Fin dalla sua première nel settembre 2022, la serie tv di Amazon Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere è stata al centro delle discussioni. Con un budget record e obiettivi ambiziosi, Amazon mirava a far diventare la serie un fiore all’occhiello di Prime Video. Tuttavia, il basso numero di spettatori e un’accoglienza contrastante hanno messo in discussione il futuro della serie. Un recente rapporto, tuttavia, suggerisce che il contratto di Amazon con la famiglia Tolkien potrebbe svolgere un ruolo chiave nel determinare se la serie verrà continuata o cancellata.
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Germania, Rings of Power finisce gratis in tv
Una grande sorpresa, e forse anche un cattivo presagio, l’emittente pubblica tedesca ZDF ha annunciato la messa in onda della serie tv di Amazon Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere, precedentemente disponibile esclusivamente su Prime Video. A partire dal 30 ottobre alle 10:00, i 16 episodi delle prime due stagioni saranno disponibili in streaming su ZDF per 30 giorni. La trasmissione nel palinsesto lineare, invece, inizierà lunedì 3 novembre su ZDF: tre episodi saranno trasmessi ogni giorno dal lunedì al venerdì in prima serata a partire dalle 20:15 (quattro il venerdì).
The Rings of Power, cosa sappiamo sulla terza stagione?
Dopo la chiusura della seconda stagione, che ha ricevuto un solo premio BAFTA (Migliori effetti speciali, visivi e grafici), una nomination ai Primetime Emmy Awards nella categoria Outstanding Special Visual Effects in a Season or a Movie, e con un ottavo episodio, andato in onda il 3 ottobre 2024, in cui molti segreti sono stati rivelati, cresce l’attesa per il nuovo capitolo della serie Amazon ambientata nell’immaginifico Mondo Secondario creato dalla penna di J.R.R. Tolkien. Ma cosa possiamo aspettarci ora?
Gli Anelli del Potere, Jennifer Salke se ne va
Con “Rings of Power” si è scavata la fossa, con “The Citadel” si è costruita la bara, e con il nuovo film di “James Bond” ha messo una bella lapide sulla sua carriera. È questo il tono della maggior parte dei commenti alla notizia che Jennifer Salke si è dimessa dalla carica di responsabile di Amazon MGM Studios, una mossa che potrebbe indicare un forte livello di insoddisfazione nei confronti della strategia di streaming adottata dall’azienda negli ultimi anni. Il capo della Salke, Mike Hopkins (responsabile di Amazon MGM Studios e Prime Video) ha elogiato il suo lavoro in un’e-mail ai dipendenti e ha descritto la sua partenza come quella che consente all’azienda di «accorciare un po’ la nostra struttura di leadership», un tema ricorrente nei recenti licenziamenti nelle aziende tecnologiche. In altre parole, il ruolo di Salke verrà eliminato da Amazon e i responsabili degli studi cinematografici e quelli degli studi televisivi riferiranno direttamente a Hopkins. A prescindere dal linguaggio diplomatico, i principali motivi di questo licenziamento (perché di questo si tratta) sono proprio il flop della serie tv Citadel, la cattiva gestione del rapporto con i proprietari dei diritti di James Bond, ma anche l’alto costo e gli ascolti non altrettanto alti come sperato per la serie tv Il Signore degli Anelli: gli Anelli del Potere.
Gli Anelli del Potere, la terza stagione è confermata
Prime Video ha confermato che la terza stagione di The Lord of the Rings: The Rings of Power è in fase di pre-produzione e le riprese inizieranno questa primavera nella nuova sede di produzione della serie, gli Shepperton Studios nel Regno Unito. Inoltre, sono svelati i nomi dei tre registi, di cui due di ritorno e uno nuovo: Charlotte Brändström, Sanaa Hamri e Stefan Schwartz faranno parte di questa stagione. La serie tv liberamente ispirata alle opere di JRR Tolkien, ha suscitato reazioni contrastanti nel pubblico e nella critica, ma continua a essere uno dei principali motori di Amazon per le nuove iscrizioni al servizio di Amazon Prime.
Gli Anelli del Potere: alla fine gli ascolti totali sono calati
Giungono finalmente nuovi dati sugli ascolti de Gli Anelli del Potere e, a dire il vero, non sembrano molto positivi. Infatti, secondo ScreenRant – un rapporto della società di analisi dello streaming di terze parti Luminate –, la seconda stagione dello show diretto da Patrick McKay e J.D. Payne avrebbe registrato un notevole calo dell’audience rispetto alla precedente. Più precisamente, il numero di spettatori della Stagione 2, nelle sue prime 12 settimane di disponibilità, sarebbe diminuito del 60% rispetto alla Stagione 1 in termini di minuti totali guardati. Questo dato appare in netto contrasto con i feedback estremamente entusiastici rilasciati da Jennifer Salke, capo degli Amazon-MGM Studios, secondo la quale ben 55 milioni di persone avrebbero “interagito” con la serie dal lancio della seconda stagione il 29 agosto scorso.
Gli Anelli del Potere: il finale di stagione
Eccoci giunti al tanto atteso finale di questa seconda stagione de Gli Anelli del Potere: un episodio che raccoglie le linee narrative e prepara la strada per una terza stagione sulla quale, al momento, Amazon MGM Studios mantiene il più stretto riserbo. La narrazione è a tratti incalzante, i bei momenti non mancano ma alcune scelte di scrittura restano fin troppo approssimative.
…Gli Anelli del Potere: il settimo episodio
Il settimo episodio dello show targato Amazon ci ha finalmente mostrato un po’ d’azione, offrendo scene di battaglia e duelli che, pur non esaltanti, appaiono quantomeno godibili. La narrazione si svolge quasi per intero in una stretta unità di tempo, di luogo e di azione e forse per questo motivo appare più coesa che nelle precedenti puntate. E tuttavia, i difetti tecnici e i problemi di consistenza non mancano nemmeno adesso.
…Gli Anelli del Potere: il sesto episodio
Gli Anelli del Potere giunge al sesto episodio, che inaugura la fase conclusiva di questa seconda stagione dello show targato Amazon. Come il precedente (ne abbiamo parlato qui), anche questo offre uno spettacolo a tratti persino piacevole ma paga il fio di tanti problemi di trama che si sono accumulati nel corso dello show.
…Gli Anelli del Potere: il quinto episodio
Ed eccoci al quinto episodio degli Anelli del Potere, che ha il sapore di un momento di passaggio tra gli eventi narrati sinora e quelli ancora di là da venire e si concentra in particolare sulle vicende di Khazad-dûm e di Númenor, non senza alcune scene dedicate a Celebrimbor e Annatar e a Galadriel, ora in mano a Adar, che le propone un’insolita alleanza.
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Serie tv: la recensione del quarto episodio
E veniamo al quarto episodio di questa nuova stagione degli Anelli del Potere (delle prime tre abbiamo parlato qui). Puntata che, come il titolo stesso (Eldest nell’originale inglese, Il più anziano nella traduzione italiana) suggerirà ai più attenti o a quanti sono stati raggiunti dal martellante battage pubblicitario, ha per protagonista un personaggio che in molti attendevano di vedere sullo schermo: nientemeno che Tom Bombadil (Rory Kinnear; avevamo dato qui la notizia della sua presenza nella serie).
Ma andiamo con ordine, non senza dedicare un istante alle ambientazioni sempre più spettacolari e alle efficaci transizioni sulla mappa della Terra di Mezzo che separano le scene, contrassegni di un comparto tecnico di qualità che mostra sempre più e sempre meglio le proprie capacità. Il problema, come avevo già detto in precedenza, è che un simile sforzo produttivo non trova riscontro in una scrittura adeguata e ne rimane inevitabilmente penalizzato. Unico disclaimer: da questo punto in poi, attenzione spoiler.
Serie tv, la recensione dei primi tre episodi
«E così ha inizio…». La nuova stagione de Gli Anelli del Potere, la serie miliardaria creata da J.D. Payne e Patrick McKay e prodotta da Amazon MGM Studios, è uscita lo scorso 29 agosto con le prime tre puntate (le altre saranno inserite settimanalmente) e noi stiamo lì, in piedi come re Théoden al fosso di Helm, a osservare l’inizio della battaglia sotto una pioggia battente (mica tanto: chi scrive vive nel profondo Harad e semmai deve fronteggiare il problema della siccità, ma passi la licenza poetica). Se ne è parlato tanto, spesso con grandi scontri, perlopiù da dietro le trincee delle tastiere, tra critici ed entusiasti, tra chi ritiene sia in atto un “tradimento” ai danni di Tolkien e chi scorge nella serie Amazon una sintonia con l’opera del Professore, tra chi ne biasima la scrittura e chi la esalta. Di certo, si tratta di un evento che coinvolge ogni appassionato e che catalizza le attenzioni dell’ampia e variegata comunità tolkieniana. Se l’obiettivo degli showrunner era il “purché se ne parli” (regola n. 1 del marketing: non esiste cattiva pubblicità, solo pubblicità), possiamo dire che è ampiamente raggiunto. Naturalmente, discussioni e riflessioni si sono prodotte anche all’interno dell’AIST, sempre attenta a ogni novità riguardante il mondo di Tolkien, e anche all’interno dell’AIST si sono prodotti pareri differenti. Le righe che seguono vogliono esprimere il punto di vista di chi scrive e non quello dell’Associazione che non ha linee-guida o posizioni ufficiali su questo come su altri argomenti – come è sempre stato dalla sua fondazione.
