Esce oggi il nuovo numero de «I Quaderni di Arda», che inaugura una rinnovata serie editoriale e una nuova numerazione. A partire da questa uscita, la rivista entra a far parte del Sistema Bibliotecario di Ateneo dell’Università di Messina e allinea la propria produzione scientifica ai principi dell’open access, rendendo i contenuti liberamente fruibili e valorizzando la diffusione della ricerca. È un evento che corona un percorso iniziato vent’anni fa, con la nascita dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani e della collana Tolkien e dintorni delle Edizioni Marietti, proseguendo con la nascita dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani e della Tana del Drago di Dozza (BO), nonché con la pubblicazione dei primi quattro numero cartacei de «I Quaderni di Arda» (Eterea Edizioni), nei quali sono stati pubblicati gli atti dei convegni organizzati all’Università di Trento e il frutto del Gruppo di Studi legato all’AIST. Il 2025 è una data storica, quella in cui nasce la prima rivista accademica italiana dedicata a J.R.R. Tolkien. La nuova serie de «I Quaderni di Arda» si apre con un numero monografico dal titolo Tolkien oltre Tolkien: eredi ed eretici, a cura di Wu Ming 4, Roberto Arduini e Paolo Pizzimento. Un inizio programmatico, che invita a varcare le soglie dell’interpretazione canonica per esplorare le molteplici traiettorie di eredità, riscrittura e dissenso nate dall’opera tolkieniana.
Categoria: Recensioni
Tolkien and the Mystery of Literary Creation. La Recensione
Lo scorso 3 Luglio 2025 è stato pubblicato per la Cambridge University Press il saggio di Giuseppe Pezzini Tolkien and the Mystery of Literary Creation. Pezzini è Fellow e Tutor presso il Corpus Christi College di Oxford e Professore Associato di Lingua e Letteratura Latina all’Università di Oxford. Classicista di formazione, ha pubblicato ampiamente sulla lingua e letteratura latina, sulla commedia romana, sulla filosofia antica del linguaggio e sulla teoria della narrativa, antica e moderna. Con ulteriori interessi nella critica testuale e nelle discipline umanistiche digitali, è anche un importante studioso tolkieniano; ha ricevuto nel 2021 il Philip Leverhulme Prize ed è attualmente Tolkien Editor per il Journal of Inklings Studies.
Di seguito pubblichiamo la recensione del saggio di Giuseppe Pezzini redatta da Claudio Antonio Testi, saggista e socio AIST.
…The Hobbit Graphic Novel (Revised and Expanded), la Recensione
Poco meno di un anno fa abbiamo riportato la notizia (qui) che David Thorne Wenzel era al lavoro su una versione rivista ed estesa dell’adattamento a fumetti de Lo Hobbit. Lo scorso 11 settembre questa nuova versione, pubblicata in lingua inglese per i tipi di HarperCollins con il titolo The Hobbit. A Graphic Novel – Revised and Expanded [ISBN: 9780008694401], è finalmente giunta sugli scaffali delle librerie.
Il 15 Ottobre è uscita anche in italia una nuova edizione, per la prima volta anche in digitale, de Lo Hobbit a fumetti. Per l’occasione il titolo è stato cambiato da Bompiani in Lo Hobbit. Graphic Novel [ISBN: 9788830153806]. Curiosamente, però, la nuova edizione italiana non adotta le nuove tavole di Wenzel, ma risulta essere la traduzione italiana del fumetto originale del 1989.
…Recensione: Le miniere di Moria per L’Unico Anello
L’Unico Anello: Moria: Attraverso le porte di Durin (Free League, 2024) è un manuale di riferimento per il gioco di ruolo basato sull’opera di JRR Tolkien. Come altri, si prende qualche libertà, seppur in termini di espansione della lore e non di una deviazione da essa. Il volume costituisce anche un tesoro di illustrazioni e testi da cui gli appassionati dell’ambientazione o del fantasy in generale possono trarre ispirazione o modelli. Frutto di una campagna su Kickstarter che ha coinvolto 13mila sostenitori e ha racimolato oltre 1 milione e 250mila euro, l’edizione italiana è curata da Needs Games (44,90 euro, 2024) e presentata a Lucca Comics and Games 2024.
Graphic novel: recensione a The Mythmakers
Sono molte le opere di carattere biografico dedicate a J.R.R. Tolkien e agli Inklings che popolano gli scaffali delle librerie di tutto il mondo. Su tutte spiccano sicuramente per notorietà e qualità J.R.R. Tolkien, La biografia e Gli Inklings, entrambe di Humphrey Carpenter, Tolkien e la grande guerra, La soglia della Terra di Mezzo di John Garth e la più recente Tolkien, la biografia definitiva di Raymond Edwards. The Mythmakers: The Remarkable Fellowship of C.S. Lewis & J.R.R. Tolkien di John Hendrix, pubblicata dall’editore americano Abrams Fanfare nel settembre dello scorso anno, si colloca in quest’ambito, ma presenta al lettore le vite di J.R.R. Tolkien e dell’amico C.S. Lewis sotto una veste nuova e, per molti aspetti, innovativa.
Quando ne annunciammo l’imminente pubblicazione, se ne parlò come di un’opera essenzialmente a fumetti da ascriversi allo stesso filone di Tolkien, Rischiarare le tenebre e J.R.R. Tolkien et la bataille de la Somme: Dans un trou sous la terre. The Mythmakers si differenzia però da queste pubblicazioni perchè non è una produzione interamente a fumetti, ma piuttosto un’opera nella quale le pagine a fumetti si alternano a quelle in prosa senza un confine ben preciso: spesso le illustrazioni invadono le sezioni in prosa e viceversa, rendendolo un prodotto unico nel suo genere.
La Caduta di Númenor esce oggi in libreria
Per certi versi si potrebbe dire che La Caduta di Númenor, il volume curato da Brian Sibley in uscita il 15 gennaio nella traduzione italiana di Stefano Giorgianni (Bompiani € 35), rappresenta un’opera di “servizio”, senza sminuirla affatto. Anzi, il volume ha un grande merito proprio per come è stato concepito dal suo curatore. Sibley ha raccolto i vari scritti tolkieniani che riguardano la Seconda Era, prendendoli dalle Appendici del Signore degli Anelli, dal Silmarillion, dai Racconti Incompiuti e dalla Storia della Terra di Mezzo, e ha disposto gli eventi in sequenza cronologica. In questo modo, pur riproponendo testi già pubblicati, si facilita la comprensione di un pezzo di storia così cruciale per tutto ciò che verrà dopo nell’evoluzione del mondo tolkieniano. Si tratta in buona parte dell’arco temporale che viene molto liberamente riassunto nella serie Amazon Gli Anelli del Potere, e che qui invece può essere letto nella sua versione originale (con gli impietosi confronti del caso…).
La guerra dei Rohirrim: La recensione del film
Dopo esser passato nella seconda parte di Dicembre nel resto del mondo, Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim arriva finalmente al cinema anche da noi. È approdato infatti in sala il 1° gennaio 2025, dopo una lunghissima attesa più che giustificata, dato che il film diretto da Kenji Kamiyama si porta dietro alcune interessanti e inedite premesse. Innanzitutto, si tratta di un’opera in stile anime, una tecnica finora mai utilizzata per un adattamento del Legendarium, ma, ancora più importante, è il fatto che il film rappresenta un prequel della trilogia di Peter Jackson, diventando così un capitolo ufficiale della saga del Signore degli Anelli, iniziata 25 anni fa e continuata qualche decennio successivo con Lo Hobbit.
La recensione: Guardare Verso Occidente
Tra i volumi di alta divulgazione tolkieniana pubblicati nell’anno in corso è da annoverare il libro Guardare Verso Occidente edito da Fede & Cultura. Il testo, scritto dai soci AIST Paolo Nardi e Nicola Nannerini, si pone lo scopo di analizzare i temi del tempo, della trascendenza e del destino all’interno del Legendarium tolkieniano.
I Collected Poems di Tolkien: la recensione
Giunge alle stampe The Collected Poems of J.R.R. Tolkien, in un’edizione curata da Christina Scull e Wayne G. Hammond; un’opera – certamente tra le più importanti degli ultimi anni nel panorama tolkieniano – attesa a lungo dagli studiosi e dagli appassionati. Tre corposi volumi, per un totale di 1500 pagine, presentano gran parte dell’opera poetica dello scrittore inglese con un ricco apparato di annotazioni storico-biografiche. I pregi sono evidenti; non mancano, tuttavia, alcuni aspetti che lasciano perplessi.
Storia della Terra di Mezzo: esce il sesto volume
Con il volume Il Ritorno dell’Ombra (The Return of the Shadow), in libreria da maggio 2024 per i tipi di Bompiani, l’edizione italiana della Storia della Terra di Mezzo, corpus degli scritti postumi di J.R.R. Tolkien curato da Christopher Tolkien nella sua quadruplice veste di figlio, filologo, membro degli Inklings ed esecutore testamentario delle volontà paterne, tocca contemporaneamente due traguardi. Il primo è il completamento della metà del percorso – componendosi la Storia, com’è noto, di dodici volumi – mentre il secondo è l’avvio di un nuovo “ciclo interno” all’opera nel suo insieme. Dopo i primi due volumi, che raccolgono gli scritti giovanili conosciuti come Racconti Perduti, il terzo che presenta i due grandi poemi epici incentrati sui Figli di Húrin e Beren e Lúthien, e il quarto e il quinto, dove troviamo la prima evoluzione dei Racconti Perduti nel Silmarillion vero e proprio, oltre ad alcuni fondamentali scritti linguistici quali il “Lhammas” e le “Etimologie”, inizia infatti con il sesto volume la sezione dell’opera che è stata denominata “La Storia del Signore degli Anelli”.
