Gli Anelli del Potere: note dopo 5 episodi

Se si dovesse valutare la serie tv Gli Anelli del Potere da un punto di vista “tolkieniano” bisognerebbe innanzi tutto rilevare una cosa evidente. Non potendo raccontare nel dettaglio le vicende della Prima Era (dato che i diritti del Silmarillion non erano nella disponibilità), e dovendo raccontare la Seconda Era basandosi solo sulle appendici del Signore degli Anelli, gli autori hanno fatto una scelta radicale. Non solo hanno riassunto e semplificato l’intera Prima Era in un prologo a volo d’uccello, ma soprattutto hanno reinventato le vicende della Seconda Era con assoluta spregiudicatezza. Tuttavia l’hanno fatto mantenendo una cornice tolkieniana, cioè una serie di riferimenti a eventi e personaggi del passato (Morgoth, Fëanor, Eärendil, ecc.), reinterpretando alcuni personaggi della storia originale (Galadriel, Elrond, Elendil, ecc.) e inventandosene altri di sana pianta (Halbrand, Arondir, i proto-hobbit, ecc.) che agiscono dentro quella cornice.

ValinorOvviamente questo è già sufficiente a scontentare il fandom più conservatore e geloso, che grida alla lesa maestà e guarda la serie con la matita rossa in mano. All’estremo opposto ci sono invece i fan che apprezzano qualunque cosa riguardi la Terra di Mezzo, e tanto più quindi una serie che ha la pretesa di trasporre – ancorché in modo liberissimo – ciò che sullo schermo non era mai stato trasposto. Si potrebbero definire gli innamorati di Tolkien non gelosi. Nel mezzo c’è quella parte del fandom rassegnata a sentire l’odore delle storie di Tolkien senza ritrovarcisi, e guarda gli episodi con un approccio disincantato o divertito, ovvero con snobistico distacco, per il gusto di vedere cos’hanno combinato questi quattrinai yankee.
Per onore di cronaca bisognerebbe citare anche il sottoinsieme assai chiassoso dei fan tolkieniani che se la prendono con la serie perché “fa politica sfruttando Tolkien”, riferendosi al fatto che – come in quasi ogni serie fantastica anglosassone di ultima generazione – è stato scelto un cast multietnico che non rispecchia la cromaticità epidermica nel testo letterario. In Italia di uso politico dell’opera di Tolkien, anche se di segno diametralmente opposto, ne sappiamo qualcosa, quindi dovremmo essere vaccinati, ma tant’è. Certo è che tra tutte le licenze poetiche e le libertà di riscrittura che si sono presi gli autori della serie, quella del cast multicolore è veramente la meno impattante, soprattutto perché le caratteristiche delle razze della Terra di Mezzo sono invece rispettate piuttosto fedelmente. E dal punto di vista tolkieniano è quello che conta.

Difficile assegnare delle percentuali numeriche alle varie categorie di spettatori, ma sono abbastanza riconoscibili nei commenti che si incontrano nel web, con tutte le sfumature possibili tra l’una e l’altra, ovviamente. La sensazione è che ce ne sia per tutti, ovvero che i produttori abbiano deciso di correre il rischio massimo, contando magari anche su una parte di spettatori non-fan che vanno a ingrossare la schiera di quelli che guardano la serie facendo il gioco del “canonico/non canonico”.

MirielUn altro elemento narrativo che salta agli occhi è la centralità assegnata ai personaggi femminili, figlia dei tempi attuali. A Tolkien veniva imputato di averne inseriti pochi nelle sue storie e sempre in ruoli secondari. Ciò non toglie che i suoi personaggi femminili fossero belli e significativi, e dunque suggerissero una presa di spazio che una riscrittura contemporanea non può che mettere in atto. Ad esempio la sottotrama degli Harfoot, i proto-hobbit, completamente inventata, ha al centro una protagonista femminile, Elanor (il nome che sappiamo sarà della primogenita di Sam e Rose Gamgee), che ricorda non poco i protagonisti maschili dei due romanzi di Tolkien, con tanto di personaggio-spalla “buffo”, anch’esso femminile (Poppy). Anche la sottotrama numenoreana è in gran parte imperniata sulla rivalità/alleanza tra Galadriel e la regina reggente Mìriel – contrapposizione anche visiva, trattandosi di due attrici etnicamente agli antipodi – con i personaggi maschili a fare da corollario. E pure le vicende degli Uomini del Sud hanno una protagonista donna, la madre single Bronwyn, accanto all’elfo Arondir, con il quale trapela un’affinità elettiva, per così dire. Meno centrale per ora il personaggio femminile di Disa nella sottotrama che si sviluppa intorno all’amicizia accidentata tra l’elfo Elrond e il nano Durin. Va detto però che ruba la scena a tutti ogni volta che compare, dando vita a siparietti comici ai quali i Nani – forse per colpa dell’imprinting jacksoniano – sembrano destinati.

Proto-HobbitUn altro aspetto della serie è l’indagine antropologica sui vari popoli di Arda. Di ciascuno vediamo almeno un rituale, un’usanza, un aspetto centrale della società. Vale per i proto-hobbit che commemorano i membri della tribù persi durante le migrazioni; vale per Numenor, con tutto il suo sfarzo, le gilde artigiane, la corte; vale per gli Elfi, con tanto di leggende apocrife; vale perfino per gli Orchi, che venerano un “Padre”.
Questi ultimi sono Orchi primordiali, mezzi talpe e mezzi vampiri, con elmi ricavati da teschi di animali, che scavano gallerie sotterranee e si riparano dall’odiata luce solare con mantelli e tendaggi. Vengono mostrati, per altro, nella goblinesca – e quindi si potrebbe azzardare “filologica” – attività di rendere schiavi gli altri affinché lavorino al posto loro (leggasi Lo Hobbit).

Elanor BrandipiedeUna nota particolare la merita l’ipotesi narrativa sui proto-Hobbit, rappresentati come un popolo seminomade, costretto a mimetizzarsi nel paesaggio, non avendo altri strumenti di difesa dai pericoli del mondo esterno. Una spiegazione questa di una caratteristica tipica degli Hobbit tolkieniani. Implicitamente si suggerisce che una volta diventato stanziale e sedentario, quel popolo non riuscirà a cancellare completamente le tracce del proprio passato ancestrale. E allora ecco la “tookishness” che ogni tanto affiorerà in un hobbit, scatenandogli la voglia di partire e vedere il mondo, affezione da cui Elanor “Nori” sembra già colpita. Ma ecco anche la canzone della migrazione, della quale retrospettivamente si troverebbe una sopravvivenza in un verso della poesia di Bilbo su Aragorn: «Not all those who wander are lost».
Ci sono altri easter eggs che gettano ponti tra gli Harfoot e gli Hobbit, dei quali almeno due si possono segnalare: l’evidente somiglianza fisiognomica tra Dylan Smith, l’attore che interpreta Largo Brandyfoot, e Dominic Monaghan, l’attore che interpretava Merry Brandybuck nella prima trilogia di Jackson, forse a suggerire una discendenza tra i “Brandy”; e la prima parola pronunciata da Elanor alla sua entrata in scena: «hundred-eleven», gli anni di Bilbo all’inizio del Signore degli Anelli, quelli che si celebrano alla festa attesa a lungo.

StranieroDella resa visiva di Arda vale forse la pena parlare solo per dire che è spettacolare. La montagna di soldi spesi lì si vede tutta, sia che si tratti di riprese di paesaggi reali sia che si tratti di ricostruzioni digitali di ambienti urbani, skylines di città, isole, ecc. Almeno su questo è difficile non compiacersi di come è stata rappresentata la visione tolkieniana, in continuità con quella dei film di Jackson. Anzi, forse la critica che si potrebbe muovere è di essere rimasti fin troppo in continuità e non avere osato di più.
AdarImmancabile il “toto-personaggio” innescato astutamente dagli autori: chi è il misterioso uomo caduto dal cielo? Chi è il misterioso Elfo (?) che gli orchi chiamano “Padre”? Chi sono le misteriose figure androgine biancovestite che indagano sul cratere del meteorite? Chi è davvero Halbrand? Eccetera. Alla fine della prima stagione probabilmente alcune di queste domande troveranno risposta. Nel frattempo contribuiscono a tenere alta l’attenzione, a trasformare la visione in un gioco.