Non è mia intenzione proporre qui una sinossi delle prime tre puntate della nuova stagione degli Anelli del Potere: chi le ha viste si sarà già fatto la propria idea, chi non le ha viste e abbia un minimo di curiosità potrà trovare decine di riassunti in rete. Mi interessa maggiormente proporre alcune considerazioni di carattere generale su un prodotto che, da un lato, afferma di richiamarsi a un’opera stratificata e complessa come quella di Tolkien ma, dall’altro, pretende di apportarvi modifiche, aggiunte o addirittura aggiornamenti e migliorie. Ribadisco che non si tratta di giudicare Gli Anelli del Potere sul metro della fedeltà al tracciato tolkieniano: una trasposizione “bella e infedele” rimane bella, forse proprio perché infedele, e i puristi se ne fanno prima o poi una ragione. A mio parere, il problema della serie Amazon riguarda prima di tutto la qualità della scrittura. Per quanto questa seconda stagione presenti certamente meno problemi di struttura narrativa e dialoghi rispetto alla precedente, nondimeno continua ad avere grossi difetti di ritmo: la narrazione risulta ancora troppo frammentaria e confusa, con un numero spropositato di linee narrative che gli showrunner faticano a gestire in modo efficace. Ciascuna è spezzettata in scene brevi o brevissime che spesso paiono di carattere più esornativo che sostanziale e mostrano tutt’al più un continuo sforzo da parte degli autori di creare momenti di grande pathos: il risultato è che assistiamo a momenti che vorrebbero essere drammatici ma si sviluppano quasi per caso, giungono velocemente al climax e poi si esauriscono in cliffhanger scontati senza aver apportato alcun vero progresso nella trama generale, che incede con una lentezza disarmante. Ad esempio: nel giro di una o due puntate veniamo messi di fronte alla possibilità che gli Anelli elfici salvino la Terra di Mezzo, la vediamo sfumare mercè l’intervento di Elrond ma non facciamo in tempo a metabolizzarne le conseguenze che interviene Círdan, uno degli innumerevoli dei ex machina che costellano la serie, a riportare la situazione esattamente al punto di partenza.
Un altro problema di scrittura riguarda la caratterizzazione dei personaggi, meno statici ed impacciati che in precedenza ma ancora privi di un vero e proprio spessore drammatico. Galadriel (Morfydd Clark), sempre un po’ Mary Sue e un po’ Karen, resta il personaggio su cui la serie si focalizza maggiormente ma, almeno per ora, non sembra crescere rispetto alla prima stagione. Come in precedenza, appare mossa da un desiderio più di vendetta che di giustizia, come se quella con Sauron fosse una battaglia personale alla quale tutti gli altri appaiono totalmente disinteressati anche quando la minaccia diventa tangibile. L’unico cedimento nella sua fibra anodina è la consapevolezza bruciante che Halbrand l’ha “suonata come un’arpa” (espressione che suona malissimo anche pronunziata da un Elfo), ma per il resto procede spedita come un treno con la certezza che, finito il giro di giostra, ad aver ragione sarà sempre e comunque lei a dispetto di tutto e tutti. Del resto, l’eccessiva fretta degli showrunner nello svelare l’identità di Sauron ha creato più di un problema alla trama generale della serie. Il principale riguarda proprio Galadriel: resta aperta, infatti, la domanda che nel primo episodio è lo stesso Gil-galad ad esplicitare: «Perché ti destreggi per non dire la verità?». È la domanda che, con lui, si pone anche lo spettatore: perché l’intrepida Elfa non rivela a tutti ciò che sa, che Halbrand altri non è che Sauron? La risposta sensata pare una sola: «Perché altrimenti la serie finirebbe subito». Sì, perché in un mondo fantastico in cui i protagonisti percorrono distanze enormi da una scena all’altra ma i messaggeri che portano messaggi di importanza vitale tardano (Amazon che fa cattiva pubblicità ai corrieri, ma guarda tu…), se Galadriel avesse messo subito Celebrimbor al corrente dell’identità di Halbrand avrebbe risparmiato un bel po’ di guai a tutti.
Proprio Celebrimbor (Charles Edwards) è il personaggio che, nella serie, patisce maggiormente i danni di una cattiva scrittura. Tralasciamo l’improbabile dialogo della prima stagione in cui un oscuro esule del Sud dà consigli di metallurgia nientemeno che al nipote di Fëanor, secondo soltanto a quest’ultimo nelle arti della forgiatura, facendolo gongolare come l’ultimo dei ragazzi di bottega. “Eh, ma Halbrand è Sauron, i suoi consigli non sono quelli dell’ultimo venuto…”. Giustissimo: ma allora bastava costruire meglio la scena, non inventarsi un banale consiglio sulle leghe metalliche. Ma andiamo oltre… In questa stagione, lo si è detto, Galadriel non informa il signore dell’Eregion della vera identità di Halbrand ma intima a lui, come agli altri, di diffidarne. Eppure, al public enemy n. 1 della Terra di Mezzo bastano un semplice giro di parole su Galadriel e sugli Anelli che “hanno funzionato” e una scenografica presentazione come emissario dei Valar perché Celebrimbor si lasci candidamente abbindolare, prostrandosi ai suoi piedi (come se egli stesso non fosse nato in Valinor, come se egli stesso non avesse scorto il volto delle Potenze di Arda). Negli scritti di Tolkien la questione è più complessa ma anche molto più netta, vuoi anche grazie a una cronologia decisamente meno contraddittoria. È vero che «all’inizio della Seconda Era [Sauron] aveva ancora un aspetto bello, o poteva assumere una bella forma visibile, e non era in effetti completamente malvagio» (Lettere, n. 153) e che si era presentato agli Elfi con «il nome di Annatar, il Signore di Doni» (Il Silmarillion, Degli Anelli del Potere e della Terza Era) ma è anche vero che «Gil-galad ed Elrond nutrivano dubbi su di lui e sul suo bell’aspetto; e, sebbene non sapessero chi egli fosse davvero, pure non gli permettevano di metter piede su quella terra» (Ivi); del resto, sebbene la «brama di conoscenza» dei fabbri dell’Eregion «permise a Sauron di abbindolarli» (Il Signore degli Anelli, Il consiglio di Elrond), lo stesso Celebrimbor non era così ingenuo da credere ciecamente a ogni parola di Annatar: «non lo perdeva d’occhio e nascose i Tre che aveva fatto» (Ivi). L’errore dei Fabbri dell’Eregion non è stato, perciò, quello di essersi gettati tra le braccia del primo venuto; essi dubitavano di Annatar tanto quanto Gil-galad ed Elrond ma, contro gli ammonimenti di questi ultimi e i propri stessi sospetti, avevano accettato i suoi “doni” perché desideravano la sua conoscenza, per la quale erano disposti a osare ogni cosa. Quale che fosse la reale identità di Annatar, essi non hanno dato prova di dabbenaggine, hanno consapevolmente accettato un rischio pienamente percepito. Con la conseguenza che, lentamente sobillato da Sauron, Celebrimbor aveva maturato l’intenzione di rendere la Terra di Mezzo «splendida come Valinor», ciò che costituisce «un velato attacco agli dèi, un’istigazione a provare a creare un paradiso indipendente e separato» (Lettere, n. 131). È qualcosa, insomma, di molto più sottile ma anche molto più sinistro rispetto a quanto visto nella serie, in cui Celebrimbor è tutt’al più un artefice benintenzionato ma ingenuo e frustrato dal confronto con Fëanor e dalla sudditanza a Gil-galad.
