Recensione: Le miniere di Moria per L’Unico Anello

Cop_L-Unico-Anello-Moria-Oltre-le-Porte-di-DurinL’Unico Anello: Moria: Attraverso le porte di Durin (Free League, 2024) è un manuale di riferimento per il gioco di ruolo basato sull’opera di JRR Tolkien. Come altri, si prende qualche libertà, seppur in termini di espansione della lore e non di una deviazione da essa. Il volume costituisce anche un tesoro di illustrazioni e testi da cui gli appassionati dell’ambientazione o del fantasy in generale possono trarre ispirazione o modelli. Frutto di una campagna su Kickstarter che ha coinvolto 13mila sostenitori e ha racimolato oltre 1 milione e 250mila euro, l’edizione italiana è curata da Needs Games (44,90 euro, 2024) e presentata a Lucca Comics and Games 2024.

La recensione

Moria-Cover-ITAGran parte del libro è dedicata a una descrizione dettagliata delle montagne e delle miniere di Moria. Questa include non solo le gallerie e le camere interne, e il terreno sottostante, ma anche i gruppi e gli individui che le abitano e che si contendono il potere su di esse. Si tratta di un’ampia raccolta e include una varietà di personaggi menzionati nelle opere classiche, così come nuovi individui estrapolati da accenni fugaci. Le descrizioni degli interni delle montagne e delle miniere sono similmente approfondite, spiegando i luoghi visti e approfondendo quelli che si presumeva fossero.
C’è del materiale che probabilmente Tolkien non avrebbe mai scritto, anche se il testo appare molto fedele ai suoi scritti.
L-Unico-Anello-Moria-Oltre-le-Porte-di-Durin-1Un aspetto interessante di questo libro in particolare deriva dal presupposto di familiarità. Vale a dire che il team creativo è consapevole che i giocatori potrebbero, e francamente molto probabilmente lo faranno, avere familiarità con alcuni colpi di scena, come il significato dell’enigma alle porte e la natura della Rovina di Durin. Pur presentandoli nella loro natura tradizionale in tutto il libro, il testo riserva un po’ di spazio per consentirne una eventuale modifica qualora lo si ritenesse più divertente (pagina 149 per le porte e pagina 62 per la Rovina di Durin).
UnicoAnello-02Come artbook, questo non è il miglior volume che si possa trovare nella serie L’Unico Anello di Free League, ma è comunque valido. Uno dei principali difetti deriva dal semplice fatto che, pagina per pagina, presenta meno delle grandi sezioni a colori a due pagine che le suddividevano, come invece accadeva negli altri. Detto questo, quelle presenti sono decisamente belle. Un suggestivo sguardo cupo alle porte in una cornice austera e l’illustrazione del Balrog si sposano bene con il libro. Quest’ultimo riesce persino a fare un buon lavoro nel mantenere la questione delle ali un po’ ambigua, un bell’easter egg di per sé.
UnicoAnello-03Allo stesso tempo, le illustrazioni, sia principali che secondarie, continuano a contribuire alla bellezza e all’intrattenimento del libro, senza risultare dipendenti dallo stile dei film di Peter Jackson. In effetti, le illustrazioni a colori e in bianco e nero di Rovina di Durin non presentano alcuna somiglianza con la versione cinematografica che non si potrebbe ricavare dalle parole dell’autore originale. È simile nello stile alla maggior parte, se non a tutti, gli altri personaggi e luoghi condivisi nel volume. Considerata la longevità di quei film, qualsiasi nuova interpretazione, indipendente da essi, è molto apprezzata.

Giudizio finale

L’Unico Anello: mappa di MoriaPer gli appassionati del gioco, questo è un libro imperdibile. È ricco di contenuti che possono ampliare il materiale esistente, permettendo così a chi lo legge di accedere a un pezzo dell’ambientazione che desiderava da tempo. Anche per i non giocatori è uno dei libri più interessanti, con tantissime illustrazioni inedite e meravigliose, alcune espansioni impressionanti sui classici della Terra di Mezzo e riflessioni intelligenti su e sulla categorizzazione del materiale precedente.

 

lunico-anello-moria-oltre-le-porte-di-durinDATI TECNICI

ISBN: 9791255980773
Marca: Need Games
Categoria: L’UNICO ANELLO
Lingua: Italiano
Prezzo: € 44,90
Pagine: ‎228

 

 

 

 

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– Vai all’articolo della L’Unico Anello, gdr su Tolkien a RovigoComics

 

LINK ESTERNI
– Vai al comunicato Free League Publishing
– Vai alla newsletter del gioco
– Vai al sito di Free League, editore del gioco
– Vai al sito di Need Games, editore italiano di Avventure nella Terra di Mezzo
– Vai al profilo di Alvaro Tapia su Behance
– Vai all’intervista a Francesco Nepitello su The One Ring

 

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Graphic novel: recensione a The Mythmakers

Sono molte le opere di carattere biografico dedicate a J.R.R. Tolkien e agli Inklings che popolano gli scaffali delle librerie di tutto il mondo. Su tutte spiccano sicuramente per notorietà e qualità J.R.R. Tolkien, La biografia Gli Inklings, entrambe di Humphrey Carpenter, Tolkien e la grande guerra, La soglia della Terra di Mezzo di John Garth e la più recente Tolkien, la biografia definitiva di Raymond Edwards. The Mythmakers: The Remarkable Fellowship of C.S. Lewis & J.R.R. Tolkien di John Hendrix, pubblicata  dall’editore americano Abrams Fanfare nel settembre dello scorso anno, si colloca in quest’ambito, ma presenta al lettore le vite di J.R.R. Tolkien e dell’amico C.S. Lewis sotto una veste nuova e, per molti aspetti, innovativa.
Quando ne annunciammo l’imminente pubblicazione, se ne parlò come di un’opera essenzialmente a fumetti da ascriversi allo stesso filone di Tolkien, Rischiarare le tenebre e J.R.R. Tolkien et la bataille de la Somme: Dans un trou sous la terre. The Mythmakers si differenzia però da queste pubblicazioni perchè non è una produzione interamente a fumetti, ma piuttosto un’opera nella quale le pagine a fumetti si alternano a quelle in prosa senza un confine ben preciso: spesso le illustrazioni invadono le sezioni in prosa e viceversa, rendendolo un prodotto unico nel suo genere.

Struttura e contenuto

The Mythmakers si presenta come un volume di 224 pagine con copertina rigida e sovraccoperta illustrata. Il libro si apre con una sezione introduttiva chiamata The Library of Doors nella quale vengono presentati al lettore i due personaggi che poi lo accompagneranno per tutta la storia: un mago con le fattezze di J.R.R Tolkien e un leone antropomorfo con quelle dell’amico C.S. Lewis. Dalla “libreria delle porte” i due si incamminano in un viaggio biografico suddiviso in sette sezioni e quattro “portali“. Ogni sezione è caratterizzata da un’alternanza di pagine a fumetti e prosa illustrata. I “portali” sono sostanzialmente appendici di approfondimento collocate in fondo al libro, che possono essere lette sia subito, seguendo le indicazioni di rimando fornite nel testo, sia dopo averne letto il corpo principale. Questo accorgimento permette al lettore di scegliere autonomamente quando affrontare questi approfondimenti. Dopo un lungo viaggio attraverso i miti che hanno influenzato entrambi gli scrittori inglesi, il mago e il leone arrivano a una porta che li conduce alla prima sezione, The Tale Begins, dove vengono illustrati prima l’infanzia e poi gli anni di formazione di Tolkien e Lewis. La seconda sezione, Dead Marchesaffronta invece l’esperienza vissuta da entrambi gli autori durante la Grande Guerra. Si passa quindi alla terza e quarta sezione, Stab of the North The Horns of Elfland, che narrano dell’incontro fra i due professori, della nascita della loro amicizia e di come questa sia stata fondamentale nel percorso di conversione al cristianesimo di C.S. Lewis. La quinta sezione, Mere Inklings, è incentrata sullo straordinario gruppo informale di letterati nato a Oxford nei primi anni ’30 proprio grazie all’amicizia fra i due “creatori di miti”. Nella sesta sezione, The Breaking of the Fellowshipsi parla sia del completamento delle opere più note dei due scrittori (Il Signore degli Anelli Le Cronache di Narnia), sia del progressivo raffreddamento dei rapporti fra Tolkien e Lewis. La settima e ultima sezione, Shadowlands and Grey Havensaffronta dapprima l’ulteriore distanziamento fra i due amici, causato principalmente dal matrimonio di Lewis con una donna divorziata (Helen Joy Davidman), e quindi l’ultima parte delle loro vite.

Pregi e difetti

Nonostante la mole, The Mythmakers scorre veloce e riesce ad essere divulgativo senza mai annoiare il lettore. Come già scritto, ci troviamo di fronte a un’opera molto particolare: una biografia romanzata, illustrata e arricchita da intere sezioni a fumetti.  Fra i pregi del volume c’è senz’altro quello di fornire una panoramica abbastanza completa sulla vita dei due autori inglesi, spiegando alcuni concetti relativamente complessi in modo chiaro e semplice. Proprio per questo il target principale del volume non è l’esperto di Tolkien e Lewis interessato a conoscere i dettagli delle loro biografie, ma piuttosto il lettore appassionato che voglia saperne di più sulle loro vite e su come, nella seconda metà degli anni ’20 del ‘900, queste si siano incrociate e influenzate a vicenda. All’interno del libro sono presenti alcuni elementi esplicitamente speculativi, che però risultano sempre plausibili, non contraddicono quanto noto sulla vita dei due protagonisti e rendono la narrazione più fluida. Un difetto evidente, che comunque non impedisce al lettore di godersi la storia, è costituito dalle dimensioni ridotte del carattere utilizzato nelle sezioni narrative (i.e. non a fumetti). Nel complesso The Mythmakers è una lettura interessante e piacevole, presentata in una veste grafica ed editoriale accattivante; l’acquisto del volume è dunque consigliato a tutti gli appassionati di Tolkien che non si fanno spaventare dalla lingua inglese.

 

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LINK ESTERNI:

– Vai al sito web della sito web della Tolkien Society inglesecasa editrice Abrams Books

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La Caduta di Númenor esce oggi in libreria

Libreria BompianiPer certi versi si potrebbe dire che La Caduta di Númenor, il volume curato da Brian Sibley in uscita il 15 gennaio nella traduzione italiana di Stefano Giorgianni (Bompiani € 35), rappresenta un’opera di “servizio”, senza sminuirla affatto. Anzi, il volume ha un grande merito proprio per come è stato concepito dal suo curatore. Sibley ha raccolto i vari scritti tolkieniani che riguardano la Seconda Era, prendendoli dalle Appendici del Signore degli Anelli, dal Silmarillion, dai Racconti Incompiuti e dalla Storia della Terra di Mezzo, e ha disposto gli eventi in sequenza cronologica. In questo modo, pur riproponendo testi già pubblicati, si facilita la comprensione di un pezzo di storia così cruciale per tutto ciò che verrà dopo nell’evoluzione del mondo tolkieniano. Si tratta in buona parte dell’arco temporale che viene molto liberamente riassunto nella serie Amazon Gli Anelli del Potere, e che qui invece può essere letto nella sua versione originale (con gli impietosi confronti del caso…).

Così essa cadde

La narrazione segue principalmente la storia della grande isola di Númenor, donata agli uomini dal dio creatore Ilúvatar come ricompensa per il loro aiuto contro “l’angelo caduto” Morgoth nella Prima Era. L’epopea di Númenor e dei Dúnedain, nella quale Tolkien rilegge a modo suo il mito classico della civiltà di Atlantide, simboleggerà l’apice e la caduta dell’umanità, un tema centrale nell’opera tolkieniana. Il testo affronta infatti l’ascesa della civiltà númenóreana, con la sua straordinaria perizia marittima, la sua grandezza culturale, la colonizzazione commerciale della Terra di Mezzo, la lotta contro Sauron, e la sicumera dei re di Númenor nel trarlo prigioniero sull’isola e poi perdonarlo, lasciandolo così in condizioni di irretire la società degli Uomini e di fomentarne i più illusori sogni di gloria. La tentazione è sempre la stessa: sconfiggere la morte, diventare dèi, accedere alle Terre Beate. Sogni che porteranno i re di Númenor a tentare di raggiungere Valinor, venendo distrutti e subendo l’ira divina. Il volume culmina nel cataclisma che fa sprofondare Númenor nel mare, evento ispirato appunto al mito di Atlantide e all’immagine della Grande Onda, che Tolkien stesso riconosceva come una delle sue ossessioni ricorrenti. È la famosa Akallabêth, parola che nella lingua di Númenor, l’adûnaico, significa “Così essa cadde” o più semplicemente “la Caduta”, e che invece in Quenya è Atalantë.

La distruzione di Númenor è raccontata in un tono epico e struggente, che riecheggia la caduta di grandi civiltà del mondo primario. I superstiti, salvatisi per essere rimasti fedeli ai Valar, fuggiranno nella Terra di Mezzo, dove fonderanno i regni Númenóreani in esilio di Arnor e Gondor.

Chiunque leggendo Il Signore degli Anelli o vedendo i film che ne sono stati tratti sia rimasto affascinato da personaggi come Aragorn, Boromir e Faramir, può qui scoprire la storia della loro stirpe, il lungo prequel del romanzo più famoso di Tolkien. Questo vale anche e forse soprattutto per Sauron, che, almeno stando al titolo scelto da Tolkien per il suo opus magnum, potrebbe essere considerato paradossalmente il protagonista “in absentia” di quel romanzo. Nella storia di Númenor compare e agisce in prima persona con tutta la scaltrezza di cui è capace, da degno erede del suo maestro Morgoth, fino alla forgiatura degli Anelli del Potere e soprattutto dell’Unico.

Il lavoro di Sibley

Brian Sibley (Londra, 1949) è scrittore, giornalista e autore di drammi e documentari radiofonici. Tra i suoi adattamenti c’è la versione del 1981 del Signore degli Anelli per la radio britannica. È anche noto per essere l’autore di molti libri sul “making of” dei film, tra cui quelli della serie di Harry Potter e delle trilogie del Signore degli Anelli e dello Hobbit.

Con La Caduta di Númenor fa un ottimo lavoro nel ricostruire un’unica narrazione coerente dai frammenti sparsi in diverse opere, sempre rispettando il testo originale di Tolkien. La struttura è accompagnata da una prefazione che introduce il contesto e spiega le fonti utilizzate. Soprattutto questa curatela è arricchita dalle straordinarie tavole a matita di Alan Lee, che evocano con maestria l’atmosfera prima solenne e poi crepuscolare di Númenor.

Brian Sibley

Nel paratesto, Sibley si premura anche di ringraziare a più riprese Christopher Tolkien, che definisce «diligente curatore, dotato di uno stile di scrittura agile ed elegante, personale, che si integra alla perfezione con quello del padre». Forse si può iniziare a sperare che Christopher venga finalmente inquadrato dalla critica letteraria come un co-autore di fatto del Legendarium tolkieniano, accettando che sotto lo stesso cognome e la stessa sigla vi siano non uno ma due autori con ruoli diversi.

Tuttavia la constatazione più importante rimane quella da cui si è partiti. Operazioni di assemblaggio e ricomposizione come questa possono aiutare coloro che non conoscono dettagliatamente l’opera di Tolkien a fruirla in maniera più semplice, senza doversi orientare nel mare magnum degli scritti pubblicati a varie riprese, in vari volumi e versioni. In questo senso, Sibley compie un ottimo servizio al lettore e, conseguentemente, anche all’autore.

La guerra dei Rohirrim: La recensione del film

Informative ImageDopo esser passato nella seconda parte di Dicembre nel resto del mondo, Il Signore degli Anelli – La guerra dei Rohirrim arriva finalmente al cinema anche da noi. È approdato infatti in sala il 1° gennaio 2025, dopo una lunghissima attesa più che giustificata, dato che il film diretto da Kenji Kamiyama si porta dietro alcune interessanti e inedite premesse. Innanzitutto, si tratta di un’opera in stile anime, una tecnica finora mai utilizzata per un adattamento del Legendarium, ma, ancora più importante, è il fatto che il film rappresenta un prequel della trilogia di Peter Jackson, diventando così un capitolo ufficiale della saga del Signore degli Anelli, iniziata 25 anni fa e continuata qualche decennio successivo con Lo Hobbit.

Di cosa tratta il film?

Functional imageLa trama si concentra sulla storia di Helm Mandimartello e dell’assedio di Borgocorno, quel forte che verrà poi denominato Fosso di Helm dopo che il leggendario re di Rohan perì nel tentativo di difenderlo da un attacco dei Dunlandiani durante il Lungo Inverno. La fonte è la stessa che Prime Video ha sfruttato per le due attuali stagioni de Gli Anelli del Potere, ovvero le fantomatiche Appendici del Signore degli Anelli delle quali, anche in questo caso, viene sfruttata la sintesi per ampliare storie a volte appena abbozzate da Tolkien. Infatti, la vera novità che introduce il film, e che invece le appendici non specificano, è il personaggio di Hèra, l’unica figlia di Helm che il Professore ha nominato solo una volta senza indicarne il nome né raccontarne la storia. La Guerra dei Rohirrim è appunto raccontata proprio dal punto di vista di Hèra, valorosa guerriera della Casa di Eorl, eroina del film in salsa éowyniana, il tutto condito però da un’ambientazione, da musiche e in generale da un’atmosfera che rimanda direttamente ai film di Jackson. Alla produzione e alla sceneggiatura c’è non a caso quella stessa Philippa Boyens che già adattò Il Signore degli Anelli insieme alla coppia Jackson-Walsh.

Functional ImageTuttavia, sebbene non ci siano dubbi sul talento di Boyens, ciò non basta per rendere The War of the Rohirrim, un concentrato inventivo che ha le stesse premesse de Gli Anelli del Potere, un buon prodotto. Il risultato è difatti una grande operazione nostalgia in cui ad essere valorizzato è più l’intento commerciale che quello narrativo. Se c’è una cosa che viene spesso accreditata al team di Jackson è aver reso “pop” e accessibile il mondo di Tolkien anche a chi non lo ha mai letto (e non è intenzionato a farlo). La trilogia filmica del Signore degli Anelli assolve, tra le altre tantissime cose, anche a questo scopo, e lo fa proponendo film che “semplificano” l’epopea poetica, concentrando l’essenza del romanzo e allo stesso tempo offrendo lo show a quelle bocche affamate di battaglie in stile low fantasy. La Guerra dei Rohirrim intende riportare quindi quegli ormai gioiosi trentenni nell’epica visiva della Terra di Mezzo, con uno stile nuovo, più adatto ai tempi (e soprattutto alle mode), ma allo stesso tempo con ambizioni tecniche e narrative mai viste, e purtroppo nemmeno troppo rispettate, con il grande schermo che riesce a mostrare più i difetti che l’efficacia visiva dell’animazione. Questo fa da contorno a una storia che di per sé è fin troppo citazionista, riciclata in certi casi, uno scatolone nostalgico dove poter inserire veri e propri pezzi ripresi dalla trilogia. Per citarne alcuni: l’assedio del Fosso di Helm, con la cavalcata eucatastrofica di Gandalf nel finale delle Due Torri, e i continui riferimenti, come già detto, a Éowyn (che fa pure una comparsata). Tutto è buttato sostanzialmente nel calderone di una storia epica che sa però più di minestra riscaldata al microonde, di cui certamente non ci verrà la tentazione di scoprire gli ossi con cui è stata preparata.

