-391 (in cui Christopher Tolkien corregge quanto aveva detto circa la Reincarnation (cfr. sotto). Nella nota sui Nani si ipotizza che nella reincarnazione di Durin il medesimo spirito torna nel medesimo corpo che si preserva nel tempo (senza necessità di rinascita nei figli o ricostituzione (cfr. sotto)
Già dai titoli e dalle date, si può capire quanto il tema della reincarnazione degli elfi abbia interessato e “affaticato” Tolkien, che ha di molto mutato le sue concezioni iniziali fino a quella che appare essere la sua posizione “definitiva” del 1972, per quanto l’idea della reincarnazione degli elfi non appaia in nessuno scritto pubblicato da Tolkien quando era in vita. Per collocare “storicamente” il tema occorrerebbe uno studio dedicato (cosa che in parte abbiamo già fatto in altre sedi), ma qui possiamo sinteticamente dire che, stando all’interno del Legendarium:
1°. Dal 1914 fino al 1957 (in base ai testi pubblicati nella History of Middle Earth: cfr. Shaping, Sketch p.21, MR LawsB p.223) si afferma senza particolari esitazioni che gli Elfi, per natura eternamente legati a Arda, quando muoiono si reincarnano e rinascono come nuovi figli di altri Elfi. È l’idea del “rebirth”, che i lettori apprendono solo nel 1977 (anno di pubblicazione del Silmarillion) e nell’epistolario di Tolkien. Nel 1954, infatti, durante una conversazione con il signor Hastings (responsabile di una libreria cattolica che distribuiva la Fellowship of the Ring appena uscita), Tolkien accenna a questa prospettiva suscitando grande perplessità in Hastings, che scriverà poi a Tolkien per avere in merito alcuni chiarimenti in merito. In un abbozzo di lettera del 1954 scrive Tolkien: «La “reincarnazione” può ben essere cattiva teologia (sicuramente questo, piuttosto che metafisica) se è applicata all’umanità […]. Ma non capisco come persino nel Mondo Primario un teologo o un filosofo, a meno che non siano più informati sui legami tra spirito e corpo di quanto io non creda possibile, possa negare la possibilità della reincarnazione come modo di esistere, prescritta per alcuni tipi di creature razionali incarnate […]. Questa è una legge biologica del mio mondo immaginario (Lettere n. 153)»
2°. Nel 1957 circa, nonostante queste perentorie affermazioni, la questione della reincarnazione per rinascita inizierà proprio in questo periodo a essere messa in discussione dallo stesso Tolkien. Dapprima nelle Laws and Customs among the Eldar, egli ci offre un estremo tentativo di “sistemare” la teoria della rinascita; facendo questo, tuttavia, egli si imbatte ineludibilmente nelle tante “assurdità” implicate dalla medesima. Si tratta dapprima di aporie di natura morale/sociale che riguardano il fëa di Elfi già sposati: ed ecco che per evitare una sorta di possibile “bigamia”, viene introdotto il giudizio di Mandos, che non lascerà tornare chi non desidera riunirsi al proprio consorte ancora vivo (MR LawsA p. 227). Emergono inoltre problemi di natura “psicologica”: in caso di rinascita l’elfo infatti riacquisterà man mano memoria anche della precedente esistenza, e quindi si ritroverà contemporaneamente anche con quattro genitori diversi (due per ogni vita) (MR LawsB pp. 221-222).
3°. Nella Converse del 1959, qui pubblicata da Devaux nelle tre versioni, assistiamo dopo cinquant’anni a una prima svolta, dato che si conferisce ai Valar il potere di far tornare gli Elfi in un corpo adulto formato dai Valar stessi, mentre la rinascita diverrà solo “una” via (non più l’unica). Per la precisione (cfr. Converse C):
A) A se gli elfi morti non accettano di tornare da Mandos il loro fëa resta uno spirito vagante nella Terra di mezzo (sono i “pericolosi” Houseless, da non confondersi coi Lingerers, quegli Unbodied che col tempo hanno consumato il corpo: cfr. MR LawsB pp. 223-224);
B) Se invece accettano di tornare da Mandos allora:
B.1) se sono “innocenti” possono scegliere se
b.1.1) non tornare oppure
b.1.2) tornare nel corpo, e in quest’ultimo caso, possono scegliere come “mezzo”:
b.1.2.1) la rinascita nei figli che deve sempre essere approvata da Eru e che presuppone in chi la sceglie piena consapevolezza delle problematiche “psicologiche” che questa via comporta (pp. 132-134), e che non poter tornare dalla loro sposa o prendere altra moglie: (come da istruzione ricevuta dai Valar pp. 134-136) oppure
b.1.2.2) il “rientro” in un nuovo corpo ricostituito dai Valar e “identico” [cfr. infra] al precedente. Questa ricostituzione può essere effettuata perché il fëa elfico porta “memoria” del corpo (cfr. p. 132 e il titolo del volume).