Veniamo a Halbrand, ovvero Annatar, ovvero Sauron (Charlie Vickers). La scena iniziale del primo episodio, nella mente degli showrunner, vorrebbe essere un geniale antefatto per spiegare le ragioni dell’incontro tra Halbrand e Galadriel ed il motivo per il quale Adar crede di aver ucciso Sauron. Tralasciamo la scena dell’uccisione del falso (o vero) Sauron per mano degli orchi, il sangue-blob che si fa strada attraverso Mordor e via dicendo… La questione che rimane aperta è un’altra: perché mai Sauron dovrebbe tentare (fallendo miseramente) di convincere gli orchi a seguirlo? L’Oscuro Signore non è esattamente un democratico, il suo ascendente su di essi non si basa sul convincimento ma sulla coercizione, sul terrore e sul potere. Nelle intenzioni degli showrunner, credo, questa scena dovrebbe avere lo scopo di far capire che gli orchi hanno una volontà propria, che non sono semplicemente creature malvagie: essi possono persino desiderare la tranquillità e la sicurezza che Adar sembrerebbe garantire (e che Sauron metterebbe a repentaglio), come mostra la scena in cui uno di loro, parlando con il Signore-Padre, chiede se sia proprio necessario scendere in guerra e poi si gira verso la moglie (?) col figlio in fasce (?). Al di là della scena un po’ maldestra e sovraccaricata, questo è un elemento di grande interesse che, se ben sviluppato, potrebbe offrire un contributo a una questione sulla quale lo stesso Tolkien si lambiccò per anni. Finora, però, il solo risultato è quello di rendere estremamente confuse le interazioni tra Sauron e gli orchi. Allo stesso modo, non è del tutto chiaro perché egli si riconsegni a Adar perorando la liberazione degli Uomini del Sud (salvo poi sfuggire dalla prigionia in un paio di scene, non senza aver preparato una bella sorpresa per il suo carceriere). È probabile che nel primo tentativo, quello conclusosi con la sua “uccisione”, Sauron non avesse ancora le forze necessarie a imporsi sugli orchi (ma questo non è spiegato) e che nel secondo, quello della sua prigionia, abbia come unico scopo annunziare a Adar che l’Oscuro Signore non è morto. È possibile, sì, ma la narrazione appare troppo confusa e inutilmente complicata e la sensazione che se ne trae è di una serie di scene che si succedono senza una linea ben definita.
Quanto a Elrond (Robert Aramayo) e Gil-galad (Benjamin Walker). Il primo finalmente mostra un minimo di fibra e risorse morali, smette i panni del politicante che gli erano stati affibbiati nella prima stagione e ora agisce quasi come il maestro di saggezza che dovrebbe essere; purtroppo, a causa degli stravolgimenti cronologici, egli finisce per opporsi non alla collaborazione con Annatar (quel treno è già bello che passato…) ma all’utilizzo dei tre Anelli una volta che questi sono stati realizzati. Gil-galad, dal canto suo, adesso appare meno come un sovrano interessato esclusivamente al proprio potere e più come un signore che desidera la guarigione del mondo: proprio per ciò, differentemente da Elrond, egli intende utilizzare gli Anelli. Ma ecco, ancora una volta, una profonda incomprensione di Tolkien da parte degli showrunner: nella serie, infatti, lo “svanimento” degli Elfi è causa della decadenza del mondo mentre in Tolkien avviene l’esatto contrario poiché lo “svanire” è «il modo in cui [gli Elfi] percepivano i cambiamenti del tempo (la legge del mondo sotto il sole)» (Lettere, n. 131). Donde la necessità dei Tre che, così come nelle opere tolkieniane, anche nella serie servono ad abbellire, preservare e guarire le ferite della Terra di Mezzo. Tuttavia, essi sembrano esercitare il medesimo, sinistro potere di fascinazione dell’Unico Anello: ciò è inspiegabile alla luce degli scritti di Tolkien, nei quali si afferma che essi, pur essendo «assoggettati all’Unico», sono «immacolati, poiché a forgiarli era stato il solo Celebrimbor, né mai la mano di Sauron li aveva toccati» (Il Silmarillion, Degli Anelli del Potere e della Terza Era). Nella serie Amazon tutto è più oscuro, confuso, e non si può avere del tutto questa certezza che, negli scritti del Professore, costituisce la condizione stessa del loro utilizzo da parte degli Elfi. Appare altrettanto strana, infine, la spartizione degli Anelli elfici, buttata lì un po’ a caso con Círdan che, dopo aver tentato di gettarli in mare, li restituisce a Gil-galad ma si appropria di Narya, l’Anello di Fuoco, senza il consenso di alcuno, il re del Lindon che si infila Vilya e Nenya che gli cade di mano e finisce da Galadriel. Tolkien rende chiaro, anzitutto, che i Tre furono non i primi ma gli ultimi Anelli del Potere forgiati da Celebrimbor – qui non si tratta di filare lana caprina sulle cronologie, ma di comprendere che, essendo l’opera finale del signore dell’Eregion, essi costituiscono il picco della sua arte – e che la loro spartizione avvenne solo quando questi si avvide della creazione dell’Unico e, consigliatosi con Galadriel, affidò a lei Nenya e a Gil-Galad Vilya e Narya (quest’ultimo, poi, passato a Círdan) per allontanare i Tre dall’Eregion, dove Sauron supponeva si trovassero. Un’altra cosa che stona è che, sebbene nella serie si parli continuamente di un potere che sta «oltre la carne», sembra ancora che le virtù degli Anelli elfici non derivino che dal mithril, qui inopinatamente trasformato in un metallo magico che contiene in sé il potere di salvare gli Elfi dallo svanimento e il mondo dalla decadenza. Inutile dire che, per Tolkien, non è la materia di cui sono fatti gli Anelli ma l’Arte con cui sono creati a renderli potenti.
Passiamo alle Honorable mentions. Anzitutto lo Straniero (Daniel Weyman), ancora perso nel suo viaggio verso chissà dove insieme a Nori (Markella Kavenagh) e Poppy (Megan Richards), novelle Frodo e Sam nella terra di Rhûn. Risulta strano, ancora una volta, che un Istar inviato dai Valar in soccorso della Terra di Mezzo sia così poco consapevole dei propri poteri, ma si sa già che presto incontrerà un mentore, un personaggio presentato dagli showrunner come lo “Yoda della Terra di Mezzo”… Tra le glorie di Númenor, invece, Pharazôn (Trystan Gravelle) trama per raggiungere il potere e, infine, coglie l’attimo per autoproclamarsi re. La scena dell’apparizione dell’Aquila, tanto per cambiare, non è scritta benissimo ma ha un grandissimo impatto visivo. Rimane aperto il mistero di quest’ennesima figura di deus ex machina, ma qui l’oscurità (purché sia temporanea) ha un senso: l’emissaria alata di Manwë è lì per Míriel? Pharazôn si limita a rigirare questo segno a proprio beneficio? Che i Valar lo favoriscano è da escludersi, quindi occorrerà vedere se di vero presagio si tratta. Frattanto l’arco narrativo di questo personaggio sembra quello meno stropicciato della serie, anche se questa attenzione all’intrigo politico sembrerebbe più adatta al Trono di Spade che non al legendarium tolkieniano. Infine, occorre citare la new entry, il misterioso stregone (Ciarán Hinds) a capo delle tre emissarie che nella scorsa stagione si erano imbattute nell’uomo caduto dalle stelle. La caratterizzazione e l’aspetto, per ora, non mi paiono del tutto convincenti: con quell’enorme bastone dalla foggia “barbara” e quel trono monolitico, parrebbe uscito più da un’avventura di Conan che da una storia di Tolkien. L’identità di questo personaggio è ancora celata, c’è solo da sperare che non si tratti di Saruman o, in generale, di un Istar…
Si potrebbero aggiungere molte altre cose ma credo che sia bene, a questo punto, elencare gli indubbi punti positivi di questa nuova stagione degli Anelli del Potere. Il primo è senz’altro costituito dalle spettacolari ambientazioni e dalle scenografie che, pur fortemente derivative rispetto alla trilogia jacksoniana – la capitale di Númenor ricorda Minas Tirith, Pelargir sembra Osgiliath –, risultano convincenti e di grande impatto visivo. Lo stesso si può dire della colonna sonora che certamente ricorda le atmosfere di Howard Shore ma sa essere estremamente evocativa, con exploit gradevoli come la canzone di Gil-galad del secondo episodio. Il livello generale della recitazione, inoltre, è su livelli medio-alti, sebbene si avverta la mancanza di Joseph Mawle, vero mattatore della precedente stagione, il quale aveva saputo conferire complessità a un personaggio difficile come Adar, che ora risulta assai più piatto; ancora del tutto apprezzabile è, invece, la performance di Peter Mullan nei panni di Durin III, a mio parere il migliore e più fedele esempio cinematografico di nano tolkieniano. Purtroppo, constatare tutto questo lascia l’amaro in bocca perché un comparto tecnico e attoriale di indubbia qualità patisce inevitabilmente i limiti di una scrittura approssimativa.