Conclusioni

Functional ImageSe però c’è una cosa che ci insegna La guerra dei Rohirrim, al di là degli azzardi registici e ambizioni nipponiche di casa Warner Bros, resta tuttavia quell’estetica, tipicamente jacksoniana, che dimostra ancora una volta di più quanto sia impossibile staccarsi da quell’immaginario. Oggi, a 25 anni dalla Trilogia, siamo ancora inondati da un immaginario del quale è impossibile scollarsi. Viene veramente da chiedersi: si riuscirà mai a creare qualcosa di innovativo? Ma può essere anche una pretesa egoistica, se non addirittura utopica, pensare che un mondo così vasto come il Legendarium possa assumere nuove forme artistiche dopo Jackson. L’opera è una sola, così in letteratura come al cinema, riportarla fedelmente non è un reato.

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LINK ESTERNI
-Vai al sito di Warner Bros sul film
-Vedi il trailer italiano su Youtube

La recensione: Guardare Verso Occidente

Tra i volumi di alta divulgazione tolkieniana pubblicati nell’anno in corso è da annoverare il libro Guardare Verso Occidente edito da Fede & Cultura. Il testo, scritto dai soci AIST Paolo Nardi e Nicola Nannerini, si pone lo scopo di analizzare i temi del tempo, della trascendenza e del destino all’interno del Legendarium tolkieniano.

Premessa Metodologica: un Mondo Secondario reale

Il lavoro, nato dall’interesse dei due autori per la dimensione metafisica che soggiace alle vicende narrate nell’opera del Professore di Oxford, si basa su un’analisi in-universe del Mondo Secondario subcreato e della cosmogonia di Arda, scevra quindi di riferimenti culturali provenienti dal Mondo Primario, sicuramente utili ma limitanti.
Gli autori sottolineano come la subcreazione tolkieniana sia in sé creatrice di un mondo reale quanto lo è quello da cui origina la subcreazione stessa, risultando dunque essere altro rispetto al Mondo Primario dal quale nasce, ma con la sua stessa dignità ontologica. È importante qui ricordare ciò che lo stesso Tolkien riporta nel saggio Sulle Fiabe:

«L’inventore di fiabe si rivela un felice “subcreatore”, il quale costruisce un Mondo Secondario in cui la mente del fruitore può entrare. All’interno di tale mondo, ciò che egli riferisce è “vero”, nel senso che concorda con le leggi che vi vigono. Di conseguenza ci si crede, mentre vi si è, per così dire, dentro».

Viene dunque definito il concetto di Credenza Secondaria, per la quale ciò che viene subcreato è un Mondo Reale basato su regole che lo definiscono e nelle quali il fruitore crede. Ciò è nettamente in contrasto con la Sospensione dell’Incredulità, proposta da autori come Samuel Taylor Coleridge (cfr. Biographia literaria, cap. XIV), secondo cui il lettore accetta il verificarsi di eventi impossibili senza credere in questi ultimi.Guardare Verso Occidente In questa prospettiva l’ignoto, il particolare non spiegato, il problema irrisolto danno conferma della realtà di un Mondo in contrapposizione con la lettura propria del positivismo scientifico, che vorrebbe dirimere ogni aspetto del Reale dandone una spiegazione meccanicistica. Nel Mondo Secondario le dimensioni che non si piegano «a ogni tentativo di scientificazione» (cfr. Lettera 210) sono, invece, territorio dell’ultramondano, dell’irriducibile trascendenza che i due autori del libro riscontrano nel Legendarium tolkieniano.
In altre parole, la dimensione sensibile del Mondo Secondario non è risolvibile all’interno dei confini del mondo, ma si sostanzia nella dimensione metafisica trascendente che conferisce significato alle regole che realizzano l’esistenza della subcreazione tolkieniana. Queste regole metafisiche hanno valenza epistemologica nella dimensione temporale, che quindi assume significato anch’essa in una prospettiva ultramondana per la quale, sempre secondo gli autori, è possibile discernere il significato di destinazione del sub-creato e, quindi, il concetto di Destino. Se non vi può essere, dunque, piena comprensione del Destino, ciò non toglie che esso abbia un significato e che quest’ultimo sia dato al di là dei confini del mondo.

Contenuto del Testo

Il testo inizia considerando la cornice narrativa del Silmarillion nelle sue varie stesure riportate all’interno della Storia della Terra di Mezzo. I due autori sottolineano come si tratti di un testo scritto da Tolkien per tutta la sua vita senza giungere a una forma definitiva. La versione data alle stampe da Christopher Tolkien nel 1977 si basa in massima parte sulla versione del 1950-51 e rappresenta una visione sintetica del Legendarium. Essa è composta da cinque parti: l’Ainulindalë (basato su un manoscritto del 1951), il Valaquenta (redatto a partire da un manoscritto del 1959), il Quenta Silmarillion (composto da materiale di varia provenienza), l’Akallabêth (risalente al 1951) e Degli Anelli del Potere e della Terza Era (composto nel 1948). Com’è possibile riscontrare nel volume Arda Reconstructed, The Creation of the Published Silmarillion di  Douglas Charles Kane, il testo del Silmarillion pubblicato da Christopher consta di una selezione personale attuata dal curatore delle diverse redazioni dell’opera realizzata dopo la morte del padre. Da un’analisi di Christopher dei punti di debolezza riscontrabili nel Silmarillion del 1977 nasce la volontà dello stesso di dare alle stampe l’edizione critica delle versioni inedite vergate da J.R.R. Tolkien, che porterà alla realizzazione dei dodici volumi della Storia della Terra di Mezzo (pubblicati in un arco di tempo che va dal 1983 al 1996). Grazie alla pubblicazione di questa opera estesa è possibile osservare la presenza di una cornice narrativa che lega le varie storie raccontate nel Silmarillion e che esprime la volontà di Tolkien di creare una mitologia per l’Inghilterra. Tali pubblicazioni rendono giustizia alla polifonia che è data dalla presenza di diversi punti di vista rispetto alle storie narrate, alcune delle quali verranno riscritte per tutta la vita dal Professore, mentre altre verranno affrontate per poi essere abbandonate nel corso degli anni.
Segue una corposa sezione di analisi di alcuni personaggi femminili presenti all’interno del Legendarium. Queste trattazioni rendono giustizia alla variegata descrizione che Tolkien fa del femminino all’interno del Legendarium, non relegato a figura di sfondo in un contesto di mascolinità guerriera. L’agire dei personaggi femminili va al di là del loro genere e risponde ai principi che regolano il Mondo Secondario rispetto al libero arbitrio e alla capacità e possibilità decisionali che caratterizzano l’individuo. Tra le varie figure trattate, molto interessante è l’analisi di Nienna e di Aredhel.
Si passa quindi all’analisi delle differenze tra Elfi e Uomini, considerando anche le peculiari prospettive rispetto al concetto di Morte, tematica analizzata anche nel fondamentale volume La Falce Spezzata. Morte e Immortalità in J.R.R. Tolkien edito da Marietti 1820. In questa sezione è da menzionare l’analisi che i due autori fanno dell’Athrabeth Finrod ah Andreth, testo dialogico-narrativo scritto intorno al 1959 e presente in Morgoth’s Ring, decimo volume della Storia della Terra di Mezzo, già anticipata dalla trattazione de Il racconto di Adanel presente nel capitolo sul Silmarillion.
Fato e Libero Arbitrio è il tema del capitolo successivo del testo. In questa sezione Nardi e Nannerini affrontano l’annosa questione del libero arbitrio per Elfi e Uomini, prendendo il passo dal breve testo del 1968 Fate and Free Will contenuto all’interno di The Nature of Middle-earth, volume a cura di Carl F. Hostetter pubblicato nel 2021. Sempre in questa sezione troviamo affrontato il problema della Provvidenza. Viene sottolineato il ruolo fondamentale della morte nelle scelte dei personaggi: è essa che conferisce senso e valore a questi ultimi, e dunque la possibilità di un’opzione etica è data solo nella relazione con il tempo, che definisce la finitezza della vita. Qui è facile riscontrare gli echi delle idee esposte nel fondamentale testo di critica Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4. I due autori, sottolineando l’importanza del libero arbitrio, evidenziano come la Provvidenza sia espressione di una volontà superiore. Analizzando la vicenda di Beren e Lúthien, ci si sofferma sull’intreccio tra fato e libero arbitrio per cui sembra che il fato, ovvero il volere di Eru, sia ciò che predispone le condizioni che poi le libere decisioni dell’uomo e dell’elfa realizzano. Anche la storia di Túrin Turambar viene utilizzata per analizzare il complesso problema del Destino e del Libero Arbitrio. Tale trattazione è anche oggetto del libro Maledizione e Orgoglio – La storia di Túrin Turambar nei Figli di Húrin di J.R.R. Tolkien, sempre di Paolo Nardi per Eterea Edizioni. Da ricordare è anche la trattazione del Consiglio di Elrond, che cita Santi Pagani nella Terra di Mezzo di Claudio Antonio Testi.
Entriamo quindi in uno dei capitoli che danno il titolo al libro, quello riguardante la questione del tempo. Anche qui viene sottolineato come questo concetto venga analizzato all’interno del Legendarium secondo diversi punti di vista, in particolare quello di Uomini ed Elfi. È in questo capitolo che troviamo l’osservazione sul trascorrere del tempo nei reami elfici, che gli Uomini percepiscono in modo peculiare. A Lothlórien, il Reame di Galadriel, gli Hobbit perdono le coordinate temporali in quanto ivi si perde la naturale successione delle stagioni e, come nota acutamente Verlyn Flieger in A Question of Time, è Sam a notarlo in quanto molto legato al ciclo stagionale per via del suo mestiere di giardiniere. Da contraltare a questa percezione del tempo fa invece la stagionalità della Contea, nella quale il tempo è scandito dai meccanismi degli orologi, che non esistono altrove nella Terra di Mezzo. Qui gli Hobbit passano le loro esistenze seguendo i cicli naturali di giorno e notte, di sonno e veglia – condizione che si perde invece nella sopraccitata Lothlórien che, in virtù di questo, presenta una spiccata dimensione onirica –, di semina e raccolto.
Il tempo viene analizzato anche come strumento di potere, come registrazione della successione di regni e popoli; tale concezione del tempo è stata approfondita da Thomas Honegger in Time and Tide – Medieval Patterns of Interpreting the Passing of Time in Tolkien’s Work. Sempre riguardante la questione del tempo è poi l’affascinante quanto incompiuto La Strada Perduta, che sarebbe dovuto essere la parte iniziale del romanzo di Númenor. Esso affronta la tematica del viaggio nel tempo tra le varie epoche del Mondo Primario e la leggenda della caduta di Atlantide.
Il capitolo Antichità e Modernità a Confronto si sofferma sulla critica del Professore verso il culto del passato, spesso espressa anche da alcuni estimatori dell’opera tolkieniana, e in particolare sul ruolo ricoperto dai Noldor di “imbalsamatori” e su certi aspetti della cultura dei Rohirrim in cui s’odono gli echi dei poemi anglosassoni studiati e riscritti da Tolkien, come il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorthelm. Vengono qui considerati anche i siti dei Poggitumuli, come luogo del ricordo, e di Città del Lago ne Lo Hobbit, come simbolo sia di modernità che di antichità.
Segue il capitolo delle questione irrisolte le quali, come osservato in apertura, essendo problematiche e problematizzanti conferiscono realtà al Mondo Secondario. In questi particolari si esplicita la volontà di Tolkien non di educare e sensibilizzare rispetto a tematiche a lui affini bensì di far addentrare il lettore nella Terra di Mezzo, avvincendolo attraverso la narrazione delle vicende dei suoi popoli. Viene dunque affrontato il problema del male, tematica affrontata da eminenti esponenti della critica tolkieniana in modo divergente. Il lettore potrà soffermarsi inoltre sulla riflessione in merito alla fine dei Maiar dopo la morte, sull’architettura di Barad-dûr, sull’ignoto regno delle ombre, sui mannari e vampiri nella Terra di Mezzo, sulla natura di Ungoliant, etc. La ricchezza di questa sezione e la mancanza di soluzione rispetto a varie tematiche proposte mostrano la profondità della potenza immaginativa e subcreativa di Tolkien e del suo intento di cesellare un mondo, dai tratti variopinti, multiformi e cangianti ai quali il Professore conferisce dignità ontologica: ogni dettaglio invera la realtà del Mondo Secondario e rinforza la Credenza Secondaria nel fruitore dell’opera.
Si passa quindi a un capitolo che tratta la questione dei colori. In questa sezione Nardi e Nannerini riflettono sull’aspetto dei personaggi e sul significato ad esso sotteso, anche in risposta alla critica mossa ai detrattori della serie televisiva Rings of Power secondo la quale questi ultimi vengono additati come razzisti. Gli autori mostrano come le caratteristiche fenotipiche dei personaggi, dagli Elfi agli Uomini, dai Nani agli Hobbit, abbiano semplicemente una funzione narrativa.
Il capitolo sulla geografia rientra anch’esso nelle considerazioni fatte in precedenza sulla volontà di Tolkien di arricchire di dettagli realistici il Mondo Secondario. Gli scenari che fanno da sfondo alle vicende non si limitano a una presenza passiva, ma sono parte integrante delle vicende narrate e spesso intervengono su di esse portando ad evoluzioni inaspettate (si pensi ad esempio alla volontà del Caradhras che si oppone alla marcia della Compagnia dell’Anello).
Chiude il libro il capitolo sulla Natura e sull’Ambiente. Esso tratta del rapporto di vari personaggi e popolazioni con lo scenario nel quale sono inseriti. Vengono dunque presi in considerazione l’amore per gli alberi e per i boschi e il rapporto simbiotico degli Elfi – recuperato, sovente in modo malaccorto, per campagne ecologiste contemporanee –, il ruolo di Fangorn e dei suoi abitanti, gli ambienti di Mordor e la visione di alcuni personaggi come Tom Bombadil, gli Ent, gli Hobbit (e il fattore Maggot) e gli Istari. Interessante notare come gli autori sottolineino come l’ecocentrismo imperfetto di Radagast porti quest’ultimo a disinteressarsi del compito affidatogli dai Valar per il troppo amore nei confronti della Natura, implicando dunque come anche un eccesso di cura rispetto alla componente ambientale possa portare a conseguenze non positive.

Conclusioni: Pregi e Difetti

Questo libro si pone come un testo dall’alto profilo divulgativo, ricco di riflessioni e spunti che coprono una gran varietà di temi e attraversano l’intero Legendarium tolkieniano. Grazie alla loro profonda conoscenza dell’opera e della critica accademica recente i due autori presentano le tematiche da un punto di vista prettamente narrativo coerente con l’universo di riferimento e, quindi, scevro di intromissioni politiche o, comunque, esterne all’opera tolkieniana, che troppo spesso hanno caratterizzato la critica italiana specialmente nel nostro Paese. Il testo è dunque da inscrivere nella contemporanea analisi del corpus tolkieniano che viene portata avanti negli ultimi anni, non senza resistenze da parte di chi si è fatto sostenitore di letture di fatto parziali. Le sezioni che si addentrano nella metafisica del Mondo Secondario potrebbero risultare in una certa misura respingenti per il neofita – a cui comunque questo testo non è prioritariamente diretto – ma possono essere di facile comprensione per un pubblico di riferimento che conosca l’opera tolkieniana e la sua critica recente. Anche queste considerazioni, nella loro complessità, sono presentate seguendo lo stile caratterizzato da una prosa semplice e chiara che ritroviamo in altre opere soliste di Paolo Nardi, autore che ha l’indubbio pregio di rendere con semplici significanti anche i significati di più ardua decifrazione. In complesso si tratta di un testo godibile in grado aprire la mente del lettore verso chiavi di lettura originali, che si avvale di un’importante e rigorosa ricerca bibliografica e può essere utile come solida base in vista di un approfondimento di tipo accademico.

Bibliografia citata

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ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo I Collected Poems di Tolkien: la recensione
– Leggi l’articolo Freud, l’ultima analisi: Un film tolkieniano
– Leggi l’articolo La recensione: Tolkien. Artista e Illustratore

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I Collected Poems di Tolkien: la recensione

Collected PoemsGiunge alle stampe The Collected Poems of J.R.R. Tolkien, in un’edizione curata da Christina Scull e Wayne G. Hammond; un’opera – certamente tra le più importanti degli ultimi anni nel panorama tolkieniano – attesa a lungo dagli studiosi e dagli appassionati. Tre corposi volumi, per un totale di 1500 pagine, presentano gran parte dell’opera poetica dello scrittore inglese con un ricco apparato di annotazioni storico-biografiche. I pregi sono evidenti; non mancano, tuttavia, alcuni aspetti che lasciano perplessi.

Premessa: Tolkien come poeta

Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli accolgono al loro interno quasi un centinaio di poesie che, cantate o recitate dai personaggi a beneficio di un’audience specifica, rappresentano un aspetto persino preponderante dell’interazione comunicativa e, in senso metanarrativo, paiono spesso riconducibili a specifiche tradizioni poetiche del Mondo Primario. Alcune, infatti, richiamano metri e stilemi dell’antica poesia anglosassone, altre ripropongono forme tradizionali del folklore inglese, altre ancora esprimono più di una complanarità con la lirica romantica, per la loro capacità di suggerire esperienze interiori o trascendentali. L’aspetto più interessante, in ogni caso, è la forte connessione che, nei romanzi, la poesia intrattiene con la prosa: «the characters do not just recite or listen to poetry, they usually set about commenting on it or interpreting it. Their interpretations do not primarily consist in elucidating the meaning; indeed, sometimes uncertainties are left as they are. What interests the characters more is the provenance of these poetic texts. The poems and songs of The Lord of the Rings have a history which is often discussed by the listeners and sometimes proves to be relevant to the plot; […] they also appear to be part of a living tradition, as some of the characters are shown as being engaged in translating and communicating ancient as well as more recent poetry» (Kullmann e Siepmann 2021: 240). Si direbbe, dunque, che la poesia costituisca un elemento fondamentale nel worldbuiling tolkieniano e contribuisca a creare quel senso di antichità e profondità storica perseguito dall’autore. Eppure, a dispetto di tanta importanza, molti lettori dello Hobbit e del Signore degli Anelli tendono ancora oggi a trascurare o persino a saltare le parti in versi per non interrompere il ritmo del racconto, perdendo così elementi integrali che illuminano di senso le trame e rimarcano gli stati d’animo dei personaggi, spesso più di quanto non faccia la prosa stessa. Tutto ciò costituisce uno strano paradosso, di cui lo scrittore inglese in persona ebbe modo di lamentarsi: «La mia “poesia” è stata poco apprezzata: i commenti, anche di alcuni ammiratori, sono più che altro sdegnosi (mi riferisco alle recensioni di tizi che si dicono letterati). Forse in gran parte perché nel clima contemporaneo, in cui la “poesia” deve riflettere solo l’agonia personale della mente o dell’anima, e le cose esteriori hanno valore solo per le loro “reazioni”, non si riconosce mai che i versi nel S.d.A. sono tutti drammatici: non esprimono la ricerca dell’anima del povero vecchio professore, ma sono adatti nello stile e nel contenuto ai personaggi della storia che li recitano o li cantano, e alla situazione in cui si trovano» (Lettere: n. 306).