B.2) gli elfi hanno commesso errori o malvagità nella loro vita (wrong-doers: p. 132) non sono liberi di tornare nel loro corpo: i Valar possono tuttavia provare a rieducarli” e nel caso questo avvenga con successo, possono tornare in un corpo ricostruito.
4°. dal 1959 al 1966: la complessità della Converse (con queste differenti possibilità) resta anche negli scritti ma viene eliminata la via della rinascita come possibile “meccanismo” di ritorno (b.1.2.1). Ciò che risulterà davvero decisivo per portare Tolkien a rifiutare definitivamente la tesi della rinascita (oltre alle problematiche genitoriali e psicologiche già intraviste nelle Laws) è il principio metafisico dell’armonia tra hröa e fëa. Questo viene riaffermato con decisione nel Commento all’Athrabeth (MR 330) e sarà la ragione fondamentale del rifiuto della rinascita nei figli nella Reincarnation, qui edita da Devaux (p. 138). In questo scritto si avanza tuttavia una nuova ipotesi: ovvero che è nel potere del fëa di ricostruire da sé il proprio corpo e questo, nel 1966, appare a Tolkien l’ipotesi più plausibile (Reincarnation, 144-146)
5°. Infine nel 1970-72 il rifiuto della rinascita a favore della “ricostituzione” di un nuovo corpo verrà confermato nello scritto Glorfindel (1970-72, in Peoples 377-385, p. 385) e in Notes on ‘rebirth’ qui per la prima volta pubblicato (1972). Qui si attribuisce l’idea del “rebirth” a errate tradizioni umane, e non si parla più di ricostituzione del corpo (hröa) da parte del fëa, e si ripropone il ruolo dei Valar in questa ricostruzione (pp. 154-156).
I Pregi
Grazie a Devaux e Hostetter possiamo finalmente leggere questi scritti uno di seguito all’altro. Consigliamo ai lettori di leggerli “tutti di un fiato” perché così facendo non potranno che restare ammirati dalla incredibile complessità e profondità dell’opera tolkieniana. E di sicuro nasceranno tanti interrogativi e perplessità: cosa sta facendo Tolkien, della letteratura o della filosofia? Come e perché si è potuto arrivare a un tale livello di dettaglio concettuale nella sub-creazione del Legendarium? Sono tutte domande che meritano ben più spazio per un seppur primo tentativo di risposta. Certo è che grazie a quest’opera Devaux e Hostetter mostrano ancora una volta come Tolkien, specie a partire dagli anni 1958 (l’anno dopo sarebbe andato in pensione) iniziò a produrre tantissime riflessioni essenzialmente filosofiche e teologiche sulla sua opera, che non possiamo semplicisticamente considerare un gioco ozioso o pura “fiction”.
Devaux inoltre scrive una pregevolissima introduzione al volume, che di sicuro gli meriterà un posto di riguardo negli studi tolkieniani, vista la vastità di riferimenti bibliografi e le precise analisi testuali che ci offre. Le sue note sul concetto di identità sono a nostro avviso “strabilianti”: egli infatti “dimostra” che le idee e definizioni di Tolkien ricalcano grandemente il principio della identità degli indiscernibili in Leibniz (pp. 38 sgg.): Devaux non si spinge a dire con certezza che Tolkien lo avesse letto, ma l’evidenza testuale è quasi “cogente”. Di grande interesse sono anche i passaggi in cui lo studioso francese mostra che alcune idee tolkieniane circa la materia (quando parla di únehtar) corrispondono al concetto scientifico di “isotopo” (pp. 87 sgg): emerge così anche la non banale (e assai sottostimata) cultura scientifica di Tolkien. Devaux poi giustamente osserva come l’idea di “ricostituzione” del corpo elfico sia una concezione che (ben più che la rinascita nel figli) si avvicina al dogma cristiano della resurrezione dei corpi: al proposito elenca le similitudini e differenze tra Resurrezione e reincarnazione per ricostituzione, ricordando che la resurrezione riguarda tutti gli uomini (mentre la ricostituzione solo alcuni elfi) e che questa avviene solo alla fine dei tempi dopo il giudizio finale (pp.85-86).