In definitiva, come ho già detto, anche in questa seconda stagione Gli Anelli del Potere sembra rimanere un prodotto che, pur richiamandosi a Tolkien, pretende di modificarlo a piacimento e senza apprezzabili ragioni di natura specificamente cinematografica. Indipendentemente dal risultato, che sta al singolo spettatore giudicare, il problema che a mio parere si pone è chiaro: una trasposizione, quale che sia la sua natura mediale, passa inevitabilmente dalla comprensione dell’opera cui si ispira. Si parva licet, penso ancora a cult come Apocalypse Now o Blade Runner, chiari esempi di opere “belle e infedeli” che hanno compreso profondamente i romanzi cui si ispiravano e hanno potuto rimaneggiarli, perfino alterarli, senza smarrirne il senso profondo ma anzi tenendolo sempre presente e arricchendolo di nuovi significati. Lo stesso si può dire, ad esempio, per la prima trilogia jacksoniana, che ha modificato fortemente alcuni aspetti anche essenziali del Signore degli Anelli – e non solo quelli che avrebbero funzionato meno dal punto di vista cinematografico – ottenendo comunque un risultato in buona parte concorde con lo spirito dell’opera. Il problema degli Anelli del Potere è proprio questo: non può o non vuole comprendere il materiale di partenza – materiale già alquanto striminzito, dal momento che Amazon detiene i diritti di sparute porzioni dell’opera tolkieniana – e, di conseguenza, non riesce a manipolarlo in nessun modo; tuttavia, tenta di stendervi sopra una veste di novità, di archi narrativi inventati ad hoc e persino di puro e semplice fan service allo scopo di celare questa mancata comprensione di fondo. Col risultato che, tolti il budget faraonico, gli effetti grafici obiettivamente stupefacenti e alcune interpretazioni degne di nota, a farne le spese è la storia stessa. Non resta che attendere le prossime puntate e sperare che imprimano un passo più svelto e coerente a una narrazione che, finora, ha proceduto in maniera fin troppo forzata.
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…Serie tv, gli showrunner: abbiamo improvvisato
La seconda stagione del Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere – è appena stato diffuso il trailer finale prima dell’inizio della serie previsto per il 29 agosto – si avvicina e si intensificano gli eventi promozionali della produzione e di tutto il cast di Amazon Prime Video. Dopo aver portato quasi tutti gli attori più importanti al Comic-Con di San Diego e aver dispensato centinaia di interviste, ora scendono in campo anche gli showrunner J.D. Payne e Patrick McKay, che però hanno ammesso candidamente quello che il pubblico ha sostenuto da anni, cioè che per quanto riguarda le opere di J.R.R. Tolkien hanno scelto la Seconda Era della Terra di Mezzo per poter improvvisare.
Da Amazon il trailer finale della 2ª stagione
Amazon Prime ha pubblicato il trailer finale della seconda stagione del Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere che mostra la Terra di Mezzo in preda alla discordia seminata da Sauron e l’inganno e la manipolazione che portano alla creazione degli Anelli del Potere. Questo trailer si concentra, infatti, molto sul potere oscuro di Sauron e sulla guerra e distruzione che porta nella Terra di Mezzo. Alleanze improbabili si forgiano nel fuoco, e le vere amicizie sono messe alla prova. I pericoli non sono più celati dall’ombra, ma vengono rivelati alla luce del sole. Decisioni importanti spettano ai regni di Eregion, Khazad-dûm, Lindon, Númenor e alle terre intermedie, mentre la sicurezza e la pace di questi regni sono in bilico. I primi tre episodi della seconda stagione del Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere saranno disponibili in anteprima il 29 agosto 2024, seguirà poi un episodio a settimana sino al finale di stagione, previsto per il 3 ottobre 2024.
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Serie tv: Tom Bombadil ne Gli Anelli del Potere
Ci mancava giusto lui. Sì, perché Stregoni smemorati, Balrog dal sonno leggero e proto-Hobbit girovaghi non bastavano a saturare la Seconda Era di personaggi destinati – cronologie tolkieniane alla mano – a entrare in scena nella Terra di Mezzo solo millenni dopo. Ne Gli Anelli del Potere mancava giusto il personaggio narrativamente più eslege e misterioso dell’intero mondo tolkieniano, nientemeno che Tom Bombadil. In una recente intervista a Vanity Fair, infatti, gli showrunner Patrick McKay e J.D. Payne hanno annunciato la sua presenza nella seconda stagione dello show targato Amazon (di cui abbiamo dato le notizie principali e analizzato il trailer), con tanto di immagini di scena che lo immortalano all’interno della sua dimora, in compagnia dello Straniero-Gandalf.
Gli Anelli del Potere: l’analisi del trailer
«Uno Stregone non è mai in ritardo, Frodo Baggins. Né in anticipo». Lo sanno perfettamente tutti gli appassionati della trilogia diretta da Peter Jackson. Allo stesso modo, gli amanti delle serie TV sanno che anche i trailer arrivano sempre al momento giusto, solitamente annunciati con largo anticipo per solleticare l’immancabile hype del pubblico. Ma con Gli Anelli del Potere ci troviamo in un mondo ben diverso, nel quale gli Stregoni arrivano anzitempo rispetto alla propria missione (Tolkien li voleva comparsi nella Terra di Mezzo verso il 1000 della Terza Era, qui Gandalf è – letteralmente – catapultato negli ultimi decenni della Seconda). E così fanno anche i trailer: il 14 maggio, infatti, è arrivato a sorpresa quello che annuncia la seconda stagione della serie targata Amazon Prime, con tanto di data di uscita ufficiale: il 29 agosto 2024.
Gli Anelli del Potere: tutte le novità della serie tv
Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere dovrebbe tornare ufficialmente per una seconda stagione entro la fine del 2024. La serie è ambientata nella Seconda Era della Terra di Mezzo, quasi 5.000 anni prima degli eventi della Compagnia. dell’Anello. La serie approfondisce la forgiatura degli Anelli del Potere, incluso l’Unico Anello di Sauron, che deciderà il destino della Terra di Mezzo. La prima stagione degli Anelli del Potere è stata fortemente contestata dai lettori appassionati del Signore degli Anelli per le modifiche apportate all’opera originale di J.R.R. Tolkien e per aver ignorato l’amato adattamento cinematografico di Peter Jackson.
La prima stagione di The Rings of Power è andata in onda nel 2022, lasciando un intervallo particolarmente lungo tra il finale e la seconda stagione. Per fortuna, l’attesa per i nuovi episodi si sta rapidamente avvicinando alla fine. Il pubblico può aspettarsi che la stagione 2 di The Rings of Power inizi finalmente ad essere trasmessa su Prime Video prima della fine del 2024, anche se una data di uscita esatta non è stata ancora annunciata.
A differenza della maggior parte degli altri film e serie in produzione a metà del 2023, la stagione 2 di The Rings of Power non è stata influenzata dallo sciopero di scrittori e attori dello scorso anno. La stagione aveva appena terminato la produzione quando sono iniziati gli scioperi, lasciando di conseguenza invariata la data di uscita. Cosa c’è da sapere sulla prossima stagione e quando gli appassionati dovrebbero aspettarsi di vederla in anteprima su Prime Video?
Amazon espande i diritti per gli Anelli del Potere
La serie Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere di Amazon Studios si sta addentrando in aree della storia della Terra di Mezzo dove nessun adattamento era mai arrivato prima. La serie tv, ambientata nella Seconda Era , sta costruendo una storia basata sul materiale originale delineato, ma scarso, che Tolkien compose su quell’epoca (che precede la storia del Signore degli Anelli di molte migliaia di anni. Gli showrunner JD Payne e Patrick McKay hanno già fatto sapere di avere un accesso piuttosto limitato al materiale originale. Ciò ha reso il loro compito gigantesco, molto più difficile da portare a termine. Come già chiarito nella prima stagione, il duo creativo ha escogitato una varietà di personaggi e trame non canoniche per riempire la trama mentre cercano di creare una storia coerente con gli appunti e i riassunti di Tolkien, finora invano.
Ora, il noto canale informativo Fellowship of Fans ha rivelato che entrando nella stagione 2, Payne e McKay potrebbero aver ottenuto l’accesso a un po’ più di materiale originale su cui lavorare. Le voci affermano che per l’imminente arco narrativo della seconda stagione dello show nella regione orientale della Terra di Mezzo di Rhûn, il team ha ottenuto un accesso speciale a un paio di testi al di fuori del loro accordo sui diritti primari con Amazon. Se lo scoop fosse vero, potrebbe dare ad Amazon Studios il diritto di utilizzare una coppia di personaggi che in precedenza sarebbe stato difficile incorporare nella loro storia. Potrebbe anche indicare che lo show (che è previsto per cinque stagioni) potrebbe potenzialmente espandere i suoi diritti di narrazione man mano che procede, senza dubbio a seconda di quanti soldi sono disposti a sborsare in cambio del permesso di fare riferimento a particolari aspetti del vasto mondo di Tolkien.