Collected PoemsOccorre sottolineare che, a differenza di quanto potrebbe evincersi dalla lettura (distratta) delle sue “opere maggiori”, l’importanza della poesia di Tolkien non dipende solo da una pretesa funzione ancillare nei confronti della prosa; ciò è peraltro dimostrato dal fatto che gli interessi poetici dello scrittore inglese hanno inizio già negli anni alla King Edward’s School di Birmingham, dove le lingue e le letterature classiche venivano studiate come preparazione a Oxford e Cambridge. Il giovane Ronald, a dire il vero, aveva già appreso i primi rudimenti di latino dalla madre ma in questo periodo ebbe modo di approfondire la poesia inglese, da Beowulf ai Racconti di Canterbury, fino alle opere di autori moderni come Tennyson, Swinburne, Hardy, Kipling e i poeti georgiani; è noto, inoltre, che egli soleva «intrattenere gli amici recitando passi del Beowulf, da Pearl e Sir Gawain and the Green Knight; raccontava episodi terrificanti tratti dalla nordica Völsungasaga, e già che c’era prendeva in giro Wagner, del quale disprezzava l’interpretazione dei miti» (Carpenter 2009: 77). A quegli anni risale anche la prima poesia scritta da Tolkien di cui si abbia notizia, Morning / Morning Song (Collected Poems, n. 1), acclusa in una lettera all’amata Edith Bratt datata 28 marzo 1910. Di un anno dopo è The Battle of the Eastern Field (n. 6), cronaca di una partita scolatica di rugby in uno stile che riprende, parodiandolo, quello di The Battle of Lake Regillus di Macaulay; si tratta del primo testo pubblicato da Tolkien, che vide la luce nel numero 26 della King Edward’s School Chronicle (1911). Fu, però, l’incontro col Kalevala ad accendere la fantasia del giovane: oltre a ispirare una riscrittura del poema stesso, The Story of Kullervo (n. 17), esso lo incoraggiò a comporre versi propri che a posteriori possono considerarsi a buon diritto l’inizio letterario del Legendarium: The Grimness of the Sea, poi sviluppatasi in The Horns of Ylmir (n. 13), e The Voyage of Éarendel the Evening Star (n. 16). Nel giro di un anno, i testi poetici dedicati alla nascente mitologia di Arda arrivarono a venticinque, tra cui You and Me and the Cottage of Lost Play (n. 28), Kôr: In a City Lost and Dead (n. 30) e The Shores of Faery (n. 31). Occorre dunque considerare due elementi di notevole rilevanza: anzitutto che il Tolkien ventitreenne «embraced poetry as a favoured mode of expression» (Scull, Hammond 2024: xvii) e inoltre che la ricerca di una cifra poetica procedette, almeno in questa fase, di concerto al primo sviluppo del Legendarium. L’opera certamente più nota di questa fase giovanile è Goblin Feet (n. 27), che comparve nel numero del 1915 di Oxford Poetry e nel successivo Book of Fairy Poetry curato da Dora Owen e illustrato da Warwick Goble (Londra, Longmans, Green & Co. 1920). Incoraggiato dalla stessa Owen, Tolkien provò persino a pubblicare un intero volume di poesie, intitolato The Trumpets of Faërie, ma la sua proposta alla casa editrice londinese Sidgwick and Jackson ricevette un garbato rifiuto. Ulteriori tentativi presso la Swann Press di Leeds e Blackwell ad Oxford non avrebbero avuto, d’altro canto, maggior fortuna (Anderson 2006: 549).

Collected PoemsIniziava, frattanto, la carriera accademica di Tolkien: a Leeds, egli lavorò a importanti traduzioni – Beowulf, Sir Gawain – e pubblicò varie poesie in giornali locali e riviste universitarie; insieme al collega E.V. Gordon, inoltre, egli «encouraged students to sing verses in Old, Middle, and Modern English, Gothic, Old Norse, and Latin at social gatherings, at which they also read sagas and drank beer» (Scull, Hammond 2024: xxxi), dimostrando una volta ancora la sua spiccata propensione per gli aspetti performativi e musicali della poesia. Risalgono al 1921 circa diversi poemi del “Silmarillion”, come The Lay of the Fall of Gondolin (n. 66), The Children of Húrin (n. 67), il Lay of Leithian (n. 92), The Flight of the Noldoli e un lai su Earendel (questi ultimi non sono stati inclusi nei Collected Poems ma erano stati già pubblicati in I lai del Beleriand). Di poco successivi sono The Lay of Aotrou and Itroun (n. 116), The Homecoming of Beorhtnoth Beorhthelm’s Son (n. 129), i “nuovi lai” sulla Völsungasaga (n. 131), la fondamentale Mythopoeia (n. 136) e The Fall of Arthur (n. 140), oltre a varie poesie per l’Oxford Magazine come The Adventures of Tom Bombadil ed Errantry. Anche questa seconda fase poetica non trovò un felice esito: il Lay of Leithian fu, com’è noto, respinto dalla Allen & Unwin, pur desiderosa di pubblicare altre opere del fortunato autore dello Hobbit, col risultato che Tolkien dovette attendere ancora a lungo perché un suo libro di poesie fosse finalmente pubblicato. Si tratta di The Adventures of Tom Bombadil and Other Verses from the Red Book, che vide la luce solo nel 1962 e solo grazie all’enorme successo del Signore degli Anelli, del quale era stato presentato al pubblico come “appendice” poetica.

poesieInsomma, la vicenda compositiva dell’opera di Tolkien appare paradossale non solo sul versante narrativo del Legendarium, ma anche su quello specificamente poetico: anni di scritture e riscritture mai coronati da una completa pubblicazione che, vivente l’autore, ne avrebbe espresso appieno la volontà ultima. Del resto, a dispetto dell’impegno profuso dallo scrittore inglese nella sua produzione poetica, il responso della critica è stato tutt’altro che entusiastico. Ne è un esempio eclatante Brian Rosebury, il quale ha lamentato lo stile eccessivamente derivativo della produzione giovanile dello scrittore (cfr. Rosebury 1992: 82) e l’ha squalificata come l’opera di un talento genuino ma limitato, incapace di conciliarsi con il gusto del ventesimo secolo (cfr. Ivi: 84). Allo stesso modo, lo studioso ha espresso un parere tranchant su The Adventures of Tom Bombadil (con l’eccezione di The Sea-Bell) e su Mythopoeia, a suo parere niente più che un «semi-pastiche» (cfr. Ivi: 110). Certo: da allora gli studiosi hanno espresso pareri più equilibrati, ma hanno anche manifestato la tendenza a lavorare su campioni ristretti e consolidati del corpus poetico tolkieniano – «evidently a zone of comfort», dicono Scull e Hammond, «even after other verse was published by Christopher Tolkien in The History of Middle-earth» (2024: lv) –.  Proprio qui si gioca la battaglia dei due editori dei Collected Poems: offrire un’ampia visuale della poesia tolkieniana che possa essere utile tanto ai lettori e agli appassionati quanto agli studiosi.

 

Cosa c’è nei Collected Poems (e cosa manca)

La storia dei Collected Poems è raccontata nella lunga introduzione al testo e ha inizio molto tempo fa. Già nell’aprile del 2016, infatti, Christina Scull e Wayne C. Hammond ricevettero un invito dalla HarperCollins per discutere sulla realizzabilità di uno o più volumi che raccogliessero le poesie di Tolkien. Gli interessi della casa editrice convergevano felicemente con quelli della Tolkien Estate, ansiosa (ça va sans dire) di pubblicare nuove opere dello scrittore inglese, e con quelli di Christopher Tolkien, il quale ambiva a rivelare una volta per tutte il talento poetico del padre di fronte al grande pubblico. La scelta era ricaduta su Scull e Hammond in quanto biografi e bibliografi di Tolkien (cfr. Hammond e Anderson 1993, Scull e Hammond 1995 e 2017) nonché curatori delle sue opere (cfr. Tolkien 1998, 2004 e 2014a) e autori di saggi (Scull e Hammond 2005). I due, inoltre, si erano già confrontati con la poesia tolkieniana curando The Adventures of Tom Bombadil (Tolkien 2014b) in un’edizione ampliata con prime versioni dei testi e note storico-biografiche.

Le fonti più importanti a disposizione degli editori consistevano in due raccolte in possesso della Bodleian Library di Oxford, i Blue Poetry Books I and II, contenenti i versi giovanili di Tolkien (dagli anni Dieci agli anni Trenta), e i Verse Files I and II, comprendenti riscritture e testi della maturità (dagli anni Trenta agli anni Sessanta). La Bodleian Library, inoltre, fornì agli editori scansioni ad alta risoluzione di altre poesie provenienti dai suoi archivi tolkieniani, mentre altri materiali giungevano dall’Archival Collections and Institutional Repository della Marquette University di Milwaukee e dall’E.V. and Ida Gordon Archive dell’Università di Leeds. Ulteriori ricerche avrebbero dovuto concentrarsi sui materiali in possesso di Christopher Tolkien, ma la morte di quest’ultimo rese impossibile ogni iniziativa in tal senso.

Ma veniamo, finalmente, ai Collected Poems. L’opera che è giunta alle stampe nel settembre 2024 (mi riferisco, nello specifico, all’edizione inglese) si presenta in tre corposi volumi stampati dall’italiana Rotolito con carta FSC Mix e una robusta rilegatura cartonata (ma non rivestita in tela). Ciascuno di essi presenta piatti color crema, impreziositi dai disegni di Tolkien, e dorsi di un blu intenso; negli uni e negli altri sono presenti impressioni dorate, mentre all’interno un segnalibro in seta blu conferisce un tocco di classe all’insieme. I volumi non hanno sovraccoperta ma sono raccolti in un cofanetto robusto e ben realizzato che riprende il design delle copertine. Ci troviamo, insomma, di fronte a un bell’oggetto, certamente pensato anche per far felici i collezionisti e i bibliofili.

Quanto ai contenuti, i tre volumi coprono rispettivamente gli anni 1910-1919, 1919-1931 e 1931-1967 e, come affermano Scull e Hammond, includono «the earliest and latest versions of each poem, if extant and legible, as well as any significant intermediate texts, either in full or in summary, as seemed best for each individual work» (Scull e Hammond 2024: lxiii). E non c’è che dire, il materiale è abbondante: parliamo di 195 testi (senza contare le prime versioni e le intermedie), tra cui si contano anzitutto ben 77 poesie inedite, come Morning / Morning Song (n. 1), The Dale-lands (n. 2), A Fragment of an Epic: Before Jerusalem Richard Makes an End of Speech (n. 7), The New Lemminkainen (n. 8) e Lemminkainen Goeth to the Ford of Oxen (n. 9) nonché poesie della Grande Guerra come The Thatch of Poppies (n. 49), I Stood upon an Empty Shore (n. 57), e Build Me a Grave beside the Sea / Brothers-in-Arms (n. 58). Ad esse si aggiungono non poche poesie finora pubblicate solo in parte, come Wood-sunshine (n. 4), fuori catalogo da tempo, come quelle del ciclo Songs for the Philologists, edite in versioni non originali, come The Complaint of Mîm the Dwarf (n. 185) o già diffuse ma adesso corredate da versioni alternative, come The Battle of the Eastern Field (n. 6); né mancano versioni inedite dei poemi del Legendarium, ad esempio The Grey Bridge of Tavrobel (n. 56) o l’incompiuto The Children of Húrin (n. 130) in metro allitterativo. Inoltre, le Appendici contengono limerick, clerihew e adagi in latino (I e II) nonché la gustosa Bealuwérig,  una traduzione in Antico Inglese della celebre Jabberwocky di Lewis Carroll (V). Particolarmente preziose anche le Appendici III e IV, contenenti rispettivamente degli elenchi delle poesie tolkieniane stesi dall’autore stesso ed una “lista di parole” tratte da opere antiche e moderne (con una sorprendente presenza di Shakespeare!) che egli approntò da studente universitario in vista di futuri utilizzi. Tuttavia, il metodo di lavoro di Scull e Hammond – di cui parlerò tra poco – impone alcune economie di spazi: così, i Collected Poems accolgono solo una ristrettissima selezione di testi dallo Hobbit e dal Signore degli Anelli e pochi estratti dei poemi del ‘Silmarillion’ già disponibili nella History of Middle-earth o in altre opere. Così, ad esempio, gli editori ammettono che «The Children of Húrin cannot be printed here in its entirety» (Scull e Hammond 2024: 487) in quanto già pubblicato altrove: ma ciò, a ben vedere, varrebbe anche per la maggior parte delle poesie incluse nei Collected Poems; dunque, non ci troviamo di fronte a una scelta editoriale oggettiva e perseguita in maniera omogenea all’interno dell’opera. Altre omissioni riguardano testi che «for one reason or another are problematic» (Ivi: lxi) e un numero imprecisato di poesie giovanili perdute o ancora sconosciute, presumibilmente contenute nelle carte in possesso di Christopher Tolkien al momento della sua morte. Ciò considerato, gli editori ribadiscono che «The Collected Poems of J.R.R. Tolkien is not a Complete Poems, though it represents most of the works of poetry Tolkien is known to have written» (Scull, Hammond 2024: lxi).

Veniamo, dunque, alla filosofia editoriale e al metodo di lavoro di Scull e Hammond: i Collected Poems raccolgono le poesie in voci identificate da un numero, un titolo (o, quando non ve ne sia uno, dal primo verso) e un intervallo cronologico che individua le date di composizione, revisione o pubblicazione del testo. All’interno di ogni voce, inoltre, è fornita ogni versione disponibile del testo, identificata da una lettera. Così, ad esempio, la voce n. 1 è Morning / Morning Song (1910-15) ed accoglie le versioni A, B, C e D della poesia, ciascuna con un commento degli editori che riguarda per lo più il Sitz im Leben del testo e le principali variazioni tra una versione e l’altra; quasi inesistente, invece, è l’analisi metrica (ridotta, per lo più, all’individuazione dello schema di rime) e contenutistica. Ne consegue che ogni voce costituisca essenzialmente una sequenza cronologica dalla prima versione di una poesia alla più recente: un approccio che, dunque, ripropone grossomodo quello adottato da Christopher Tolkien nella Storia della Terra di Mezzo. Gli stessi editori ammettono che non si tratta di un metodo perfetto, dal momento che poche poesie, se non pochissime, possono essere datate con assoluta certezza; tuttavia, giustificano la propria scelta sostenendo che l’ordine cronologico «best serves to illustrate Tolkien’s development as a poet, rather than, say, arranging his works by subject or theme» (Ivi: lxii). I Collected Poems assumono perciò un taglio più storico-biografico che letterario, rispetto al quale Scull e Hammond prevengono le critiche ammettendo candidamente: «We have not analysed every poem in this collection according to its metre, lest our book become overly technical. No doubt there will be readers eager to do that work for themselves. It has already been done for selected poems» (Ivi: xlviii). Così, si limitano a restituire lo stato dell’arte citando studi immancabili ma parziali come quelli di Deyo (1986), Russom (2000), Eilmann e Turner (2013), Lee e Solopova (2015), Cawsey (2017) etc. ma di fatto non offrono interpretazioni dei testi se non nel quadro della parabola biografica di Tolkien.

 

Pregi e difetti di quest’edizione

Alcuni libri, forse la maggior parte, devono “lottare” per conquistarsi un pubblico ma di certo i Collected Poems non hanno bisogno di affrontare una simile difficoltà: il nome di Tolkien è sufficiente a garantire a un’opera certamente non economica un sicuro riscontro di vendite presso gli studiosi, i lettori vecchi e nuovi, gli appassionati e i collezionisti bibliofili. Non solo: rende accettabile l’evidente, e per certi versi necessaria, provvisorietà del testo proposto da Scull e Hammond. Non è difficile prevedere, considerando anche l’andamento recente delle pubblicazioni tolkieniane, che nei prossimi anni saranno pubblicate versioni aggiornate ed ampliate dei Collected Poems o che ne saranno estratte singole sezioni in volumi tematici (un po’ come dal Signore degli Anelli, dal Silmarillion, dai Racconti incompiuti e dalla Storia della Terra di Mezzo è stato ricavato, ad esempio, The Fall of Númenor). A pensar male si fa peccato, diceva qualcuno, ma…

Eppure, i Collected Poems non costituiscono solo un’abile mossa commerciale. Fino ad oggi, l’accesso alla poesia di Tolkien è stato relativamente limitato e il lavoro di Scull e Hammond offre certamente uno strumento essenziale per averne una maggior comprensione. Sotto questo profilo, i due studiosi hanno il chiarissimo merito di rendere disponibili a uno sguardo d’insieme testi inediti, pubblicati solo in parte o fuori catalogo; l’approccio cronologico permette, inoltre, di entrare nel “laboratorio” di Tolkien e di appurare come le sue poesie siano cambiate nel tempo. Il lettore ne trae così l’idea – interessante anche in chiave performativa – che il “processo” sia in fin dei conti più importante del “prodotto”, a dispetto della rassicurante evidenza di quest’ultimo. Se da questo punto di vista la filosofia editoriale di Scull e Hammond appare stimolante – e lo è senz’altro – i risultati non sembrano tuttavia pienamente convincenti. Il principale limite dei Collected Poems, infatti, risiede nel fatto che essi non costituiscono né una normale raccolta di poesie, comprendente solo i testi finiti in ordine di pubblicazione, né un’edizione critica in senso stretto, volta a ristabilire per via congetturale la forma originale o ottimale delle opere e, con essa, la volontà ultima dell’autore. Ne consegue un’identità stranamente ibridata che si traduce in una difficoltà a comprendere con esattezza a quale pubblico sia destinata un’opera così imponente. In aggiunta, occorre constatare come i Collected Poems risentano negativamente di una notevole ripetitività, assommando versioni su versioni sulla sola base della disponibilità di testimoni da chiamare in causa. Considerando quante delle 1500 pagine dei tre volumi sono dedicate alla riproposizione di versioni anche solo leggermente diverse della medesima poesia, appare decisamente strano che le opere più lunghe (come le traduzioni di Sir Gawain, Pearl, Beowulf e i grandi poemi del Legendarium) finiscano per non trovarvi posto se non patendo un’indebita mutilazione. Per il lettore interessato solo al piacere della poesia, la presenza di più versioni e il commento incorniciato rendono la lettura decisamente ardua; per lo studioso, la frammentarietà dei testi più importanti rende i Collected Poems gravemente lacunosi.