Limiti
Nella splendida introduzione di Devaux abbiamo riscontrato due punti problematici, che ci occorre segnalare. Il primo riguarda l’identificazione tra fede ed estel, che lo porta a dire che Aragorn (chiamato anche Estel) «non è semplicemente considerato portatore di speranza, ma portatore della Fede in Eru e come strumento della Provvidenza» (p. 44). Questo però non scontato perché: a) estel indica proprio la speranza radicata nella natura degli elfi, la quale è differente sia da amdir (la semplice previsione di certi eventi in base a certi fatti) e all’Antica Speranza (tradizione umana del popolo di Marach che riguarda il possibile ritorno di Eru un Arda per guarirla: cfr. MR pp. 320-321). Estel quindi non è quindi strettamente legata a Eru, né tantomeno alla Provvidenza (parola completamente assente nel Legendarium).
Inoltre, nella sua comparazione tra resurrezione e ricostituzione, si sarebbe potuto sottolineare con maggior precisione (cfr. p. 79) una differenza importante: infatti nella resurrezione dei morti rinasce il medesimo corpo dell’uomo (questo lo si vede bene nel dipinti medievali in cui le tombe si scoperchiano), mentre nella “ricostituzione” il corpo dell’elfo (per quanto simile) è per forza materialmente diverso, visto che la maggior parte degli Elfi muoiono nella Terra di mezzo ma rinascono sempre in Aman, da cui poi possono (Glorfindel) o meno (Finrod) ritornare nella Terra di Mezzo; senza contare che nella resurrezione finale il corpo verrà “misteriosamente” reso incorruttibile dal tempo (cfr. 1 Corinti 15,50).
Conclusione
Il volume ci fa riflettere su una delle questioni più dibattute negli ambienti tolkieniani: e del resto l’idea di reincarnazione è presente (pur in diverse formulazioni) in tante culture pagane e/o contemporanee, dalla filosofia greca (Pitagora e Platone) alla New Age, dal buddhismo all’induismo o alla Teosofia. Restando in ambito tolkieniano ci pare di poter dire sinteticamente che i punti da tener presente per comprendere adeguatamente la questione sono i seguenti:
1) la reincarnazione degli elfi è presente nella costruzione del Legendarium in ogni sua fase;
2) nonostante lo sviluppo che ci mostra il testo, le idee tolkieniane in merito sono sempre diverse dalla cristiana resurrezione dei morti ove è il medesimo corpo che risorge (cfr. supra), in cui la resurrezione finale riguarderà tutti (saggi o malvagi che siano) sarà con un corpo “glorioso” (idea questa che resta fuori dall’orizzonte del Legendarium);
3) nel Legendarium non si parla mai di reincarnazione di fëa in animali o piante (diversamente dalle tradizioni pitagoriche), né Tolkien non parla mai esplicitamente di reincarnazione degli uomini (nemmeno nei Notion Club Papers: cfr. Sauron Defeated p. 278);
4) l’abbandono della rinascita nei figli a favore dell’idea di ricostituzione del corpo, avvicina il “meccanismo” di reincarnazione elfica a quello della resurrezione dei corpi, perché nella ricostituzione il fëa non può andare in corpo completamente diverso dal precedente;
5) Tolkien, specie nelle “Notes” usa la parola Reincarnation con una certa libertà, perché
a) come esempio di ritorno dopo quello degli elfi accenna anche a quello di Beren e Luthien (Reincarnation p. 144), ove (anche dopo un esame delle varie versioni del loro mito, dal Lay of Leithian fino al Later Silmarillion e oltre) non è ben chiaro se si tratta del loro ritorno nel medesimo corpo (e nel caso sarebbe una “resurrezione” proprio come quella di Lazzaro narrata nel Vangelo di Giovanni c. 11) o in corpi diversi ricostituiti (e in questo caso già nella prima fase del Legendarium si avrebbe per loro l’idea di “ricostituzione” di un nuovo corpo);
b) se lo spirito di Durin ritornasse sempre nel medesimo corpo (p. 158), anche qui si avrebbe più una pluri-resurrezione che una reincarnazione.