Serie tv, accuse di plagio per Amazon e Tolkien Estate
In California, uno scrittore di nome Demetrious Polychron ha infatti intentato una causa da 250 milioni di dollari per violazione del copyright contro Jeff Bezos, diversi dirigenti di Amazon Studio e gli eredi di J.R.R. Tolkien. Nella causa, Polychron ha affermato di aver creato, scritto e pubblicato un libro originale intitolato The Fellowship of the King e di aver ideato un’intera serie di sette libri, The War of the Rings.
Serie Amazon, solo un terzo del pubblico ha finito di vederla
Dopo molti mesi, è tempo di tornare a parlare della serie televisiva di Amazon Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere. Che la serie avesse deluso molti appassionati lettori di J.R.R. Tolkien non è una novità, ma ora ci sono anche dati oggettivi in merito alle visualizzazioni, da una fonte che è sempre stata ritenuta attendile. Già i dati di Nielsen relativi ai minuti guardati delle serie originali avevano fatto classificare The Rings of Power al 15esimo nel 2022.
Gli Anelli del Potere: se non c’è trascendenza
La serie televisiva Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere ha senz’altro imposto l’attenzione degli appassionati, al netto delle (legittime?) polemiche sull’attinenza al canone del professore oxoniense – in termini di coesione narrativa e caratterizzazione – sulle modalità di rappresentazione televisiva del corpus tolkieniano a vent’anni di distanza dalla prima trilogia cinematografica di Peter Jackson. Si sono evidenziati i meriti degli sforzi di Amazon in termini di impatto visivo e cura scenica, ma bisogna altresì sottolineare la volontà degli sceneggiatori di ridurre ai minimi termini ogni riferimento esplicito alla dimensione trascendente del Legendarium. Tale scelta è evidente sin dal breve prologo offerto nel primo episodio: Valinor è presentata come la terra della Luce, “alimentata” dai due Alberi Telperion e Laurelin; di essi, come del resto delle Terre Immortali, non è data alcuna notizia circa l’origine e, fatta salva una corsiva e vaga menzione su una “Grande Musica” primigenia, la voce di Galadriel null’altro comunica sulla nascita di simili prodigi di Arda o sulle entità (gli Ainur, “I Santi”) che l’hanno foggiata. Si è obiettato che queste scelte siano dettate da oneri di natura eminentemente legale, legate cioè all’indisponibilità dei diritti necessari a mettere in scena anche quei protagonisti. Una simile critica, ancorché non del tutto infondata, non dà ragione della corsiva allusione ai “Valar” (sic) dalla voce di un dubbioso Celebrimbor, per ben due volte nel corso della serie; o del richiamo a Eru Ilúvatar (chiamato “L’Uno”) nella conversazione tra Galadriel e l’elfo corrotto dall’Ombra Adar prima, nonché tra la stessa Galadriel e Halbrand-Sauron poi.
Questi sparuti cenni sono lasciati languire e non sono approfonditi per dare sostanza all’antefatto, né per delineare il sostrato escatologico che informa le vicende di Eä – di tutto il creato, non soltanto Arda (il mondo). È un aspetto che è stato forse poco rilevato dalla critica, quasi non fosse necessario per la riproposizione di Tolkien nel primo ventennio del secolo corrente.
Si avverte lo scorporamento del divino dal metafisico, che procede quindi su due direttrici coincidenti: da una parte l’ultramondano è depauperato a mero ricordo magmatico, che pare non aver mai avuto credito nel reggere l’ordito della storia sino al principio della serie. Alla Luce di Valinor vengono conferite proprietà profilattiche, un potere proattivo, energetico, a conservazione della vita degli Elfi se opportunamente veicolata attraverso la sua fonte più ricca: il mithril.
L’acciaio argentato, nei testi di Tolkien nulla più che metallo preziosissimo lavorato dai Nani ed ambitissimo nella fabbriceria o nell’artigianato, viene investito di proprietà magiche ulteriori rispetto all’incredibile malleabilità e resistenza concesse da Tolkien: per tramite di una leggenda apocrifa (sic), che vede il metallo creato grazie all’infusione combinata di energia benefica (di un elfo senza nome!) e negativa (di un Balrog, con quello a contesa) nei pressi di un albero alla base del quale, celato nella montagna, si nascondeva uno dei Silmaril. Un fulmine – ex abrupto – cade sull’albero durante il duello e invade la montagna: donde la comparsa del mithril, per dissoluzione del gioiello di Fëanor. Esso racchiude in sé la luce degli Alberi, della quale gli elfi hanno bisogno per preservare la propria immortalità senza partire anzitempo per Aman, il Continente Beato dove il dominio dei Valar conserva la Creazione dalla corruzione, ritardando così l’abbandono della Terra di Mezzo. Il mithril risolve quindi il problema dello svanire degli Elfi.
Niente viene detto sulla differenza tolkieniana tra fëa (spirito) che rimane incorrotto e hröa (corpo) che si consuma: nel procedere delle Ere, gli Elfi (creature immortali) sbiadiscono nel corpo per effetto di tale consunzione fino a che il hröa persiste come semplice memoria dello spirito e gli Elfi appaiono così invisibili agli occhi dei mortali, a meno che non dimorino in Aman. Nella serie Amazon si parla invece di opportunità di “saturare gli Elfi” con un rimedio scientifico che annulla Valinor e la metafisica elfica.
Contemporaneamente, però, gli sceneggiatori hanno scelto di tenere viva una strada “religiosa” attraverso il personaggio di Adar, l’elfo corrotto divenuto Padre degli Orchi, che per sua stessa ammissione sembra cercare un ruolo da divinità per poter creare un nuovo mondo (possibilità riservata soltanto a Eru). Egli riassume una visione superomistica che auspica il superamento dei propri limiti attraverso l’ascensione al soglio divino, considerata possibile – in maniera imprecisata – ma che, di per sé, appare completamente irrituale nella teogonia tolkieniana. Infatti non è dato mai il caso di una creatura terrena – elfo o uomo – che desideri o tenti di divenire uno dei Valar (posto che essi siano da considerare delle vere e proprie divinità) o di sostituirsi a Eru medesimo.
Scegliere di caratterizzare un triagonista quale Adar mediante una tensione spirituale così intesa muove la bilancia della sorte dalle mani del Creatore a quelle di un attore mondano, quasi sovrapponendo immanenza e trascendenza. Sembra che simili scelte indichino una sottesa volontà di proporre a mezzo televisivo un’immagine della spiritualità quasi esclusivamente pragmatica, improntata all’ottenimento di benefici concreti per gli individui e per la società, e quindi del tutto priva di una dimensione teleologica – più congeniale al Legendarium – che sussume l’individuo e lo tende verso una dimensione trascendente a un tempo personale e collettivistica, informando tutta la diacronia dell’epos tolkieniano e sostanziandosi ognitempo nel disegno di Eru. Ne deriva una musica disfonica, i cui canti afoni rassomigliano le discordanze di Melkor: la frustrazione e la sconfitta dell’Eco sulla Voce.
Gli Anelli del Potere: finale di stagione
ATTENZIONE SPOILER
…Gli anelli del Potere: note su ”L’Occhio”
ATTENZIONE SPOILER
Non c’è molto da dire su questa settima puntata della serie Gli Anelli del Potere. Si tratta di un episodio di raccordo, che di fatto si svolge tutto durante il fall out dell’Orodruin, e durante il quale non accade praticamente niente di significativo. Non è un grande spoiler dire che assistiamo alla nascita di Mordor, gli spettatori l’avevano senz’altro intuito già alla fine della puntata precedente. Le trovate interessanti di questa prima stagione riguardano quasi esclusivamente gli Orchi e gli Hobbit, e la nascita di Mordor per eruzione vulcanica è una di queste. Infatti le ceneri che oscurano il sole consentiranno agli Orchi di muoversi e agire anche di giorno con disinvoltura, senza bisogno di ingombranti tabarre e tendaggi protettivi.
Per il resto sembrerebbe di assistere alla messa in discussione del fanatismo di Galadriel, la quale si sente responsabile della catastrofe in cui si è risolta la spedizione numenoreana nella Terra di Mezzo, che è pure costata la vista alla regina. Se non fosse che la regina stessa la scavalca, uscendosene con una dichiarazione d’intenti che suona come un lugubre: “Ritorneremo!”.