Eppure, con una diversa filosofia editoriale – e senza riempire così tanto spazio con infinite varianti di poesie interessanti ma francamente minori – si sarebbero potute includere tutte le opere per intero. In generale, sarebbe stato auspicabile che Scull e Hammond operassero una scelta editoriale “forte”: o favorire il piacere della lettura approntando dei Complete Poems che presentassero il testo “pulito” e leggermente annotato di tutte le poesie note di Tolkien in ordine cronologico, oppure prediligere le esigenze dello studio scientifico e fornire un’edizione critica degna di questo nome, con tanto di presentazione dei testimoni, analisi degli aspetti tecnici (linguistici, metrici, retorici etc.) dei testi e via dicendo. Certo: considerando che Tolkien revisionò molto pesantemente molte delle sue poesie, spesso nel corso di decenni, sarebbero state necessarie delle decisioni editoriali abbastanza arbitrarie per scegliere solo una versione delle poesie inedite. Perciò, credo che la seconda opzione sarebbe risultata vincente: ad esempio, si sarebbero potuti presentare i testi nella loro versione definitiva (o, in assenza di quest’ultima, in una ritenuta dagli editori artisticamente compiuta), presentando le varianti – aggiunte, sostituzioni, permutazioni e soppressioni – in un apposito apparato a pie’ di pagina o a fondo testo (un po’ come avviene, ad esempio, nei Meridiani Mondadori, che non sacrificano la leggibilità all’attrezzatura critica nè viceversa). Il rischio, adombrato da Scull e Hammond, di ottenere un volume troppo tecnico sarebbe stato minimo: il lettore interessato esclusivamente ai testi li avrebbe letti nella versione fissata dagli editori, lo studioso avrebbe potuto spingersi oltre consultando l’apparato critico.

In definitiva, Collected Poems non sono un’edizione perfetta – posto che ciò sia possibile – della poesia di Tolkien. Nonostante ciò, costituiscono un’impresa editoriale necessaria che, al netto dei molti limiti, potrà favorire una generale (e auspicabile) riconsiderazione del talento poetico di Tolkien e costituire nel tempo il punto di partenza di ricerche e studi. Anzi, a dire il vero, qualcosa già si muove: infatti, il Digital Tolkien Project, un progetto accademico di digital humanities, ha da poco lanciato una sezione sulla poesia tolkieniana che, mettendo a frutto i dati raccolti nei Collected Poems, permetterà in futuro di avere informazioni sulla metrica di ciascuna poesia e di catalogare le poesie per tema.

 

Bibliografia

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Rosebury, B. 1992. Tolkien. A Critical Assessment. London: Palgrave Macmillan.

Russom, G. 2000. ‘Tolkien’s Versecraft in The Hobbit and The Lord of the Rings’. in G. Clark e D. Timmons (eds.), J.R.R. Tolkien and His Literary Resonances. Santa Barbara, CA: Praeger, pp. 53-70.

Scull, C. e Hammond, W.G. 1995. J.R.R. Tolkien. Artist and Illustrator. London: HarperCollins.

Scull, C. e Hammond, W.G. 2005. The Lord of the Rings. A Reader’s Companion. London: HarperCollins.

Scull, C. e Hammond, W.C. 2017. The J.R.R. Tolkien Companion and Guide, 2nd ed. London: Harper Collins.

Tolkien, J.R.R. 1998. Roverandom. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

Tolkien, J.R.R. 2004. The Lord of the Rings, 50th anniversary edition. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

Tolkien, J.R.R. 2014a. Farmer Giles of Ham, 50th anniversary edition. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

Tolkien, J.R.R. 2014b. The Adventures of Tom Bombadil. Ed. by C. Scull and W.G. Hammond. London: HarperCollins.

 

ARTICOLI PRECEDENTI:

– Leggi l’articolo Nuovo libro a settembre le Poesie di Tolkien
– Leggi l’articolo Come ascoltare il suono delle poesie in Tolkien
– Leggi l’articolo All’asta libro raro con tre poesie di Tolkien
– Leggi l’articolo Non sono perdute le due poesie «ritrovate» a Oxford
– Leggi l’articolo Scoperta una poesia di Tolkien sconosciuta

LINK ESTERNI:
– Vai al blog di Wayne Hammod e Christina Scull : Too Many Books and Never Enough
– Vai al sito ufficiale di Harper Collins: The Collected Poems of J. R. R. Tolkien

 

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Storia della Terra di Mezzo: esce il sesto volume

Bompiani annuncioCon il volume Il Ritorno dell’Ombra (The Return of the Shadow), in libreria da maggio 2024 per i tipi di Bompiani, l’edizione italiana della Storia della Terra di Mezzo, corpus degli scritti postumi di J.R.R. Tolkien curato da Christopher Tolkien nella sua quadruplice veste di figlio, filologo, membro degli Inklings ed esecutore testamentario delle volontà paterne, tocca contemporaneamente due traguardi. Il primo è il completamento della metà del percorso – componendosi la Storia, com’è noto, di dodici volumi – mentre il secondo è l’avvio di un nuovo “ciclo interno” all’opera nel suo insieme. Dopo i primi due volumi, che raccolgono gli scritti giovanili conosciuti come Racconti Perduti, il terzo che presenta i due grandi poemi epici incentrati sui Figli di Húrin e Beren e Lúthien, e il quarto e il quinto, dove troviamo la prima evoluzione dei Racconti Perduti nel Silmarillion vero e proprio, oltre ad alcuni fondamentali scritti linguistici quali il “Lhammas” e le “Etimologie”, inizia infatti con il sesto volume la sezione dell’opera che è stata denominata “La Storia del Signore degli Anelli”.

La Storia del Signore degli Anelli

Questa “Storia nella Storia” comprende, oltre al sesto volume, anche il settimo (The Treason of Isengard), l’ottavo (The War of the Ring) e una parte del nono (Sauron Defeated). Ad enfatizzarne la natura organica e la coesione interna l’editore HarperCollins ne ha col tempo reso disponibile anche un’edizione a sé stante, in cofanetto, il cui quarto volume, dal titolo The End of the Third Age, corrisponde alla prima sezione del nono originario.
La Storia del Signore degli Anelli”, come si può immaginare, mostra l’evoluzione del romanzo fase dopo fase e stesura dopo stesura. Per esemplificare meglio il concetto basterà dire che questo primo volume presenta ben sei versioni della “festa attesa a lungo”, dai cambiamenti nelle quali si possono ben notare le difficoltà incontrate da Tolkien, specie all’inizio, nel dare al romanzo un’impostazione stabile e per lui soddisfacente. Da improbabili e piuttosto infantili inizi in cui Bilbo annuncia ai concittadini hobbit l’intenzione di partire per… prendere moglie (prima versione) o addirittura la prende sul serio, cresce per 39 anni un figlio, Bingo, che sostiene il ruolo che sarà infine di Frodo, e infine parte con lei (terza versione), la storia inizia infatti ad assumere davvero una forma solo quando l’autore concepisce i Cavalieri Neri, dando alla narrazione quella che oggi definiremmo una svolta dark e rendendola così considerevolmente più adulta. Va detto, tuttavia, che gli stessi Cavalieri Neri non avevano all’inizio una natura ben definita, come provato da un appunto ove si ipotizza addirittura che siano “Esseri dei Tumuli a cavallo”.

Trotter

Entrando più nel dettaglio, è particolarmente interessante l’introduzione, nel capitolo VIII, del personaggio di “Trotter”, “proto-Aragorn”, o meglio “proto-Passolungo” che, per quanto presenti già molti degli elementi narrativi e caratteriali che si cristallizzeranno poi nella vicenda e nel personaggio definitivi, è inizialmente qualcosa di completamente diverso, una figura di statura minore – in tutti i sensi, trattandosi di uno Hobbit – dal passato più tragico che glorioso e dal futuro che, per quanto rimastoci ignoto a causa dei successivi cambiamenti, si lascia immaginare in questa fase come quanto meno incerto. L’enorme differenza tra “Trotter” e Passolungo richiama alla mente la Lettera 163 a W.H. Auden, nella quale Tolkien, a romanzo pubblicato, scriveva all’amico ed estimatore: “Passolungo seduto in un angolo della locanda fu una sorpresa, e non avevo idea di chi fosse più di quanta ne avesse Frodo”. Alla luce del Ritorno dell’Ombra sappiamo ora che dove è scritto “Passolungo” bisogna leggere “Trotter”, e che effettivamente Tolkien “non aveva idea di chi fosse” e ci mise un po’ prima di farsela. “Trotter” non è una figura incolore, per nulla, e anche lui è circondato da un mistero, ma siamo ben lontani dalla profondità che in seguito caratterizzerà Passolungo/Aragorn, le cui radici, come sappiamo, affondano nel remoto passato fino a giungere alla Seconda Era. Mi permetto qui di passaggio una piccola critica alla traduzione di “Trotter” con “Passolesto”, in quanto, sebbene corretta, da un lato perde l’importante relazione onomatopeica del nome con il rumore prodotto dagli zoccoli di legno che caratterizzano il personaggio – “E ha le scarpe!” dice di lui il futuro Frodo per sottolinearne la peculiarità per uno hobbit – e dall’altro allude in modo troppo diretto al futuro “Passolungo”, cosa che trovo non del tutto opportuna viste le profonde differenze fra i due personaggi.

Tom Bombadil e Il Fattore Maggot

Una piccola perla che troviamo nel volume riguarda Tom Bombadil, che in un passaggio Tom Bombadilsuccessivamente tagliato si autodefinisce “un Aborigeno” e, immediatamente dopo, “l’Aborigeno di questa terra”. Se mantenuta, tale netta affermazione avrebbe forse eliminato alla radice la vexata quaestio del “chi è Tom Bombadil?”, tagliando le gambe a tutti i tentativi di “incastrarlo” a forza nella Terra di Mezzo “classificandolo” come Maia, alter ego di Eru e via cantando; purtroppo fu tolta, ma almeno lascia attestato che Tolkien, in origine, vedeva inequivocabilmente il buon vecchio Tom come un abitante della Terra di Mezzo “non venuto da fuori”. La figura del “genius loci” si affaccia alla mente, non certo per la prima volta. Un altro aspetto interessante, se non addirittura sorprendente, riguarda il personaggio del Fattore Maggot, che in una versione scartata non solo non è uno Hobbit ma una creatura diversa e non ben specificata, di cui addirittura Tom Bombadil dice “siamo parenti […] alla lontana”, e in un’altra è un personaggio violento che si accompagna a dei cani feroci e, nel famoso incontro in cui Bingo, il futuro Frodo, cerca di sgraffignargli dei funghi lo apostrofa con un torvo “T’ammazzerei adesso […] non fossi il nipote del signor Rory”, cipiglio difficilmente conciliabile con il bonario, rustico hobbit dell’opera compiuta.

Un onesto avvertimento

Prima di concludere, è giusto dare agli interessati alla lettura un onesto avvertimento: Il Ritorno dell’Ombra offre un’esperienza decisamente diversa da quella dei primi cinque volumi. Se infatti fino ad ora la Storia della Terra di Mezzo aveva parimenti soddisfatto sia il desiderio di conoscenza – tramite gli inediti e gli scritti linguistici – sia il “senso del meraviglioso” – tramite le versioni alquanto diverse dei miti fondativi, per quanto in costanza del quadro generale – è bene essere consapevoli che da qui e per un po’ a fare la parte del leone sarà la conoscenza. Questo non vuol dire che Il Ritorno dell’Ombra o “La Storia del Signore degli Anelli” in generale manchino di magia, tutt’altro, ma è giusto sottolineare che in questi volumi la componente “accademica” pesa maggiormente. Il Ritorno dell’Ombra è un tesoro inestimabile, ma è bene che il lettore sia preparato ad affrontare la mole di dettagli che Christopher analizza con l’ormai ben nota pignoleria nelle sue note, come ad esempio la girandola di hobbit dai nomi diversi che si alternano e si scambiano vertiginosamente parti e battute nel ruolo di compagni di viaggio di Bingo, il futuro Frodo.

I traduttori e il ruolo dell’AIST

La traduzione del Ritorno dell’Ombra, come quella dei due volumi precedenti, è di Stefano Giorgianni ed Edoardo Rialti, che oltre alle normali difficoltà presentate dalla traduzione di un’opera originale hanno dovuto confrontarsi, in questo caso, con l’ulteriore ingrata necessita di armonizzare la traduzione ex novo delle versioni  precedenti dei testi con quella di Ottavio Fatica degli stessi testi compiuti, sforzandosi, per quanto possibile, di mantenere la corrispondenza dei singoli passaggi rimasti immutati. Quanto alla cura redazionale, prosegue, come fin dal primo volume, l’attività del team AIST composto da Roberto Arduini, Giampaolo Canzonieri, Barbara Sanguineti, Norbert Spina e Claudio Antonio Testi.

 

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– Leggi l’articolo Bompiani: il 10 maggio il 4° libro della History
– Leggi l’articolo I Lai del Beleriand, la presentazione a Lucca
– Leggi l’articolo La strenna di Bompiani: Mr. Bliss in cartonato
– Leggi l’articolo La History in libreria: il 22 l’incontro al Salone
– Leggi l’articolo L’AIST: sarà tradotta la History of Middle-earth
– Leggi l’articolo La History di Tolkien: Bompiani e la traduzione
– Leggi l’articolo Bompiani pubblicherà la History of Middle-earth?

LINK ESTERNI:
– Vai al sito di Bompiani

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La recensione: Tolkien. Artista e Illustratore

IUn’importante lacuna nella bibliografia italiana tolkieniana si è colmata il 10 gennaio 2024 con la pubblicazione di J.R.R. Tolkien. Artista e illustratore, traduzione di Alberto Gallo del volume inglese J.R.R Tolkien. Artist and Illustrator.
Curato dai noti studiosi Wayne G. Hammond e Christina Scull e pubblicato originariamente nel 1995 – il testo è stato rivisto nel 2004 in occasione dell’uscita di una seconda edizione – da Harper Collins, questo testo si inserisce nell’ormai cospicuo numero di scritti dedicati al Tolkien illustratore.
Fra questi ricordiamo: Immagini, mai più ripubblicato in Italia dopo l’edizione Bompiani del 2002; L’Arte dello Hobbit e L’Arte del Signore degli Anelli, recentemente ristampati da Bompiani; Tolkien – Il Creatore della Terra di Mezzo, traduzione italiana del catalogo dell’omonima mostra di Oxford del 2018 e Tolkien: Voyage en Terre du Milieu, catalogo – purtroppo mai tradotto in italiano – dell’esposizione tenutasi alla BnF di Parigi nel 2019.
Se queste mostre sono state fondamentali nel rendere noto al pubblico il talento artistico del professore oxoniense, J.R.R. Tolkien. Artista e illustratore è stato una dei primi libri interamente dedicati al Tolkien illustratore. Con le sue 208 pagine, nelle quali vengono riprodotte 200 opere – fra dipinti, disegni e schizzi – alternate a lunghe descrizioni e digressioni biografiche, questa pubblicazione non può mancare nelle librerie degli appassionati  e degli studiosi interessati alla produzione artistica del professore di Oxford.

Un volume da sfogliare

Il libro è suddiviso in sezioni tematiche: nella prima – I primi lavori – dedicata alla formazione del Tolkien artista, troviamo principalmente schizzi, ma anche disegni e dipinti che riproducono i luoghi da lui visitati principalmente durante i periodi di vacanza. Nella seconda sezione – Visioni, miti e leggende – emerge l’elemento fantastico, con i primi disegni del Libro degli Ismi (Book of Ishness) – lo sketchbook iniziato da Tolkien nel 1914, dedicato alle sue illustrazioni a soggetto immaginario – e con gli splendidi acquarelli che accompagnarono i primi poemi dedicati alla Terra di mezzo e il Libro dei Racconti Perduti, prima, e Il Silmarillion, poi. La terza sezione – Illustrazioni per bambini – è incentrata invece sulle opere che accompagnano i libri di Tolkien dedicati ai più piccoli: Roverandom, Le Lettere di Babbo Natale e Mr. Bliss. La quarta e la quinta – Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli – riguardano le illustrazioni concepite per le due opere più famose dell’autore. La (quasi) totalità delle riproduzioni incluse in queste due sezioni è già stata pubblicata in L’Arte dello Hobbit e L’Arte del Signore degli Anelli; i testi di accompagnamento inclusi in questa nuova pubblicazione sono però molto più lunghi e dettagliati. L’ultima sezione – Motivi e stemmi – fornisce una panoramica sulla produzione di Tolkien dedicata all’araldica e alla decorazione.
Tolkien, Artista e Illustratore mostra, dunque, l’evoluzione dai primi schizzi dal carattere realistico ai coloratissimi acquarelli che accompagnano Lo Hobbit, fornendo una panoramica esaustiva sulla produzione artistica di J.R.R. Tolkien.
Finalmente, dopo tanti anni, è giunta un’edizione tutta italiana che è allineata al formato di quella originale in inglese: il volume infatti è rilegato con tanto sovraccoperta. La copertina mostra uno degli acquarelli più suggestivi: la montagna di Taniquetil, sulla cui cima si intravedono la aule di Ilmarin. Sul retro alcune delle riproduzioni che si trovano all’interno del volume.
Chi fosse interessato a capire quali fra le illustrazioni dedicate alla Terra di mezzo e incluse in J.R.R. Tolkien. Artista e illustratore siano presenti in altre pubblicazioni può consultare il sito Tolkien Art Index.