La Storia del Signore degli Anelli
Questa “Storia nella Storia” comprende, oltre al sesto volume, anche il settimo (The Treason of Isengard), l’ottavo (The War of the Ring)
e una parte del nono (Sauron Defeated). Ad enfatizzarne la natura organica e la coesione interna l’editore HarperCollins ne ha col tempo reso disponibile anche un’edizione a sé stante, in cofanetto, il cui quarto volume, dal titolo The End of the Third Age, corrisponde alla prima sezione del nono originario.
“La Storia del Signore degli Anelli”, come si può immaginare, mostra l’evoluzione del romanzo fase dopo fase e stesura dopo stesura. Per esemplificare meglio il concetto basterà dire che questo primo volume presenta ben sei versioni della “festa attesa a lungo”, dai cambiamenti nelle quali si possono ben notare le
difficoltà incontrate da Tolkien, specie all’inizio, nel dare al romanzo un’impostazione stabile e per lui soddisfacente. Da improbabili e piuttosto infantili inizi in cui Bilbo annuncia ai concittadini hobbit l’intenzione di partire per… prendere moglie (prima versione) o addirittura la prende sul serio, cresce per 39 anni un figlio, Bingo, che sostiene il ruolo che sarà infine di Frodo, e infine parte con lei (terza versione), la storia inizia infatti ad assumere davvero una forma solo quando l’autore concepisce i Cavalieri Neri, dando alla narrazione quella che oggi definiremmo una svolta dark e rendendola così considerevolmente più adulta. Va detto, tuttavia, che gli stessi Cavalieri Neri non avevano all’inizio una natura ben definita, come provato da un appunto ove si ipotizza addirittura che siano “Esseri dei Tumuli a cavallo”.
Trotter
Entrando più nel dettaglio, è particolarmente interessante l’introduzione, nel capitolo VIII, del personaggio di “Trotter”, “proto-Aragorn”, o meglio “proto-Passolungo” che, per quanto presenti già molti degli elementi narrativi e caratteriali che si cristallizzeranno poi nella vicenda e nel personaggio definitivi, è inizialmente qualcosa di completamente diverso, una figura di statura minore – in
tutti i sensi, trattandosi di uno Hobbit – dal passato più tragico che glorioso e dal futuro che, per quanto rimastoci ignoto a causa dei successivi cambiamenti, si lascia immaginare in questa fase come quanto meno incerto. L’enorme differenza tra “Trotter” e Passolungo richiama alla mente la Lettera 163 a W.H. Auden, nella quale Tolkien, a romanzo pubblicato, scriveva all’amico ed estimatore: “Passolungo seduto in un angolo della locanda fu una sorpresa, e non avevo idea di chi fosse più di quanta ne avesse Frodo”. Alla luce del Ritorno dell’Ombra sappiamo ora che dove è scritto “Passolungo” bisogna leggere “Trotter”, e che effettivamente Tolkien “non aveva idea di chi fosse” e ci mise un po’ prima di farsela. “Trotter” non è una figura incolore, per nulla, e anche lui è circondato da un mistero, ma siamo ben lontani dalla profondità che in seguito caratterizzerà Passolungo/Aragorn, le cui radici, come sappiamo, affondano nel remoto passato fino a giungere alla Seconda Era. Mi permetto qui di passaggio una piccola critica alla traduzione di “Trotter” con “Passolesto”, in quanto, sebbene corretta, da un lato perde l’importante relazione onomatopeica del nome con il rumore prodotto dagli zoccoli di legno che caratterizzano il personaggio – “E ha le scarpe!” dice di lui il futuro Frodo per sottolinearne la peculiarità per uno hobbit – e dall’altro allude in modo troppo diretto al futuro “Passolungo”, cosa che trovo non del tutto opportuna viste le profonde differenze fra i due personaggi.
Tom Bombadil e Il Fattore Maggot
Una piccola perla che troviamo nel volume riguarda Tom Bombadil, che in un passaggio
successivamente tagliato si autodefinisce “un Aborigeno” e, immediatamente dopo, “l’Aborigeno di questa terra”. Se mantenuta, tale netta affermazione avrebbe forse eliminato alla radice la vexata quaestio del “chi è Tom Bombadil?”, tagliando le gambe a tutti i tentativi di “incastrarlo” a forza nella Terra di Mezzo “classificandolo” come Maia, alter ego di Eru e via cantando; purtroppo fu tolta, ma almeno lascia attestato che Tolkien, in origine, vedeva
inequivocabilmente il buon vecchio Tom come un abitante della Terra di Mezzo “non venuto da fuori”. La figura del “genius loci” si affaccia alla mente, non certo per la prima volta. Un altro aspetto interessante, se non addirittura sorprendente, riguarda il personaggio del Fattore Maggot, che in una versione scartata non solo non è uno Hobbit ma una creatura diversa e non ben specificata, di cui addirittura Tom Bombadil dice “siamo parenti […] alla lontana”, e in un’altra è un personaggio violento che si accompagna a dei cani feroci e, nel famoso incontro in cui Bingo, il futuro Frodo, cerca di sgraffignargli dei funghi lo apostrofa con un torvo “T’ammazzerei adesso […] non fossi il nipote del signor Rory”, cipiglio difficilmente conciliabile con il bonario, rustico hobbit dell’opera compiuta.
Un onesto avvertimento
Prima di concludere, è giusto dare agli interessati alla lettura un onesto avvertimento: Il Ritorno dell’Ombra offre un’esperienza decisamente diversa da quella dei primi cinque volumi. Se infatti fino ad ora la Storia della Terra di Mezzo aveva parimenti soddisfatto sia il desiderio di conoscenza – tramite gli inediti e gli scritti linguistici – sia il “senso del meraviglioso” – tramite le versioni alquanto diverse dei miti fondativi, per quanto in costanza del quadro generale – è bene essere consapevoli che da qui e per un po’ a fare la parte del leone sarà la conoscenza. Questo non vuol dire che Il Ritorno dell’Ombra o “La Storia del Signore degli Anelli” in generale manchino di magia, tutt’altro, ma è giusto sottolineare che in questi volumi la componente “accademica” pesa maggiormente. Il Ritorno dell’Ombra è un tesoro inestimabile, ma è bene che il lettore sia preparato ad affrontare la mole di dettagli che Christopher analizza con l’ormai ben nota pignoleria nelle sue note, come ad esempio la girandola di hobbit dai nomi diversi che si alternano e si scambiano vertiginosamente parti e battute nel ruolo di compagni di viaggio di Bingo, il futuro Frodo.
I traduttori e il ruolo dell’AIST
La traduzione del Ritorno dell’Ombra, come quella dei due volumi precedenti, è di Stefano Giorgianni ed Edoardo Rialti, che oltre alle normali difficoltà presentate dalla traduzione di un’opera originale hanno dovuto confrontarsi, in questo caso, con l’ulteriore ingrata necessita di armonizzare la traduzione ex novo delle versioni precedenti dei testi con quella di Ottavio Fatica degli stessi testi compiuti, sforzandosi, per quanto possibile, di mantenere la corrispondenza dei singoli passaggi rimasti immutati. Quanto alla cura redazionale, prosegue, come fin dal primo volume, l’attività del team AIST composto da Roberto Arduini, Giampaolo Canzonieri, Barbara Sanguineti, Norbert Spina e Claudio Antonio Testi.
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LINK ESTERNI:
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La recensione: Tolkien. Artista e Illustratore
Un’importante lacuna nella bibliografia italiana tolkieniana si è colmata il 10 gennaio 2024 con la pubblicazione di J.R.R. Tolkien. Artista e illustratore, traduzione di Alberto Gallo del volume inglese J.R.R Tolkien. Artist and Illustrator.
Curato dai noti studiosi Wayne G. Hammond e Christina Scull e pubblicato originariamente nel 1995 – il testo è stato rivisto nel 2004 in occasione dell’uscita di una seconda edizione – da Harper Collins, questo testo si inserisce nell’ormai cospicuo numero di scritti dedicati al Tolkien illustratore.
Fra questi ricordiamo: Immagini, mai più ripubblicato in Italia dopo l’edizione Bompiani del 2002; L’Arte dello Hobbit e L’Arte del Signore degli Anelli, recentemente ristampati da Bompiani; Tolkien – Il Creatore della Terra di Mezzo, traduzione italiana del catalogo dell’omonima mostra di Oxford del 2018 e Tolkien: Voyage en Terre du Milieu, catalogo – purtroppo mai tradotto in italiano – dell’esposizione tenutasi alla BnF di Parigi nel 2019.
Se queste mostre sono state fondamentali nel rendere noto al pubblico il talento artistico del professore oxoniense, J.R.R. Tolkien. Artista e illustratore è stato una dei primi libri interamente dedicati al Tolkien illustratore. Con le sue 208 pagine, nelle quali vengono riprodotte 200 opere – fra dipinti, disegni e schizzi – alternate a lunghe descrizioni e digressioni biografiche, questa pubblicazione non può mancare nelle librerie degli appassionati e degli studiosi interessati alla produzione artistica del professore di Oxford.
Middle Artbook di Ivan Cavini: la recensione

«Come fai a raccogliere le fila di una vecchia vita? Come fai ad andare avanti, quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?» si domanda Frodo alla fine della versione cinematografica del Signore degli Anelli. Ecco una riflessione universale, che trascende lo specifico del personaggio, e che parla di tutti noi quando arriviamo alla cosiddetta mezza età, ci voltiamo indietro e improvvisamente ci compare davanti la distesa della vita, con tutto quello che abbiamo fatto. È questa l’aria che si respira tra le pagine del secondo Middle Artbook di Ivan Cavini (Eterea Edizioni, €50), un volume che porta il sottotitolo significativo di “disegnare e costruire nella Contea”. Attenzione, non “la Contea”, ma “nella Contea”. Coreografi, scenografi, digital designer si occupano di ricostruire la Contea; un artista come Ivan ci vive dentro. E in quelle pagine, che sono anche pagine di vita, appunto – dove compaiono perfino i figli, in veste di modelli per le illustrazioni – il suo ormai lungo viaggio nell’universo tolkieniano è raccontato in lungo e in largo. Ivan Cavini infatti è uno degli artisti italiani che più hanno contribuito a dare forma e dimensione alle storie di Tolkien. Perfino le tre dimensioni, perché Ivan non è soltanto un illustratore, ma anche autore di sculture e installazioni.