Insomma 1-0 per Adar il Padre degli Orchi e la sua razza dannata in cerca di una terra («This is our land now. It is our home»), che al momento risulta il personaggio più simpatico. I Numenoreani se ne tornano oltremare scornati, mentre Galadriel e Helbrand galoppano verso il Lindon, a ricevere la probabile “lavata di capa” da re Gil-Galad.
Nel frattempo gli autori trovano il modo di infilare tre immancabili citazioni tolkieniane. La scena che vede Galadriel e il giovane Theo nascosti sotto un tronco, con un orco sopra di loro che annusa l’aria, richiama immediatamente quella più celebre del Signore degli Anelli, in cui gli hobbit vengono fiutati dal Cavaliere nero.
Poco prima, nel dialogo tra i due personaggi, Galadriel è riuscita a citare la scena del colpo di fulmine tra Beren e Luthien («We met in a glade of flowers. I was dancing and he saw me there») riferendosi all’incontro col marito Celeborn – che qui viene dato per «lost», probabilmente in vista di una rentrée successiva -; e cita anche quasi testualmente la visione provvidenziale della storia che Gandalf fornisce nel medesimo romanzo: «There are powers beyond darkness at work in this world».
Ganci buoni per il gioco degli appassionati, divertissement postmoderni degli autori, che ovviamente non possono rivitalizzare una puntata dall’andamento piatto e quasi priva di colpi di scena. Nemmeno l’apparente morte di Isildur può far drizzare qualche capello, perché anche a essere completamente digiuni di materia tolkieniana, il cliché è talmente urlato che nessuno spettatore può bersela, e il dolore del padre Elendil sfuma nello stucchevole.
Un tentativo di svegliare il pubblico viene fatto nelle altre due sottotrame. Lì va appena un poco meglio. Gli Harfoot/Pelopiedi si trovano finalmente alle prese con una “storta” nelle loro solide abitudini e sono costretti ad abbandonare la via già tracciata. Ci sono volute sette puntate perché questo tema, di cui fin dall’inizio si fa carico il personaggio di Nori, trovasse uno sbocco narrativo. Alla buon’ora.
E ovviamente il mistero sull’identità dell’uomo caduto sulla Terra di Mezzo si infittisce, con l’aggiunta delle tre inquietanti inseguitrici (una delle quali sembra la versione albina di Anne Lennox da giovane). La dinamica però è farraginosa: prima gli Hobbit spediscono via l’uomo delle stelle, poi, quando scoprono che è inseguito da tre vestali incendiarie, decidono di andare ad avvertirlo, perché in fondo ha fatto loro del bene. Decidetevi.
E poi c’è la sottotrama del mithril, quella che vede al centro Elrond e Durin Jr.
Che dire? In sette puntate non è successo ancora niente. Si sono evocati tramacci incrociati, tradimenti, si sono visti siparietti comici e drammatici, nonché abbozzi spionistici, ma i fatti stanno a zero. Cosa si salva, quindi? Più che il rapporto d’amicizia tra Elrond e Durin quello conflittuale tra Senior e Junior. Vero è che non è niente di originale: un conflitto generazionale tra maschio alfa e maschio beta. Però introduce per lo meno un elemento discorde nel tema dinastico, quello che connota fortemente i Nani tolkieniani, schiacciati dal peso dell’albero genealogico che portano sulle spalle. Almeno Durin è in rotta col padre perché non vuole abbandonare l’amico Elrond al suo destino di decadenza e spegnimento progressivo. Il vecchio invece se ne sbatte degli Elfi, dice che il loro destino è segnato e non dipende da lui salvarli. Niente di nuovo sotto il sole, ma almeno c’è un conflitto in famiglia degno di ogni serial, ancorché corredato di nasoni finti e barbe lunghe fino ai piedi.
Ciliegina sulla torta: nelle viscere di Khazad-Dûm si cela un balrog. Non è una sorpresa per i fan tolkieniani, ma… perché proprio identico a quello di Jackson? Davvero non era rimasto un avanzo di fantasia per pensarlo almeno un po’ diverso?
Manca soltanto un episodio alla fine di questa prima stagione e viene da fare almeno una considerazione. Gli autori avrebbero dovuto mostrare più coraggio, lasciare perdere tanto il gioco citazionista, quanto la continuità estetica con ciò che era già stato portato sullo schermo.
Per mettere in scena la Seconda Era ci voleva un visionario; uno che tradisse i cliché invece di collezionarli con metodo in ossequio allo sguardo postmoderno, per lavorare invece meglio sugli archetipi (che non sono proprio la stessa cosa). Ma anche uno che rappresentasse Celebrimbor come un fabbro ferraio coperto di bruciature e sporcizia; Galadriel come un’avventuriera in cerca della propria fortuna e con un passato ambiguo da farsi perdonare; i Nani come dei metallari divisi tra avidità e onore; e i Numenoreani come Conquistadores in cerca di territori da colonizzare.
Sarebbero state scelte tanto più forti rispetto a una mezza via, in cui si è reinventata la storia banalizzandola, senza discostarsi più di tanto dall’immaginario jacksoniano. La materia su cui lavorare c’era, c’è ancora forse. Resta da sperare – senza garanzie – in qualche buon cliff hanger nell’ultimo episodio e nella capacità degli strapagati scriptwriters amazonici di fare finalmente decollare questa storia nella seconda stagione.
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Gli Anelli del Potere: note sul sesto episodio
ATTENZIONE AGLI SPOILER
Alla fine di questo sesto episodio degli Anelli del Potere, quasi interamente dedicato ai combattimenti e concluso dallo stapparsi dell’Orodruin, dove sappiamo verrà forgiato l’Unico Anello, verrebbe da dire: finalmente un po’ d’azione. Non si tratta ancora delle grandiose battaglie a cui ci aveva abituato Jackson, perché in questa fase della storia le forze del male si stanno ancora riorganizzando, e non proprio coordinandosi alla perfezione, a quanto pare. Ma almeno si combatte, due sottotrame finalmente si intrecciano e – forse di conseguenza – anche i dialoghi acquistano più significato rispetto a quanto si è ascoltato finora.
Le citazioni jacksoniane in questo sesto capitolo si sprecano. L’atmosfera di attesa degli orchi al villaggio degli uomini cita alla lettera quella prima della battaglia del Fosso di Helm ne Le Due Torri, con tanto di voce fuori campo sulle immagini rallentate di donne, vecchi e bambini, e immancabile messaggio di speranza molto tolkieniano.
Il primo scontro con i cattivi invece ha una dinamica molto simile alla Battaglia di Baywater, quella con la quale sul finale del Signore degli Anelli (romanzo, non film) gli hobbit insorti sconfiggono gli usurpatori della Contea. Nella serie c’è l’aggiunta del fuoco ed è una scena notturna, ma l’idea di chiudere i nemici tra due barricate fatte con i carri e bersagliarli di frecce è un’evidente citazione letteraria.
Bisogna tuttavia riconoscere che questi scontri armati sono più realistici di quelli jacksoniani. Innanzi tutto perché avvengono tra piccoli contingenti, poche centinaia o addirittura decine di combattenti, tutti interpretati da attori in carne e ossa. E in secondo luogo perché la fatica del corpo a corpo traspare di più, e l’unica che compie prodezze marveliane è la solita Galadriel, quando arriva con i rinforzi (ecco un’altra citazione, della cavalcata dei Rohirrim, anche se in questo caso sono numenoreani). Lei in effetti mentre combatte a cavallo pare un cosacco del circo di Mosca, ma tutti gli altri sono assai più normali nel modo di combattere, e con meno “addizioni digitali” rispetto ai guerrieri di Jackson.
Arondir, l’elfo eroico che è rimasto a combattere con gli Uomini, lo fa in effetti con la destrezza tipica della sua razza, ma senza esibirsi nei “numeri” del Legolas interpretato da Bloom. Può perfino capitargli di essere trascinato giù da un tetto e di soccombere sotto la presa di un orco enorme, salvo intervento provvidenziale dell’amata Bronwyn. Dopodiché la gente (di qualunque razza sia) negli scontri muore perché viene infilzata da una lama o trafitta da una freccia o calpestata dai cavalli, e le ferite sanguinano sul serio, anche copiosamente. Come quella della stessa Bronwyn, che quasi ci lascia le penne (e casomai la cosa del tutto inverosimile è trovarla a battaglia vinta abbastanza in forma per colloquiare con la regina Mìriel e per acclamare il nuovo re Halbrand).
Ma inutile girarci attorno, perdendosi negli scontri armati. Perché la questione affrontata di peso in questo sesto episodio è quella degli Orchi.