 

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– Vai alla recensione di: Creatore della Terra di Mezzo

LINK ESTERNI:
– Vai alla pagina di Bompiani dedicata a questo libro: J.R.R. Tolkien. Artista e illustratore 
– Vai alla pagina di Bompiani dedicata all’autore: La Casa dei Grandi Autori: J.R.R. Tolkien

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Middle Artbook di Ivan Cavini: la recensione

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«Come fai a raccogliere le fila di una vecchia vita? Come fai ad andare avanti, quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?» si domanda Frodo alla fine della versione cinematografica del Signore degli Anelli. Ecco una riflessione universale, che trascende lo specifico del personaggio, e che parla di tutti noi quando arriviamo alla cosiddetta mezza età, ci voltiamo indietro e improvvisamente ci compare davanti la distesa della vita, con tutto quello che abbiamo fatto. È questa l’aria che si respira tra le pagine del secondo Middle Artbook di Ivan Cavini (Eterea Edizioni, €50), un volume che porta il sottotitolo significativo di “disegnare e costruire nella Contea”. Attenzione, non “la Contea”, ma “nella Contea”. Coreografi, scenografi, digital designer si occupano di ricostruire la Contea; un artista come Ivan ci vive dentro. E in quelle pagine, che sono anche pagine di vita, appunto – dove compaiono perfino i figli, in veste di modelli per le illustrazioni – il suo ormai lungo viaggio nell’universo tolkieniano è raccontato in lungo e in largo. Ivan Cavini infatti è uno degli artisti italiani che più hanno contribuito a dare forma e dimensione alle storie di Tolkien. Perfino le tre dimensioni, perché Ivan non è soltanto un illustratore, ma anche autore di sculture e installazioni.
Se si dovesse trovare una cifra poetica per l’opera di Ivan forse potrebbe essere questa: la mescolanza dei due mondi, quello primario e quello secondario. Elementi naturali, architettonici e perfino personaggi del nostro piano di realtà confluiscono, rivisitati, nella Terra di Mezzo. È il caso ad esempio del monumento a Walter Scott di Edimburgo, che diventa la torre di Orthanc; o di certe vette delle Dolomiti che campeggiano sullo sfondo di alcune illustrazioni; o ancora della vaga somiglianza di Beorn con Jason Mamoa. Il messaggio è chiaro: come lo scrittore pratica la contaminatio, riadatta modelli narrativi della tradizione a storie e contesti nuovi (Tolkien era un maestro in questo), così in un certo senso fa l’artista, ricontestualizzando elementi del mondo primario in quello secondario, e dimostrando così plasticamente che l’uno permea l’altro, ma anche che non si dà fantasia senza ragione, che non c’è invenzione che non necessiti di una sua ferrea ratio… e che «noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», per citare il Bardo d’Inghilterra.
Le visioni fantastiche di Ivan sono infatti sempre riportate sulla terra… di mezzo. La sua personale Contea è un lembo di Romagna incastrato tra gli Appennini e la Via Emilia. È quel borgo di Dozza dove nel corso della vita ha accumulato ricordi, immagini, visioni, e opere d’arte non soltanto sue, ma anche di tanti colleghi e colleghe, all’interno della Tana del Drago e della Rocca Sforzesca. Un paesaggio di dolci colline coltivate, con la pianura giù in fondo, un grappolo di case cresciuto intorno alla rocca, dentro la quale dorme il drago Fyrstan, una delle creazioni di Ivan, mentre altri rettili dimorano nel fossato. Un luogo dove la giovialità e il gusto del buon vivere fanno parte del carattere degli indigeni. Questo è un posto per hobbit, viene davvero da pensare sfogliando le fotografie dei luoghi dell’anima dell’artista.
Quella di Ivan è ovviamente anche una reinterpretazione, o un reenacting, se vogliamo, con elementi originali. Ci si perde a scoprire dettagli nei disegni dell’artbook, come l’apparizione del professor Tolkien nei panni di Bilbo vicino al mulino di Ted Sandyman; o l’espressione perennemente triste di Théoden in ogni disegno in cui compare, figura resa in modo particolarissimo e non filologico, chissà forse per raccontarne la predestinazione, l’eccedenza, o piuttosto un alter ego dell’artista, un cameo hitchcockiano. Ma ancora guardando il suo Radagast sciamano con la pelle olivastra, la pittura rituale in faccia e il bastone intarsiato con figure d’animali, non può non tornare su la delusione per il modo comico-grottesco con cui Peter Jackson ha rappresentato questo personaggio nello Hobbit. Quanto saremmo stati più felici di vedere sullo schermo il Radagast di Ivan Cavini – magari interpretato da Morgan Freeman o da Wes Studi – che in un singolo ritratto ci racconta molto di più sul personaggio di quanto non abbia fatto il cinema trasformandolo in un clown. Meno originale, ma estremamente evocativa la sua Galadriel, attorniata di gigli bianchi, in un omaggio evidente all’Art Nouveau, o ancora il suo ultimo Nazgûl, che invece s’ispira ai fumetti anni Ottanta come Metal Hurlant, e che campeggia in copertina.
Se le statue a grandezza naturale di Barbalbero, del troll e del balrog esposte al Greisinger Museum di Jenins sono molto legate all’immaginario jacksoniano, il drago Fyrstan è invece un esemplare unico. Accovacciato sotto le proprie ali, come sotto un tepee indiano, Fyrstan dorme nel mastio della rocca di Dozza, per risvegliarsi ogni due anni in occasione di Fantastika, il festival dell’arte e dell’illustrazione fantasy. Nella sua ultima edizione il festival ha visto premiato con il drago d’oro niente meno che Tom Shippey, e in dieci anni ha visto transitare da Dozza i maggiori artisti fantasy italiani. Fyrstan veglia sul suo uovo. Dunque è femmina. Dunque c’è un secondo drago che prima o poi nascerà, il ciclo si compie, la strada va avanti, anzi… prosegue senza fine.
Si è cominciato parlando di uno sguardo retrospettivo sulla vita e la produzione artistica. C’è una frase di Ivan Cavini che apre una delle sezioni del libro e che risuona di eco tolkieniane: «La Terra di Mezzo mi invita a rivolgere lo sguardo indietro, alla ricerca delle cose buone che abbiamo dimenticato nella frenesia del mondo moderno». Ecco, quello di Ivan non è uno sguardo nostalgico, ma indagatore, la sua è una ricerca, una quest, a cui viene voglia di partecipare. Viene voglia di conoscere l’artista, diventare suo amico. E quando la vita ha già esaudito questo desiderio, non si può che compiacersene.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Recensione: La Strada perduta e altri scritti
– Leggi l’articolo La recensione: Tolkien e il Silmarillion di Kilby
– Leggi l’articolo Spigolature da Tolkien: la recensione di Testi
– Leggi l’articolo Tolkien, Rischiarare le tenebre: la recensione
– Leggi l’articolo Leggere insieme ISdA: la recensione di Testi
– Leggi l’articolo Il creatore della Terra di Mezzo: la recensione

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Eterea Edizioni

 

A febbraio il numero 26 della rivista Endòre

Fra qualche giorno uscirà, unicamente in formato elettronico, il numero 26 della rivista Endòre, diretta da Franco Manni, con instancabile dedizione, da più di 30 anni: sotto la sua curatela sono, infatti, usciti almeno 37 numeri, in varie vesti editoriali: Terra di Mezzo – Rivista interamente dedicata a Tolkien [4 numeri], Terra di Mezzo – Rivista della Società Tolkieniana Italiana [7 i numeri diretti da Manni], Endòre – La Rivista della Terra di Mezzo [26 numeri].

Un po’ di storia

La storia di questa fanzine è strettamente legata a quella del fandom e degli studi tolkieniani italiani: Terra di Mezzo – Rivista interamente dedicata a Tolkien, infatti, ha visto la luce nel lontano 1992 come prima pubblicazione autonoma dedicata a Tolkien in Italia. Nel 1995 la rivista è stata rinominata in Terra di Mezzo – Rivista della Società Tolkieniana Italiana, e, con una nuova numerazione, è diventata una pubblicazione ufficiale della STI (anch’essa fondata nel 1992). Questa collaborazione è continuata fino al 1999, quando è stato pubblicato il primo numero di Endòre, mentre Terra di Mezzo, come pubblicazione della STI, ha continuato un percorso distinto sotto una nuova direzione editoriale. Endòre, invece, è rimasta indipendente sino al 2015, quando la rivista si è affiliata all’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. La collaborazione con l’AIST è stata mutualmente proficua sino al 2021, quando la nostra associazione e la fanzine hanno preso percorsi diversi. Endòre è quindi figlia diretta di Terra di Mezzo e nonostante nel corso del tempo siano mutati il numero di pagine, la varietà degli argomenti, le affiliazioni e, naturalmente, i collaboratori che vi hanno contribuito, la linea editoriale è rimasta quella originaria. Tutti i numeri di Endòre sono disponibili online qui. I primi 8 numeri della rivista sono stati pubblicati sia in formato elettronico – in italiano e in inglese – sia cartaceo – le copie fisiche sono attualmente acquistabili unicamente sul mercato dell’usato.

Il nuovo numero

Nonostante la collaborazione ufficiale fra Endòre e l’AIST sia terminata da tempo, sono molti i soci, gli ex-soci e gli amici dell’associazione che, a titolo personale, hanno deciso di collaborare all’uscita di questo numero.

La fanzine, come di consueto, è strutturata nelle seguenti sezioni:

  1. Editoriale
  2. Articoli
  3. Forum
  4. Fiction
  5. Recensioni
  6. Rubriche

Editoriale

L’editoriale di questo numero si concentra sul rapporto di Tolkien con Politica e Cultura e in particolare chiarisce la posizione della redazione, non tanto sulla mostra Tolkien, Uomo, Professore, Autore che tanto ha fatto discutere il pubblico tolkieniano – e non solo – italiano in questi ultimi mesi, quanto sulla strumentalizzazione politica di questo evento.

Articoli

La seconda sezione contiene 4 articoli:

  1. Da Morgoth a Gollum (passando per Frodo) di Vincenzo Gatti esamina la natura del male nel Legendarium analizzandone le manifestazioni nelle creature e nei personaggi che lo popolano.
  2. Continua invece il suo studio Alberto Quagliaroli, iniziato nel numero 25, sulla Spiritualità di Tolkien e nel suo Legendarium secondo il metodo di Domenico Sorrentino, applicando quindi all’opera di Tolkien il metodo di analisi storica e sistematica del vissuto cristiano proposto dal vescovo di Assisi.
  3. La Caccia alla Compagnia di Valerio Merenda analizza i movimenti e le azioni delle fazioni nemiche durante il viaggio della Compagnia da Imladris a Lórien dal punto di vista di Fingedil, uno studioso di Gondor durante la Quarta Era. Lo studio ha l’obiettivo di capire quali siano gli obiettivi di queste fazioni e se queste siano o meno coordinati da un’unica volontà.
  4. In La Geografia di Tol Eressëa Gianluca Meluzzi propone un’affascinante ricostruzione filologica della geografia dell’isola degli Elfi, utilizzando in modo sincretico, ma ragionato, tutte le fonti disponibili per creare una mappa e una descrizione geografica il più possibile coerente con l’idea dell’isola che poteva avere Tolkien.

Forum

La terza sezione propone le seguenti tematiche:

  1. Nell’articolo In ricordo di Charles Noad, Franco Manni scrive il necrologio dello studioso, scomparso nel luglio dello scorso anno e che aveva conosciuto durante le sue frequentazioni dello smial “Northfarthing” di Londra.
  2. L’Opera di Tolkien trascende la”wokeness” è la traduzione di un articolo di Bradley J. Birzer del giugno 2021 in cui lo storico americano esprime la sua opinione sull’approccio della Tolkien Society inglese alla “diversità” nelle opere del Professore e nei loro adattamenti.
  3. Il terzo testo di questa sezione presenta i risultati della Tavola Rotonda su Sessualità nelle opere di Tolkien svolta dalla redazione della rivista (Adriano Bernasconi, Simone Bonechi, Elena Grecchi, Franco Manni, Alberto Quagliaroli e Filippo Rossi)
  4. In Una nuova tendenza negli studi Tolkieniani, Claudio Antonio Testi fa una carrellata sugli studi tolkieniani che negli ultimi anni sono stati dedicati a questo tema ed esprime a sua volta la sua opinione su tale approccio, concentrandosi in particolare sull’articolo “On Love” di Molly Ostertag – articolo già pubblicato nel 2022 su questo sito come Il “Queer Approach” nei Tolkien Studies.
  5. La sezione si chiude con il resoconto dell’evento Omaggio a Tolkien a Civitanova Marche che fornisce “una cronaca delle gesta compiute” il 2 settembre 2023 in occasione dei 50 anni dalla morte di J.R.R. Tolkien.

Fiction

La quarta sezione presenta un misto di racconti in prosa, di varia lunghezza, e poesie:

  1. Le poesie Il Bianco Cavaliere e Il Re del Palazzo d’Oro di Enrico Imperatori
  2. Le poesie Un Capitano di Rohan e Profezia sul Ritorno del Re di Daniela Giledhel
  3. I racconti Boromir il Giovane, La morte di Halbarad e Partenza di Legolas e Gimli di Locigenius

Recensioni

La quarta sezione è dedicata alla recensioni:

  1. Il Lai di Aotrou e Itroun per la prima volta in italiano di Emilio Patavini introduce in modo chiaro ed esaustivo il lettore italiano a questo testo di Tolkien finora inedito in Italia, fornendo gli elementi chiave che sono necessari per mettere in relazione quest’opera con gli altri scritti di Tolkien, siano essi parte del Legendarium o meno.
  2. L’articolo di Roberto Arduini, Ottavio Fatica traduce “Bagshot Row” – già pubblicato nel 2020 su questo sito come Quante storie dietro il vico Scarcasacco! – approfitta della nuova traduzione di Fatica per raccontare l’interessante etimologia del termine “Bagshot Row”, tradotto da O. Fatica con vico Scarcasacco e da V. Alliata con via Saccoforino. L’articolo mostra come la presenza di molteplici traduzioni permetta di scoprire nuove storie, spingendo il lettore a interrogarsi sui meriti dell’una piuttosto che dell’altra soluzione.
  3. Anche la recensione di Claudio Antonio Testi  Il contributo della traduzione di Fatica è già stata pubblicata su questo sito  – questa volta nel 2019 con il titolo La versione di Fatica: contributo per una messa a fuoco. Lo studioso, oltre a esprimere il suo personale giudizio sulla traduzione di Fatica, fa chiarezza su molti aspetti: (a) le molteplici traduzioni della Compagnia dell’Anello ad oggi pubblicate in Italia, (b) il ruolo dell’AIST in questa pubblicazione e (c) il rapporto di Tolkien con le traduzioni italiane.
  4. Juxhin Deliu recensisce approfonditamente il libro di Mauro Toninelli Colui che Raccontò la Grazia. Una Rilettura de «Il Signore degli Anelli» di J.R.R. Tolkien sottolineando come «questa rilettura consigliata sia agli appassionati di Tolkien che gli studiosi di teologia, riempa entrambi di rivelazioni che fanno scorgere una “Buona Novella” in tutto il Legendarium di Arda».

Rubriche:

Chiude la rivista la sezione dedicata alle rubriche dove troviamo:

  1. La Biblioteca di Hobbivillle, appuntamento ricorrente con la rubrica a carattere bibliografico curata da Enrico Imperatori.
  2. Un altro appuntamento ricorrente è quello con Mathom di Riccardo Moretti, dove Miniature Tolkieniane: Un anno in chiaro scuro parla di miniature in Mithrill nel 2022.
  3. L’ultima rubrica è invece una traduzione della Cronologia della Tolkien Society e delle riviste collegate a cura di Charles Noad.

 

ARTICOLI PRECEDENTI:

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LINK ESTERNI:
– Vai al sito web di Endòre – La Rivista della Terra di Mezzo

 

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Recensione: La Strada perduta e altri scritti

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Il quinto volume della Storia della Terra di Mezzo

È il segreto di Pulcinella o, se si preferisce, il segreto di chi studia, traduce, compulsa le opere di Tolkien, che la Storia della Terra di Mezzo sia un mare magnum difficile da gestire. Tra l’altro, leggendola oggi, finalmente in traduzione italiana, traspare anche lo sforzo dei redattori editoriali per rendere ben distinguibili le parti di testo vero e proprio intervallate dai lunghi commenti filologici e dai raccordi inseriti da Christopher Tolkien (1924-2020), il curatore dei dodici volumi. Quello che infatti Christopher tenne a mostrare in quest’opera monumentale era il processo creativo di suo padre, per accumulazione, correzione, riscrittura. Nella prima parte di questo quinto volume, ad esempio, si tratta delle varie versioni della Caduta di Númenor; nella seconda, si trovano invece ulteriori versioni degli Annali di Valinor, di quelli del Beleriand e dell’Ainulindalë.

Se Tolkien senior fosse vissuto oggi, probabilmente niente di tutto questo sarebbe stato possibile, perché la scrittura digitale si basa essenzialmente sulla ricorsività ed è assai raro che vengano conservati i file elettronici con le bozze e le versioni di avvicinamento a un’opera narrativa compiuta. Tolkien invece conservava maniacalmente tutto. Senonché le versioni dattiloscritte a macchina delle sue bozze sono relativamente poche, per lo più scriveva a mano, spesso a matita, cancellando e correggendo, e con il passare dei decenni quella grafia è sbiadita, a tratti illeggibile. In altri casi invece i materiali si sono conservati discretamente. L’impresa nell’impresa è stata quella di Christopher, quando ha deciso di mettere in ordine quella montagna di carte. 

La domanda – sempre implicita per i lettori, eppure spontanea – è “cui prodest?” Chi leggerà davvero tutto questo materiale nel dettaglio? Forse solo gli appassionati filologi della creatività tolkieniana, appunto, ma chi altri? Ecco, una risposta è questa: i cercatori di tesori. Dentro i volumi della Storia della Terra di Mezzo si celano tesori. Bisogna andare a cercarli e scavarli fuori, tra una riscrittura e un commento esterno, tra una sigla e un frammento riportato da un foglietto volante scappato fuori da un faldone. 

Il quinto volume della Storia della Terra di Mezzo, da poco pubblicato da Bompiani in un’edizione bellissima – co-tradotto da Edoardo Rialti e dal presidente dell’AIST Stefano Giorgianni, con la consulenza di quattro nostri soci e una socia – porta il nome del tesoro proprio nel titolo: La Strada perduta e altri scritti.

Il tesoro

 La Strada perduta è uno dei romanzi incompiuti di Tolkien, nato da una sorta di sfida o patto stretto tra Tolkien e l’amico C.S. Lewis negli anni  Trenta:

«Un giorno L[ewis] mi ha detto: “Tollers, c’è troppo poco di quello che ci piace davvero nelle storie. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi stessi.” Ci accordammo che egli avrebbe provato il “viaggio nello spazio”, e io il “viaggio nel tempo”. Il suo risultato è ben noto. I miei sforzi, dopo alcuni capitoli promettenti, si sono prosciugati; era una strada troppo lunga per arrivare a quello che in realtà volevo fare: una nuova versione della leggenda di Atlantide. La scena finale sopravvive come La Caduta di Númenor. Questo affascinò molto Lewis (che la sentì leggere), e ci fece riferimento più volte nelle sue opere: per es. The Last of the Wine nelle sue poesie (Poems, 1964, p. 40). Nessuno di noi due si aspettava molto successo come dilettanti, e in realtà Lewis ha incontrato qualche difficoltà a far pubblicare Lontano dal pianeta silenzioso. E dopo tutto quello che è successo, il piacere e la ricompensa più duraturi per tutti e due è stato che ci siamo forniti storie da ascoltare o leggere che, in gran parte, ci piacevano. Naturalmente, a nessuno di noi due piaceva tutto quello che trovavamo nella narrativa dell’altro» (Lettera 294, 1967, in Lettere, p. 598-599).

In buona sostanza La Strada perduta consiste nell’incipit e nell’abbozzo di scaletta di quello che sarebbe potuto diventare il romanzo di Númenor. La vicenda è quella ambientata nella Seconda Era, meglio nota come Akallabêth, e che nell’edizione postuma del Silmarillion è narrata in forma di racconto storico, con pochissimi dialoghi diretti, quasi come fosse una cronaca. La Strada perduta fu il tentativo di Tolkien di concepire un racconto a cavallo delle epoche storiche del nostro mondo primario e della vicenda leggendaria di Atlantide, da lui riscritta come caduta di Númenor, utilizzando la forma del romanzo, con personaggi delineati, descrizioni ambientali e paesaggistiche, introspezione, ecc. Non sarebbe quindi stata soltanto la storia di un viaggio nel tempo, ma anche attraverso i mondi, ovvero attraverso il piano storico e leggendario. E il filo conduttore sarebbe stato il rapporto tra padre e figlio, forse addirittura un’indagine su questo legame primario, che si riflette anche nella religione di Tolkien. Le stesse figure di padre e figlio si sarebbero riproposte in un viaggio a ritroso dalla contemporaneità al medioevo fino alla leggenda antica, in una sorta di anamnesi di vite e legami padre-figlio precedenti.