Se si dovesse trovare una cifra poetica per l’opera di Ivan forse potrebbe essere questa: la mescolanza dei due mondi, quello primario e quello secondario. Elementi naturali, architettonici e perfino personaggi del nostro piano di realtà confluiscono, rivisitati, nella Terra di Mezzo. È il caso ad esempio del monumento a Walter Scott di Edimburgo, che diventa la torre di Orthanc; o di certe vette delle Dolomiti che campeggiano sullo sfondo di alcune illustrazioni; o ancora della vaga somiglianza di Beorn con Jason Mamoa. Il messaggio è chiaro: come lo scrittore pratica la contaminatio, riadatta modelli narrativi della tradizione a storie e contesti nuovi (Tolkien era un maestro in questo), così in un certo senso fa l’artista, ricontestualizzando elementi del mondo primario in quello secondario, e dimostrando così plasticamente che l’uno permea l’altro, ma anche che non si dà fantasia senza ragione, che non c’è invenzione che non necessiti di una sua ferrea ratio… e che «noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», per citare il Bardo d’Inghilterra.
Le visioni fantastiche di Ivan sono infatti sempre riportate sulla terra… di mezzo. La sua personale Contea è un lembo di Romagna incastrato tra gli Appennini e la Via Emilia. È quel borgo di Dozza dove nel corso della vita ha accumulato ricordi, immagini, visioni, e opere d’arte non soltanto sue, ma anche di tanti colleghi e colleghe, all’interno della Tana del Drago e della Rocca Sforzesca. Un paesaggio di dolci colline coltivate, con la pianura giù in fondo, un grappolo di case cresciuto intorno alla rocca, dentro la quale dorme il drago Fyrstan, una delle creazioni di Ivan, mentre altri rettili dimorano nel fossato. Un luogo dove la giovialità e il gusto del buon vivere fanno parte del carattere degli indigeni. Questo è un posto per hobbit, viene davvero da pensare sfogliando le fotografie dei luoghi dell’anima dell’artista.
Quella di Ivan è ovviamente anche una reinterpretazione, o un reenacting, se vogliamo, con elementi originali. Ci si perde a scoprire dettagli nei disegni dell’artbook, come l’apparizione del professor Tolkien nei panni di Bilbo vicino al mulino di Ted Sandyman; o l’espressione perennemente triste di Théoden in ogni disegno in cui compare, figura resa in modo particolarissimo e non filologico, chissà forse per raccontarne la predestinazione, l’eccedenza, o piuttosto un alter ego dell’artista, un cameo hitchcockiano. Ma ancora guardando il suo Radagast sciamano con la pelle olivastra, la pittura rituale in faccia e il bastone intarsiato con figure d’animali, non può non tornare su la delusione per il modo comico-grottesco con cui Peter Jackson ha rappresentato questo personaggio nello Hobbit. Quanto saremmo stati più felici di vedere sullo schermo il Radagast di Ivan Cavini – magari interpretato da Morgan Freeman o da Wes Studi – che in un singolo ritratto ci racconta molto di più sul personaggio di quanto non abbia fatto il cinema trasformandolo in un clown. Meno originale, ma estremamente evocativa la sua Galadriel, attorniata di gigli bianchi, in un omaggio evidente all’Art Nouveau, o ancora il suo ultimo Nazgûl, che invece s’ispira ai fumetti anni Ottanta come Metal Hurlant, e che campeggia in copertina.
Se le statue a grandezza naturale di Barbalbero, del troll e del balrog esposte al Greisinger Museum di Jenins sono molto legate all’immaginario jacksoniano, il drago Fyrstan è invece un esemplare unico. Accovacciato sotto le proprie ali, come sotto un tepee indiano, Fyrstan dorme nel mastio della rocca di Dozza, per risvegliarsi ogni due anni in occasione di Fantastika, il festival dell’arte e dell’illustrazione fantasy. Nella sua ultima edizione il festival ha visto premiato con il drago d’oro niente meno che Tom Shippey, e in dieci anni ha visto transitare da Dozza i maggiori artisti fantasy italiani. Fyrstan veglia sul suo uovo. Dunque è femmina. Dunque c’è un secondo drago che prima o poi nascerà, il ciclo si compie, la strada va avanti, anzi… prosegue senza fine.
Si è cominciato parlando di uno sguardo retrospettivo sulla vita e la produzione artistica. C’è una frase di Ivan Cavini che apre una delle sezioni del libro e che risuona di eco tolkieniane: «La Terra di Mezzo mi invita a rivolgere lo sguardo indietro, alla ricerca delle cose buone che abbiamo dimenticato nella frenesia del mondo moderno». Ecco, quello di Ivan non è uno sguardo nostalgico, ma indagatore, la sua è una ricerca, una quest, a cui viene voglia di partecipare. Viene voglia di conoscere l’artista, diventare suo amico. E quando la vita ha già esaudito questo desiderio, non si può che compiacersene.
ARTICOLI PRECEDENTI:
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A febbraio il numero 26 della rivista Endòre
Fra qualche giorno uscirà, unicamente in formato elettronico, il numero 26 della rivista Endòre, diretta da Franco Manni, con instancabile dedizione, da più di 30 anni: sotto la sua curatela sono, infatti, usciti almeno 37 numeri, in varie vesti editoriali: Terra di Mezzo – Rivista interamente dedicata a Tolkien [4 numeri], Terra di Mezzo – Rivista della Società Tolkieniana Italiana [7 i numeri diretti da Manni], Endòre – La Rivista della Terra di Mezzo [26 numeri].
Recensione: La Strada perduta e altri scritti
Il quinto volume della Storia della Terra di Mezzo
È il segreto di Pulcinella o, se si preferisce, il segreto di chi studia, traduce, compulsa le opere di Tolkien, che la Storia della Terra di Mezzo sia un mare magnum difficile da gestire. Tra l’altro, leggendola oggi, finalmente in traduzione italiana, traspare anche lo sforzo dei redattori editoriali per rendere ben distinguibili le parti di testo vero e proprio intervallate dai lunghi commenti filologici e dai raccordi inseriti da Christopher Tolkien (1924-2020), il curatore dei dodici volumi. Quello che infatti Christopher tenne a mostrare in quest’opera monumentale era il processo creativo di suo padre, per accumulazione, correzione, riscrittura. Nella prima parte di questo quinto volume, ad esempio, si tratta delle varie versioni della Caduta di Númenor; nella seconda, si trovano invece ulteriori versioni degli Annali di Valinor, di quelli del Beleriand e dell’Ainulindalë.
Se Tolkien senior fosse vissuto oggi, probabilmente niente di tutto questo sarebbe stato possibile, perché la scrittura digitale si basa essenzialmente sulla ricorsività ed è assai raro che vengano conservati i file elettronici con le bozze e le versioni di avvicinamento a un’opera narrativa compiuta. Tolkien invece conservava maniacalmente tutto. Senonché le versioni dattiloscritte a macchina delle sue bozze sono relativamente poche, per lo più scriveva a mano, spesso a matita, cancellando e correggendo, e con il passare dei decenni quella grafia è sbiadita, a tratti illeggibile. In altri casi invece i materiali si sono conservati discretamente. L’impresa nell’impresa è stata quella di Christopher, quando ha deciso di mettere in ordine quella montagna di carte.
La domanda – sempre implicita per i lettori, eppure spontanea – è “cui prodest?” Chi leggerà davvero tutto questo materiale nel dettaglio? Forse solo gli appassionati filologi della creatività tolkieniana, appunto, ma chi altri? Ecco, una risposta è questa: i cercatori di tesori. Dentro i volumi della Storia della Terra di Mezzo si celano tesori. Bisogna andare a cercarli e scavarli fuori, tra una riscrittura e un commento esterno, tra una sigla e un frammento riportato da un foglietto volante scappato fuori da un faldone.
Il quinto volume della Storia della Terra di Mezzo, da poco pubblicato da Bompiani in un’edizione bellissima – co-tradotto da Edoardo Rialti e dal presidente dell’AIST Stefano Giorgianni, con la consulenza di quattro nostri soci e una socia – porta il nome del tesoro proprio nel titolo: La Strada perduta e altri scritti.
Il tesoro
La Strada perduta è uno dei romanzi incompiuti di Tolkien, nato da una sorta di sfida o patto stretto tra Tolkien e l’amico C.S. Lewis negli anni Trenta:
«Un giorno L[ewis] mi ha detto: “Tollers, c’è troppo poco di quello che ci piace davvero nelle storie. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi stessi.” Ci accordammo che egli avrebbe provato il “viaggio nello spazio”, e io il “viaggio nel tempo”. Il suo risultato è ben noto. I miei sforzi, dopo alcuni capitoli promettenti, si sono prosciugati; era una strada troppo lunga per arrivare a quello che in realtà volevo fare: una nuova versione della leggenda di Atlantide. La scena finale sopravvive come La Caduta di Númenor. Questo affascinò molto Lewis (che la sentì leggere), e ci fece riferimento più volte nelle sue opere: per es. The Last of the Wine nelle sue poesie (Poems, 1964, p. 40). Nessuno di noi due si aspettava molto successo come dilettanti, e in realtà Lewis ha incontrato qualche difficoltà a far pubblicare Lontano dal pianeta silenzioso. E dopo tutto quello che è successo, il piacere e la ricompensa più duraturi per tutti e due è stato che ci siamo forniti storie da ascoltare o leggere che, in gran parte, ci piacevano. Naturalmente, a nessuno di noi due piaceva tutto quello che trovavamo nella narrativa dell’altro» (Lettera 294, 1967, in Lettere, p. 598-599).