Lo spietato Adar, interpretato da un mesmerico Joseph Mawle, senz’altro il migliore attore della serie in scena finora, aveva già lasciato intendere di avere una visione politica. Qui finalmente la esplicita. Non solo nel discorso iniziale alle sue truppe orchesche, che chiama “fratelli” e “figli”, e che incita a prendersi un posto (non al sole) nella Terra di Mezzo. Soprattutto lo fa nel dialogo con Galadriel che lo ha catturato. I ruoli sono invertiti rispetto alla prima apparizione, quando era Adar nel ruolo di carceriere e l’elfo Arondir in vincoli. Galadriel lo interroga e le cose che gli dice lasciano trasparire la metà in ombra dell’elfa eroica; ombra che finora era stata soltanto evocata a parole. Galadriel riversa su Adar – elfo nero “orchizzato” – tutto il suo disprezzo per gli orridi Orchi. Di contro, Adar rivendica il fatto che gli Orchi sono esseri senzienti, «ognuno ha un nome e un cuore», e che sono stati anch’essi creati dall’Uno, cioè da Eru, e in un secondo tempo corrotti. Insomma anche gli Orchi sarebbero creature di Dio, secondo Adar, e di conseguenza avrebbero diritto a vivere e ad avere un posto in cui farlo.
Questo fa precipitare dentro la serie uno dei grandi dilemmi irrisolti dell’opus tolkieniano, che a quanto pare gli autori non hanno avuto remore ad affrontare (si vedrà poi come e se lo risolveranno). Vale a dire l’irriducibile questione degli Orchi, che Jackson non s’era nemmeno immaginato di toccare. Sappiamo che nel corso del tempo Tolkien tornò a riflettere a più riprese sulla natura degli Orchi, i quali gli creavano un problema concettuale e teologico. Da buon cattolico non poteva digerire una razza di creature senzienti irredimibili per natura. Qualche lettore glielo fece notare, e all’amico Auden che gli chiedeva lumi su questo, Tolkien dava una risposta aperta (Lettera 269).
Nei Myths Transformed (HoMe X) passa in rassegna una serie di possibili soluzioni dell’origine e della natura di questa razza “derivata”, per così dire, e teologicamente così scomoda, ma alla fine si risolve a degradare gli Orchi al rango di bestie. «The Orcs were beasts of humanized shape», cioè sono privi di anima razionale. E a dimostrazione di questo dice che il loro modo di parlare è solo un riflesso di quello di Melkor, un po’ come i pappagalli ripetono le parole che sentono dal padrone, o come i cani che abbaiano per riprodurne la parlata, e possono pure ribellarsi per istinto, ma non per questo esercitano il libero arbitrio.
Se però uno legge Il Signore degli Anelli non ha affatto questa sensazione, ma tutto il contrario. Gli Orchi appaiono come una razza dotata di linguaggio e cultura e di una propria natura, ancorché pervertita e perversa. Quella a cui approdò Tolkien nel suo rimuginare a posteriori sa tanto di una soluzione di comodo, che potesse mettere buoni i teologi cattolici (o la sua coscienza di cattolico).
Ciò nonostante sul piano letterario – e qui sta la grandezza – gli Orchi rimangono un problema aperto. Rispetto al quale Adar può dunque dire la sua, e sentirsi sputare in faccia tutto il disprezzo razzista di una Galadriel nelle vesti (letteralmente) di novella Giovanna d’Arco, disposta a minacciare torture sugli orchi prigionieri per farlo confessare, e dichiaratamente votata allo sterminio della loro razza corrotta. «Anche se ci mettessi tutta questa Era, giuro di sradicarvi fino all’ultimo», dice l’eroina della serie. Non paga, prefigura di lasciare lo stesso Adar per ultimo, in modo che prima di essere giustiziato, possa vedere scomparire tutta la sua genìa.
Di fronte a questa dichiarazione di crudeltà genocida, la risposta di Adar è forse la più saggia possibile: «Pare che io non sia l’unico Elfo vivo che è stato trasformato dall’oscurità. Forse la tua ricerca del successore di Morgoth doveva cessare nel tuo specchio».
Ecco che alla fine di questo sesto episodio verrebbe da dire anche un’altra cosa: finalmente un po’ di complessità. I buoni non sono del tutto buoni. I cattivi non sono del tutto cattivi. «Ci sono più cose tra il cielo e la terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia», diceva Amleto. Si potrebbe aggiungere anche la teologia. E poi segnare un punto per la letteratura e la drammaturgia.
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Gli Anelli del Potere: note dopo 5 episodi
Se si dovesse valutare la serie tv Gli Anelli del Potere da un punto di vista “tolkieniano” bisognerebbe innanzi tutto rilevare una cosa evidente. Non potendo raccontare nel dettaglio le vicende della Prima Era (dato che i diritti del Silmarillion non erano nella disponibilità), e dovendo raccontare la Seconda Era basandosi solo sulle appendici del Signore degli Anelli, gli autori hanno fatto una scelta radicale. Non solo hanno riassunto e semplificato l’intera Prima Era in un prologo a volo d’uccello, ma soprattutto hanno reinventato le vicende della Seconda Era con assoluta spregiudicatezza. Tuttavia l’hanno fatto mantenendo una cornice tolkieniana, cioè una serie di riferimenti a eventi e personaggi del passato (Morgoth, Fëanor, Eärendil, ecc.), reinterpretando alcuni personaggi della storia originale (Galadriel, Elrond, Elendil, ecc.) e inventandosene altri di sana pianta (Halbrand, Arondir, i proto-hobbit, ecc.) che agiscono dentro quella cornice.
Ovviamente questo è già sufficiente a scontentare il fandom più conservatore e geloso, che grida alla lesa maestà e guarda la serie con la matita rossa in mano. All’estremo opposto ci sono invece i fan che apprezzano qualunque cosa riguardi la Terra di Mezzo, e tanto più quindi una serie che ha la pretesa di trasporre – ancorché in modo liberissimo – ciò che sullo schermo non era mai stato trasposto. Si potrebbero definire gli innamorati di Tolkien non gelosi. Nel mezzo c’è quella parte del fandom rassegnata a sentire l’odore delle storie di Tolkien senza ritrovarcisi, e guarda gli episodi con un approccio disincantato o divertito, ovvero con snobistico distacco, per il gusto di vedere cos’hanno combinato questi quattrinai yankee.
Per onore di cronaca bisognerebbe citare anche il sottoinsieme assai chiassoso dei fan tolkieniani che se la prendono con la serie perché “fa politica sfruttando Tolkien”, riferendosi al fatto che – come in quasi ogni serie fantastica anglosassone di ultima generazione – è stato scelto un cast multietnico che non rispecchia la cromaticità epidermica nel testo letterario. In Italia di uso politico dell’opera di Tolkien, anche se di segno diametralmente opposto, ne sappiamo qualcosa, quindi dovremmo essere vaccinati, ma tant’è. Certo è che tra tutte le licenze poetiche e le libertà di riscrittura che si sono presi gli autori della serie, quella del cast multicolore è veramente la meno impattante, soprattutto perché le caratteristiche delle razze della Terra di Mezzo sono invece rispettate piuttosto fedelmente. E dal punto di vista tolkieniano è quello che conta.
Difficile assegnare delle percentuali numeriche alle varie categorie di spettatori, ma sono abbastanza riconoscibili nei commenti che si incontrano nel web, con tutte le sfumature possibili tra l’una e l’altra, ovviamente. La sensazione è che ce ne sia per tutti, ovvero che i produttori abbiano deciso di correre il rischio massimo, contando magari anche su una parte di spettatori non-fan che vanno a ingrossare la schiera di quelli che guardano la serie facendo il gioco del “canonico/non canonico”.
Un altro elemento narrativo che salta agli occhi è la centralità assegnata ai personaggi femminili, figlia dei tempi attuali. A Tolkien veniva imputato di averne inseriti pochi nelle sue storie e sempre in ruoli secondari. Ciò non toglie che i suoi personaggi femminili fossero belli e significativi, e dunque suggerissero una presa di spazio che una riscrittura contemporanea non può che mettere in atto. Ad esempio la sottotrama degli Harfoot, i proto-hobbit, completamente inventata, ha al centro una protagonista femminile, Elanor (il nome che sappiamo sarà della primogenita di Sam e Rose Gamgee), che ricorda non poco i protagonisti maschili dei due romanzi di Tolkien, con tanto di personaggio-spalla “buffo”, anch’esso femminile (Poppy). Anche la sottotrama numenoreana è in gran parte imperniata sulla rivalità/alleanza tra Galadriel e la regina reggente Mìriel – contrapposizione anche visiva, trattandosi di due attrici etnicamente agli antipodi – con i personaggi maschili a fare da corollario. E pure le vicende degli Uomini del Sud hanno una protagonista donna, la madre single Bronwyn, accanto all’elfo Arondir, con il quale trapela un’affinità elettiva, per così dire. Meno centrale per ora il personaggio femminile di Disa nella sottotrama che si sviluppa intorno all’amicizia accidentata tra l’elfo Elrond e il nano Durin. Va detto però che ruba la scena a tutti ogni volta che compare, dando vita a siparietti comici ai quali i Nani – forse per colpa dell’imprinting jacksoniano – sembrano destinati.