La diversa forma narrativa produce anche un cambiamento nella storia. Nella forma romanzo il rapporto tra il padre Elendil e il figlio Herendil (che nella versione pubblicata nel Silmarillion diventerà Isildur) è decisamente più complesso. Il padre è già il primo dei dissidenti al regime instaurato dai re di Númenor, imbeccati e corrotti da Sauron, e che porterà Númenor stessa allo scontro frontale con i Valar e alla rovina. Ma se nell’Akallabêth, Isildur si affida ciecamente al padre e ne esegue le direttive, nella versione romanzesca Herendil è inizialmente restio a farlo, o per lo meno combattuto tra l’obbedienza al padre e quella al re. Addirittura appare affascinato dalla retorica del regime. Elendil gli spiega il proprio punto di vista: la prima obbedienza dovuta è ai Valar. E a un re che va contro i Valar non si è tenuti a obbedire. Un concetto che risuonerà nelle parole di Gandalf a Denethor nel Signore degli Anelli, quando quest’ultimo rivendica l’obbedienza dovutagli dai suoi sottoposti e il mago bianco replica dicendo che se i suoi ordini sono folli e suicidi, quel dovere d’obbedienza decade. Elendil quindi lascia al figlio la scelta, la possibilità di esercitare il libero arbitrio. E per amore del padre, Herendil sceglierà di restare dalla sua parte. Se il messaggio di verità giunge a separare il padre dal figlio, come sta scritto nel Vangelo, ecco che Tolkien quel legame non lo scinde, ma nemmeno lo dà per scontato. La scelta di Herendil è sofferta, anche se sarà quella giusta e sarà suggellata dall’ultima scena scritta da Tolkien prima di abbandonare la stesura. Un finale anticipato che – senza spoilerare – racchiude in sé la forza di un gesto tenero e sacro al tempo stesso, e che sembra arrivare dritto dall’Iliade o dall’Odissea, con parole altrettanto evocative. 

Una leggenda contemporanea

Un altro elemento interessante del romanzo abbozzato è proprio la descrizione del regime numenoreano sotto l’influsso corruttore di Sauron, perché è a tutti gli effetti quella di un regime militarista e imperialista moderno. 

La crescita della popolazione e delle attività economiche produce una spinta a lasciare l’isola di Númenor per cercare nuove terre. Per farlo occorre armarsi. E gli armamenti che Tolkien descrive sembrano alquanto anacronistici rispetto alla cultura materiale della civiltà numenoreana: navi di metallo che navigano senza bisogno del vento; torri sempre più alte, tanto robuste quanto sgraziate; fortezze inespugnabili erette contro nemici inesistenti; scudi indistruttibili e «dardi [che] sono come tuono e sfrecciano per leghe senza mai mancare il colpo». 

La società si volge alla guerra anche se non ci sono nemici all’orizzonte, perché è chiaro che presto o tardi i nemici andrà a cercarseli, invadendo le terre altrui. «Le nostre armi si moltiplicano come per una guerra infinita, e gli uomini smettono di dedicare amore e cura alla fabbricazione di altre cose per l’utilità o il diletto», dice Elendil. Ed ecco che l’imperialismo è servito su un piatto d’argento: «[Sauron] ha chiesto al nostro re di allungare la mano per crearsi un Impero. Ieri a Oriente. Domani… in Occidente». Sappiamo infatti che Númenor prima colonizzerà la Terra di Mezzo, poi si volgerà addirittura verso Valinor, per combattere il Valar e strappare loro il segreto dell’immortalità. Ed è lì, come è noto, che troverà la propria rovina e verrà inabissata. 

Anche la religione gioca un ruolo nel compattamento della società: la montagna centrale dell’isola viene spogliata degli alberi e sulla cima viene eretto un tempio tanto grandioso quanto terribile, dove nessuno prega. È dedicato al Possente, il Primo Potere… che però non è Eru, bensì Morgoth, il cui ritorno viene evocato. Ed è Sauron a fare le sue veci. Ma il regime lavora anche sul fronte culturale, reinventa la tradizione, impone una lingua suppostamente antica e recupera il patrimonio letterario per arruolarlo in battaglia, ovvero ricerca un legame anacronistico con un’antichità di comodo, ricostruendo un mito delle origini a cui tornare. Elendil dice che: «Le vecchie canzoni sono dimenticate o snaturate, stravolte in altri significati». E il figlio Herendil ribatte: «Ma alcuni dei nuovi canti sono possenti e infondono vigore». È proprio quella la loro funzione, accendere gli animi, dare forza e coraggio per l’impresa imperialista e folle in cui il regime si lancerà a testa bassa. Fino alla catastrofe.

Monarchia, esercito e religione formano un blocco totalizzante, che non accetta cedimenti né opposizioni interne. Disprezzare Sauron è considerato tradimento.

Quello che colpisce di questa descrizione è la sua modernità, si diceva. Tanto le dinamiche sociali, culturali e di potere quanto gli armamenti (navi di ferro senza vele e missili a lunga gittata) ricordano da vicino i regimi militaristi e dittatoriali del Novecento, quelli che negli anni della stesura di questo abbozzo di romanzo si erano ormai consolidati e marciavano rapidamente verso un conflitto esiziale. Nella seconda metà degli anni Trenta, Mussolini e Hitler si accingevano a firmare il Patto d’Acciaio che li avrebbe visti scatenare la Seconda guerra mondiale, mentre Stalin in Unione sovietica finiva di eliminare gli ultimi oppositori politici interni con le celebri “purghe”. La corsa agli armamenti era lanciata, e le società si preparavano allo scontro innescando dinamiche “totalizzanti” molto simili a quelle descritte da Tolkien per Númenor sotto l’influsso di Sauron. A volerla dir tutta, ci si potrebbe spingere fino a cogliere un valore profetico nella tragica vicenda di Númenor, che alla fine sfida gli dèi e viene schiacciata, letteralmente sommersa. Un destino che prefigura quello del Terzo Reich e dei suoi alleati, di lì a una manciata d’anni.

Lingue & Etimologie

Certo, questo quinto volume andrebbe segnalato anche per almeno un altro tesoro, cioè quello linguistico, da ricercare nella seconda e nella terza parte.

Il quinto capitolo del volume contiene infatti uno pseudo-biblion, vale a dire il Lhammas o “Relazione sulle Lingue”. Ancora ci si trova in presenza di una cornice narrativa, nella quale un soggetto immaginario redige una storia delle lingue elfiche (con tanto di diagrammi ad albero), ovvero del loro sviluppo storico in corrispondenza delle vicende di Arda, con tutte le loro divisioni, migrazioni, e conseguenti diramazioni linguistiche. Com’è noto questo è uno degli aspetti salienti della mitopoiesi tolkieniana, praticamente il suo punto di partenza. L’approccio da filologo comparato spinse Tolkien a creare una storia e un’ambientazione per le sue lingue. Consapevole che gli idiomi inventati hanno il pregio e il difetto di non avere una storia, e quindi di essere troppo perfetti (vedi l’esperanto che Tolkien aveva studiato da ragazzo, per poi abbandonarlo), Tolkien optò per creagliene una, vale a dire dotare il suo mondo immaginario di un effetto di profondità anche linguistica. Tanto più questo effetto poteva risultare realistico e credibile, e quindi funzionare, quanto più di quello sviluppo linguistico si poteva dare prova. Ed ecco che oltre alla storia delle lingue elfiche, la terza parte del volume è dedicata alle Etimologie e alle radici delle parole. 

Come scrive Christopher nel suo commentario, fu un’impresa improba, perché mano a mano che le storie venivano modificate secondo l’inventiva dell’autore, anche le lingue dovevano essere adattate allo sviluppo storico. Una lingua, come la storia, è in perenne divenire, e dover svolgere due ruoli, quello di demiurgo di un mondo e di filologo delle lingue che vi si parlano, si rivelò troppo anche per Tolkien. È forse il motivo per cui non riuscì mai a produrre dei vocabolari veri e propri, se non in forma di scampoli:

«La cosa più sorprendente è il suo così scarso interesse per la creazione di vocabolari esaurienti delle lingue elfiche. Non rifece mai niente di simile al minuscolo “dizionario” della lingua gnomica originale a cui ho attinto per le appendici del Libro dei Racconti perduti. È possibile che un’impresa del genere fosse sempre rimandata al giorno, che non sarebbe mai arrivato, in cui si fosse raggiunto uno stadio sufficientemente definitivo del lavoro. Nel frattempo, quella non era per lui una necessità primaria» (p. 423).

Quella di Tolkien fu in sostanza la fatica di Sisifo, un’opera che non poteva essere compiuta, al punto che lui stesso ci rinunciò. Eppure rimane uno dei paradossi più belli e affascinanti di tutta la mitopoiesi tolkieniana, che non a caso appassiona da sempre tantissimi fan e studiosi. Certi grandiosi fallimenti individuano un’impossibilità rivelatrice, un’ossessione fertile, o, volendo, perfino un invito a proseguire il racconto per «altre mani, altre menti».

 

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La recensione: Tolkien e il Silmarillion di Kilby

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StudiareChe un autore sia un grande autore è probabilmente suggerito, tra le altre cose, anche dalla mole di letteratura critica che si sviluppa a partire dalla sua opera letteraria. Indizio, se si vuole, promettente ma anche estremamente incerto, dal momento che la critica ora stronca testi destinati a diventare dei classici e ora ne esalta altri che non reggono alla prova del tempo, ora getta luce su aspetti fondamentali delle opere letterarie e ora cade in clamorosi travisamenti, ora adorna gli scritti di un autore come un’edera rigogliosa su un antico tronco d’albero e ora li aggredisce e li soffoca come una pianta infestante. Tolkien, notoriamente avverso a critici, biografi e simili, non ha potuto impedire nemmeno in vita che si scrivesse di lui e più volte ha palesato il suo disappunto nei confronti di alcune distorsioni anche aberranti della sua opera. Tuttavia, col tempo, sono emersi contributi metodologicamente attrezzati e di innegabile valore esegetico – basti pensare ai saggi di Humphrey Carpenter, Tom Shippey, Verlyn Flieger o Thomas Honegger – che hanno consolidato una letteratura critica di riferimento per lo studio dell’opera tolkieniana.

Tolkien e il Silmarillion: contenuto e limiti

Kilby Tolkien e il SilmarillionQuella che ho tra le mani, in questo momento, è un’opera importante nel panorama della critica tolkieniana, un’opera che si può a buon diritto datare alla preistoria dei Tolkien Studies (insieme a tutta una generazione di studi pioneristici di Paul H. Kocher, John S. Ryan, Richard C. West, Eric Gerald Stanley, Charles E. Noad, Colin Manlove e Jared Lobdell). Si tratta di Tolkien & the Silmarillion dello statunitense Clyde S. Kilby, un volumetto pubblicato nell’ormai lontano 1976 e finalmente disponibile in una pregevole edizione italiana per i tipi dell’editrice barese L’Arco e la Corte. Anche se nel 2016, il volume è stato in pratica ristampato – compone un terzo del volume A Well of Wonder: CS Lewis, JRR Tolkien, and the Inklings di Clyde S. Kilby, a cura di Loren Wilkinson e Keith Call. Brewster (Paraclete Press, 348 pp.) – la scelta è ricaduta su questa edizione del 1976. Coordinata da Giuseppe Scattolini, curata da Greta Bertani e tradotta da Luca Manini – che, com’è noto, è il traduttore ufficiale degli inediti di Tolkien per Bompiani dal 2014 –, questa edizione italiana non propone una semplice traduzione del saggio di Kilby, ma una insolita versione commentata e aumentata: un nutrito gruppo di studiosi dei Tolkieniani Italiani, infatti, ha prodotto una notevole mole di commenti all’opera, dei quali si è scelto di rielaborare una parte in forma di note al testo e un’altra pubblicata in un’apposita espansione online accessibile però soltanto tramite QR-code. Si può sperare, perciò, che i materiali di commento siano oggetto di continuo approfondimento nel futuro. Infine, purtroppo non è compreso il capitolo su Il Silmarillion, originariamente previsto, che fu espunto dalla pubblicazione inglese su richiesta di Christopher Tolkien che pensava rivelasse gran parte della trama del libro. Kilby, volendo mantenere rapporti cordiali con la famiglia Tolkien, si attenne ai desideri di Christopher. Il capitolo è stato poi pubblicato nella rivista specialistica Seven: An Anglo-American Literary Review, Volume 19, 2002. Di quest’ultimo capitolo esiste addirittura il manoscritto, conservato nella collezione speciale su J.R.R. Tolkien (codice 5.1-4-6) della Marquette University.

Qualche pregio

Clyde S. KilbyClyde S. Kilby (1902-1986), professore di inglese al Wheaton College (Illinois), protestante evangelico, fu uno dei primi studiosi dell’opera di C.S. Lewis e ben presto si interessò anche a Tolkien, che visitò per la prima volta nel settembre 1964 e poi di nuovo, nell’estate del 1966, per collaborare con lui alla chiusura del Silmarillion (che tuttavia, com’è noto, fu pubblicato postumo solo nel 1977 grazie a Christopher Tolkien e Guy Gavriel Kay). Nel 1965, inoltre, Kilby fondò il Marion E. Wade Center del Wheaton College, facendone un importante centro per lo studio degli Inklings, dei loro amici (come Dorothy Sayers) e delle loro influenze (come George McDonald e G.K. Chesterton).
Tolkien & il Silmarillion non è né una biografia né un saggio in senso stretto. La prima parte, infatti, contiene un resoconto esteso degli incontri tra il Professore, la cui fama dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli era in rapida ascesa, e lo stesso Kilby. Già durante il primo incontro tra i due, Tolkien parla del Silmarillion, «osservando che il problema maggiore che incontrava era la mancanza di un tema dominante che legasse le varie parti» (p. 30) ed auspicandone la pubblicazione entro il 1966. Accenna anche al vecchio progetto comune con C.S. Lewis sulla fuga nel tempo e nello spazio; progetto che, come è noto, ha portato a Lontano dal pianeta silenzioso (Out of the Silent Planet, 1938) e all’incompiuto The Lost Road, primo vero nucleo della materia di Númenor. Da quel primo incontro, tra Tolkien e Kilby nasce, se non un’amicizia, almeno una familiarità sorretta da «una piccola corrispondenza» (p. 35), con la prima lettera di Tolkien scritta l’11 novembre 1964 e l’ultima scritta l’8 marzo 1973. Tra gli argomenti, l’istituzione di un centro presso il Wheaton College che raccogliesse le opere dello stesso Tolkien e degli altri Inklings. Il Wade Center conserva quattordici lettere di Tolkien a Kilby, di cui solo alcune parzialmente pubblicate ne Le lettere. In questo periodo, però, si concretizza soprattutto una sorta di collaborazione tra Tolkien e Kilby, che si configura nei termini di un’«assistenza editoriale e critica» (p. 38) alla revisione del Silmarillion con gli auspici e le speranze del paziente editore Rayner Unwin («che sperava potessi essere io la persona in grado di sistemare Il Silmarillion e renderlo pubblicabile», p. 39). Kilby acquisisce così una specola privilegiata sul laboratorio scrittorio di Tolkien ma ben presto si rende conto delle enormi dimensioni e delle intrinseche difficoltà del lavoro di composizione del Legendarium, palesando più volte il timore che un’opera mastodontica come il Silmarillion non vedrà mai la luce.
Kilby: "Tolkien and the Silmarillion"L’autore, inoltre, documenta con precisione le difficoltà personali e artistiche di Tolkien così come le lungaggini e i continui ritardi nel suo lavoro di scrittura, le incertezze sul valore letterario delle sue opere, il bisogno più di incoraggiamenti che di critiche (positive o negative che fossero), l’assillo della corrispondenza, la frustrazione di fronte agli elogi allo Hobbit e al Signore degli Anelli. Offre anche alcune preziose testimonianze di prima mano sull’origine dei racconti di Tolkien: «Mentre parlavamo insieme, mi parve che tutto fosse iniziato, come diceva lui, al momento della sua nascita. A volte, avevo l’impressione che fosse qualcosa di prenatale. La parola distintiva […] è “composizione”, ossia il tempo necessario per riunire le parti in un insieme pubblicabile» (p. 81). Kilby scrive del processo di scrittura di Tolkien: «Qualcosa della portata del perfezionismo di Tolkien può essere percepito notando che lui, come C.S. Lewis, pensava che una storia fosse composta adeguatamente solo dopo che l’autore aveva prima scritto il tutto in poesia e poi l’aveva ritrasformato in prosa. Parte del manoscritto de Il Silmarillion è in forma di versi. È un concetto che ricorda la massima di Orazio secondo cui un autore rielabora i suoi scritti per nove anni prima di darli al pubblico» (pag. 32). Come ammette candidamente, la missione di Kilby fallisce completamente perché lo studioso non è in grado di muovere Tolkien nemmeno di un centimetro verso il completamento del suo compito. L’autore si distrae facilmente e trascorre le giornate scrivendo lettere o facendo solitari. Quando aveva accettato l’offerta di Kilby di venire ad aiutarlo con il libro, aveva ancora difficoltà ad applicarsi al compito. Kilby nota: «Sarebbe soddisfacente registrare che ho sempre trovato [Tolkien] impegnato nella sua scrittura, ma non è vero. A volte lo trovavo impegnato nelle sue lingue elfiche, un’attività che gli sembrava infinitamente più interessante» (p. 26). Kilby contribuisce a imporre un po’ di ordine nelle versioni disordinate dei manoscritti, ma non può fare altro per portare il libro più vicino alla pubblicazione. Tolkien è diventato sempre più isolato – senza lo stimolo continuo degli Inklings – e di conseguenza si ritrova sempre più incapace di scrivere.
Il compito secondario di Kilby (assegnatogli da Rayner Unwin) è di fargli finire l’introduzione alla traduzione moderna di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, che avrebbe bisogno solo di qualche giorno di lavoro in più per essere pronto, ma si era bloccato a questo punto da molti anni. Kilby fallisce anche in questo – e Tolkien annuncia («quasi trionfalmente») alla fine dell’estate: «Beh, non l’ho scritto io!». Il libro è stato poi pubblicato postumo da Christopher, nel 1975. Kilby, in ogni caso, assiste e consiglia Tolkien nella pubblicazione de Il Fabbro di Wootton Major e interpreta la storia come «un testo sul processo creativo e sui problemi particolari che incontra uno scrittore di fantasy come Tolkien» (p. 67), sebbene quest’ultimo neghi recisamente che si tratti di un’opera autobiografica.
I capitoli successivi di Tolkien & il Silmarillion si soffermano su vari aspetti di grande interesse. Assai importante è quello sulla Cronologia della composizione, nel quale Kilby tenta di ricostruire il percorso di scrittura creativa del Professore e afferma che addirittura già «nel 1906 aveva in mente lo svolgimento generale del suo mito» (p. 83). Probabilmente è una delle prime cronologie ad essere condivisa pubblicamente, poiché Kilby aveva accesso a molto materiale che allora non era pubblicamente disponibile. L’ultimo capitolo, infine, è dedicato al legame di Tolkien con C.S. Lewis e Charles Williams, e ne indaga i rapporti personali, le relazioni letterarie e gli elementi tematici comuni. È, in sostanza, tutta questa la parte migliore del volume e la conferma ci viene da uno studioso del calibro di Thomas Honegger, che in un recente saggio scrive che «la descrizione del modo in cui il Professore lo accolse in casa sua, e delle lunghe ore passate a parlare del suo mondo sub-creato, riportano Tolkien in vita, tanto che pare quasi che dalle pagine del libro emani l’odore del fumo della sua pipa».