Uno dei veri punti deboli della serie sembra invece essere finora quello ritmico-narrativo, sul quale si sono spese non poche critiche. Le prime cinque puntate sono lente, di fatto preparano l’avvio degli eventi senza che accada ancora nulla di eclatante. Per questo scopo cinque ore sono troppe rispetto ai ritmi a cui siamo abituati oggi. Paradossalmente forse non lo sarebbero state per Tolkien, che nel Signore degli Anelli impiega tutto il libro I e ben due capitoli del libro II (in tutto 270 pagine nell’edizione inglese) per apparecchiare la missione dell’eroe e spiegare il contesto in cui si svolgerà. Ma noi non siamo nati alla fine del XIX secolo, e non ci nutriamo di romanzi ottocenteschi, viviamo qui, oggi, e pretendiamo di non addormentarci davanti allo schermo, ma di essere catturati dalla vicenda entro la prima ora. Altrimenti la soglia d’attenzione comincia a calare, WhatsApp chiama, qualcuno suona alla porta, il pensiero della prossima bolletta del gas si insinua infingardo. Non siamo al buio di una sala insieme ad altre decine di persone, ma nel nostro domicilio, magari facendo colazione, o cenando, o stravaccati sul divano alla fine di una giornata di lavoro, col sonno che incombe.

morfydd clark AmazonPoi ci sono le critiche sull’intreccio. Sì, perché, come è noto, non sempre la libertà che ci si prende viene spesa al meglio. E allora alcune semplificazioni negli snodi narrativi, alcune gratuite e repentine sterzate della trama, e soprattutto le poche sfumature psicologiche dei personaggi non possono che fare storcere il naso ai palati più sgamati. Soprattutto nella sottotrama numenoreana, non solo gli intrighi di palazzo sono risolti piuttosto ingenuamente e certi personaggi stereotipati; non solo le tensioni sociali sull’isola sono tirate via; ma soprattutto il personaggio di Galadriel risulta un motore fin troppo immobile per far ruotare gli eventi intorno a sé. Quando il personaggio principale di una linea narrativa è poco sfaccettato e si presenta invece come monolitico, risulta difficile appassionarcisi, per quanto iconica sia la sua figura e per quanto un’interprete come Morfydd Clark, con la sua aura celtica e un taglio d’occhi davvero particolare, sia nella parte.

Elizabeth Cate BlanchettA poco servono i giochi di rimandi con cui gli autori hanno voluto evocare la precedente Galadriel, o meglio, la grande attrice che l’ha interpretata, Cate Blanchett. Sono almeno due riferimenti a chiave, che passano attraverso un altro personaggio, quello della regina Elisabetta I di cui l’attrice australiana ha vestito i panni in due film. La Galadriel degli Anelli del Potere pronuncia la fatidica frase «There is a storm in me» che riecheggia quel «I have a hurricane in me» di Blanchett-Elizabeth urlato davanti ai minacciosi ambasciatori spagnoli. E l’armatura che Galadriel indossa quando sale sulla nave numenoreana che dovrà portarla nella Terra di Mezzo è quasi identica a quella indossata dalla regina Elizabeth in una celebre scena del secondo film.
Il punto è che un personaggio così importante nella serie per ora non riesce a essere complesso, mostrando solo una maniacale forza di volontà, abilità guerriere da eroina Marvel, e un’ossessione cieca per la propria missione. Anche senza considerare la grande potenzialità dell’originale, questo deficit di scrittura del personaggio si fa notare perfino più delle azzardate invenzioni sul metallo mithril, o delle contraddittorie strategie del re Gil-Galad, et similia.
Più interessanti, perché ancora misteriosi, indubbiamente i personaggi dell’Uomo caduto sulla Terra (di Mezzo) e di Adar, il villain manifesto, interpretati da due attori davvero nel ruolo, Daniel Weyman e Joseph Mawle. Ben scritte finora le loro parti e ben interpretate. Almeno quanto quella di Sadoc, l’anziano leader degli Harfoot, che detiene la memoria storica e il libro divinatorio della tribù, affidata a Sir Lenworth George Henry CBE (una garanzia).

Amazon Rings of PowerA conti fatti, l’impressione è che questa serie seguiterà a far parlare di sé gli appassionati tolkieniani. Anche quelli che la respingono o la snobbano. Anzi, soprattutto quelli. E questo è comunque un risultato di audience che la produzione incassa. Chi se la godrà di più, invece, saranno gli spettatori dall’occhio talmente postmoderno da ridiventare ingenuo. Ce li si immagina – non senza un pizzico di celatissima invidia – come degli adulti bambini che non pretendono che la vicenda sia perfettamente coerente e realistica, o i personaggi profondi, o la storia aderente all’ortodossia tolkieniana, ma riescono a vedere la serie come una favola postmoderna, appunto: una storia relativamente semplice, a tratti anche bislacca, ma spettacolare e piena di riferimenti a quello che amano.

 

Appunti sul discorso di Ottavio Fatica a Trento

Convegno di TrentoIl primo intervento al convegno “Fallire sempre meglio: tradurre Tolkien, Tolkien traduttore”, il 30 novembre scorso, è stato quello di Ottavio Fatica, che ha esposto le impressioni e le riflessioni ricavate da due anni di lavoro sul testo del Signore degli Anelli. Il traduttore si era già espresso in altre occasioni, ma in questa circostanza ha tirato le somme, concedendosi uno sguardo più complessivo, e nient’affatto comodo o compiacente.
Per larghi tratti il suo intervento è parso rivolto a noi tolkieniani, come volesse ricordarci che Tolkien è un autore tra molti, e che di nessuno è possibile decretare in anticipo quale sarà il posto nel pantheon letterario. Ergersi a difensori o detrattori a oltranza di un’opera artistica è come difendere o attaccare una trincea a prescindere dalle dinamiche della guerra, per sola fede nella centralità della posizione. Libro Cultura Convergente Henry JenkinsUn’attitudine che ha portato allo stallo e allo stillicidio della Grande Guerra, tanto per dire.
Si potrebbe chiosare che acquisire questa lezione fa la differenza tra essere esclusivamente dei “fan” (fanatic) o essere anche dei lettori critici, cioè in grado di vedere le cose in prospettiva. Nell’epoca della cultura partecipativa non è necessario che le due attitudini siano in contraddizione, come sostiene da tempo il professor Henry Jenkins, e vale la pena credergli.
Bene, dunque, che Fatica abbia ripreso le più celebri stroncature del masterpiece tolkieniano, passandole in rassegna e cercando il loro nocciolo di verità. Un’attitudine corretta, appunto, se si vuole evitare lo stallo di cui sopra, dato che né le opere né le critiche vanno prese per oro colato, ma sempre contestualizzate.

Elio VittoriniInnanzi tutto Fatica ha ricordato la bocciatura dei primi editori italiani che ebbero in visione Il Signore degli Anelli, dovuta a una circostanza particolare: negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia stavamo ancora metabolizzando il realismo americano degli anni Trenta, essendo rimasti isolati dal mondo anglofono per tutto il ventennio del regime fascista. Il Signore degli Anelli era in totale controtendenza e incomprensibile per l’intellighenzia italiana in quel momento storico. Vittorini & co. non peccavano di chiusura o snobismo, ma erano aperti in direzione della grande letteratura americana con due decenni di ritardo. Ogni intellettuale è figlio del proprio spaziotempo. A questa riflessione Fatica ha aggiunto anche un’ulteriore appunto: all’epoca i grandi nomi firmavano le traduzioni, ma in realtà per loro lavoravano i ghost writer. Leggere tra le righe: non è affatto detto che al romanzo, anche con una firma di richiamo, sarebbe toccata miglior sorte di quella che poi ebbe. I bei tempi non sono mai esistiti.
Harold BloomQuindi Fatica ha rievocato le celeberrime stroncature dei due mostri sacri della critica letteraria statunitense, Edmund Wilson e Harold Bloom (il secondo non a caso tanto avverso a quella controcultura americana che invece trovò in Tolkien un autore di riferimento).
Per costoro Tolkien era un romanziere dilettante. Ed è innegabile che lo fosse: la sua professione era un’altra e in vita ha pubblicato soltanto due romanzi e qualche racconto. Se per i grandi critici della East Coast aveva lavorato con l’ingenuità del neofita sugli stereotipi letterari, Fatica ha aggiunto che gli mancava la disinibizione e la prolificità degli autori popolari e seriali, perché la sua non è narrativa popolare vera e propria, bensì segretamente ambiziosa, colta, con più livelli di lettura. Eppure gli è toccata la sorte della letteratura popolare, fino a sprigionare tutta la «forza mitopoietica dell’archetipo» e plasmare l’immaginario collettivo di un’epoca. Ottavio FaticaIn questi equivoci del destino si cela il segreto del “caso” Tolkien.
Ancora: Il Signore degli Anelli è ripetitivo, Bloom dixit. Oh, sì. Ma noi oggi possiamo dire reiterativo, il suo ritmo è questo, è ripetitivo come lo è l’Odissea, o il ciclo arturiano. Questo, Fatica non l’ha detto. Ha detto invece che la marcia degli Ent è «grandiosa».
Per Bloom i giochi linguistici di Tolkien tradivano una lingua «troppo cosciente di sé». Altroché! Mr Canone Occidentale aveva ragione, ma non considerava un fatto: che quel giocare con la lingua sfociava nel revival di certi «trucchi» medievali riutilizzati non già per citazionismo o divertissement, ma perché Tolkien credeva nell’efficacia del loro effetto e voleva riportarli in auge (vedi la lettera 171 e vedi l’intervento della prof. Roberta Capelli allo stesso convegno trentino).