In buona sostanza La Strada perduta consiste nell’incipit e nell’abbozzo di scaletta di quello che sarebbe potuto diventare il romanzo di Númenor. La vicenda è quella ambientata nella Seconda Era, meglio nota come Akallabêth, e che nell’edizione postuma del Silmarillion è narrata in forma di racconto storico, con pochissimi dialoghi diretti, quasi come fosse una cronaca. La Strada perduta fu il tentativo di Tolkien di concepire un racconto a cavallo delle epoche storiche del nostro mondo primario e della vicenda leggendaria di Atlantide, da lui riscritta come caduta di Númenor, utilizzando la forma del romanzo, con personaggi delineati, descrizioni ambientali e paesaggistiche, introspezione, ecc. Non sarebbe quindi stata soltanto la storia di un viaggio nel tempo, ma anche attraverso i mondi, ovvero attraverso il piano storico e leggendario. E il filo conduttore sarebbe stato il rapporto tra padre e figlio, forse addirittura un’indagine su questo legame primario, che si riflette anche nella religione di Tolkien. Le stesse figure di padre e figlio si sarebbero riproposte in un viaggio a ritroso dalla contemporaneità al medioevo fino alla leggenda antica, in una sorta di anamnesi di vite e legami padre-figlio precedenti.
La diversa forma narrativa produce anche un cambiamento nella storia. Nella forma romanzo il rapporto tra il padre Elendil e il figlio Herendil (che nella versione pubblicata nel Silmarillion diventerà Isildur) è decisamente più complesso. Il padre è già il primo dei dissidenti al regime instaurato dai re di Númenor, imbeccati e corrotti da Sauron, e che porterà Númenor stessa allo scontro frontale con i Valar e alla rovina. Ma se nell’Akallabêth, Isildur si affida ciecamente al padre e ne esegue le direttive, nella versione romanzesca Herendil è inizialmente restio a farlo, o per lo meno combattuto tra l’obbedienza al padre e quella al re. Addirittura appare affascinato dalla retorica del regime. Elendil gli spiega il proprio punto di vista: la prima obbedienza dovuta è ai Valar. E a un re che va contro i Valar non si è tenuti a obbedire. Un concetto che risuonerà nelle parole di Gandalf a Denethor nel Signore degli Anelli, quando quest’ultimo rivendica l’obbedienza dovutagli dai suoi sottoposti e il mago bianco replica dicendo che se i suoi ordini sono folli e suicidi, quel dovere d’obbedienza decade. Elendil quindi lascia al figlio la scelta, la possibilità di esercitare il libero arbitrio. E per amore del padre, Herendil sceglierà di restare dalla sua parte. Se il messaggio di verità giunge a separare il padre dal figlio, come sta scritto nel Vangelo, ecco che Tolkien quel legame non lo scinde, ma nemmeno lo dà per scontato. La scelta di Herendil è sofferta, anche se sarà quella giusta e sarà suggellata dall’ultima scena scritta da Tolkien prima di abbandonare la stesura. Un finale anticipato che – senza spoilerare – racchiude in sé la forza di un gesto tenero e sacro al tempo stesso, e che sembra arrivare dritto dall’Iliade o dall’Odissea, con parole altrettanto evocative.
Una leggenda contemporanea
Un altro elemento interessante del romanzo abbozzato è proprio la descrizione del regime numenoreano sotto l’influsso corruttore di Sauron, perché è a tutti gli effetti quella di un regime militarista e imperialista moderno.
La crescita della popolazione e delle attività economiche produce una spinta a lasciare l’isola di Númenor per cercare nuove terre. Per farlo occorre armarsi. E gli armamenti che Tolkien descrive sembrano alquanto anacronistici rispetto alla cultura materiale della civiltà numenoreana: navi di metallo che navigano senza bisogno del vento; torri sempre più alte, tanto robuste quanto sgraziate; fortezze inespugnabili erette contro nemici inesistenti; scudi indistruttibili e «dardi [che] sono come tuono e sfrecciano per leghe senza mai mancare il colpo».
La società si volge alla guerra anche se non ci sono nemici all’orizzonte, perché è chiaro che presto o tardi i nemici andrà a cercarseli, invadendo le terre altrui. «Le nostre armi si moltiplicano come per una guerra infinita, e gli uomini smettono di dedicare amore e cura alla fabbricazione di altre cose per l’utilità o il diletto», dice Elendil. Ed ecco che l’imperialismo è servito su un piatto d’argento: «[Sauron] ha chiesto al nostro re di allungare la mano per crearsi un Impero. Ieri a Oriente. Domani… in Occidente». Sappiamo infatti che Númenor prima colonizzerà la Terra di Mezzo, poi si volgerà addirittura verso Valinor, per combattere il Valar e strappare loro il segreto dell’immortalità. Ed è lì, come è noto, che troverà la propria rovina e verrà inabissata.
Anche la religione gioca un ruolo nel compattamento della società: la montagna centrale dell’isola viene spogliata degli alberi e sulla cima viene eretto un tempio tanto grandioso quanto terribile, dove nessuno prega. È dedicato al Possente, il Primo Potere… che però non è Eru, bensì Morgoth, il cui ritorno viene evocato. Ed è Sauron a fare le sue veci. Ma il regime lavora anche sul fronte culturale, reinventa la tradizione, impone una lingua suppostamente antica e recupera il patrimonio letterario per arruolarlo in battaglia, ovvero ricerca un legame anacronistico con un’antichità di comodo, ricostruendo un mito delle origini a cui tornare. Elendil dice che: «Le vecchie canzoni sono dimenticate o snaturate, stravolte in altri significati». E il figlio Herendil ribatte: «Ma alcuni dei nuovi canti sono possenti e infondono vigore». È proprio quella la loro funzione, accendere gli animi, dare forza e coraggio per l’impresa imperialista e folle in cui il regime si lancerà a testa bassa. Fino alla catastrofe.
Monarchia, esercito e religione formano un blocco totalizzante, che non accetta cedimenti né opposizioni interne. Disprezzare Sauron è considerato tradimento.

Quello che colpisce di questa descrizione è la sua modernità, si diceva. Tanto le dinamiche sociali, culturali e di potere quanto gli armamenti (navi di ferro senza vele e missili a lunga gittata) ricordano da vicino i regimi militaristi e dittatoriali del Novecento, quelli che negli anni della stesura di questo abbozzo di romanzo si erano ormai consolidati e marciavano rapidamente verso un conflitto esiziale. Nella seconda metà degli anni Trenta, Mussolini e Hitler si accingevano a firmare il Patto d’Acciaio che li avrebbe visti scatenare la Seconda guerra mondiale, mentre Stalin in Unione sovietica finiva di eliminare gli ultimi oppositori politici interni con le celebri “purghe”. La corsa agli armamenti era lanciata, e le società si preparavano allo scontro innescando dinamiche “totalizzanti” molto simili a quelle descritte da Tolkien per Númenor sotto l’influsso di Sauron. A volerla dir tutta, ci si potrebbe spingere fino a cogliere un valore profetico nella tragica vicenda di Númenor, che alla fine sfida gli dèi e viene schiacciata, letteralmente sommersa. Un destino che prefigura quello del Terzo Reich e dei suoi alleati, di lì a una manciata d’anni.
Lingue & Etimologie
Certo, questo quinto volume andrebbe segnalato anche per almeno un altro tesoro, cioè quello linguistico, da ricercare nella seconda e nella terza parte.
Il quinto capitolo del volume contiene infatti uno pseudo-biblion, vale a dire il Lhammas o “Relazione sulle Lingue”. Ancora ci si trova in presenza di una cornice narrativa, nella quale un soggetto immaginario redige una storia delle lingue elfiche (con tanto di diagrammi ad albero), ovvero del loro sviluppo storico in corrispondenza delle vicende di Arda, con tutte le loro divisioni, migrazioni, e conseguenti diramazioni linguistiche. Com’è noto questo è uno degli aspetti salienti della mitopoiesi tolkieniana, praticamente il suo punto di partenza. L’approccio da filologo comparato spinse Tolkien a creare una storia e un’ambientazione per le sue lingue. Consapevole che gli idiomi inventati hanno il pregio e il difetto di non avere una storia, e quindi di essere troppo perfetti (vedi l’esperanto che Tolkien aveva studiato da ragazzo, per poi abbandonarlo), Tolkien optò per creagliene una, vale a dire dotare il suo mondo immaginario di un effetto di profondità anche linguistica. Tanto più questo effetto poteva risultare realistico e credibile, e quindi funzionare, quanto più di quello sviluppo linguistico si poteva dare prova. Ed ecco che oltre alla storia delle lingue elfiche, la terza parte del volume è dedicata alle Etimologie e alle radici delle parole.
Come scrive Christopher nel suo commentario, fu un’impresa improba, perché mano a mano che le storie venivano modificate secondo l’inventiva dell’autore, anche le lingue dovevano essere adattate allo sviluppo storico. Una lingua, come la storia, è in perenne divenire, e dover svolgere due ruoli, quello di demiurgo di un mondo e di filologo delle lingue che vi si parlano, si rivelò troppo anche per Tolkien. È forse il motivo per cui non riuscì mai a produrre dei vocabolari veri e propri, se non in forma di scampoli:
«La cosa più sorprendente è il suo così scarso interesse per la creazione di vocabolari esaurienti delle lingue elfiche. Non rifece mai niente di simile al minuscolo “dizionario” della lingua gnomica originale a cui ho attinto per le appendici del Libro dei Racconti perduti. È possibile che un’impresa del genere fosse sempre rimandata al giorno, che non sarebbe mai arrivato, in cui si fosse raggiunto uno stadio sufficientemente definitivo del lavoro. Nel frattempo, quella non era per lui una necessità primaria» (p. 423).
Quella di Tolkien fu in sostanza la fatica di Sisifo, un’opera che non poteva essere compiuta, al punto che lui stesso ci rinunciò. Eppure rimane uno dei paradossi più belli e affascinanti di tutta la mitopoiesi tolkieniana, che non a caso appassiona da sempre tantissimi fan e studiosi. Certi grandiosi fallimenti individuano un’impossibilità rivelatrice, un’ossessione fertile, o, volendo, perfino un invito a proseguire il racconto per «altre mani, altre menti».
ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo La recensione: Tolkien e il Silmarillion di Kilby
– Leggi l’articolo Spigolature da Tolkien: la recensione di Testi
– Leggi l’articolo Tolkien, Rischiarare le tenebre: la recensione
– Leggi l’articolo Leggere insieme ISdA: la recensione di Testi
– Leggi l’articolo Il creatore della Terra di Mezzo: la recensione
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La recensione: Tolkien e il Silmarillion di Kilby
Che un autore sia un grande autore è probabilmente suggerito, tra le altre cose, anche dalla mole di letteratura critica che si sviluppa a partire dalla sua opera letteraria. Indizio, se si vuole, promettente ma anche estremamente incerto, dal momento che la critica ora stronca testi destinati a diventare dei classici e ora ne esalta altri che non reggono alla prova del tempo, ora getta luce su aspetti fondamentali delle opere letterarie e ora cade in clamorosi travisamenti, ora adorna gli scritti di un autore come un’edera rigogliosa su un antico tronco d’albero e ora li aggredisce e li soffoca come una pianta infestante. Tolkien, notoriamente avverso a critici, biografi e simili, non ha potuto impedire nemmeno in vita che si scrivesse di lui e più volte ha palesato il suo disappunto nei confronti di alcune distorsioni anche aberranti della sua opera. Tuttavia, col tempo, sono emersi contributi metodologicamente attrezzati e di innegabile valore esegetico – basti pensare ai saggi di Humphrey Carpenter, Tom Shippey, Verlyn Flieger o Thomas Honegger – che hanno consolidato una letteratura critica di riferimento per lo studio dell’opera tolkieniana.
Gli echi tolkieniani in Ufo 78 di Wu Ming
Perché parlare dell’ultimo romanzo di Wu Ming – UFO 78, Einaudi 2022 – su un sito dedicato all’universo tolkieniano? Be’, perché quando un membro di un collettivo di autori è anche uno studioso tolkieniano – stiamo parlando naturalmente di Wu Ming 4 – succede che Tolkien, per dirla con le parole usate da lui stesso a proposito del Silmarillion: «È risalito a galla, si è infiltrato e probabilmente ha contaminato tutto ciò […] che io ho provato a scrivere da allora» (Lettere n. 124).
Non parleremo dunque, se non brevemente, del libro in sé, ma di quelle sue parti dove il Professore «si è infiltrato» per scelta del membro del collettivo di cui sopra, condivisa ovviamente con gli altri. Parleremo in definitiva di Uova di Pasqua – o Easter Eggs, per chi tiene alla lingua originale – disseminati qua e là nel testo per il puro piacere di chi ce li ha messi e di chi vorrà andarli a cercare. Allerta spoiler: chi volesse cercare da sé gli Easter Egg farà meglio a non proseguire. Si tenga presente, tuttavia, che lo svelamento dei medesimi non compromette la lettura del romanzo.
Risposta a un articolo di Ivano Sassanelli
Nel suo documentato articolo “La tematica religiosa in Tolkien: analisi di alcune vie interpretative” (Mareghett A. – Sassanelli I., “Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”, Aracne, Roma, 2022 pp. 91-117), Ivano Sassanelli ancora una volta presta attenzione a Santi Pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien (ESD, Bologna, 2014). Qui, pur negli apprezzamenti, mi rivolge alcune critiche a cui mi sento obbligato a dare breve replica, in aggiunta a quanto già da me rilevato in un precedente articolo, convinto che il dibattito, se fatto in maniera seria, non pregiudizialmetne orientata e documentata è sempre utile
Nella prima parte del citato saggio Sassanelli afferma che nel dibattito sulla religione in Tolkien vi sono state due direttrici fondamentali: quella che considera l’opera di Tolkien Pagana e/o/aut Cristiana [par. 1.1 nel suo saggio] e quella che considera il suo mondo poco religioso perché vi vede un Dio immensamente lontano [1.2]. Egli poi [2] illustra quattro approcci alternativi, tra quali appare anche il suo, esposto ne Il Vangelo di Gollum e poi ribadito nella conclusione [3]). Santi Pagani è discusso soprattutto nella prima parte e parzialmente nella seconda.
PAGANO, CRISTIANO, CATTOLICO, RELIGIOSO
L’articolo esordisce con l’invito, del tutto condivisibile, a basare lo studio dell’opera tolkieniana soprattutto sui suoi testi di Tolkien (pp. 92-93), dopo di che, all’inizio del paragrafo 1.1, afferma:
“le aggettivazioni “pagana” e “cristiana”, non essendo mai state richiamate dall’autore come elementi descrittivi dei suoi racconti, risultano piuttosto essere prevalentemente (se non esclusivamente) tipiche del Mondo Primario, ossia del mondo dell’autore, del lettore e degli studiosi e mal si conciliano col Mondo Secondario della Terra di Mezzo in cui non sussistono, dal punto di vista religioso e storico, gli stessi presupposti riscontrabili nel “nostro mondo). Per queste motivazioni solo le “fonti”, i “principi generali” (poi esemplificati nel testo) o i “motivi particolari” (poi usati nella storia narrata) possono essere definiti o descritti come “pagani”, “cristiani”, “cattolici”, “moderni”, “pre–moderni”, “post–moderni”, “tradizionali” e cosi via. (“La tematica..”, p.93, corsivi aggiunti)
Sassanelli dice qui che è errato attribuire gli aggettivi di “cristiano” o “pagano” (così come quelli di “cattolico”, “moderno” ecc…: si veda la seconda frase) ai racconti di Tolkien in quanto:
a) l’autore non li ha mai usati
b) sono prevalentemente tipici del mondo primario.
Ovviamente una tale posizione implica una critica a Santi Pagani ove questi aggettivi vengono “massicciamente” usati perché si sostiene sostanzialmente che il mondo di Tolkien è specificamente pagano ma in armonia col cristianesimo e per questo la sua opera è cattolica (cfr. Santi Pagani, pp. 100-101).
Il principio sopra enucleato da Sassanelli è però molto “forte” e impegnativo da “sostenere”, anche alla luce dei alcuni testi tolkieniani, che Sassanelli, conosce bene e che correttamente ricorda:
Certamente qualcuno potrebbe osservare che Tolkien stesso nella lettera (n. 165) del giugno 1955 inviata alla Houghton Mifflin Co., ha affermato: ≪In ogni caso io sono cristiano; ma la “Terza Era” non era un mondo cristiano≫; oppure che nella bozza di lettera (n. 186) dell’aprile 1956 destinata a Joanna de Bortadano, egli scriveva: “La storia in realtà e la storia di cosa e accaduto nell’anno X a.C., e si dà il caso che sia accaduta a persone che erano in quel modo!” (“La tematica…”, p.96)
Per spiegare come la lettera 165 non contraddica il principio proposto da Sassanelli, secondo il quale l’aggettivo “cristiano” non è stato richiamato dall’autore per descrivere i suoi racconti, scrive:
In primo luogo nella lettera del 1955, Tolkien ha affermato la non cristianità della Terza Era come risposta tanto al rischio dell’allegoria quanto alle critiche secondo cui nel suo racconto non era presente la religione. Ciò ha condotto l’oxoniense a sottolineare che il suo Legendarium era stato impostato su un mondo monoteista di “teologia naturale” (“La tematica…”, p. 97, corsivi aggiunti)
Un rilievo giusto questo di Sassanelli, che però non mi pare riesca a “parare il colpo”. Che Tolkien affermi che il suo è un mondo non cristiano in cui però è presente un monoteismo basato sulla teologia naturale, non toglie il fatto che egli stesso usi l’aggettivo “cristiano” per caratterizzare ciò che un suo racconto non è1.
Sassanelli in merito considera anche un’altra lettera “problematica”, la 142, ove Tolkien come noto afferma che “Il SDA è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica”. Da ciò infatti segue ovviamente che “il SDA è un’opera cattolica”, ma anche che è un’opera “cristiana”, dato che il cattolicesimo è una certa interpretazione del cristianesimo. Per evitare l’inferenza Sassanelli spiegherà che questi aggettivi vanno riservati alle fonti e non all’opera, ma anche facendo ciò non riuscirà a evitare una contraddizione (cfr. sotto IV.).
Inoltre, non si capisce perché, mentre “pagano” e “cristiano” non si possono applicare ai racconti di Tolkien in quanto tipici del mondo primario, Sassanelli poi applichi ai medesimi racconti gli aggettivi “religioso” (cfr. sotto IV), “monoteista” e “di teologia naturale” che sono anch’essi tipici del Mondo Primario. In questo senso l’applicazione inversa (che rimprovera, peraltro correttamente, al mio approccio: si veda la citazione sotto riportata al paragrafo III) è a mio avviso inevitabile: è infatti impossibile studiare un’opera senza approcciarla e qualificarla con termini usati in primis per il nostro mondo.
Per questo il seguente rilievo, che nega la qualifica di accademico a una marea di studi tra cui, oltre al mio, anche quelli di Shippey, Flieger e… di Tolkien medesimo, è molto discutibile:
Ciò implica che in nessun caso, soprattutto in un contesto di riflessione accademica, la Terra di Mezzo può essere associata a un periodo storico e a un mondo “pagano”, “precristiano”, “cristiano”, “cattolico”, “moderno” o “pre–moderno” che sia. (“La tematica…”, p. 103)
DIO, NATURALE E SOPRANNATURALE
Nella parte 1.2 del suo saggio Sassanelli esamina poi il filone che vede la lontananza e quasi l’assenza di Dio nelle vicende della Terra di Mezzo (p.103 ss.). Qui gli autori di riferimento sono soprattutto Shippey, Flieger e Wu Ming 4, ma si accenna ancora a Santi Pagani:
Una delle problematiche più evidenti di quest’ultima impostazione, riguarda il fatto che ogni affermazione, da parte di critici e studiosi, circa l’intervento diretto di Dio, dei Valar o di qualsivoglia entità soprannaturale nel Mondo Secondario dell’oxoniense, risulterebbe, di per ciò stesso, una “cristianizzazione dell’opera tolkieniana”.