Molti limiti

A Well of Wonder- CS Lewis, JRR Tolkien, and the InklingsCome scritto, è strano che un progetto di un gruppo di appassionati si dedichi alla traduzione italiana di un’opera così datata, soprattutto quando ne esiste una sostanziale ristampa ampliata e aggiornata al 2016. Solo dal punto di vista della storia della critica può essere quantomai degno di nota che sia disponibile  un’opera, quale è quella di Kilby, che ha preceduto qualsiasi studio “classico” su Tolkien (la Biografia di Carpenter è del 1977, le Lettere sono del 1978, The Road to Middle-earth solo del 1982) e che, soprattutto, ha offerto uno primo sguardo sul Legendarium tolkieniano quando la pubblicazione del Silmarillion e della monumentale History of Middle-earth erano progetti ancora ben di là da venire. Kilby, oltretutto, pur riportando informazioni oggi vistosamente datate o dimostratesi errate, ha offerto anche valutazioni perspicaci e ancora valide su molti temi dell’opera di Tolkien.
Sono poi molto meno centrate le pagine in cui Kilby si interroga su Tolkien come scrittore cristiano e affronta le questioni della caduta dell’uomo e del mondo, dell’eucatastrofe e dell’evangelium, mostrandosi dell’idea «che Il Silmarillion sia basato tanto su un modello biblico quanto su un modello nordico e di altre mitologie» (p. 101), frase che però smentisce l’assunto di partenza. Segue l’esposizione di alcuni parallelismi, individuati dall’autore, tra la Bibbia e le opere di Tolkien, talvolta un po’ forzati ma efficaci nel fornire un quadro generale dell’influsso che il pensiero cristiano ebbe su Tolkien non solo come uomo ma anche come scrittore. Da notare che nell’edizione del 2016 questa parte è preceduta da una sezione in cui lo stesso Kilby è molto più cauto soprattutto su Il Signore degli Anelli: «Sembra avere sfumature cristiane, ma è una storia da apprezzare, non un sermone per predicare».
Clyde S. KilbyAncor più confusa è la menzione di un testo che Tolkien fa leggere a Kilby, un lungo racconto «sotto forma di una conversazione simile a quella di Giobbe, e incentrata sull’anima e sul corpo […] e sull’incarnazione di Cristo, la diffusione della Sua luce da una persona all’altra, e il compimento finale al ritorno di Cristo» (p. 105). Si tratta con ogni probabilità dell’Athrabeth Finrod ah Andreth, un testo che, com’è noto, Christopher Tolkien non accolse nel Silmarillion (e che fu poi pubblicato in HoMe X, pp. 303-365) ma che probabilmente il Professore aveva tutta l’intenzione di pubblicare. Kilby, infatti, afferma che egli «non era sicuro se dovesse includerlo nel Silmarillion oppure pubblicarlo separatamente» (p. 105). Ora la questione è dubbia in molti punti. Non c’è certamente dubbio che Kilby si riferisse all’Athrabeth in questo passaggio. Ma non esiste nessun altro scritto del legendarium di Tolkien di cui si è a conoscenza che faccia anche un solo accenno all’incarnazione. La «conversazione simile a quella di Giobbe» non ha davvero senso, ma l’argomento di «anima e corpo» e «il possibile scopo di Dio nel permettere la Caduta in modo che possa manifestare ancora di più la Sua sovranità su Satana» sono sicuramente aspetti dell’Athrabeth. Ciò che rende il modo in cui Kilby tratta quest’ultimo scritto ancora più strano è che la descrizione di Kilby nel libro, gli appunti presi dallo stesso Kilby in quel momento e il testo pubblicato da Christopher hanno poca somiglianza tra loro. Soprattutto, gli appunti originali del 1966 (ora in possesso di John D Rateliff per conto della Marquette University) non fanno menzione di Satana, né di Cristo, né della Caduta. È molto probabile che, in questo punto almeno, Kilby durante la stesura del suo libro attingesse più ai suoi ricordi della sua conversazione con Tolkien che non ai suoi appunti scritti all’epoca. Che la memoria dell’autore sia meno fedele degli appunti lo dimostra il fatto che in essi è presente qualcosa che Kilby chiama (non in questo libro!) “Conversation Between Finrod and Andreth”. In questo caso non può che trattarsi dell’Athrabeth, nonostante la descrizione che ne fa Kilby nei suoi appunti abbia poca somiglianza con il suo passaggio nel libro. L’interesse principale di questi appunti è anche nel fatto che mostrano chiaramente quali capitoli Tolkien volesse nel suo Silmarillion, che poi sono andati esattamente nella pubblicazione del 1977. Tolkien mostrò a Kilby anche The Lay of Leithien, The Wanderings of Hurin, The Annals of Aman e The Annals of Beleriand.
Se tutte queste incongruenze e falsi ricordi inficiano gli ultimi capitoli del volume, è bene non dimenticare che Kilby ha avuto appena due mesi, lavorando quasi interamente senza contesto, per leggere ben ventotto testi per un totale di circa 720 pagine (più altri lavori come Il Fabbro di Wootton Major e The Bovadium Framments). Se non altro, però, i suoi appunti aiutano a ricreare lo schema di Tolkien su ciò che all’epoca considerava facente parte o meno del Silmarillion.

Conclusioni

Tolkien & the Silmarillion, come già scritto, è molto più un ritratto dell’uomo che una valutazione critica del Silmarillion allora inedito. Letto in quest’ottica, è ancor oggi una lettura preziosa per qualsiasi studioso e appassionato tolkieniano, non per il fatto di non essere un testo “superato”, ma proprio perché lo è. È anche grazie a Kilby, infatti, che è iniziato il lungo percorso critico che ha messo in luce come Tolkien non sia un autore “per bambini” o “di genere” ma un grande classico della letteratura novecentesca. La via prosegue senza fine ma questo volume è stato 50 anni fa uno dei primi passi fuori dall’uscio di casa.

Paolo Pizzimento, Roberto Arduini

 

ARTICOLI PRECEDENTI:
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– Leggi l’articolo Scompare Richard C. West, bibliografo di Tolkien
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– Leggi l’articolo Scompare Jared C. Lobdell: con lui iniziarono gli studi tolkieniani
– Leggi l’articolo Scompare Eric Gerald Stanley, erede di Tolkien a Oxford
– Leggi l’articolo Recensione: Il Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher

LINK ESTERNI:
– Vai al sito del Marquette University
– Vai al sito del Wade Center

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Gli echi tolkieniani in Ufo 78 di Wu Ming

presentazione-del-libro-ufo-78Perché parlare dell’ultimo romanzo di Wu Ming – UFO 78, Einaudi 2022 – su un sito dedicato all’universo tolkieniano? Be’, perché quando un membro di un collettivo di autori è anche uno studioso tolkieniano – stiamo parlando naturalmente di Wu Ming 4 – succede che Tolkien, per dirla con le parole usate da lui stesso a proposito del Silmarillion: «È risalito a galla, si è infiltrato e probabilmente ha contaminato tutto ciò […] che io ho provato a scrivere da allora» (Lettere n. 124).
Non parleremo dunque, se non brevemente, del libro in sé, ma di quelle sue parti dove il Professore «si è infiltrato» per scelta del membro del collettivo di cui sopra, condivisa ovviamente con gli altri. Parleremo in definitiva di Uova di Pasqua – o Easter Eggs, per chi tiene alla lingua originale – disseminati qua e là nel testo per il puro piacere di chi ce li ha messi e di chi vorrà andarli a cercare. Allerta spoiler: chi volesse cercare da sé gli Easter Egg farà meglio a non proseguire. Si tenga presente, tuttavia, che lo svelamento dei medesimi non compromette la lettura del romanzo.

Gli Anni Settanta secondo Wu Ming

Ufo-78UFO 78 è un libro singolare. Inevitabile nel percorso di crescita degli autori, forse, data la loro storia personale, ma, e probabilmente proprio per questo, progettato deliberatamente secondo una modalità “laterale” tesa a spiazzare il lettore. Siamo ovviamente nel 1978 delle Brigate Rosse e del sequestro/delitto Moro, ma il “vero” argomento del libro – e già in questo c’è un po’ di Tolkien, se si pensa al Sauron del Signore degli Anelli – non compare mai in primo piano. Viaggia infatti sempre sullo sfondo, vuoi letteralmente, come nella Renault 4 rossa della copertina, vuoi narrativamente, nella forma dell’ambiente circostante i personaggi che vi sono, sì, immersi, ma allo stesso tempo vivono le loro vicende private. Come promesso non ci dilunghiamo oltre, ma lasciateci dire che, uova di Pasqua a parte, il libro merita pienamente la lettura e ha qualcosa da dire a tutte le generazioni. I boomer, quorum quis scribit, ci ritroveranno un controverso pezzo della loro gioventù, gli X, Y, Z e quant’altro ne ricaveranno un quadro interessante e umano di ciò che quel pezzo di gioventù fu per chi lo visse.

Le uova di Pasqua

p. 7: il nome del comune in cui si svolge la sottotrama principale, Forravalle, richiama con assoluta evidenza la Valforra del Signore degli Anelli nella traduzione di Ottavio Fatica. Dalla visibilità quasi eccessiva del primo “uovo” traspare chiaramente la sua funzione di segnale di partenza per la ricerca di altri meglio nascosti.

p. 7: compare Elio Gornara detto Gheppio, viceispettore della Forestale. Come se già quest’ultimo particolare non bastasse, a p. 9 il nuovo personaggio esibisce una pipa. Di lui, tuttavia, parleremo meglio più avanti.

p. 42: L’immaginario massiccio del Quarzerone, forse il vero protagonista della storia, “svetta sullo sfondo, simile a una larga corona a tre punte”. Abbiamo qui, in un colpo solo, un riferimento ai picchi del Thangorodrim e uno alla corona ferrea di chi nel Silmarillion vi dimora sotto. Va detto che, considerando gli sviluppi della trama, l’analogia simbolica è meno forzata di quanto potrebbe sembrare.

p. 59: Al bar Ragno azzurro di Forravalle un primo avventore attira l’attenzione del visitatore forestiero su un secondo, al quale quindi si rivolge:

Quanto li abbiamo cercati, vero Gheppio? – disse girando la testa verso il tavolino alle sue spalle, dove sedeva un uomo in penombra. Indossava una divisa grigioverde, da forestale, e se ne stava in silenzio, con la pipa spenta in bocca. Aveva l’aria serafica di un capo indiano. Li guardò senza dire nulla.

Beh, se il Gheppio del Ragno azzurro di Forravalle, al secolo l’Elio Gornara di p. 7, non vi ha fatto pensare al Passolungo del Cavallino Inalberato di Bree, forse è davvero ora di rileggere Il Signore degli Anelli:

A un tratto Frodo notò che un uomo dall’aria strana e dal viso segnato dalle intemperie, seduto in ombra vicino alla parete, seguiva attentamente i discorsi degli hobbit. Davanti a sé aveva un alto boccale di metallo e fumava una pipa dal lungo cannello curiosamente intagliato. Le gambe, che teneva allungate, mettevano in mostra un paio di stivaloni su misura di morbida pelle ma logori per l’uso e ora incrostati di fango. Un mantello di pesante panno verde scuro, che portava i segni del viaggio, lo avvolgeva stretto e, malgrado il caldo della stanza, portava un cappuccio che adombrava il viso.

Aragorn di Bakship. 60: Ancora Gheppio, del quale, a delinearne meglio la fisicità, leggiamo:

 Vederlo da vicino confermò la prima impressione: il naso aquilino e l’incarnato olivastro gli davano un aspetto amerindio. Le pupille nerissime contribuivano all’immagine d’insieme.

Questa, va detto, è più difficile; quanti però, di fronte al colorito dell’Aragorn del cartoon di Bakshi del 1978 (lo stesso anno del titolo del romanzo, sebbene questa sia davvero una coincidenza) non hanno pensato a un nativo americano?

Per chiudere su Gheppio, adesso che tutti ma proprio tutti ci sono arrivati, possiamo svelare che il cognome Gornara, peraltro credibilissimo, altro non è, fateci caso, che l’inverso di Aragorn (Gorn-ara <–> Ara-gorn). Era lì da p. 7, proprio sotto i nostri occhi.

p. 142: Vengono qui citate le parole dell’immaginario poeta pontremolese Pellegrino Gandolfi. Se il nome, riteniamo, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, il testo del suo accorato invito a reagire alla drammatica situazione creata dalla vicenda Moro, forse sì:

Dobbiamo affrontare il frangente con tanto coraggio quanta poca speranza. Perché può ben darsi che vada estinguendosi lo spazio per l’intelligenza critica e lo scandalo della poesia; sicché, dovessimo pur protrarre le nostre esistenze nel tempo a venire, non sarebbe comunque vita, non sarebbe avvenire. Ma il nostro dovere è questo, io credo. Camminare attraverso la terra di nessuno, affilando cuore e cervello, vergando parole che cerchino chiunque non voglia cedere all’insensatezza. Sempre meglio comunque che perire lo stesso – cosa che succederà senz’altro se accettiamo di schierarci in questo scontro – sapendo, mentre intruppiamo le nostre coscienze, che non ci sarà un nuovo giorno.

Se il nome era facile, questa era difficile. Oltre a quello, infatti, anche il testo riecheggia il Gandalf dell’ultima consulta:

Dobbiamo penetrare a occhi aperti in quella trappola, con coraggio, ma con poca speranza per noi. Perché, miei signori, può ben darsi che periremo tutti in una nera battaglia lontano dalle terre vive; talché, dovessimo pur rovesciare Barad-dûr, non vivremo per vedere una nuova era. Ma il nostro dovere, io ritengo, è questo. Sempre meglio comunque che perire lo stesso – cosa che succederà senz’altro se restiamo qui – sapendo, mentre moriamo, che non ci sarà una nuova era (RdR, V, IX).

p. 178: Prima di un intervento cruciale per una svolta della storia, compare qui la descrizione di chi si accinge a parlare:

Dal divano la voce di Rossella giunse limpida. Sedeva a gambe incrociate, le mani sul ventre e i capelli canditi di luce primaverile.

Ancora un piccolo omaggio a Ottavio Fatica, e al suo italiano sfidante e ricercato che tanto ha scandalizzato molti incluso chi, cambiata platea e microfono, lo accusava poi di banalizzazione del testo:

Un fulmine si ramificò piombando sulle alture orientali. Nella campitura d’un istante gli osservatori sulle mura videro tutto lo spazio tra loro e la Diga candito dalla luce: nel ribollio strisciavano nere sagome, alcune larghe e tozze, altre alte e truci, con grandi elmi e lugubri scudi (LdT, III, VII).

Ai meritevoli che trovano arricchente sfogliare il dizionario anziché lamentarsi della fatica di doverlo fare, risparmiamo con piacere la ricerca di “candire” – diretto derivato del latino candēre, “esser bianco” – che vuol dire “imbiancare”.

p. 261: Oltre a essere naturalmente un forestale, Secondo Marfari detto Astore, collega di Gheppio, ha due caratteristiche interessanti: è, dal nome, un secondogenito, e il suo cognome è l’anagramma di Faramir (a differenza di Gheppio il carattere non corrisponde, ma questa è un’altra storia).

p. 337: Milena Cravero, assistente universitaria di antropologia culturale “embedded” per motivi di ricerca nel G.R.U.C.A.T., “Gruppo ricercatori ufologi e clipeologi associati Torino”, riceve la tessera di Socio Onorario del Gruppo, sulla quale:

spiccava il simbolo del gruppo. Sette stelle, unite da un tratto leggero, a formare l’inedita costellazione del Disco Volante.

In altre parole, il simbolo di Elendil, o parte di esso, sulla tessera del serissimo (e serioso) gruppo di appassionati:

E tutti gli occhi seguirono il suo sguardo, ed ecco che sulla nave di testa eruppe un grande stendardo che il vento dispiegò mentre lo scafo virava verso lo Harlond. Ivi sbocciava un Albero Bianco, che stava per Gondor; ma era circondato da Sette Stelle e sormontato da un’alta corona, le insegne di Elendil che nessun signore portava ormai da anni incalcolabili (RdR, V, VI).

Una tessera esibita con orgoglio è a suo modo uno stendardo, dopo tutto.

p. 350: Questa, come già Forravalle, è per chi vuole vincere facile:

Girava però il nastro di un concerto alla festa tricolore di Poggio Tumulo, frazione del Comune di Marese (Lt).

Non crediamo sia necessario aggiungere altro, se non magari sottolineare il secondo piccolo omaggio a Ottavio Fatica, che ha introdotto il “marese” nel Signore degli Anelli (LdT, IV, II).

p. 384 “Rossella la Salvatrice espugna Thanur con la sua armata di devoti redivivi”. A dispetto del tono, che nel romanzo non è epico ma sarcastico e amareggiato, impossibile non notare in questa affermazione un’eco della Grigia Compagnia e dell’arrivo dei Fedifraghi alla battaglia di Pelargir.

p. 406: in una conversazione sul disimpegno e la voglia di sognare, troviamo:

– Però, – disse, mentre Milena si riempiva il calice – consideriamo il nocciolo di verità di questi discorsi sull’evasione. Un desiderio di fuga c’è, è innegabile. Io stesso, come ti dicevo, ho cominciato a sbattermene altamente del caso Moro coi suoi annessi e connessi. Semplificando, sono fuggito. Sono evaso. Perché la parola evasione viene usata con quel tono di condanna? A chi piace stare in prigione?

Abbiamo qui un’evidente omaggio, veicolato attraverso una “citazione a chiave”, al “manifesto” letterario tolkieniano per eccellenza:

Perché un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di uscirne e di tornare a casa? Oppure, se non lo può fare, se pensa e parla di argomenti diversi che non siano carcerieri e mura di prigione? Il mondo esterno non è diventato meno reale per il fatto che il prigioniero non lo può vedere. Usando Evasione in questo senso, i critici hanno scelto la parola sbagliata e, ciò che più importa, confondono, non sempre in buona fede, l’Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore (“Sulle Fiabe”).

pp. 430-431: L’uovo più grosso di tutto il cesto riguarda purtroppo un particolare del finale della storia, e qui l’allerta spoiler ci sta tutta anche se, come sopra anticipato, la cosa in definitiva non compromette la lettura più di tanto. Si tratta di questo passaggio:

Oltre quella fenditura c’erano dei gradoni. Parevano tagliati nella pietra e salivano verso l’alto. […] Giunse su una cornice stretta e la percorse senza guardare giù […] Infine si ritrovò in un piccolo slargo, un terrazzo naturale sulla costa della montagna. Una corona di massi e ginestre celava il posto alla vista dal basso; dall’alto invece, lo nascondeva l’inclinazione della parete.