Alla luce di quanto sopra, il volume risulta essere ancor più di una enorme e importanza per la comprensione dell’opera tolkieniana in cui:
I- La reincarnazione degli elfi in Tolkien è un elemento necessario perché gli permette di tematizzare come nessun altro il tema fondamentale del Legendarium, che quello di morte (umana) e dell’immortalità (intesa elficamente come legame costante con la storia di Arda) [1];
II- la “reincarnazione” nel Legendarium resta sempre distinta sia dalla cristiana resurrezione dei corpi [2] sia da altri tipi di reincarnazione [3], ma la “ricostituzione del corpo” rispetto al “re-birth” avvicina e “armonizza” la reincarnazione elfica alla resurrezione [3)-4)];
III- Ciò che spinge Tolkien a questi cambiamenti non sono convinzioni “confessionali” [cfr. la libertà rivendicata a nella risposta a Hastings citata sopra], ma motivazioni del tutto interne alla ricerca di coerenza del mondo secondario [ovvero le aporie “multi-genitoriali” e psicologiche del “re-birth” rilevate nelle Laws e ribadite in Reincarnation e Some Notes, e l’armonia hröa e fëa], anche perché Tolkien usa alle volte in modo piuttosto libero (e filosoficamente inesatto) i concetti di “reincarnazione” e “resurrezione” [6)].
Quando si pensa agli Elfi vengono subito in mente omini verdi con le orecchie a punta che vivono nei boschi e mangiano solo verdura. È un’immagine pervasiva che fonde nel suo insieme caratteristiche che partono dalla mitologia germanica e giungono fino a noi, passando per le opere di Shakespeare, il folclore inglese e irlandese, le creature disegnate da Walt Disney (Campanellino), le creature descritte nei libri di Harry Potter e perfino gli assistenti di Babbo Natale! Noi, però, vogliamo parlare del nobile popolo degli Eldar, i primogeniti, gli Elfi descritti nelle opere di J.R.R. Tolkien. E vogliamo sfatare qualche mito su di loro: gli Elfi di Tolkien non sono vegetariani, né tantomeno vegani. Non lo scriviamo mossi da acredine verso le filosofie vegetariana o vegana ma semplicemnte perché riteniamo che nulla nei testi del professore di Oxford sostenga questa tesi. È opinione diffusa tra alcuni appassionati che anche gli Elfi di Tolkien siano vegetariani dal momento che sono per molti aspetti vicini alla natura e il fatto che essi preparino e mangino il lembas, “pan di via”, quando viaggiano li mostra attenti a un’alimentazione vegetariana. Inoltre, un contributo in questo senso è il fatto che Peter Jackson nei suoi film ispirati allo Hobbit faccia intendere proprio questo: nota è la scena in cui i Nani giungono a Rivendell e sono costretti a mangiare insalata! Ma gli Elfi nelle opere dello scrittore inglese sono cacciatori e analizzando le principali opere di Tolkien, Il Silmarillion, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, risulta subito chiaro che gli Elfi non sono vegetariani.
Il Silmarillion e la History
Genericamente, nella History of the Middle-earth, si legge che gli Elfi avevano un grande controllo sui propri corpi: «Così probabilmente [gli Eldar] erano biologicamente progettati per non mangiare troppo e la loro condizione fisica sarebbe rimasta la stessa, salvo infortuni» (in HoME Vol. X, Morgoth’s Ring, “Laws and Customs among the Eldar”). Nei Lay dei Figli di Húrin, quando Túrin prese parte a una festa nelle sale di Thingol, c’era vino e… «ottime carni riempivano le tavole». C’è anche un altro esempio indiretto nel racconto “aggiornato” di Gondolin: Voronwë dice a Tuor, che ha il pan di via degli Elfi, che esso andrà risparmiato per i momenti di grande bisogno e «…senza dubbio un fuorilegge e cacciatore possa trovare altri alimenti prima che l’anno peggiori». Tuor risponde che non in tutte le terre è sicuro andare a caccia, e pure le prede non sono mai così abbondanti. Sempre in Morgoth’s Ring c’è un brano in cui si legge che i Nandor erano diventati un popolo a parte, e avevano una maggiore attenzione verso gli esseri viventi, alberi e piante, uccelli e animali, di tutti gli altri Elfi. E in The War of the Jewels (vedere The Later Quenta Silmarillion, p. 218) c’è un brano spesso inteso come prova che gli Elfi Verdi dell’Ossiriand (i Laiquendi) fossero esplicitamente vegetariani. Essi rimasero turbati dalla venuta degli Uomini e inviarono messaggeri a Felagund, sperando che se avesse avuto potere su questi nuovi arrivati, avrebbe potuto offrigli di ritornare per le vie da cui erano venuti, o muoversi verso altre terre. Essi non desideravano stranieri e aggiunsero nel messaggio che questo popolo era composto da tagliatori di alberi e cacciatori di animali, e quindi erano considerati ostili. «Se questa gente non se ne va», dice un loro inviato a Finrod, «noi li affliggeremo in ogni modo possibile». Ma tale frase, portata solitamente a dimostrazione di come gli Elfi fossero vegetariani, può significare anche solo il fatto che i Laiquendi non volessero ulteriori cacciatori, perché ritenevano che le la fauna presente non consentisse di alimentare entrambi i gruppi, elfi e umani, oppure che non fosse rispettoso della natura ma indiscriminato il modo in cui gli uomini distruggevano quelle terre.