Ciò, però, come si vedrà nelle pagine seguenti, non può essere condiviso in quanto le categorie concettuali di “naturale” e “soprannaturale” — la cui esistenza, compresenza e correlazione costituiscono l’ossatura dell’essenza “religiosa” della narrativa tolkieniana e segnatamente de Il Signore degli Anelli — non possono essere equiparate a quelle di “pagano” e “cristiano”, in quanto, come detto in precedenza, e come evidenziato dalle stesse parole di Testi quando afferma “Tenendo ben ferme le distinzioni e definizioni sopra espresse e applicandole all’opera tolkieniana” (corsivo nostro), questa eguaglianza e quest’accostamento sono da identificarsi non tanto come un’interpretazione delle opere del Professore ma, piuttosto, come una semplice “applicazione” (da noi definita inversa) al Mondo Secondario tolkieniano di concetti tipici del Mondo Primario e del tutto estranei alla Terra di Mezzo. A voler usare le parole di Tolkien si potrebbe dire che le ossa del bue portano con se questi attributi del Mondo Primario — in quanto da esso derivano — ma una volta che esse entrano nel calderone della narrazione del Mondo Secondario, la minestra che ci viene ammannita dall’autore non può più avere le stesse categorie del Mondo Primario, pena vedere realizzata una “applicazione inversa”” (“La tematica…”, p. 106, corsivi aggiunti)
Il brano mi offre l’opportunità di chiarire un punto di Santi Pagani che da qualcuno è stato frainteso, ovvero quello della relazione tra l’esistenza di Dio e il paganesimo. A volte ho l’impressione che chi legge Santi Pagani consideri “paganesimo” sinonimo di “ateismo”. Nel mio libro ho invece chiaramente detto che il paganesimo non implica l’ateismo (Santi Pagani pp. 135-136) e che anzi l’esistenza di Dio è un contenuto proprio della cultura pagana, come attesta ad esempio l’opera pagana di Aristotele, che arriva a dimostrare l’esistenza di un motore immobile (Santi Pagani, p. 133). Il concetto di “paganesimo” inteso come inconciliabile col cristianesimo e negante la trascendenza di Dio è invece propria degli approcci di Curry e Madsen, che io critico aspramente (Santi Pagani pp. 49 sgg.)2. Per questo, almeno per quanto riguarda la mia prospettiva, non è vero, come dice Sassanelli, che un intervento di Dio implica la cristianizzazione di un’opera. Eru nel Legendarium è una presenza innegabile e quando Tolkien, vuol dirci che Eru fa qualcosa, lo scrive chiaramente senza alcun bisogno di trovare significati nascosti tramite complicate interpretazioni dei suoi testi, come ben si vede nell’affondamento di Nùmenor:
Ilùvatar però sfoderò il proprio potere, mutando la faccia del mondo; e un grande abisso si spalancò nel mare tra Nùmenor e le Terre Imperiture, e le acque vi si precipitarono, e il frastuono e il fumo delle cateratte salì al cielo, e il mondo ne fu scosso. E tutte le flotte dei Nùmenóreani furono trascinate nell’abisso, dove si sprofondarono e vennero per sempre inghiottite (Il Silmarillion, Akallabéth, corsivi aggiunti)
Questo però non implica che allora il Silmarillion sia cristiano. Ripeto: la presenza e l’intervento di Dio sono presenti anche nella cultura pagana e non sono specifici di quella cristiana. Quello che è invece è specifico di questa cultura e che riguarda quello che io indico come piano soprannaturale e frutto di una rivelazione a cui l’uomo, con le solo forze della ragione non può accedere, è ad esempio la Uni-Trinità di Dio, e la sua incarnazione-morte-resurrezione et similia (Santi Pagani p. 96). Ecco perché è vero che in Santi Pagani si propone una equivalenza tra pagano-naturale e cristiano-soprannaturale: ma questa è una semplice questione di vocabolario, per quanto non gratuita, e ogni autore può usare certe “definizioni” nella misura in cui le spieghi chiaramente (cfr. Santi Pagani, pp. 96-99).
Proprio su questa terminologia ho l’impressione che tra me e Sassanelli vi sia un fraintendimento. Quando afferma che l’armonia tra naturale e soprannaturale sia interna ai racconti di Tolkien, mi pare infatti che consideri “soprannaturale” come sinonimo di “Divino” o in qualche modo “legato a Dio”. Dice ad esempio:
Infatti la letteratura tolkieniana può essere, a giusta ragione, definita una “divine narrative” oppure un “De vera religione” narrativo in cui la presenza del “religioso” (ossia del dialogo tra “naturale” e “soprannaturale”) risulta continua, seppur in molti casi non direttamente ed esplicitamente percepibile. (“La tematica…”, p. 115)
Se così stanno le cose, allora anche io accetto questo discorso senza problemi. E questo discorso è compatibilissimo con la prospettiva di Santi Pagani in cui, ripeto, “soprannaturale” indica ciò che è specifico della rivelazione giudaico-cristiana.
CONTRADDIZIONE E CONCLUSIONE
Mi pare infine che la proposta di Sassanelli abbia al suo interno una contraddizione perché:
Da un lato afferma che l’aggettivo “cristiano”, pagano”, “cattolico” non possono essere usati per caratterizzare l’opera di Tolkien perché usati principalmente per il mondo primario. Per questo egli dice che al limite possono essere usati per caratterizzare le fonti dell’opera di Tolkien (le ossa del bue: cfr. supra II)
Dall’altro, oltre a non dare una convincente spiegazione delle lettere 165 e 142 e della differenza tra “pagano” e “religioso” rispetto allo loro origine nel mondo primario (cfr. supra II.), dice esplicitamente delle narrazioni di Tolkien che:
Tali opere sono:
a) “Religiose” (nella narrazione);
b) “Cattoliche” (nelle fonti);
c) “Santificate” (nella loro essenza eucatastrofica). (“La tematica…”, p. 115)
Ora, se come scrive Sassanelli le “opere [di Tolkien] sono Cattoliche nelle fonti”, ne segue banalmente che sono Cattoliche almeno sotto un certo aspetto, e quindi sono Cattoliche e anche “Cristiane” (cfr. supra II.). Allo stesso modo, se io sono modenese nelle origini, allora sono anche “genericamente” modenese, come lo è chi è modenese per adozione, e sarà anche vero che entrambi siamo italiani. Ecco che quindi Sassanelli usa l’aggettivo “Cattolico” (e quindi “Cristiano”: cfr. supra II) proprio per caratterizzare l’opera di Tolkien (la minestra, e non le ossa), contraddicendo così il principio da lui enucleato (II). Per evitare questa aporia, Sassanelli avrebbe invece dovuto scrivere che “le fonti dell’opera di Tolkien sono cattoliche”: ma questo fatto banalmente vero, dovrebbe essere enunciato unitamente a un altro fatto, pure questo banalmente vero, in base al quale “le fonti delle opere di Tolkien sono (anche) pagane”, cosa che invece Sassanelli non fa.
Concludendo, la proposta di Sassanelli, il cui contenuto è molto argomentato e ben documentato, continua a non apparirmi, specie nelle intuizioni più profonde, in antitesi con la prospettiva di Santi Pagani, la cui più semplice articolazione evita però molte complicazioni e pericolose contraddizioni.
NOTE
2 Mentre scrivo queste note leggo il medesimo fraintendimento nel libro di Giuseppe Scattolini (Guidami Luce Gentile, L’Arco e la Corte, 2022), che equipara la mia posizione a quella della Madsen (Guidami…, p. 235) e ritiene che per me la verità pagana sia più ampia di quella cristiana (p. 193), cosa che esplicitamente nego citando anche Newman (Santi Pagani p. 175) che invece secondo Scattolini ribalta la mia posizione. Per questo non caspico bene perché egli mi rimproveri di non aver riportato il nome dell’oratorio “S.Filippo Neri” quasi volessi occultare qualcosa (Guidami…, p. 179 nota 518). Né in Santi Pagani si trova affermato che i piani naturale e soprannaturale sono separati o che il primo non sia originariamente ordinato al secondo, come invece mi fa dire Scattolini opponendomi a Danielou (Guidami…, p.233). Distinguere infatti non significa separare o dividere estrinsecamente: io del resto condivido la lezione teologica di De Lubac sul nesso tra naturale e soprannaturale (Santi Pagani p. 169, 175) e dico esplicitamente che “tra il piano della Natura e quello della Sopra-Natura non c’è separazione ma profondo legame” (Santi Pagani, p. 107) e che secondo il cattolicesimo i due piani “risultano essere non separati” (p.166).
DOCUMENTI
– Leggi la recensione su The Journal of Inklings Studies
– Leggi la recensione su Hither Shore
ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Santi Pagani, risposta di Testi alle recensioni all’estero
– Leggi l’articolo Santi Pagani, quante recensioni all’estero!