Un altro aspetto della serie è l’indagine antropologica sui vari popoli di Arda. Di ciascuno vediamo almeno un rituale, un’usanza, un aspetto centrale della società. Vale per i proto-hobbit che commemorano i membri della tribù persi durante le migrazioni; vale per Numenor, con tutto il suo sfarzo, le gilde artigiane, la corte; vale per gli Elfi, con tanto di leggende apocrife; vale perfino per gli Orchi, che venerano un “Padre”.
Questi ultimi sono Orchi primordiali, mezzi talpe e mezzi vampiri, con elmi ricavati da teschi di animali, che scavano gallerie sotterranee e si riparano dall’odiata luce solare con mantelli e tendaggi. Vengono mostrati, per altro, nella goblinesca – e quindi si potrebbe azzardare “filologica” – attività di rendere schiavi gli altri affinché lavorino al posto loro (leggasi Lo Hobbit).
Una nota particolare la merita l’ipotesi narrativa sui proto-Hobbit, rappresentati come un popolo seminomade, costretto a mimetizzarsi nel paesaggio, non avendo altri strumenti di difesa dai pericoli del mondo esterno. Una spiegazione questa di una caratteristica tipica degli Hobbit tolkieniani. Implicitamente si suggerisce che una volta diventato stanziale e sedentario, quel popolo non riuscirà a cancellare completamente le tracce del proprio passato ancestrale. E allora ecco la “tookishness” che ogni tanto affiorerà in un hobbit, scatenandogli la voglia di partire e vedere il mondo, affezione da cui Elanor “Nori” sembra già colpita. Ma ecco anche la canzone della migrazione, della quale retrospettivamente si troverebbe una sopravvivenza in un verso della poesia di Bilbo su Aragorn: «Not all those who wander are lost».
Ci sono altri easter eggs che gettano ponti tra gli Harfoot e gli Hobbit, dei quali almeno due si possono segnalare: l’evidente somiglianza fisiognomica tra Dylan Smith, l’attore che interpreta Largo Brandyfoot, e Dominic Monaghan, l’attore che interpretava Merry Brandybuck nella prima trilogia di Jackson, forse a suggerire una discendenza tra i “Brandy”; e la prima parola pronunciata da Elanor alla sua entrata in scena: «hundred-eleven», gli anni di Bilbo all’inizio del Signore degli Anelli, quelli che si celebrano alla festa attesa a lungo.
Della resa visiva di Arda vale forse la pena parlare solo per dire che è spettacolare. La montagna di soldi spesi lì si vede tutta, sia che si tratti di riprese di paesaggi reali sia che si tratti di ricostruzioni digitali di ambienti urbani, skylines di città, isole, ecc. Almeno su questo è difficile non compiacersi di come è stata rappresentata la visione tolkieniana, in continuità con quella dei film di Jackson. Anzi, forse la critica che si potrebbe muovere è di essere rimasti fin troppo in continuità e non avere osato di più.
Immancabile il “toto-personaggio” innescato astutamente dagli autori: chi è il misterioso uomo caduto dal cielo? Chi è il misterioso Elfo (?) che gli orchi chiamano “Padre”? Chi sono le misteriose figure androgine biancovestite che indagano sul cratere del meteorite? Chi è davvero Halbrand? Eccetera. Alla fine della prima stagione probabilmente alcune di queste domande troveranno risposta. Nel frattempo contribuiscono a tenere alta l’attenzione, a trasformare la visione in un gioco.
Uno dei veri punti deboli della serie sembra invece essere finora quello ritmico-narrativo, sul quale si sono spese non poche critiche. Le prime cinque puntate sono lente, di fatto preparano l’avvio degli eventi senza che accada ancora nulla di eclatante. Per questo scopo cinque ore sono troppe rispetto ai ritmi a cui siamo abituati oggi. Paradossalmente forse non lo sarebbero state per Tolkien, che nel Signore degli Anelli impiega tutto il libro I e ben due capitoli del libro II (in tutto 270 pagine nell’edizione inglese) per apparecchiare la missione dell’eroe e spiegare il contesto in cui si svolgerà. Ma noi non siamo nati alla fine del XIX secolo, e non ci nutriamo di romanzi ottocenteschi, viviamo qui, oggi, e pretendiamo di non addormentarci davanti allo schermo, ma di essere catturati dalla vicenda entro la prima ora. Altrimenti la soglia d’attenzione comincia a calare, WhatsApp chiama, qualcuno suona alla porta, il pensiero della prossima bolletta del gas si insinua infingardo. Non siamo al buio di una sala insieme ad altre decine di persone, ma nel nostro domicilio, magari facendo colazione, o cenando, o stravaccati sul divano alla fine di una giornata di lavoro, col sonno che incombe.
Poi ci sono le critiche sull’intreccio. Sì, perché, come è noto, non sempre la libertà che ci si prende viene spesa al meglio. E allora alcune semplificazioni negli snodi narrativi, alcune gratuite e repentine sterzate della trama, e soprattutto le poche sfumature psicologiche dei personaggi non possono che fare storcere il naso ai palati più sgamati. Soprattutto nella sottotrama numenoreana, non solo gli intrighi di palazzo sono risolti piuttosto ingenuamente e certi personaggi stereotipati; non solo le tensioni sociali sull’isola sono tirate via; ma soprattutto il personaggio di Galadriel risulta un motore fin troppo immobile per far ruotare gli eventi intorno a sé. Quando il personaggio principale di una linea narrativa è poco sfaccettato e si presenta invece come monolitico, risulta difficile appassionarcisi, per quanto iconica sia la sua figura e per quanto un’interprete come Morfydd Clark, con la sua aura celtica e un taglio d’occhi davvero particolare, sia nella parte.
A poco servono i giochi di rimandi con cui gli autori hanno voluto evocare la precedente Galadriel, o meglio, la grande attrice che l’ha interpretata, Cate Blanchett. Sono almeno due riferimenti a chiave, che passano attraverso un altro personaggio, quello della regina Elisabetta I di cui l’attrice australiana ha vestito i panni in due film. La Galadriel degli Anelli del Potere pronuncia la fatidica frase «There is a storm in me» che riecheggia quel «I have a hurricane in me» di Blanchett-Elizabeth urlato davanti ai minacciosi ambasciatori spagnoli. E l’armatura che Galadriel indossa quando sale sulla nave numenoreana che dovrà portarla nella Terra di Mezzo è quasi identica a quella indossata dalla regina Elizabeth in una celebre scena del secondo film.
Il punto è che un personaggio così importante nella serie per ora non riesce a essere complesso, mostrando solo una maniacale forza di volontà, abilità guerriere da eroina Marvel, e un’ossessione cieca per la propria missione. Anche senza considerare la grande potenzialità dell’originale, questo deficit di scrittura del personaggio si fa notare perfino più delle azzardate invenzioni sul metallo mithril, o delle contraddittorie strategie del re Gil-Galad, et similia.
Più interessanti, perché ancora misteriosi, indubbiamente i personaggi dell’Uomo caduto sulla Terra (di Mezzo) e di Adar, il villain manifesto, interpretati da due attori davvero nel ruolo, Daniel Weyman e Joseph Mawle. Ben scritte finora le loro parti e ben interpretate. Almeno quanto quella di Sadoc, l’anziano leader degli Harfoot, che detiene la memoria storica e il libro divinatorio della tribù, affidata a Sir Lenworth George Henry CBE (una garanzia).
A conti fatti, l’impressione è che questa serie seguiterà a far parlare di sé gli appassionati tolkieniani. Anche quelli che la respingono o la snobbano. Anzi, soprattutto quelli. E questo è comunque un risultato di audience che la produzione incassa. Chi se la godrà di più, invece, saranno gli spettatori dall’occhio talmente postmoderno da ridiventare ingenuo. Ce li si immagina – non senza un pizzico di celatissima invidia – come degli adulti bambini che non pretendono che la vicenda sia perfettamente coerente e realistica, o i personaggi profondi, o la storia aderente all’ortodossia tolkieniana, ma riescono a vedere la serie come una favola postmoderna, appunto: una storia relativamente semplice, a tratti anche bislacca, ma spettacolare e piena di riferimenti a quello che amano.
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