Tolkien Weekend: OrcoE poi la questione degli Orchi, falciati come burattini, come se non fossero anime perse. Quante volte gli è stato rinfacciato in vita e dopo? E non ne stiamo forse ancora parlando a distanza di decenni? Non è rimasto un problema irrisolto anche per Tolkien, che ha continuato a rimuginarci sopra fino all’ultimo? Significa che lui stesso era consapevole che qualcosa non tornava e che alla sua coscienza di cattolico rimordeva l’aver lasciato margine al predestinazionismo, ancorché per creature ripugnanti. Chi lo ha detto che certe critiche snob non possono cogliere nel segno anche se mirano da un’altra parte?
Ancora: il gioco della provvidenza. Qui lo sguardo letterario di Fatica ha dribblato le annose elucubrazioni sulla visione della storia nell’opera di Tolkien, fatte in un’ottica teologico-filosofica, per ricordarci che ogni autore, in quanto sub-creatore produce il proprio mondo letterario, dunque può svolgere la trama secondo un piano provvidenziale e affermare che questo è il senso della storia del mondo – di quel mondo, come del nostro. Ma è troppo facile farlo affermare a Gandalf, cioè a uno dei propri personaggi. È come se in un romanzo poliziesco un detective ipotizzasse chi è l’assassino (Gollum) prima ancora che il delitto venisse compiuto (ruolo e morte di Gollum) ed evocasse anche le possibili conseguenze (eucatastrofe).
IncantesimoFatica ha anche riflettuto sull’Incantesimo, chissà se è stato colto. Anche questa stoccata probabilmente era rivolta a noi lettori fan. Il teatro feerico è un’arma a doppio taglio, perché se si arriva a prendere troppo sul serio la realtà secondaria, a crederci, si rischia di sfociare nella «Illusione Morbosa». Si potrebbe aggiungere che quando un mito viene trasmesso agli altri con una finalità, messo a disposizione di un apparato di potere, cioè quando viene tecnicizzato (avrebbe detto Furio Jesi), le cose non vanno mai a finire bene. Nel Novecento si è scherzato parecchio con questo fuoco, con risultati catastrofici. Ma questo vale anche su una scala più piccola: occhio a non trasformare Tolkien in un demiurgo onnipotente, in un genio assoluto, in un sub-creatore da adorare. Rimane pur sempre un autore di storie, e peregrinare nelle sue terre alle quali sentiamo di appartenere, come direbbe qualcuno, è un’esperienza che non deve azzerare il nostro spirito critico, il nostro senso della prospettiva e delle proporzioni.
Da questo punto di vista, ha detto ancora Fatica, un vero scrittore non ha bisogno di essere difeso da chi lo critica, perché la migliore difesa è la qualità della sua scrittura. E le qualità a Tolkien non mancano, ha detto Fatica: «fantasia, visionarietà, ritmo narrativo incalzante, senso animistico della natura, solida tenuta nei passi di crescendo epico, e molto altro ancora». Infatti l’opera del Professore gode di ottima salute mezzo secolo dopo la sua morte. Che bisogno ha di essere sostenuto se non sta cadendo?
La stessa constatazione si può spendere per il testo narrativo, che non coincide con le sue traduzioni nelle lingue XY, e che non può essere sacralizzato, né caricato di «Verità», a meno che non si intenda fondare una religione (e qualcuno che vorrebbe beatificare il Professore pure esiste), trasformandosi da fan a fanatici religiosi, appunto. Se qualcuno pensa che il passo non sia breve dia un’occhiata alla storia della Chiesa di Scientology.

Tolkien writingA questo lungo preambolo sono seguiti gli appunti tecnici, che in molti, diciamocelo, avremmo voluto più estesi. «Poi ci sono i versi nascosti nella prosa. Non insisterò mai abbastanza su questo punto», ha detto Fatica. E ha spiegato che questa è una caratteristica dello stile di Tolkien, come di altri autori: Dickens, Melville, perfino Calvino. La prosa poetica nel Signore degli Anelli è la sua scoperta – come già era stato per Moby Dick – e nessuno può togliergliela. La scoperta di uno che la letteratura e il tradurre letteratura li conosce come nessun lettore italiano di Tolkien, ahinoi, anche se noi sappiamo la differenza tra hröa e fëa; uno che affronta la questione da traduttore, appunto, e sa che se la parola “soul” non compare nel romanzo (eccetto in una singola occorrenza, in un’immagine figurata), inserirci “anima” in traduzione è sia un problema concettuale e di lealtà al testo, sia un problema di registro. Altroché se lo è.
La prosa di Tolkien è a strati, dunque. C’è la superficie, e c’è tutto il resto, di cui nemmeno un madrelingua inglese è tenuto ad accorgersi, perché servirebbe una competenza da specialista o da accademico, qual era Tolkien, infatti. Eppure solo così si possono cogliere i punti di forza linguistici (ad esempio certe accezioni recondite) e i punti deboli sintattici (ad esempio l’abuso di avverbi), nonché le tantissime suggestioni letterarie che il testo contiene.
Poi c’è la questione che Fatica stesso ha definito spinosa. Quella degli anacronismi e delle parole fuori contesto.
Fatica ha cercato di evitare gli anacronismi, ha detto, o quanto meno di non inserirne arbitrariamente. Quindi niente “fila indiana”, “in picchiata”, “panorama”, “ciao”, “valigie”, ecc. Tutti termini ultracontemporanei in italiano. Tuttavia poi si è accorto che Tolkien non era affatto così puntiglioso come il suo traduttore. E non solo per il celeberrimo drago che passa «come un treno espresso», all’inizio del romanzo.
Ad esempio Fatica nota che Tolkien ha usato gratuitamente l’espressione «night-walkers», resa celebre da Yeats nella poesia Byzantium, in cui come nel romanzo, guarda caso, si descrive un’alba (e che Fatica traduce, quasi mantenendo l’ambiguità alla fonte, con «creature della notte»).
Fatica nota pure che, in un composto simile, Tolkien si è spinto ancora più in là: «nightshade», per ogni vocabolario e per ogni anglofono il nome di una pianta, cioè la morella o la belladonna (sì, proprio l’erba che dava il nome alla mamma di Bilbo e che nel primo romanzo era evocata col nome “italiano”), e che nel Signore degli Anelli compare due volte, nel senso letterale di night / shade, ombra notturna, ma scritto in una sola parola composta. Forse un divertissement, un riferimento criptico al romanzo precedente, o forse un gioco di rimandi interni e al tempo stesso ancora più estesi, se la prima accezione è connessa a Beren e Lúthien e la seconda ad Aragorn. Chissà.
driadeTolkien ha anche usato «dryad», cioè driade, la ninfa degli alberi nella mitologia greca. Cosa ci fa nella Terra di Mezzo?, si è chiesto Fatica, definendola la nota più stonata del libro. È vero, stona, ma talmente forte che non può non essere voluta. Per scoprirne la ragione forse bisognerebbe chiedersi dove si trova questa parola, cioè nella descrizione dell’Ithilien: «Ithilien, the garden of Gondor now desolate kept still a dishevelled dryad loveliness». Nel gioco di trasposizioni geografiche di Tolkien, l’Ithilien è l’Italia, è la parte meridionale della Terra di Mezzo corrispondente all’Europa mediterranea. Tolkien ce lo trasmette a modo suo, con una parola “spia”. E non una parola a caso: “driade” ci giunge sì dal greco, ma è parola d’origine celtica, viene da “drus”, cioè quercia, e ha la stessa etimologia di “druido”. È una parola ponte tra le culture europee, che collega il Mediterraneo al continente. Ecco l’Italia, appunto, un giardino abbandonato (definizione perfetta) e decadente come l’immaginario evocato dalla figura della ninfa. Insomma potrebbe essere l’ennesimo gioco di parole-concetto in stile Tolkien, che conferma la sua autoindulgenza.
GeronzioFatica ha pure preso una cantonata, va detto, attribuendo la parentela del Vecchio Geronzio a Barbalbero (anziché a Pippin), ma sulla ridondanza onomastica ha ancora colto nel segno: Geronzio è nome greco-latino, in questo caso nome proprio di persona, che significa “Vecchio”. Se nella finzione narrativa i nomi hobbit sono tradotti in inglese, il significato del suo nome originario reso dal fantomatico traduttore con l’anglo-latino “Old Gerontius” quale doveva essere? “Vecchio Vecchietto”? “Vecchio Vetusto”? Ma del resto, compare un hobbit di nome Sancho, come il celebre scudiero di Don Chisciotte. A volte per Tolkien la voglia di giocare con i nomi era più forte delle esigenze di plausibilità.
Così, ha fatto notare ancora Fatica, nel testo compaiono “pencils”, “devils”, “devilry”, e perfino un “Lor bless you” o un “jovial”, nonché svariate citazioni bibliche. E via così.