Ancora in Morgoth’s Ring si trovano che molti Elfi erano grandi guaritori, e come alcuni uomini, «…si astenevano dalla caccia e non entrarono in guerra finché non fosse assolutamente necessario». Ciò, a nostro avviso, può provare solo che non tutti gli elfi andassero a caccia. In ogni caso, il paragrafo successivo descrive le abitudini dei Noldorin circa la preparazione del pane, la cottura e la preparazione di «altri prodotti alimentari». Nel Silmarillion sono numerose le occorrenze di Elfi cui piaceva la caccia o che andavano a caccia. Dei figli di Feanor è detto: «Amrod e Amras [.. ] divennero grandi cacciatori nei boschi della Terra-di-mezzo; e cacciatore fu anche Celegorm, che a Valinor era amico di Oromë e sovente seguiva la voce del corno del Vala». Mentre, tra i figli di Fingolfin: «[Aredhel la Bianca] Era più giovane, secondo il computo degli anni degli Eldar, dei suoi fratelli; e raggiunta che ebbe piena statura e bellezza, apparve alta e forte, e assai le piaceva cavalcare e cacciare nelle foreste». Ma non erano solo i nobili rampolli delle famiglie più nobili a cacciare: «Ora, come è stato narrato, la possanza di Elwë e Melian si accrebbe nella Terra di Mezzo, e tutti gli Elfi del Beleriand, dai marinai di Cirdan ai cacciatori nomadi dei Monti Azzurri di là dal Fiume Gelion, avevano Elwë per signore». Il Silmarillion rafforza l’idea che gli Elfi possano mangiar carne visto che Feanor e i suoi figli erano conosciuti come grandi cacciatori tra le tante attività in cui eccellevano. «Ora accadde che, quando ormai i Noldor erano nel Beleriand da 310 anni, nel giorni della Lunga Pace, Felagund si inoltrò a est di Sirion e andò a caccia con Maglor e Maedros, figli di Feanor…» (in Later Quenta Silmarillion II, War of the Jewels). Finrod Felagund, annoiandosi s’era allontanato e così incontrò i primi padri degli Edain. Celegorm e Curufin incontrano Lùthien durante una caccia e la catturano: «Così egli e Curufin interruppero la caccia e rientrarono a Nargothrond, e Lùthien fu tradita; che la trattennero e le portarono via il mantello, e non le fu permesso di uscire né di parlare con chicchessia, salvo i fratelli Celegorm e Curufin». Il Lay of Leithian menziona anche Huan che va a caccia di cervi e cinghiali a Valinor. Assodato che andavano a caccia, si potrebbe ipotizzare che cacciassero solo per sport. Ma ipotetici Elfi che uccidano animali per puro diletto, e non per cibarsene e usarne le pelli non ci sembrano assoluatamente coerenti con descrizioni degli Elfi nelle opere di Tolkien . Inoltre, sembra che il Lembas non fosse il cibo quotidiano degli Elfi. «Solo gli Eldar sapevano come fare questo alimento. Era realizzato per il comforto di coloro che avevano bisogno di andare in un lungo viaggio in mezzo alla natura, o per quei momenti di penuria in cui la vita fosse in pericolo. Solo loro erano autorizzati a usarlo. Gli Eldar non ne davano agli uomini, salvo a quei pochi che amavano, se erano in grande bisogno…» (The Peoples of Middle Earth, volume XII. Capitolo 15, Of Lembas). Infine, bisogna concludere che solo alcuni Elfi erano vegetariani. In realtà, se si leggono attentamente il Qenya Lexicon e i primi scritti linguistici, si può vedere come una parola per “vegetale” esiste, così come una parola per «alimento a base di piante» (lausimatl). Ma esiste anche «cibo a base di animali» (koisimatl). Ci sono anche parole per i “bovini domestici”, “pecore”, “capre”, “maiali” e ancora “fienile”, “uccelli” e “polli”, quindi ha senso ipotizzare che gli Elfi mangiassero tutti questi animali. E anche “carne conservata” e “carne salata”, nel caso in cui si possa pensare che tutto il bestiame fosse allevato solo per divertimento.