– Leggi l’articolo Santi Pagani, ecco il carteggio Monda-Testi
– Leggi l’articolo Santi pagani, la recensione di Wu Ming 4 (1 parte)
– Leggi l’articolo Santi pagani, la recensione di Wu Ming 4 (2 parte)
LINK ESTERNI:
– Vai al sito della Walking Tree Publishers
– Vai al sito di Journal of Tolkien Research
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Spigolature da Tolkien: la recensione di Testi
Recensione a: Vink, René, Gleanings from Tolkien’s Garden. Selected Essays, Uitgeverij IJmond, Beverwijk, Netherlands, 2020
Questo volume raccoglie alcuni degli scritti di una tra la più competenti e profonde conoscitrici dell’opera di J.R.R. Tolkien. Per questo la pubblicazione dell’antologia va accolta con grande gioia e riconoscenza. La gioia deriva dal fatto di poter avere in un solo testo degli articoli sempre interessantissimi, la cui lettura complessiva riesce a farci cogliere il “timbro” inconfondibile dell’opera di Reneé Vink. La riconoscenza va non solo verso l’editore, ma verso la stessa autrice, che instancabilmente ha esplorato come pochi altri i tanti e differenti aspetti dell’opera tolkieniana. La raccolta, come spiega anche Jan van Breda nella sua pregevole introduzione, è infatti opportunamente divisa in quattro sezioni, che rendono giustizia del percorso critico della Vink:
– Translation: raccoglie due saggi sulla traduzione in olandese del Signore degli Anelli (Vink è infatti anche traduttrice in olandese di moltissime opere di Tolkien), più un articolo su Tolkien come traduttore;
– Elvish Affairs: questa sezione è più orientata alla “tolkienologia” nel senso che i contributi esaminano nei minimi dettagli alcune tematiche essenzialmente legate alla storia e alla genesi di alcuni personaggi del legendarium;
– Tolkien and some Women Authors si compone di tre saggi i cui l’autore del Lord of the Rings è messo a confronto con, rispettivamente, Dorothy Sawyers, Simon de Beauvoir e A.S. Byatt;
– Varia è l’ultima sezione che raccoglie articoli dedicati ai nani, alla fan-fiction e a Wagner.
Leggere insieme ISdA: la recensione di Testi

Recensione a: Nardi Paolo, Leggiamo insieme il ‘Signore degli Anelli’, Fede&Cultura, Verona, 2020 pp.174.
Tolkien e i Classici: quante belle recensioni
Con grande piacere e soddisfazione diamo notizia di una serie di recensioni all’estero che accolgono in maniera positiva l’antologia Tolkien and the Classics (30 euro – 245 pp.), versione in inglese del progetto in due volumi pubblicati da Eterea Edizioni nel 2018-2019. Il volume è stato poi tradotto e pubblicato il 7 agosto 2019 dalla Walking Tree Publishers come numero 42 della sua collana Cormarë Series, a cura di Roberto Arduini, Giampaolo Canzonieri e Claudio A. Testi.
Tutte le recensioni sono apparse su riviste specializzate britanniche e statunitensi e sono positive, a ulteriore dimostrazione di come il livello degli studi italiani, dopo anni di autarchia e provincialismo, abbia ormai raggiunto una dignità riconosciuta anche dai maggiori esperti all’estero. Le recensioni si aggiungono alla lunga serie di elogi che hanno accolto le altre produzioni “italiane” all’estero, cioè la traduzione inglese di due volumi della collana Marietti: La Falce Spezzata (The Broken Scythe), Tolkien e la Filosofia (Tolkien and Philosophy) e del libro Santi pagani nella Terra di Mezzo (Pagan Saints in Middle-earth) di Claudio A. Testi, oltre alle numerose conferenze tenute dai membri del Comitato Scientifico della collana “Tolkien e Dintorni” tenuti in Inghilterra, Francia, Germania e Stati Uniti a partire dal 2005.
Il creatore della Terra di Mezzo: la recensione

Leggendo il catalogo della mostra Tolkien: Maker of Middle-Earth, tenutasi a Oxford da giugno a ottobre del 2018, in uscita oggi in Italia per Mondadori (Tolkien: Il creatore della Terra di Mezzo, 416 pagine, 45 euro, trad. di Stefano Giorgianni), si ha a tratti la sensazione di violare uno spazio privato. Una grande quantità di materiale appartenuto al celebre Professore viene messa in mostra per i fan della Terra di Mezzo. È una cosa che accade soltanto per gli autori di culto, e non ci sono dubbi che J.R.R. Tolkien sia tra questi, dato che con il passare dei decenni la sua narrativa ha incontrato un apprezzamento sempre più ampio da parte di un pubblico quanto mai eterogeneo. Per questo, sfogliando il catalogo viene da chiedersi cosa avrebbe pensato di una mostra su di sé. La risposta è che probabilmente ne sarebbe stato al tempo stesso lusingato e irritato. Lusingato, perché sono pochi gli scrittori a cui siano state dedicate esposizioni come questa. Irritato perché era profondamente avverso alla via biografica alla letteratura e contrario al culto dell’autore, ritenendo quest’ultimo un pessimo servizio alla letteratura stessa. In una lettera del 1971 scriveva:
«Una delle mie convinzioni più radicate è che l’indagine sulla biografia di un autore (o su altri aspetti della sua “personalità”, come quelli che vengono racimolati dai curiosi) sia un approccio totalmente inutile e sbagliato alla sua opera, e specialmente a un’opera d’arte narrativa, per la quale l’obiettivo che l’autore cercava di centrare era che venisse apprezzata in quanto tale, che fosse letta con piacere letterario»1.
Già nel 1958, a pochi anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, Tolkien si era espresso in termini ancora più netti:
«Non mi piace riferire “fatti” su di me che non siano “nudi” (e che in ogni caso sono altrettanto rilevanti per i miei libri quanto gli altri dettagli più succosi). Non semplicemente per motivi personali; ma anche perché sono contrario alla tendenza contemporanea della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e artisti. Questi infatti distraggono l’attenzione dall’opera dell’autore (se l’opera è in effetti degna di attenzione), e finiscono, come si vede spesso, per diventare l’interesse principale. Ma solo il proprio angelo custode, o Dio stesso, potrebbe dipanare le effettive relazioni fra i fatti personali e l’opera di un autore»2.
Si potrebbe aggiungere che quando scriveva narrativa, Tolkien si sentiva affine agli autori medievali che studiava da accademico, spesso anonimi estensori di tradizioni poetiche tramandatesi oralmente per secoli. «Ho sempre avuto la sensazione non di “inventare”, ma di annotare ciò che era già “lì”, da qualche parte»3, scriveva riferendosi alla propria attività di mitopoieta. L’immagine romantica dell’autore-genio, dell’autore-oggetto-di-culto, non gli è mai appartenuta. Questo non significa, ovviamente, che non fosse disposto a riconoscere la perizia, il talento, l’inventiva, del singolo autore al lavoro su un’opera nuova, attraverso l’uso creativo delle fonti. Semplicemente per lui l’autore non doveva essere anteposto all’opera stessa, la quale, peraltro, se di un qualche valore, gli sarebbe sopravvissuta, guadagnando legittima autonomia, come una figlia ormai adulta. Non era quindi propenso a vedere sviscerata ed esposta la propria vita fin nei minimi dettagli personali e familiari.
Nondimeno, nel suo caso ci sono almeno tre argomenti a favore dell’approccio biografico, che trovano conferma proprio nelle pagine di questo catalogo.
Il primo è che Tolkien ha pubblicato poco in vita: non molti lavori accademici e davvero poche opere narrative, vale a dire appena due romanzi, tre racconti, e una raccolta di poesie. Dunque una mole considerevole di materiale interessante ha dovuto essere attinta dai suoi archivi personali, per essere pubblicata postuma. Lo stesso vale per l’epistolario, del quale a suo tempo è stata pubblicata soltanto una selezione, priva delle lettere inviate a Tolkien, alcune delle quali fanno invece parte di questo catalogo e rivelano aspetti peculiari dei suoi rapporti con il mondo esterno.
Il secondo argomento è che – essendo stata la narrativa una semplice passione per decenni e poi tutt’al più un secondo mestiere – molto spesso l’espediente per la scrittura era offerto a Tolkien proprio dalla vita privata. Molte delle sue storie nascevano dai racconti serali inventati per i quattro figli. Esiste dunque una dimensione intima della sua narrativa che – a maggior ragione nel caso degli inediti – è strettamente connessa alle relazioni personali. Sotto questo aspetto, dalle memorie famigliari emerge la figura di un genitore moderno, che «univa paternità e amicizia», trascorrendo parecchio tempo con i figli, coinvolgendoli nelle sue storie fantastiche, e prendendo le loro «osservazioni e domande infantili con assoluta serietà»4. La capacità di restare in sintonia con l’infanzia – anche la propria – e di non gettare su di essa uno sguardo paternalistico è senz’altro una delle chiavi della sua efficacia narrativa.
Il terzo argomento è che Tolkien amava disegnare e dipingere – una passione trasmessagli dalla madre e rafforzata a scuola – ed era un illustratore dilettante di un certo talento. Aprire il “Book of Ishness”, osservare i suoi acquerelli, i disegni a penna o anche solo i bozzetti, dà la misura di quanta parte avesse l’arte figurativa nella sua attività di creatore di mondi; per non parlare della calligrafia, in particolare quella elfica. Un’arte, la sua, per lo più privata, ma con un tratto distintivo che l’autrice dei testi a commento non esita a definire “surreale”, accompagnato da un uso del colore per il quale McIlwaine spende l’aggettivo “psichedelico”.
In realtà c’è un quarto argomento che sostanzia il taglio della mostra oxoniense. È l’affascinante mistero rappresentato da Tolkien stesso: il contrasto tra vita e opera assai più che la loro concordanza. Da un lato un’esistenza borghese, estremamente regolare, conforme alle aspettative sociali e alle convenzioni; dall’altro una “evasione” creativa sconfinata. Quanto più costui fu lontano dalla mondanità, politicamente disimpegnato, devoto alla propria fede cattolica, tanto più fu spregiudicato nell’uso dell’immaginazione fantastica.
Tolkien era un uomo ordinario, assai poco eccentrico, privo delle idiosincrasie e delle pose tipiche dello scrittore, dedito alla famiglia, agli amici e alla professione di studioso e insegnante; tuttavia ha coltivato sempre un “vizio segreto”, l’invenzione di linguaggi e la passione fono-estetica, sfociato nell’ideazione di una realtà secondaria in cui quelle lingue potessero essere parlate. Una “subcreazione” mitica – Arda, la Terra di Mezzo – che è ormai entrata a fare parte indelebilmente dell’immaginario collettivo.