Cover Volume unico FaticaMa perché tutto questo insistere sugli anacronismi lessicali? In fondo Fatica ha premesso che l’espediente narrativo del Signore degli Anelli è quello del manoscritto ritrovato e tradotto, dunque una parola più moderna può tranquillamente essere imputata al fantomatico traghettatore del testo verso il pubblico odierno. È proprio questo l’inghippo. Fatica “sgama” Tolkien che ricorre al suddetto espediente per garantirsi mano libera nei divertimenti lessicali, per poi diventare etimologicamente seriosissimo quando vuole indulgere nel suo vizio segreto. Così se per caso qualcuno pensava di far risalire il nomignolo “Sharkey” a “shark”, cioè “squalo”, o magari di farlo derivare dal germanico “schorck”, cioè “mascalzone”, svelando il gioco etimologico dell’autore, Tolkien in nota si premura di cambiare le regole: spiacente, ma è linguaggio orchesco, non anglosassone, e significa “vecchio uomo”. Riprova, sarai più fortunato. Inutile dire che giammai si permetterebbe questi giochetti con l’elfico o certe parole-asterisco dell’Old English, laddove invece prende assolutamente sul serio il proprio “vizio”, dedicandosi a ricostruzioni e genealogie infinite.
Questo, ha detto Fatica, è sleale nei confronti del lettore, che non può orientarsi nel rimando di specchi della “traduzione della traduzione” e al tempo stesso però è invitato a farsi linguista e fonoesteta. Nella migliore delle ipotesi questo implica l’uso di due pesi e due misure, nella peggiore equivale a invitarlo a giocare con le carte truccate. L’unico demiurgo di quel mondo, lingue incluse, è Tolkien stesso, infatti, che stabilisce norme ed eccezioni, etimi anglosassoni e traduzioni da lingue immaginate, scherzo e serietà. A queste condizioni (né potrebbero esservene altre) nessuno può davvero giocare con lui al suo gioco linguistico, per quanti ci abbiano provato e continuino a farlo. Perché la lingua viva, la lingua-mito, in cui lui credeva, esiste davvero soltanto nella storia vissuta, non inventata, e lui questo lo sapeva (non spese a caso la parola “Vice”, vizio appunto), e perché Il Signore degli Anelli non è davvero una traduzione.

microfono pubblicoQuesta è in effetti l’unica vera imputazione di Fatica a Tolkien, mossa mentre ce ne svela trucchi, giochi di parole e riferimenti a chiave, come parte integrante del suo stile letterario. Per il resto il traduttore ha imputato molto a se stesso: sviste, alcuni errori, imprecisioni, eccessive cautele in certi casi, ripensamenti tardivi. E per fortuna che la comunità tolkieniana si è mossa per segnalare quanti più errori e migliorie possibili in vista delle nuove edizioni. Questa, c’è da credere, è stata una bella novità per Fatica, forse perfino una lezione, se nel suo discorso ha sentito di riconoscere questo contributo. Chapeau. Perché i fan sono così: buoni o cattivi, ben disposti o paranoici, frustrati o conservatori… ma comunque partecipativi. E questa è la metà piena del bicchiere del fandom, ovvero il rifiuto di quella concezione «referendaria» della letteratura – così stigmatizzata da Roland Barthes – in nome di una narrativa vissuta (re)attivamente.
Difficile dire quanti presteranno ascolto a Fatica. È facile supporre invece che in molti preferiranno fraintenderlo, magari perché non si sono trovati d’accordo con le sue scelte traduttive o perché non ha mai mostrato la necessaria reverenza per Tolkien. Resta il fatto che al convegno trentino abbiamo ascoltato il pezzo di uno specialista, finalmente, come l’AIST ha sempre voluto. Uno specialista non già dell’opera omnia di Tolkien, ma di letteratura, lingua, traduzione, che si è cimentato con Tolkien. Se ci ha detto cose poco piacevoli, senza blandire né l’autore né i lettori, dovremmo essere contenti di questa schiettezza, perfino nel caso considerassimo irricevibile ogni suo argomento. Perché di questo sguardo esterno, disincantato, professionale, noi tolkieniani abbiamo bisogno per arieggiare il nostro ambiente, se non vogliamo che diventi autoreferenziale, asfissiante, asfittico.
Occorre resistere alla tentazione di tornare al calduccio del nostro abituro hobbit e chiudere fuori il mondo esterno, come dice Gildor Inglorion della Casa di Finrod, citando il quale Fatica ha concluso il suo intervento. Il mondo esterno va sfidato e attraversato. De nobis fabula narratur.

 

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– Leggi l’articolo La versione di Fatica: contributo per una messa a fuoco

LINK ESTERNI:
– Vai al sito del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’università di Trento

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Il creatore della Terra di Mezzo: la recensione

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Meme catalogo mostra OxfordLeggendo il catalogo della mostra Tolkien: Maker of Middle-Earth, tenutasi a Oxford da giugno a ottobre del 2018, in uscita oggi in Italia per Mondadori (Tolkien: Il creatore della Terra di Mezzo, 416 pagine, 45 euro, trad. di Stefano Giorgianni), si ha a tratti la sensazione di violare uno spazio privato. Una grande quantità di materiale appartenuto al celebre Professore viene messa in mostra per i fan della Terra di Mezzo. È una cosa che accade soltanto per gli autori di culto, e non ci sono dubbi che J.R.R. Tolkien sia tra questi, dato che con il passare dei decenni la sua narrativa ha incontrato un apprezzamento sempre più ampio da parte di un pubblico quanto mai eterogeneo. Per questo, sfogliando il catalogo viene da chiedersi cosa avrebbe pensato di una mostra su di sé. La risposta è che probabilmente ne sarebbe stato al tempo stesso lusingato e irritato. Lusingato, perché sono pochi gli scrittori a cui siano state dedicate esposizioni come questa. Irritato perché era profondamente avverso alla via biografica alla letteratura e contrario al culto dell’autore, ritenendo quest’ultimo un pessimo servizio alla letteratura stessa. In una lettera del 1971 scriveva:

«Una delle mie convinzioni più radicate è che l’indagine sulla biografia di un autore (o su altri aspetti della sua “personalità”, come quelli che vengono racimolati dai curiosi) sia un approccio totalmente inutile e sbagliato alla sua opera, e specialmente a un’opera d’arte narrativa, per la quale l’obiettivo che l’autore cercava di centrare era che venisse apprezzata in quanto tale, che fosse letta con piacere letterario»1.

Già nel 1958, a pochi anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, Tolkien si era espresso in termini ancora più netti:

«Non mi piace riferire “fatti” su di me che non siano “nudi” (e che in ogni caso sono altrettanto rilevanti per i miei libri quanto gli altri dettagli più succosi). Non semplicemente per motivi personali; ma anche perché sono contrario alla tendenza contemporanea della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e artisti. Questi infatti distraggono l’attenzione dall’opera dell’autore (se l’opera è in effetti degna di attenzione), e finiscono, come si vede spesso, per diventare l’interesse principale. Ma solo il proprio angelo custode, o Dio stesso, potrebbe dipanare le effettive relazioni fra i fatti personali e l’opera di un autore»2.

Catalogo mostra OxfordSi potrebbe aggiungere che quando scriveva narrativa, Tolkien si sentiva affine agli autori medievali che studiava da accademico, spesso anonimi estensori di tradizioni poetiche tramandatesi oralmente per secoli. «Ho sempre avuto la sensazione non di “inventare”, ma di annotare ciò che era già “lì”, da qualche parte»3, scriveva riferendosi alla propria attività di mitopoieta. L’immagine romantica dell’autore-genio, dell’autore-oggetto-di-culto, non gli è mai appartenuta. Questo non significa, ovviamente, che non fosse disposto a riconoscere la perizia, il talento, l’inventiva, del singolo autore al lavoro su un’opera nuova, attraverso l’uso creativo delle fonti. Semplicemente per lui l’autore non doveva essere anteposto all’opera stessa, la quale, peraltro, se di un qualche valore, gli sarebbe sopravvissuta, guadagnando legittima autonomia, come una figlia ormai adulta. Non era quindi propenso a vedere sviscerata ed esposta la propria vita fin nei minimi dettagli personali e familiari.