Lo Hobbit
Vediamo ora cosa si dice nello Hobbit, riguardo le abitudini venatorie degli Elfi. Mentre i Nani e lo Hobbit attraversano Bosco Atro, un cervo nero li attacca, facendo cadere Bombur nel fiume: «Stavano ancora tutti sopra di lui, maledicendo la loro sfortuna e la sua goffaggine, e lamentandosi della perdita della barca che rendeva loro impossibile tornare indietro a cercare il cervo, quando si accorsero di un fioco soffiare di corni nel bosco e di un rumore come di cani che abbaiassero in lontananza. Fecero tutti silenzio; e mentre stavano seduti pareva loro di udire il rumore di una grande caccia che si svolgeva a nord del sentiero, anche se non ne videro alcun segno».
Altra citazione in cui gli Elfi Silvani vanno a caccia è la seguente, dove si descrive il popolo di Thranduil: «Gruppi di Elfi Silvani, talvolta insieme col re, andavano di quando in quando a cavalcare o a caccia o a fare qualche altra cosa nei boschi e nelle terre a oriente».
Ma più importante, per i nostri scopi, è questa descrizione dei banchetti degli Elfi: «Il profumino degli arrosti era così incantatore che, senza aspettare di consultarsi con gli altri, ciascuno di essi balzò in avanti verso il cerchio, con l’unico e solo proposito di elemosinare un po’ di cibo». In prigione a Thorin gli Elfi danno anche carne, ulteriore segno che ne mangiavan loro stessi: «Lì nelle celle del re giaceva il povero Thorin; e dopo che ebbe superato un breve periodo di gratitudine per il pane, la carne e l’acqua, cominciò a chiedersi che cosa fosse successo ai suoi sfortunati amici». È molto improbabile che gli Elfi fossero andati a caccia in maniera specifica per nutrire un prigioniero, così la carne che viene data a Thorin deve essere lo stesso cibo che gli Elfi tenevano nelle cucine per il loro sostentamento.
Il Signore degli Anelli
Anche nel Signore degli Anelli, nel capitolo In tre si è in compagnia, tutto il cibo offerto dagli Elfi di Gildor Inglorian che più tardi gli Hobbit ricordano sono vegetariani: pane, miele e frutta, incluse le mele. Tuttavia, Gildor si scusa con loro per non poter offrire loro un pasto completo: «Ci dispiace che il pranzo sia misero e magro… ma ci troviamo nei boschi, lontani dalle nostre dimore. Quando verrete ospiti a casa nostra vi tratteremo meglio!». Inoltre, gli Elfi (o, almeno, uno di loro, Legolas) mangiano carne.
A Rivendell, gli abiti che Elrond dà alla compagnia prima di partire comprendevano le pellicce sulle spalle, e quando il gruppo raggiunge Lothlorien gli Elfi danno loro pellicce per dormire (per la notte che passano sui Talans). Anche in questo caso, se gli Elfi avessero cacciato sono per la pellicce avrebbero poi dovuto buttar via la carne tra i rifiuti, cosa decisamente poco logica. Nel capitolo Relitti e alluvioni gli hobbit offrono come pranzo (tra le altre cose) maiale di prima qualità e pancetta ad Aragorn, Gimli e Legolas. «E non c’è alcun motivo per arricciare il naso di fronte ai cibi, Messer Gimli», vociò Merry. «Questa non è roba da Orchetti, ma mangime umano, come lo chiama Barbalbero. Preferisci vino o birra? C’è un barile di là…. passabile. E questo è maiale salato di primissima qualità; ma se preferite posso farvi alla brace qualche fetta di pancetta. Mi dispiace di non avere verdure: i rifornimenti sono stati interrotti negli ultimi giorni! Non ho altro da offrirvi, per finire, che burro e miele da spalmare sul pane. Vi basta?». «Eccome!», disse Gimli. «Il vostro debito diminuisce notevolmente». I tre compagni furono tosto intenti a mangiare, e i due Hobbit incominciarono spudoratamente un secondo pasto. «Dobbiamo tener compagnia ai nostri ospiti», dissero.