Pensando a questo contrasto, allora, non stupisce che i protagonisti dei suoi romanzi siano proprio uomini comuni capaci di caricarsi sulle spalle i destini del mondo, quei piccoli Hobbit dai quali Tolkien distillava «il sorprendente e inaspettato eroismo dell’uomo ordinario “quando è necessario”»5.
A suggerirgli quella scelta era stata l’esperienza vissuta, il trauma della guerra, che Tolkien riversò nella propria narrativa, come fecero altri letterati reduci del primo conflitto mondiale. Impiegò il tempo concessogli per costruirsi un’esistenza tranquilla e usò la scrittura non soltanto come terapia o elaborazione del lutto, ma anche come grande strumento per raccontare l’umanità posta di fronte al dispiegarsi del male nella storia e ai dilemmi universali. Dove però altri scelsero la poesia, il memoriale, il romanzo realistico, lui mosse in una direzione del tutto diversa, proiettando i grandi temi del suo tempo su un fondale fantastico e posando in questo modo una pietra angolare per la rifondazione e nobilitazione di un intero genere letterario.
Non tutti all’epoca lo capirono e non pochi stentano a capirlo ancora oggi. Tuttavia le lettere che compaiono in queste pagine testimoniano di un riconoscimento da parte di importanti intellettuali e artisti coevi, anche molto lontani dalla visione del mondo del Professore: il reporter e romanziere per ragazzi Arthur Ransome, il poeta Wystan H. Auden, la filosofa Iris Murdoch, la cantautrice Joni Mitchell, o ancora un giovanissimo Terry Pratchett che, proprio grazie all’influsso di Tolkien, sarebbe diventato scrittore fantasy a sua volta. Le epistole messe in mostra raccontano come Tolkien non fosse affatto un eremita. Tanto era refrattario alle luci della ribalta e alla fama mediatica, quanto trasparente nei confronti dei lettori che gli scrivevano. Lettori di ogni ordine e grado, dai suddetti intellettuali a illustri personaggi pubblici, come la figlia del presidente degli Stati Uniti d’America, o la principessa d’Olanda; ma soprattutto illustri sconosciuti, fossero bambini riconoscenti o ammiratori adulti affamati di dettagli sulla Terra di Mezzo.
Il corpus del catalogo – preceduto da una sequenza di saggi dei maggiori studiosi tolkieniani – è un caleidoscopio di carteggi, ritratti fotografici color seppia, disegni a motivi “morrisiani”, acquerelli coloratissimi, mappe e oggetti. Al netto di ogni tentazione feticistica, il volume è un viaggio nel percorso creativo di un uomo che ha nutrito la propria fantasia incessantemente, esprimendosi non solo attraverso l’arte narrativa e la saggistica, ma anche il disegno, la poesia, la pittura, la calligrafia e la cartografia. Queste pagine ci restituiscono l’immagine di uno studioso e artista poliedrico, a tutto tondo, in costante dialogo con le proprie suggestioni infantili, capace al tempo stesso di svilupparle e traghettarle nel racconto adulto, fino a fare collassare la fiaba nel romanzo epico e nell’ucronia fantastica. Sfogliando queste pagine si respirano anche le difficoltà del narratore, trasmesse attraverso la materialità del vivere quotidiano, o la necessità di scrivere e riscrivere, abbozzare, scarabocchiare e immaginare con penna o pennello, prima di riuscire a creare un mondo tanto vivido da sembrare reale e far nascere la voglia di percorrerne i sentieri. Senza dubbio Tolkien ci è riuscito. È per questo che – volente o nolente – viene celebrato.
A tutto ciò si aggiunge un percorso attraverso il Novecento tramite l’album fotografico di famiglia, dove le generazioni si passano il testimone, cambiano il taglio degli abiti e le acconciature, i giovani indossano divise militari poi abiti borghesi, diventano genitori a loro volta e invecchiano, mentre i loro figli crescono di scatto in scatto, diventando giovani uomini e donne.
Questo fino alla tavola 133, che consiste in una fotografia a colori, a tutta pagina. Lo scopo è evidentemente quello di presentare la toga da cerimonia del professor Tolkien esposta alla mostra, ma il cimelio passa in secondo piano rispetto alla fotografia. Il colore produce un effetto di avvicinamento spiazzante. Siamo abituati a vedere Tolkien in bianco e nero e tonalità di grigio, come un vecchio signore che ci parla da un tempo remoto; e in effetti nel catalogo è così, fino a questa foto. Il soggetto è colto mentre cammina spedito, nella mise adatta a ricevere il dottorato ad honorem in Lettere all’università di Oxford, con il tocco in testa, il papillon candido, la toga scarlatta svolazzante, sotto la quale si vede il gessato a righe. Ha in mano un ombrello chiuso, e sotto il braccio tiene forse il programma della cerimonia o l’attestato stesso. La fotografia è stata scattata il 3 giugno 1972, due settimane prima che scoppiasse lo scandalo Watergate e che David Bowie pubblicasse Ziggy Stardust; dieci giorni dopo la presentazione ufficiale della prima console domestica per videogiochi. Alle spalle del Professore, sfocata, c’è una piccola folla di persone dalla quale si sta allontanando. Si distinguono cappotti e vestiti color pastello, capelli lunghi. Il colore, la dinamicità, il fatto che il soggetto non sia in posa, l’espressione concentrata dell’anziano che non guarda in camera, e, non ultimo, il contrasto tra l’abito cerimoniale e l’abbigliamento moderno delle persone sullo sfondo, ci raccontano qualcosa di diverso dal solito.
Nato e cresciuto in un’altra epoca, legato alle convenzioni dei grandi atenei del regno e del ceto accademico, Tolkien, tramite la sua opera, giunge a lambire e perfino ad avere una parte indiretta nella grande rivolta giovanile degli anni Sessanta e Settanta. Eccolo buffamente agghindato, mentre viene onorato dalla sua università, ed è già un autore caro a una generazione di studenti ribelli, rockers psichedelici e hippies, che nella sua opera legge una critica radicale al proprio tempo, alla società industriale, al potere, e un inno alla libertà, alla pace, alla riscoperta della natura vivente. Le storie di Tolkien hanno contaminato e influenzato la controcultura angloamericana di quegli anni: dai Beatles ai Led Zeppelin, dai giovani di Woodstock a quelli di Glastonbury, da “l’uomo più pericoloso d’America” Timoty Leary a un obiettore di coscienza alla guerra in Vietnam che risponde al nome di George R.R. Martin, a tantissimi altri.
Questo ci ricorda che la letteratura non è un feticcio né un altare sul quale innalzare l’autore, ma vive nel mondo grazie alla partecipazione di chi continua a ritrovarsi nelle storie narrate e a farle collidere con la propria vita. Anche e soprattutto le storie fantastiche, che per Tolkien rappresentavano non già un rifugio incantato, ma un’evasione dalla dittatura realista come atto di resistenza contro l’abbrutimento dei tempi. «Perché la Fantasia creativa si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi»6, scriveva nel celebre saggio Sulle fiabe. Un’asserzione che suona come una petizione di principio e che potrebbe essere l’epigrafe perfetta di questo volume.
1 Lettere 1914-1973, n. 329, Bompiani, 2018, p. 656
2 Ibidem, n. 213, p. 456-457
3 Ibidem, n. 131, p. 231
4 Intervista a Michael H.R. Tolkien sul “Sunday Telegraph” del 9/09/1973, citata in questo volume a pag. 178
5 Lettere, op. cit., n. 131, p. 252
6 Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2004, p. 213
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito web di Mondadori Vault
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Il Vangelo di Gollum, la recensione di Testi (2)
Proseguiamo con la recensione a Ivano Sassanelli, Tolkien e il Vangelo di Gollum, Cacucci Editore, Bari, 2020 pp. 526. La prima parte la trovate qui.
Il Vangelo di Gollum, la recensione di Testi
Recensione a Ivano Sassanelli, Tolkien e il Vangelo di Gollum, Cacucci Editore, Bari, 2020 pp. 526.
Colui che raccontò la grazia: la recensione
Tolkien’s Library, la recensione di Testi



«Un giorno L[ewis] mi ha detto: “Tollers, c’è troppo poco di quello che ci piace davvero nelle storie. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi stessi.” Ci accordammo che egli avrebbe provato il “viaggio nello spazio”, e io il “viaggio nel tempo”. Il suo risultato è ben noto. I miei sforzi, dopo alcuni capitoli promettenti, si sono prosciugati; era una strada troppo lunga per arrivare a quello che in realtà volevo fare: una nuova versione della leggenda di Atlantide. La scena finale sopravvive come La Caduta di Númenor. Questo affascinò molto Lewis (che la sentì leggere), e ci fece riferimento più volte nelle sue opere: per es. The Last of the Wine nelle sue poesie (Poems, 1964, p. 40). Nessuno di noi due si aspettava molto successo come dilettanti, e in realtà Lewis ha incontrato qualche difficoltà a far pubblicare Lontano dal pianeta silenzioso. E dopo tutto quello che è successo, il piacere e la ricompensa più duraturi per tutti e due è stato che ci siamo forniti storie da ascoltare o leggere che, in gran parte, ci piacevano. Naturalmente, a nessuno di noi due piaceva tutto quello che trovavamo nella narrativa dell’altro» (Lettera 294, 1967, in Lettere, p. 598-599).
«La cosa più sorprendente è il suo così scarso interesse per la creazione di vocabolari esaurienti delle lingue elfiche. Non rifece mai niente di simile al minuscolo “dizionario” della lingua gnomica originale a cui ho attinto per le appendici del Libro dei Racconti perduti. È possibile che un’impresa del genere fosse sempre rimandata al giorno, che non sarebbe mai arrivato, in cui si fosse raggiunto uno stadio sufficientemente definitivo del lavoro. Nel frattempo, quella non era per lui una necessità primaria» (p. 423).