Catalogo mostra OxfordNondimeno, nel suo caso ci sono almeno tre argomenti a favore dell’approccio biografico, che trovano conferma proprio nelle pagine di questo catalogo.
Il primo è che Tolkien ha pubblicato poco in vita: non molti lavori accademici e davvero poche opere narrative, vale a dire appena due romanzi, tre racconti, e una raccolta di poesie. Dunque una mole considerevole di materiale interessante ha dovuto essere attinta dai suoi archivi personali, per essere pubblicata postuma. Lo stesso vale per l’epistolario, del quale a suo tempo è stata pubblicata soltanto una selezione, priva delle lettere inviate a Tolkien, alcune delle quali fanno invece parte di questo catalogo e rivelano aspetti peculiari dei suoi rapporti con il mondo esterno.
Catalogo mostra OxfordIl secondo argomento è che – essendo stata la narrativa una semplice passione per decenni e poi tutt’al più un secondo mestiere – molto spesso l’espediente per la scrittura era offerto a Tolkien proprio dalla vita privata. Molte delle sue storie nascevano dai racconti serali inventati per i quattro figli. Esiste dunque una dimensione intima della sua narrativa che – a maggior ragione nel caso degli inediti – è strettamente connessa alle relazioni personali. Sotto questo aspetto, dalle memorie famigliari emerge la figura di un genitore moderno, che «univa paternità e amicizia», trascorrendo parecchio tempo con i figli, coinvolgendoli nelle sue storie fantastiche, e prendendo le loro «osservazioni e domande infantili con assoluta serietà»4. La capacità di restare in sintonia con l’infanzia – anche la propria – e di non gettare su di essa uno sguardo paternalistico è senz’altro una delle chiavi della sua efficacia narrativa.
Catalogo mostra OxfordIl terzo argomento è che Tolkien amava disegnare e dipingere – una passione trasmessagli dalla madre e rafforzata a scuola – ed era un illustratore dilettante di un certo talento. Aprire il “Book of Ishness”, osservare i suoi acquerelli, i disegni a penna o anche solo i bozzetti, dà la misura di quanta parte avesse l’arte figurativa nella sua attività di creatore di mondi; per non parlare della calligrafia, in particolare quella elfica. Un’arte, la sua, per lo più privata, ma con un tratto distintivo che l’autrice dei testi a commento non esita a definire “surreale”, accompagnato da un uso del colore per il quale McIlwaine spende l’aggettivo “psichedelico”.

Catalogo mostra OxfordIn realtà c’è un quarto argomento che sostanzia il taglio della mostra oxoniense. È l’affascinante mistero rappresentato da Tolkien stesso: il contrasto tra vita e opera assai più che la loro concordanza. Da un lato un’esistenza borghese, estremamente regolare, conforme alle aspettative sociali e alle convenzioni; dall’altro una “evasione” creativa sconfinata. Quanto più costui fu lontano dalla mondanità, politicamente disimpegnato, devoto alla propria fede cattolica, tanto più fu spregiudicato nell’uso dell’immaginazione fantastica.
Tolkien era un uomo ordinario, assai poco eccentrico, privo delle idiosincrasie e delle pose tipiche dello scrittore, dedito alla famiglia, agli amici e alla professione di studioso e insegnante; tuttavia ha coltivato sempre un “vizio segreto”, l’invenzione di linguaggi e la passione fono-estetica, sfociato nell’ideazione di una realtà secondaria in cui quelle lingue potessero essere parlate. Una “subcreazione” mitica – Arda, la Terra di Mezzo – che è ormai entrata a fare parte indelebilmente dell’immaginario collettivo.
Pensando a questo contrasto, allora, non stupisce che i protagonisti dei suoi romanzi siano proprio uomini comuni capaci di caricarsi sulle spalle i destini del mondo, quei piccoli Hobbit dai quali Tolkien distillava «il sorprendente e inaspettato eroismo dell’uomo ordinario “quando è necessario”»5.
Catalogo mostra OxfordA suggerirgli quella scelta era stata l’esperienza vissuta, il trauma della guerra, che Tolkien riversò nella propria narrativa, come fecero altri letterati reduci del primo conflitto mondiale. Impiegò il tempo concessogli per costruirsi un’esistenza tranquilla e usò la scrittura non soltanto come terapia o elaborazione del lutto, ma anche come grande strumento per raccontare l’umanità posta di fronte al dispiegarsi del male nella storia e ai dilemmi universali. Dove però altri scelsero la poesia, il memoriale, il romanzo realistico, lui mosse in una direzione del tutto diversa, proiettando i grandi temi del suo tempo su un fondale fantastico e posando in questo modo una pietra angolare per la rifondazione e nobilitazione di un intero genere letterario.
Non tutti all’epoca lo capirono e non pochi stentano a capirlo ancora oggi. Tuttavia le lettere che compaiono in queste pagine testimoniano di un riconoscimento da parte di importanti intellettuali e artisti coevi, anche molto lontani dalla visione del mondo del Professore: il reporter e romanziere per ragazzi Arthur Ransome, il poeta Wystan H. Auden, la filosofa Iris Murdoch, la cantautrice Joni Mitchell, o ancora un giovanissimo Terry Pratchett che, proprio grazie all’influsso di Tolkien, sarebbe diventato scrittore fantasy a sua volta. Le epistole messe in mostra raccontano come Tolkien non fosse affatto un eremita. Tanto era refrattario alle luci della ribalta e alla fama mediatica, quanto trasparente nei confronti dei lettori che gli scrivevano. Lettori di ogni ordine e grado, dai suddetti intellettuali a illustri personaggi pubblici, come la figlia del presidente degli Stati Uniti d’America, o la principessa d’Olanda; ma soprattutto illustri sconosciuti, fossero bambini riconoscenti o ammiratori adulti affamati di dettagli sulla Terra di Mezzo.
Catalogo mostra OxfordIl corpus del catalogo – preceduto da una sequenza di saggi dei maggiori studiosi tolkieniani – è un caleidoscopio di carteggi, ritratti fotografici color seppia, disegni a motivi “morrisiani”, acquerelli coloratissimi, mappe e oggetti. Al netto di ogni tentazione feticistica, il volume è un viaggio nel percorso creativo di un uomo che ha nutrito la propria fantasia incessantemente, esprimendosi non solo attraverso l’arte narrativa e la saggistica, ma anche il disegno, la poesia, la pittura, la calligrafia e la cartografia. Queste pagine ci restituiscono l’immagine di uno studioso e artista poliedrico, a tutto tondo, in costante dialogo con le proprie suggestioni infantili, capace al tempo stesso di svilupparle e traghettarle nel racconto adulto, fino a fare collassare la fiaba nel romanzo epico e nell’ucronia fantastica. Sfogliando queste pagine si respirano anche le difficoltà del narratore, trasmesse attraverso la materialità del vivere quotidiano, o la necessità di scrivere e riscrivere, abbozzare, scarabocchiare e immaginare con penna o pennello, prima di riuscire a creare un mondo tanto vivido da sembrare reale e far nascere la voglia di percorrerne i sentieri. Senza dubbio Tolkien ci è riuscito. È per questo che – volente o nolente – viene celebrato.
A tutto ciò si aggiunge un percorso attraverso il Novecento tramite l’album fotografico di famiglia, dove le generazioni si passano il testimone, cambiano il taglio degli abiti e le acconciature, i giovani indossano divise militari poi abiti borghesi, diventano genitori a loro volta e invecchiano, mentre i loro figli crescono di scatto in scatto, diventando giovani uomini e donne.

Catalogo mostra OxfordQuesto fino alla tavola 133, che consiste in una fotografia a colori, a tutta pagina. Lo scopo è evidentemente quello di presentare la toga da cerimonia del professor Tolkien esposta alla mostra, ma il cimelio passa in secondo piano rispetto alla fotografia. Il colore produce un effetto di avvicinamento spiazzante. Siamo abituati a vedere Tolkien in bianco e nero e tonalità di grigio, come un vecchio signore che ci parla da un tempo remoto; e in effetti nel catalogo è così, fino a questa foto. Il soggetto è colto mentre cammina spedito, nella mise adatta a ricevere il dottorato ad honorem in Lettere all’università di Oxford, con il tocco in testa, il papillon candido, la toga scarlatta svolazzante, sotto la quale si vede il gessato a righe. Ha in mano un ombrello chiuso, e sotto il braccio tiene forse il programma della cerimonia o l’attestato stesso. La fotografia è stata scattata il 3 giugno 1972, due settimane prima che scoppiasse lo scandalo Watergate e che David Bowie pubblicasse Ziggy Stardust; dieci giorni dopo la presentazione ufficiale della prima console domestica per videogiochi. Alle spalle del Professore, sfocata, c’è una piccola folla di persone dalla quale si sta allontanando. Si distinguono cappotti e vestiti color pastello, capelli lunghi. Il colore, la dinamicità, il fatto che il soggetto non sia in posa, l’espressione concentrata dell’anziano che non guarda in camera, e, non ultimo, il contrasto tra l’abito cerimoniale e l’abbigliamento moderno delle persone sullo sfondo, ci raccontano qualcosa di diverso dal solito.
Catalogo mostra OxfordNato e cresciuto in un’altra epoca, legato alle convenzioni dei grandi atenei del regno e del ceto accademico, Tolkien, tramite la sua opera, giunge a lambire e perfino ad avere una parte indiretta nella grande rivolta giovanile degli anni Sessanta e Settanta. Eccolo buffamente agghindato, mentre viene onorato dalla sua università, ed è già un autore caro a una generazione di studenti ribelli, rockers psichedelici e hippies, che nella sua opera legge una critica radicale al proprio tempo, alla società industriale, al potere, e un inno alla libertà, alla pace, alla riscoperta della natura vivente. Le storie di Tolkien hanno contaminato e influenzato la controcultura angloamericana di quegli anni: dai Beatles ai Led Zeppelin, dai giovani di Woodstock a quelli di Glastonbury, da “l’uomo più pericoloso d’America” Timoty Leary a un obiettore di coscienza alla guerra in Vietnam che risponde al nome di George R.R. Martin, a tantissimi altri.