Due vegetariani
Infine, anche se non sono Elfi, vogliamo citare gli unici due personaggi, a nostra memoria, dei quali si dica esplicitamente che non mangiavan carne. Uno è Beren figlio di Barahir. Quando era braccato da Sauron, «Per altri quattro anni Beren continuò a vagare nel Dorthonion, solitario fuorilege; divenne tuttavia amico degli uccelli e dei quadrupedi, ed essi lo aiutarono senza mai tradirlo, e da allora in poi Beren non mangiò carne né uccise essere vivente che non fosse al servizio di Morgoth». Altro caso è Beorn; nello Hobbit, Gandalf ci descrive così le sue abitudini alimentari: «Ad ogni modo, non è soggetto a nessun potere magico tranne che al suo. Vive in un querceto e ha una grande casa di legno; e come uomo alleva bestiame e cavalli che sono meravigliosi quasi quanto lui. Essi lavorano per lui e parlano con lui. Egli non li mangia; né dà la caccia ad animali selvatici né li mangia. Tiene arnie e arnie di api grandi e fiere, e per lo più vive di panna e miele».
L’autore vuole ringraziare Roberto Arduini per il prezioso contributo, anche e soprattutto per parte riguardante le parole tratte dal Qenya Lexicon
I Saggi Hobbit sono saggi brevi così nominati per via della loro lunghezza volutamente contenuta (ma non trascurabile) e perché redatti secondo quelli che Tolkien descrive essere i gusti hobbit: nella Prefazione al Signore degli Anelli è infatti scritto che gli hobbit «si dilettavano a riempire meticolosamente libri interi di cose che già sapevano, in termini chiari e senza contraddizioni». Il proposito di questa rubrica è di fornire basi solide e affidabili su cui poter costruire altri ragionamenti e ci auguriamo che i nostri lettori vorranno aggiungere nei commenti le loro riflessioni ed opinioni.
Questo articolo è stato scritto quando i Saggi Hobbit non erano stati inventati, ma ne ha tutte le caratteristiche. Pertanto è ora annoverato tra di essi.
«Al di sopra del Marese, della Valle dell’Acqua, dei Monti Brumosi, del Bosco d’Oro,
della Montagna Solitaria, delle nubi, dei mari, al di là del Fuoco Dorato, della Rete di Stelle
e dei confini delle Cerchie del mondo…».
«Ma quanto è antipatico quel Gandalf! Lascia sempre commenti sprezzanti sul libro degli ospiti: “Gli asciugamani puzzano di muffa, la camera è piena di spifferi”». A leggere queste note non si può fare a meno di pensare a J.R.R. Tolkien, anche se in maniera inconsueta. Il mondo universo creato dallo scrittore inglese è giustamente lodato per la sua profondità e ampiezza, ma è tuttavia privo di alcune delle pratiche più banali della vita quotidiana. Per questo sono molti i lettori del Signore degli Anelli che prendono carta e penna per colmare alcune zone d’ombra delle opere di Tolkien. E così che nascono i diari della casa di Elrond…
Rivendell nelle opere di Tolkien
La dimora di Elrond è descritta sempre in toni entusiastici nelle opere dello scrittore inglese. Regno degli Elfi in una valle nascosta tra le pendici delle Montagne Nebbiose, Rivendell è descritto come un luogo favoloso. Grazie al potere di uno dei tre anelli degli Elfi (donato da Gil-galad a Elrond) il luogo viene preservato integro dalla corruzione del tempo, oltre che dagli attacchi degli Orchi. La dimora di Elrond è uno splendido palazzo affacciato sul fiume Bruinen, che include il Salone del Fuoco in cui nel Signore degli Anelli insieme agli altri ospiti di Elrond si festeggia la guarigione di Frodo dopo il suo ferimento da parte dei Nazgul. «Frodo si trovava ora sano e salvo nell’Ultima Casa Accogliente ad est del Mare. Come Bilbo, tanto tempo addietro, aveva riferito, era una casa perfetta, sia che amiate il cibo, o il riposo, o il canto, o i racconti, o che amiate solo star seduti e riflettere, o un piacevole miscuglio di tutto.Il semplice fatto di viverci era una cura per la stanchezza, la paura e la tristezza […]». È questa la descrizione di Rivendell (Gran Burrone) nel Signore degli Anelli, mentre nello Hobbit si dice che «la casa di Elrond era perfetta, che vi piacesse il cibo, o il sonno, o il lavoro, o i racconti, o il canto, o che preferiste soltanto star seduti a pensare, o anche se amaste una piacevole combinazione di tutte queste cose. In quella valle il male non era mai penetrato. […] Tutti quanti, perfino i pony, si rinfrancarono e si rinforzarono in quei pochi giorni che vi trascorsero. Fu presa cura dei loro abiti come delle loro ammaccature, del loro umore e delle loro speranze. Le loro bisacce furono riempite di cibo e di provviste leggere da portare, ma tanto sostanziose da permetter loro di passare al di là dei passi montani. I loro piani furono migliorati da eccellenti consigli». Infine, si dice che il piccolo hobbit, Gandalf e i Nani «rimasero per un bel po’ in quella casa confortevole, almeno quattordici giorni, e trovarono duro andarsene. Bilbo sarebbe stato contentissimo di fermarsi lì in eterno…».