Questo ci ricorda che la letteratura non è un feticcio né un altare sul quale innalzare l’autore, ma vive nel mondo grazie alla partecipazione di chi continua a ritrovarsi nelle storie narrate e a farle collidere con la propria vita. Anche e soprattutto le storie fantastiche, che per Tolkien rappresentavano non già un rifugio incantato, ma un’evasione dalla dittatura realista come atto di resistenza contro l’abbrutimento dei tempi. «Perché la Fantasia creativa si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi»6, scriveva nel celebre saggio Sulle fiabe. Un’asserzione che suona come una petizione di principio e che potrebbe essere l’epigrafe perfetta di questo volume.

1 Lettere 1914-1973, n. 329, Bompiani, 2018, p. 656

2 Ibidem, n. 213, p. 456-457

3 Ibidem, n. 131, p. 231

4 Intervista a Michael H.R. Tolkien sul “Sunday Telegraph” del 9/09/1973, citata in questo volume a pag. 178

5 Lettere, op. cit., n. 131, p. 252

6 Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2004, p. 213

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Tolkien’s Folly: analisi del Consiglio di Elrond

Sean McAfee: Concilio di ElrondMentre è da poco uscito in libreria Le Due Torri nella nuova traduzione di Ottavio Fatica, e in attesa che si sviluppi il dibatto sul secondo volume del Signore degli Anelli, pubblichiamo l’analisi strutturale di uno dei capitoli più importanti e strani de La Compagnia dell’Anello. Vorrebbero essere uno spunto per scoprire i “segreti del mestiere” di un narratore spesso esaltato per la sua capacità di costruire mondi e per l’afflato epico-narrativo, infuso soprattutto nel suo capolavoro, ma che forse è stato meno indagato sul piano meramente letterario. Per altro, le molte polemiche seguite alla nuova traduzione, offrono proprio l’occasione di andare ad osservare cose alle quali magari in precedenza si era dato meno peso o di rileggere un testo arcinoto, riscoprendolo.

Aragorn il Forestale, uno studio filologico

cover Compagnia dell'Anello - Trad. FaticaIl nome più indigesto per i fan italiani in quella che è la nuova traduzione della Compagnia dell’Anello è senz’altro “Forestale” per “Ranger”. Nei giorni seguenti all’uscita del libro non si sono risparmiate battute e buffi fotomontaggi per irridere questa scelta del traduttore Ottavio Fatica.
Io stesso, sulle prime, l’ho considerata una traduzione inadatta, perché mi faceva troppo facilmente pensare a quello che fino al 2016 è stato il Corpo Forestale dello Stato.
Ottavio FaticaA onor del vero, non per questo mi pareva più adatta la vecchia resa “Ramingo”, dato che – in accordo con lo stile generale della traduzione di Alliata – appartiene a un registro alto rispetto al comune “ranger”. Inoltre “ramingo” dà conto soltanto (e soltanto parzialmente) del primo significato del termine “ranger” nell’Oxford English Dictionary, mentre la traduzione scelta da Fatica si rifà piuttosto al secondo e al terzo, che in effetti andrebbero presi in considerazione, conoscendo l’abitudine di Tolkien di non rifarsi quasi mai alla prima accezione.
Dopo un’indagine nel testo letterario mi sono persuaso che l’uso del termine “Ranger” da parte di Tolkien faccia collassare una nell’altra le tre accezioni dell’OED, e che la scelta di Fatica – a dispetto della prima impressione – non sia così lontana dal cogliere questo aspetto. È quello che proverò brevemente a dimostrare.

Eroi e mostri di Dal Lago: c’è la recensione

Logo Riceviamo e volentieri pubblichiamo la recensione ad opera di Wu Ming 4 al volume di Alessandro Dal Lago Eroi e mostri Il fantasy come macchina mitologica (2017, €18), appena pubblicato da Il Mulino e che rappresenta, come scrive il recensore, «un salto indietro di almeno cinquant’anni nella storia della critica letteraria». L’autore Alessandro Dal Lago ha insegnato Sociologia della cultura nelle Università di Milano, Bologna, Genova e all’estero. Fra i suoi numerosi libri segnaliamo, per il Mulino, «Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio» (20012), «Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel» (1994) e, con Serena Giordano, «Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea» (2006), «L’artista e il potere. Episodi di una relazione equivoca» (2014), «Graffiti. Arte e ordine pubblico» (2016). Con quest’ultimo volume, però, si manifesta come l’erere di quella intellettualità progressista che in Italia portò all’iniziale snobismo degli ambienti editoriali e accademici nei confronti della letteratura fantastica.
La critica principale di Dal Lago è che nel Signore degli Anelli non ci sia profondità morale. Invece, nelle storie di Tolkien c’è una lotta interiore che si rispecchia in quella esteriore. Alessandro Dal LagoNon c’è però lotta tra le classi, non c’è attrito sociale, inutile cercare col lanternino. Tolkien non era di sinistra, era un cattolico preconciliare che vedeva la diffusione della stampa operaia come il fumo negli occhi ed era perfino contrario al divorzio. Ma le problematiche le affronta tutte sul piano etico, morale, psicologico, a volte perfino teologico, non su quello delle strutture economiche o dei conflitti sociali. E nella sua opera narrativa lui è riuscito a svolgere uno dei più interessanti lavori sugli stili eroici, messi in conflitto l’uno con l’altro, della letteratura europea contemporanea. È per questo motivo che siamo lieti di proporre ai lettori una recensione di chi i libri li legge e analizza in profondità. Buona lettura!

Tolkien, finiscono i film: comincia la Quarta Era

frammento della Mappa di ThrorSono trascorsi tredici anni dall’uscita nelle sale del primo film tratto dal Signore degli Anelli. Mentre incombono le anteprime dell’ultimo capitolo della trilogia (molto liberamente) tratta da Lo Hobbit, si può fare un bilancio di quanto nel frattempo è successo in Italia intorno a J.R.R. Tolkien. Se nel secolo scorso la scena tolkieniana era considerata un ghetto per nerd, o tutt’al più per conventicole dell’ultradestra, la penetrazione nell’immaginario pop tramite la settima arte ha avviato uno smottamento che ha travolto quell’ambiente asfittico e al tempo stesso ha stimolato forme di reazione creativa all’invasione hollywoodiana. Mentre la dimensione d’intrattenimento (cinema, giochi e videogiochi) faceva debordare l’interesse per la Terra di Mezzo ben oltre la sottocultura fantasy, una nuova generazione di appassionati, studiosi, artisti, ha messo in crisi i luoghi comuni di un tempo.
Libri: "Lo Hobbit. Un viaggio verso la maturità" di WIlliam H.GreenCosì da un lato lo snobismo dell’accademia è stato pesantemente scalfito, e dall’altro le letture delle vecchie vestali nostrane sono state ridimensionate (o piuttosto ridicolizzate) grazie a un’attività pubblicistica, su carta e su web, prodotta quasi sempre dal basso. Si è trattato di un lavoro certosino e spesso disconosciuto, che ha prodotto gli anticorpi alla saturazione dell’immaginario seguita all’enorme successo dei film. Per paradosso, senza i kolossal di Peter Jackson non avremmo avuto la collana tematica “Tolkien e dintorni” dell’editrice Marietti 1820, che dal 2005 a oggi ha tradotto i più importanti saggi critici nel panorama internazionale. L’ultimo uscito, Lo Hobbit. Un viaggio verso la maturità di William H. Green, è paragonabile a un gioiello elfico.
05 (copyright Alessio Vissani)Sul piano delle arti visive forse soltanto adesso, con la conclusione della ridondante seconda trilogia, si iniziano a metabolizzare le immagini cinematografiche e ci si apre a nuovi orizzonti, meno schiacciati sul mainstream hollywoodiano. Così si tornano ad apprezzare le opere di un decano come Angelo Montanini e può emergere il lavoro di artisti originali come Ivan Cavini, Maria Distefano e Andrea Piparo.
Manca all’appello la narrativa. I più noti autori italiani di fantasy avrebbero forse potuto spendere un po’ più di tempo a studiare la chiave dell’universalità delle storie di Tolkien e un po’ di meno a cercare di emularle infarcendo le proprie di Elfi, Mezzelfi e Orchi.

Locandina Tolkien Day 2Per rendersi conto di quanto è successo e continua a succedere intorno alla Terra di Mezzo e a sud delle Alpi, si potrebbe scorrere il programma della seconda edizione del Tolkien Day che avrà luogo al VIGAMUS, il museo del videogioco di Roma, il prossimo 14 dicembre. Il tratto distintivo di una manifestazione come questa è la commistione di alto e basso, gioco e studio. In una stessa giornata si potrà assistere alla proiezione de Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug in versione estesa, giocare ai videogiochi a tema, e assistere alla presentazione di Santi pagani nella Terra di Mezzo di Claudio Testi (ESD-Edizioni Studio Domenicano), un saggio che affronta le interpretazioni filosofiche e religiose dell’opera tolkieniana. Non deve stupire che un evento come questo sia organizzato dall’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (www.jrrtolkien.it), nata dall’unione di altri soggetti impegnati da anni a rivalutare l’autore inglese, e già reduce dall’inaugurazione del festival FantastikA, nella rocca di Dozza Imolese, con conferenze di studiosi italiani e stranieri, ma anche esposizioni di illustratori e artisti. Locandina di FantastikaÈ grazie all’attivismo di questo tipo, portato avanti anche da realtà locali, da gruppi amatoriali e circoli, sui blog e sui social network, che la Terra di Mezzo è entrata in una nuova stagione.
Tant’è che anche l’accademia sembra essersi svegliata dal torpore. Tolkien non è più un fenomeno paraletterario, ma un autore che può diventare argomento di dibattito, di corso o di un convegno, come dimostrano gli atenei di Milano, Trento, Pisa, Siena, Palermo, Verona (solo per limitarsi all’ultimo anno). Spesso è la spinta degli studenti e dei giovani ricercatori a portare Tolkien all’università, ma è pur vero che alcuni docenti l’hanno ormai acquisito come autore, Libro: Beowulf di Tolkiensia sul piano letterario sia su quello degli studi filologici.
All’incrocio tra questi due piani si collocano le pubblicazioni dei poemi inediti La leggenda di Sigurd e Gudrùn (2009) e La Caduta di Artù (2013), ma anche quella recentissima della sua traduzione del Beowulf (Bompiani 2014) fatta negli anni Venti e finora rimasta sepolta in archivio. Un’operazione quest’ultima che può interessare forse gli storici della filologia più che i comuni lettori, ma che al tempo stesso ha anche un risvolto letterario, dato che la prosa della traduzione tolkieniana cerca di salvare un’eco dell’antico ritmo poetico anglosassone e – come  scrive Michael Drout, noto studioso di Tolkien – «combina il suo acume filologico con la sua capacità creativa».

Studiosi: Michael DroutEppure resta ancora tanto da fare per stabilire anche in Italia uno standard accettabile per un classico del Novecento. Paradossalmente questo riguarda soprattutto i testi di Tolkien. Sull’edizione nostrana del Signore degli Anelli pendono ancora diverse ipoteche. A partire dalla traduzione, fatta oltre quarant’anni fa, che non rende la varietà di registri linguistici utilizzata dall’autore e molte delle sue scelte lessicali. Per proseguire con l’obsoleta e fuorviante introduzione di Elémire Zolla, scritta quando gli studi tolkieniani erano a uno stadio preistorico. I lettori italiani poi non hanno mai potuto leggere per intero la History of Middle-Earth, cioè la raccolta degli scritti postumi sulla Terra di Mezzo, che contiene vere e proprie perle, dato che ne sono stati tradotti soltanto due volumi su tredici. Per tacere infine del livello deprimente di molti peritesti, completamente avulsi dal dibattito internazionale.
Gli studiosi tolkieniani però sono gente temprata nella lunga lotta di liberazione della Terra di Mezzo dal pregiudizio letterario e dall’appropriazione ideologica. Per questo c’è da scommettere che seguiteranno a esplorarne in lungo e in largo i territori e a battersi finché non avranno definitivamente riscattato quelle lande dall’influsso di Sauron. Consapevoli che solo chi la dura la vince.

(Articolo pubblicato su La Repubblica, p. 60-61 – 11 dicembre 2014)

 
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L’Arst a Dozza (Bo) con mostre e seminari
Il 14 dicembre torna il Tolkien Day a Roma!
Pubblicato Lo Hobbit. Un viaggio verso la maturità
Pubblicato il Beowulf tradotto da Tolkien
Pubblicato «La leggenda di Sigurd e Gudrùn»
Edito da Bompiani “La Caduta di Artù»

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Un libro da Claudio Testi: «Santi pagani nella Terra di Mezzo»

Logo È appena stato pubblicato un libro che spara in alto. E lo fa sotto l’insegna della nostra nuova Associazione. A scriverlo è Claudio Antonio Testi, segretario dell’Istituto filosofico di studi tomistici e nostro socio. Lo studio è intitolato «Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien», edito dalla ESD-Edizioni Studio Domenicano (224 pp., 22 euro – in copertina immagine di Ivan Cavini), e conclude un percorso a cui il filosofo modenese ha dedicato cinque anni di lavoro. L’opera di Tolkien è cristiana o pagana? La domanda ha interpellato lettori e studiosi fin dalla pubblicazione del Signore degli Anelli. Nonostante la notorietà «planetaria» di Tolkien, grazie anche ai film di Peter Jackson, questo dubbio non è ancora stato sciolto con quella completezza critica che merita un autentico classico della letteratura. Il volume è un tentativo in questa direzione. Crediamo che questo lavoro possa essere un riferimento fondamentale per lo studio sugli aspetti più filosofici e religiosi nelle opere di J.R.R. Tolkien. Anche perché, anche su questo importante tema, lo scrittore inglese merita di più. È per questo motivo che, mentre l’inchiostro si sta ancora asciugando, vi proponiamo già una recensione di chi il libro l’ha potuto leggere in anteprima. Buona lettura!

 

«Tolkien in love»: lo scrittore e l’amore

Aragorn e ArwenIl prossimo 19 marzo la casa d’aste inglese Bonhams batterà, per un base tra le 6.000 e le 8.000 sterline, una lettera che J.R.R. Tolkien indirizzò al proprio editore nel 1955, poco prima di vedere pubblicato il terzo volume del Signore degli Anelli. Nel testo Tolkien riferisce la critica che il poeta W.H. Auden gli mosse riguardo alle nozze tra Aragorn e Arwen alla fine della guerra dell’Anello. Secondo Auden quei fiori d’arancio risulterebbero «superflui e frettolosi», ovvero ben poco significativi nel quadro dell’happy ending. Dal suo punto di vista Tolkien avrebbe tranquillamente potuto eliminare la scena. Wystan Hugh Auden fu uno dei primi e più ferventi ammiratori del Signore degli Anelli. In una celebre trasmissione radiofonica alla BBC, nel 1956, disse che non si sarebbe più fidato del parere letterario di chi non avesse apprezzato il romanzo di Tolkien. Per lui, intellettuale di sinistra, reduce della guerra di Spagna, non era scontato e tanto meno gratuito prendere le difese di un autore così demodé come Tolkien, per di più cristiano, lontano mille miglia dai temi e dagli stilemi cari all’intellighenzia di sinistra inglese. Auden ci si mise d’impegno, al punto che Tolkien arrivò a considerarlo uno dei suoi più cari amici di penna. Viene dunque da pensare che la critica di Auden avesse piuttosto a che fare con lo Arwen e Aragornscarso peso che ha la scena delle nozze nell’economia generale del racconto. Auden infatti non aveva ancora potuto leggere le Appendici del Signore degli Anelli, nelle quali viene narrata tutta la storia d’amore tra l’uomo Aragorn e l’elfa Arwen. Dunque ai suoi occhi quel matrimonio risolto in pochi capoversi appariva scarsamente significativo. Il punto è che non lo è affatto, e anzi, implica una delle più complesse e amare riflessioni sull’amore prodotte dal grande autore inglese.

Odoya pubblica Wu Ming 4. Un altro libro su Tolkien?

RivendellLa casa editrice Odoya dà alle stampe Difendere la Terra di Mezzo, il libro che raccoglie e amplia gli scritti e gli interventi pubblici di Wu Ming 4 su J.R.R. Tolkien, che sarà in libreria il 28 novembre. Al suo interno sono contenuti anche i seminari che lo scrittore ha tenuto per la nostra Associazione a Lucca Comics and Games e che in precedenza avevamo anche pubblicato qui in forma breve. Chiude il libro un’appendice a firma di Tom Shippey, professore di Letteratura medievale e anglosassone, il più noto studioso di J.R.R. Tolkien, di cui parliamo spesso qui sul sito. Abbiamo chiesto a Wu Ming 4 di scrivere un testo in anteprima per il sito dell’ArsT per spiegare come ci sia ancora bisogno di un altro libro su Tolkien. Lo pubblichiamo qui di seguito, ringranziando lo scrittore per la gentillezza e il suo impegno del campo degli studi tolkieniani in Italia.