L’Ultimo Servitore Accogliente
Se c’è una cosa che colpisce è quindi l’accento posto su Rivendell come posto di ristoro, in cui tutti sono accolti e serviti in tutte le loro necessità. È da qui che son partiti i lettori più curiosi di Tolkien! «Sono davvero accolti tutti gli ospiti?», «Si può rimanere quanto si vuole e senza pagare?» e soprattutto «Che gestione c’è dietro una macchina così imponente? Chi è posto al servizio degli ospiti?». Una risposta a tutte queste domande l’ha data Rolf Luchs, scrittore e appassionato lettore di Tolkien che ha immaginato la vita quotidiana in questa sorta di guesthouse tolkieniana. L’Ultimo Servitore Accogliente racconta così gli eventi dello Hobbit e del Signore degli Anelli dal punto di vista interno di un “professionista del settore dell’ospitalità”, per così dire. Luchs non è il primo scrittore a decidere di scrivere un romanzo sulle zone d’ombra delle narrazioni di Tolkien. Certo, però, nessun altro riesce meglio di lui a narrare una storia sul responsabile delle lenzuola pulite sui letti della dimora del re elfico a Gran Burrone. Luchs, che si definisce con una indefinita vaghezza tattica come un «investitore» che vive in «Europa Occidentale» (lo scrittore è diffida molto dei «Cavalieri Neri della Tolkien Estate»), incornicia il suo racconto come una serie di estratti del diario di Tiron, responsabile del servizio di pulizia a Rivendell. Siccome la dimora è a corto di personale, l’elfo costituisce più o meno l’intera squadra di pulizia di Rivendell. Le parti più ironiche del diario riguardano le tante beghe di una clientela esigente. Su tutti il più indisponente è proprio Gandalf, con la sua pipa puzzolente e le note sprezzanti che lascia nel libro degli ospiti. Altrettanto divertenti sono le parti sulle provviste che servono per saziare ogni hobbit che passa da lì, così come i dettagli spassosi sul sistema fognario del palazzo. Ci sono un sacco di pettegolezzi dai piano bassi, di retroscena selle alte sfere e anche tanti esilaranti espedienti per superare la noia ci si può aspettare da qualcuno relegato a fare un lavoro monotono per molti secoli. Tiron ha anche avuto una cotta di 2.500 anni per Arwen e quindi considera Aragorn alla stregua di un illuso gaglioffo! «Ho passato un po’ di tempo nel cosiddetto “settore dell’ospitalità”», racconta Luchs, «quindi so tutto su come cambiare i letti, pulire i bagni, gestire i clienti difficili e cose simili… Tolkien ritrae Rivendell come un luogo spensierato e magico, dove si può semplicemente fare una sosta in qualsiasi momento per rimanere quanto si vuole, a quanto pare senza neanche pagare. Sembra un parco a tema elfico dove il mondo è tenuto lontano e le cose brutte non possono mai accadere. Ma, naturalmente, nessun luogo può mai essere così – non in questo mondo, nemmeno nella Terra di Mezzo. Perché Rivendell sarà sicuramente pieno di gente con tutti i soliti problemi quotidiani, con l’unica differenza che si tratta di Elfi, cioè di esseri immortali. Ma, in questo modo, anche i loro problemi possono andare avanti letteralmente per secoli». Quindi, se vi siete mai chiesti chi pulisce dopo tutti quei fastosi banchetti a Rivendell, fate attenzione. Basta fare in modo di preparare con molto anticipo i piatti delle feste!
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