«Difendere la Terra di Mezzo nasce in risposta all’esigenza di divulgare le letture dei più grandi esperti internazionali dell’opera di Tolkien al di fuori dell’ambito ristretto dei cultori della materia. La cosa che ci si potrebbe chiedere dunque è se l’esigenza sia in qualche modo fondata. C’era bisogno di scrivere un altro libro per liberare Tolkien da decenni di incrostazioni ideologiche, sovrainterpretazioni, simbolismi, vulgate volgari? Ritengo evidentemente di sì. A conforto di questa mia convinzione voglio portare due prove. La prima è tratta dalla postfazione di un critico letterario a un saggio di una decina d’anni fa, che ricostruiva la mistificazione imbastita intorno a Tolkien dall’estrema destra italiana. Il critico si premurava di muovere ai due autori del saggio stesso un appunto tanto saccente quanto, forse, involontariamente premonitore: Copertina libro "L'anello che non tiene" edito da Minimun FaxVoglio dire che non c’è bisogno di condividere il pensiero […] che non esistano fatti – testi – ma solo interpretazioni, per nutrire qualche dubbio su quella che mi pare la salda convinzione di Del Corso e Pecere: che cioè, una volta passato il loro rasoio ermeneutico sull’immondizia incrostatasi su Tolkien, questo possa essere restituito a una leggibilità, diciamo, prima. Piacerebbe insomma, in casi come questo, poter nutrire ancora qualche illusione sull’autonomia del testo; ma dai bei tempi di quando eravamo strutturalisti troppa acqua è passata sotto i ponti per non pensare che le interpretazioni di ieri finiscano per deformare irrimediabilmente il senso che un testo ha per i suoi lettori di oggi. Almeno fino a quando gli hobbit, anziché scudieri della gioventù d’estrema destra, non diverranno icone di riferimento del popolo di Porto Alegre. Cioè fino a quando una nuova interpretazione forte non entrerà a sua volta nella compagine di senso attivata dal testo in questione, così attenuando la rilevanza di quella che prima teneva banco (come quella nazi ha fatto quasi dimenticare, almeno da noi, l’opposta – opposta? – lettura hippy degli anni Sessanta…)” (A. Cortellessa, postfazione a L. Del Corso, P. Pecere, L’Anello che non tiene: Tolkien fra
letteratura e mistificazione
, Minimum Fax, 2003).

Social forum Porto AlegreUna nuova interpretazione forte. Precisamente. E possibilmente fondata su ciò che Tolkien ha scritto e non su voli pindarici spiccati dai trampolini del citazionismo a singhiozzo, com’è stato per molti anni in Italia. Perché se ogni lettura è già un’interpretazione, com’è ovvio, e nessuno può nutrire una fede cieca nella lettera del testo “sacro”, è altrettanto evidente che si possono distinguere le letture articolate e argomentate da quelle cialtronesche e dozzinali. Se così non fosse, tanto varrebbe tacere per sempre. Quanto poi le tematiche affrontate da Tolkien nella sua narrativa potessero riverberare nelle battaglie del “popolo di Porto Alegre”, ieri, o ad esempio in quella degli abitanti della Val Susa, oggi, è faccenda che ciascuno può valutare da sé. L’applicabilità è il margine di libertà di ogni lettore, diceva Tolkien. La seconda testimonianza scritta è invece di più basso tenore, ma non meno indicativa di un modo di leggere e considerare l’opera di Tolkien, frutto delle sovrainterpretazioni a cui accennavo sopra. Sì, perché queste hanno lavorato a fondo, si sono sedimentate, fino a condizionare lo sguardo. Si tratta dunque di un messaggio rinvenuto due giorni fa su un social network, che è una vera “chicca”. Lo riproduco così com’è stato postato, senza editing: “I wuming che si fanno affascinare da tolkiene (e innpassato gli unici a cui era capitato sopra i 16 anni erano quelli di avanguardia nazionale) è davvero maledettamente triste. E dir che di temi al mondo ce ne sono. Evidentemente quando diventi interessante e sai di essere ascoltato, la testa inizia a girare all'”arrovescia”… Io ho giocato per 15 anninal gioco di ruolo del signore degli anelli. Ho letto tutti i libri, simmarillion compreso, nonchè sbirciato una tesi di laurea di una americana che attraverso i racconti di Tolkien ricostruiva le distanze chilometriche della terra di mezzo. Nemmeno io sono interesante. Però Tolkien parla, scrivendo malino per altro, di un mondo nel quale il popolo non esiste. Esistono solo gli eroi. I cattivi son cattivi e i buoni son buoni. Irrimediabilmente e senza possibilitá di redenzione. Vedi Orchi. Un mondo che rappresenta perfettamente quell’ambientalismo reazionario tipico della destra aristocratica. Il bel mondo che fu. Nel quale i re erano quelli veri, amato dal popolo, che facevano il bene, senza classi e con il nemico sempre rappresentato dall’impostore o dal nemico esterno… E visto che a wuming piace descrivere la sinistra in questi termini, non capisco questa ridicola passione adolescenziale“.
Tralasciando ora sintassi, ortografia e l’ironia involontaria dell’accusa di scrivere «malino» formulata in un messaggio che è quello che è, la cosa davvero emblematica è l’acquisizione della lettura della destra più retriva da parte di chi invece sembra porsi in tutt’altra area culturale. Ciò dimostra quanto tale lettura sia stata assunta nella vulgata corrente, perfino da chi il libro lo ha letto. Malamente, s’intende. Perché si può scrivere male, ma si può leggere malissimo. E sono in tanti a farlo. Dunque ci si imbatte in affermazioni di questo tipo: nell’opera di Tolkien il popolo non esiste, ci sono soltanto eroi… «I cattivi sono cattivi e i buoni sono buoni». L’ambientalismo presente nelle storie di Tolkien è «aristocratico» e il nemico sempre «esterno»… non esistono le classi sociali, i re sono sempre amati dal popolo e fanno sempre il bene…

John Howe: "Saruman of Many Colours"Il fatto che il vero eroe del Signore degli Anelli sia Samvise Gamgee, cioè un esponente delle classi basse, non viene registrato. Non pervenuti nemmeno gli Hobbit che insorgono contro l’usurpatore Saruman, evidentemente indegni d’essere considerati «popolo» (forse perché non impugnano una bandiera rossa). Quanto poi alla divisione carismatica tra buoni e cattivi, suona davvero paradossale imputarla a un romanzo il cui protagonista, Frodo Baggins, indubbiamente «buono» in partenza, viene alla fine sopraffatto dal male e sceglie di non distruggere l’Anello e di tenerlo per sé. Per non parlare di Boromir, Denethor, Saruman, e di tutti i buoni che diventano nemici «interni» e rappresentano una minaccia altrettanto grande di quella incarnata da Sauron. Significativa poi la qualifica dell’ambientalismo di Tolkien come destrorso e aristocratico, tanto più perché sarebbe interessante scoprire in cosa si distinguerebbe dall’ambientalismo d.o.c., che si immagina sinistrorso e «democratico». Quanto poi ai re, nel Signore degli Anelli ne compaiono tre. Uno è il Re Stregone, cioè il capo degli Spettri dell’Anello, che non è né buono né amato. Il secondo è Théoden, che quando entra in scena è completamente circuìto da un infido consigliere, sta mandando in rovina il regno e troverà riscatto nella morte. Il terzo è Aragorn, che diventa re soltanto alla fine della storia, e in precedenza floppa clamorosamente come guida della Compagnia, tanto da rinunciare a portare a termine la missione al fianco di Frodo. Libro: copertina "La realtà in trasparenza – Lettere 1914-1973"Alla faccia dell’infallibilità regale. Sulle classi… Nell’Appendice al libro che ho scritto compare un saggio del più importante studioso di Tolkien, che passa in rassegna proprio la rappresentazione delle classi sociali nella Terra di Mezzo.
Certo si può benissimo ritenere «triste» che qualcuno si lasci ancora affascinare dal racconto tolkieniano dopo avere compiuto e magari doppiato i 16 anni. Molti critici e commentatori lo affermano – anche al di fuori dei paratesti e dei social network – ogni volta che le opere di Tolkien tornano a far parlare di sé. Lo affermavano già negli anni Cinquanta, a dire il vero, liquidando Il Signore degli Anelli come «spazzatura giovanilista» (E. Wilson). Ma questo non fa che confermare l’urgenza di tornare a leggere Tolkien, sbarazzandolo di tutto il ciarpame che gli è stato accumulato attorno. Magari per arrivare un domani a permetterci il lusso di non sentire più certe stupidaggini. E chissà che prima ancora che di ambientalismo d.o.c., non si tratti di un’opera di bonifica e di ecologia mentale, oltreché, ovviamente, letteraria. «Ma gli hobbit non sono una visione utopistica, e non vengono nemmeno raccomandati come l’ideale della loro epoca o in altre. Essi, come tutte le popolazioni e le loro caratteristiche, sono un accidente storico –Naomi Mitchison come gli elfi dicono a Frodo – e anche temporaneo, alla lunga. Io non sono un riformatore e nemmeno un “conservatore”! Non sono un riformatore (attraverso l’esercizio del potere) dato che sembra si vada sempre a finire nel Sarumanesimo. Ma anche “imbalsamare” comporta, com’è stato
dimostrato, delle ripercussioni. Alcuni recensori hanno definito il libro semplicemente come una lotta fra Bene e Male, dove tutti i buoni sono buoni, e i cattivi sono cattivi. Scusabile, forse (anche se si sono lasciati sfuggire Boromir) in persone che hanno fretta, e con un unico frammento a disposizione da leggere e, naturalmente, senza le storie sugli elfi scritte in precedenza ma non pubblicate
».
(J.R.R.Tolkien, lettera alla scrittrice e poetessa socialista Naomi Mitchison, 25 settembre 1954)

P.S. Va da sé che oggi che quelle storie sono pubblicate, le scuse stanno a zero.
Come avremmo detto “noi” di Porto Alegre… La lucha sigue! 😉
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