Seguito poco dopo da quest’altro:

Il sole fece capolino. I raggi andarono a riflettersi in un punto preciso, producendo un bagliore metallico.

Nel frattempo, altrove:

Verso mezzogiorno, strisciando dietro una grossa pietra che si stagliava solitaria come una colonna, Bilbo si imbatté in quelli che sembravano grezzi gradini che salivano verso l’alto […] Silenziosamente, aggrappandosi alla parete rocciosa alla loro destra, avanzarono in fila indiana sulla cornice, fino a sbucare in un piccolo slargo chiuso da pareti scoscese, una radura d’erba immota e silente. Il suo accesso, che avevano trovato per caso, non si poteva vedere né da sotto, a causa della sporgenza della rupe, né da lontano, perché era così piccolo da sembrare una fessura nera e nulla più.

E poco dopo:

Poi, d’improvviso, quando le loro speranze stavano svanendo, un rosso raggio di sole sbucò come un dito da uno squarcio nelle nubi. Un fascio di luce solcò il varco nella rupe e colpì la parete liscia (Lo Hobbit, Cap. 11).

Il Quarzerone, già Thangorodrim a p. 42, diventa d’improvviso la Montagna Solitaria.

p. 442: Il cognome del maresciallo Mereo, come già quello del viceispettore Gornara, non è altro che un inverso, in questo caso di Éomer (Mer-eo <–> Éo-mer).

E questo, gente, è tutto, salvo eventuali uova sfuggite alla caccia. Da studiosi tolkieniani non possiamo che aggiungere di essere ben contenti che gli scritti del Professore affiorino e influenzino un romanzo decisamente “contemporaneo” quale UFO 78, con buona pace di chi pensa, o finge di pensare, che i Classici non abbiano più nulla da dire o, peggio, che per dirlo debbano essere “adattati” ai tempi.

 

DETTAGLI EDITORIALI
Autore: Wu Ming
Editore: Einaudi
Collana: Stile libero
Anno edizione: 2022
Formato: Tascabile
In commercio dal: 11 ottobre 2022
Pagine: 520 p., Brossura
EAN: 9788806248918

 

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Risposta a un articolo di Ivano Sassanelli

Claudio Testi - studio 2018PREMESSA

Nel suo documentato articolo “La tematica religiosa in Tolkien: analisi di alcune vie interpretative” (Mareghett A. – Sassanelli I., “Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”, Aracne, Roma, 2022 pp. 91-117), Ivano Sassanelli ancora una volta presta attenzione a Santi Pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien (ESD, Bologna, 2014). Qui, pur negli apprezzamenti, mi rivolge alcune critiche a cui mi sento obbligato a dare breve replica, in aggiunta a quanto già da me rilevato in un precedente articolo, convinto che il dibattito, se fatto in maniera seria, non pregiudizialmetne orientata e documentata è sempre utile

Nella prima parte del citato saggio Sassanelli afferma che nel dibattito sulla religione in Tolkien vi sono state due direttrici fondamentali: quella che considera l’opera di Tolkien Pagana e/o/aut Cristiana [par. 1.1 nel suo saggio] e quella che considera il suo mondo poco religioso perché vi vede un Dio immensamente lontano [1.2]. Egli poi [2] illustra quattro approcci alternativi, tra quali appare anche il suo, esposto ne Il Vangelo di Gollum e poi ribadito nella conclusione [3]). Santi Pagani è discusso soprattutto nella prima parte e parzialmente nella seconda.

PAGANO, CRISTIANO, CATTOLICO, RELIGIOSO

L’articolo esordisce con l’invito, del tutto condivisibile, a basare lo studio dell’opera tolkieniana soprattutto sui suoi testi di Tolkien (pp. 92-93), dopo di che, all’inizio del paragrafo 1.1, afferma:

“le aggettivazioni “pagana” e “cristiana”, non essendo mai state richiamate dall’autore come elementi descrittivi dei suoi racconti, risultano piuttosto essere prevalentemente (se non esclusivamente) tipiche del Mondo Primario, ossia del mondo dell’autore, del lettore e degli studiosi e mal si conciliano col Mondo Secondario della Terra di Mezzo in cui non sussistono, dal punto di vista religioso e storico, gli stessi presupposti riscontrabili nel “nostro mondo). Per queste motivazioni solo le “fonti”, i “principi generali” (poi esemplificati nel testo) o i “motivi particolari” (poi usati nella storia narrata) possono essere definiti o descritti come “pagani”, “cristiani”, “cattolici”, “moderni”, “pre–moderni”, “post–moderni”, “tradizionali” e cosi via. (“La tematica..”, p.93, corsivi aggiunti)

Sassanelli dice qui che è errato attribuire gli aggettivi di “cristiano” o “pagano” (così come quelli di “cattolico”, “moderno” ecc…: si veda la seconda frase) ai racconti di Tolkien in quanto:
a) l’autore non li ha mai usati
b) sono prevalentemente tipici del mondo primario.

Ovviamente una tale posizione implica una critica a Santi Pagani ove questi aggettivi vengono “massicciamente” usati perché si sostiene sostanzialmente che il mondo di Tolkien è specificamente pagano ma in armonia col cristianesimo e per questo la sua opera è cattolica (cfr. Santi Pagani, pp. 100-101).

Il principio sopra enucleato da Sassanelli è però molto “forte” e impegnativo da “sostenere”, anche alla luce dei alcuni testi tolkieniani, che Sassanelli, conosce bene e che correttamente ricorda:

Certamente qualcuno potrebbe osservare che Tolkien stesso nella lettera (n. 165) del giugno 1955 inviata alla Houghton Mifflin Co., ha affermato: ≪In ogni caso io sono cristiano; ma la “Terza Era” non era un mondo cristiano≫; oppure che nella bozza di lettera (n. 186) dell’aprile 1956 destinata a Joanna de Bortadano, egli scriveva: “La storia in realtà e la storia di cosa e accaduto nell’anno X a.C., e si dà il caso che sia accaduta a persone che erano in quel modo!” (“La tematica…”, p.96)

Per spiegare come la lettera 165 non contraddica il principio proposto da Sassanelli, secondo il quale l’aggettivo “cristiano” non è stato richiamato dall’autore per descrivere i suoi racconti, scrive:

In primo luogo nella lettera del 1955, Tolkien ha affermato la non cristianità della Terza Era come risposta tanto al rischio dell’allegoria quanto alle critiche secondo cui nel suo racconto non era presente la religione. Ciò ha condotto l’oxoniense a sottolineare che il suo Legendarium era stato impostato su un mondo monoteista di “teologia naturale” (“La tematica…”, p. 97, corsivi aggiunti)

Un rilievo giusto questo di Sassanelli, che però non mi pare riesca a “parare il colpo”. Che Tolkien affermi che il suo è un mondo non cristiano in cui però è presente un monoteismo basato sulla teologia naturale, non toglie il fatto che egli stesso usi l’aggettivo “cristiano” per caratterizzare ciò che un suo racconto non è1.

Sassanelli in merito considera anche un’altra lettera “problematica”, la 142, ove Tolkien come noto afferma che “Il SDA è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica”. Da ciò infatti segue ovviamente che “il SDA è un’opera cattolica”, ma anche che è un’opera “cristiana”, dato che il cattolicesimo è una certa interpretazione del cristianesimo. Per evitare l’inferenza Sassanelli spiegherà che questi aggettivi vanno riservati alle fonti e non all’opera, ma anche facendo ciò non riuscirà a evitare una contraddizione (cfr. sotto IV.).
Inoltre, non si capisce perché, mentre “pagano” e “cristiano” non si possono applicare ai racconti di Tolkien in quanto tipici del mondo primario, Sassanelli poi applichi ai medesimi racconti gli aggettivi “religioso” (cfr. sotto IV), “monoteista” e “di teologia naturale” che sono anch’essi tipici del Mondo Primario. In questo senso l’applicazione inversa (che rimprovera, peraltro correttamente, al mio approccio: si veda la citazione sotto riportata al paragrafo III) è a mio avviso inevitabile: è infatti impossibile studiare un’opera senza approcciarla e qualificarla con termini usati in primis per il nostro mondo.

Per questo il seguente rilievo, che nega la qualifica di accademico a una marea di studi tra cui, oltre al mio, anche quelli di Shippey, Flieger e… di Tolkien medesimo, è molto discutibile:

Ciò implica che in nessun caso, soprattutto in un contesto di riflessione accademica, la Terra di Mezzo può essere associata a un periodo storico e a un mondo “pagano”, “precristiano”, “cristiano”, “cattolico”, “moderno” o “pre–moderno” che sia. (“La tematica…”, p. 103)

DIO, NATURALE E SOPRANNATURALE

Nella parte 1.2 del suo saggio Sassanelli esamina poi il filone che vede la lontananza e quasi l’assenza di Dio nelle vicende della Terra di Mezzo (p.103 ss.). Qui gli autori di riferimento sono soprattutto Shippey, Flieger e Wu Ming 4, ma si accenna ancora a Santi Pagani:

Una delle problematiche più evidenti di quest’ultima impostazione, riguarda il fatto che ogni affermazione, da parte di critici e studiosi, circa l’intervento diretto di Dio, dei Valar o di qualsivoglia entità soprannaturale nel Mondo Secondario dell’oxoniense, risulterebbe, di per ciò stesso, una “cristianizzazione dell’opera tolkieniana”.
Ciò, però, come si vedrà nelle pagine seguenti, non può essere condiviso in quanto le categorie concettuali di “naturale” e “soprannaturale” — la cui esistenza, compresenza e correlazione costituiscono l’ossatura dell’essenza “religiosa” della narrativa tolkieniana e segnatamente de Il Signore degli Anelli — non possono essere equiparate a quelle di “pagano” e “cristiano”, in quanto, come detto in precedenza, e come evidenziato dalle stesse parole di Testi quando afferma “Tenendo ben ferme le distinzioni e definizioni sopra espresse e applicandole all’opera tolkieniana” (corsivo nostro), questa eguaglianza e quest’accostamento sono da identificarsi non tanto come un’interpretazione delle opere del Professore ma, piuttosto, come una semplice “applicazione” (da noi definita inversa) al Mondo Secondario tolkieniano di concetti tipici del Mondo Primario e del tutto estranei alla Terra di Mezzo. A voler usare le parole di Tolkien si potrebbe dire che le ossa del bue portano con se questi attributi del Mondo Primario — in quanto da esso derivano — ma una volta che esse entrano nel calderone della narrazione del Mondo Secondario, la minestra che ci viene ammannita dall’autore non può più avere le stesse categorie del Mondo Primario, pena vedere realizzata una “applicazione inversa”” (“La tematica…”, p. 106, corsivi aggiunti)

Il brano mi offre l’opportunità di chiarire un punto di Santi Pagani che da qualcuno è stato frainteso, ovvero quello della relazione tra l’esistenza di Dio e il paganesimo. A volte ho l’impressione che chi legge Santi Pagani consideri “paganesimo” sinonimo di “ateismo”. Nel mio libro ho invece chiaramente detto che il paganesimo non implica l’ateismo (Santi Pagani pp. 135-136) e che anzi l’esistenza di Dio è un contenuto proprio della cultura pagana, come attesta ad esempio l’opera pagana di Aristotele, che arriva a dimostrare l’esistenza di un motore immobile (Santi Pagani, p. 133). Il concetto di “paganesimo” inteso come inconciliabile col cristianesimo e negante la trascendenza di Dio è invece propria degli approcci di Curry e Madsen, che io critico aspramente (Santi Pagani pp. 49 sgg.)2. Per questo, almeno per quanto riguarda la mia prospettiva, non è vero, come dice Sassanelli, che un intervento di Dio implica la cristianizzazione di un’opera. Eru nel Legendarium è una presenza innegabile e quando Tolkien, vuol dirci che Eru fa qualcosa, lo scrive chiaramente senza alcun bisogno di trovare significati nascosti tramite complicate interpretazioni dei suoi testi, come ben si vede nell’affondamento di Nùmenor:

Ilùvatar però sfoderò il proprio potere, mutando la faccia del mondo; e un grande abisso si spalancò nel mare tra Nùmenor e le Terre Imperiture, e le acque vi si precipitarono, e il frastuono e il fumo delle cateratte salì al cielo, e il mondo ne fu scosso. E tutte le flotte dei Nùmenóreani furono trascinate nell’abisso, dove si sprofondarono e vennero per sempre inghiottite (Il Silmarillion, Akallabéth, corsivi aggiunti)

Questo però non implica che allora il Silmarillion sia cristiano. Ripeto: la presenza e l’intervento di Dio sono presenti anche nella cultura pagana e non sono specifici di quella cristiana. Quello che è invece è specifico di questa cultura e che riguarda quello che io indico come piano soprannaturale e frutto di una rivelazione a cui l’uomo, con le solo forze della ragione non può accedere, è ad esempio la Uni-Trinità di Dio, e la sua incarnazione-morte-resurrezione et similia (Santi Pagani p. 96). Ecco perché è vero che in Santi Pagani si propone una equivalenza tra pagano-naturale e cristiano-soprannaturale: ma questa è una semplice questione di vocabolario, per quanto non gratuita, e ogni autore può usare certe “definizioni” nella misura in cui le spieghi chiaramente (cfr. Santi Pagani, pp. 96-99).
Proprio su questa terminologia ho l’impressione che tra me e Sassanelli vi sia un fraintendimento. Quando afferma che l’armonia tra naturale e soprannaturale sia interna ai racconti di Tolkien, mi pare infatti che consideri “soprannaturale” come sinonimo di “Divino” o in qualche modo “legato a Dio”. Dice ad esempio:

Infatti la letteratura tolkieniana può essere, a giusta ragione, definita una “divine narrative” oppure un “De vera religione” narrativo in cui la presenza del “religioso” (ossia del dialogo tra “naturale” e “soprannaturale”) risulta continua, seppur in molti casi non direttamente ed esplicitamente percepibile. (“La tematica…”, p. 115)

Se così stanno le cose, allora anche io accetto questo discorso senza problemi. E questo discorso è compatibilissimo con la prospettiva di Santi Pagani in cui, ripeto, “soprannaturale” indica ciò che è specifico della rivelazione giudaico-cristiana.

CONTRADDIZIONE E CONCLUSIONE

Mi pare infine che la proposta di Sassanelli abbia al suo interno una contraddizione perché:
Da un lato afferma che l’aggettivo “cristiano”, pagano”, “cattolico” non possono essere usati per caratterizzare l’opera di Tolkien perché usati principalmente per il mondo primario. Per questo egli dice che al limite possono essere usati per caratterizzare le fonti dell’opera di Tolkien (le ossa del bue: cfr. supra II)
Dall’altro, oltre a non dare una convincente spiegazione delle lettere 165 e 142 e della differenza tra “pagano” e “religioso” rispetto allo loro origine nel mondo primario (cfr. supra II.), dice esplicitamente delle narrazioni di Tolkien che:

Tali opere sono:
a) “Religiose” (nella narrazione);
b) “Cattoliche” (nelle fonti);
c) “Santificate” (nella loro essenza eucatastrofica). (“La tematica…”, p. 115)

Ora, se come scrive Sassanelli le “opere [di Tolkien] sono Cattoliche nelle fonti”, ne segue banalmente che sono Cattoliche almeno sotto un certo aspetto, e quindi sono Cattoliche e anche “Cristiane” (cfr. supra II.). Allo stesso modo, se io sono modenese nelle origini, allora sono anche “genericamente” modenese, come lo è chi è modenese per adozione, e sarà anche vero che entrambi siamo italiani. Ecco che quindi Sassanelli usa l’aggettivo “Cattolico” (e quindi “Cristiano”: cfr. supra II) proprio per caratterizzare l’opera di Tolkien (la minestra, e non le ossa), contraddicendo così il principio da lui enucleato (II). Per evitare questa aporia, Sassanelli avrebbe invece dovuto scrivere che “le fonti dell’opera di Tolkien sono cattoliche”: ma questo fatto banalmente vero, dovrebbe essere enunciato unitamente a un altro fatto, pure questo banalmente vero, in base al quale “le fonti delle opere di Tolkien sono (anche) pagane”, cosa che invece Sassanelli non fa.

Concludendo, la proposta di Sassanelli, il cui contenuto è molto argomentato e ben documentato, continua a non apparirmi, specie nelle intuizioni più profonde, in antitesi con la prospettiva di Santi Pagani, la cui più semplice articolazione evita però molte complicazioni e pericolose contraddizioni.

 

NOTE

1 Sorvolo sulla spiegazione della lettera 186 perché a mio avviso qui non si dice altro se non che l’ambientazione era fatta in un’epoca anteriore alla nascita di Cristo.
2 Mentre scrivo queste note leggo il medesimo fraintendimento nel libro di Giuseppe Scattolini (Guidami Luce Gentile, L’Arco e la Corte, 2022), che equipara la mia posizione a quella della Madsen (Guidami…, p. 235) e ritiene che per me la verità pagana sia più ampia di quella cristiana (p. 193), cosa che esplicitamente nego citando anche Newman (Santi Pagani p. 175) che invece secondo Scattolini ribalta la mia posizione. Per questo non caspico bene perché egli mi rimproveri di non aver riportato il nome dell’oratorio “S.Filippo Neri” quasi volessi occultare qualcosa (Guidami…, p. 179 nota 518). Né in Santi Pagani si trova affermato che i piani naturale e soprannaturale sono separati o che il primo non sia originariamente ordinato al secondo, come invece mi fa dire Scattolini opponendomi a Danielou (Guidami…, p.233). Distinguere infatti non significa separare o dividere estrinsecamente: io del resto condivido la lezione teologica di De Lubac sul nesso tra naturale e soprannaturale (Santi Pagani p. 169, 175) e dico esplicitamente che “tra il piano della Natura e quello della Sopra-Natura non c’è separazione ma profondo legame” (Santi Pagani, p. 107) e che secondo il cattolicesimo i due piani “risultano essere non separati” (p.166).

DOCUMENTI
– Leggi la recensione su The Journal of Inklings Studies
– Leggi la recensione su Hither Shore

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– Leggi l’articolo Santi pagani, la recensione di Wu Ming 4 (1 parte)
– Leggi l’articolo Santi pagani, la recensione di Wu Ming 4 (2 parte)

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della Walking Tree Publishers
– Vai al sito di Journal of Tolkien Research

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Spigolature da Tolkien: la recensione di Testi

Logo "Letto & Commentato"Recensione a: Vink, René, Gleanings from Tolkien’s Garden. Selected Essays, Uitgeverij IJmond, Beverwijk, Netherlands, 2020

Renée VinkQuesto volume raccoglie alcuni degli scritti di una tra la più competenti e profonde conoscitrici dell’opera di J.R.R. Tolkien. Per questo la pubblicazione dell’antologia va accolta con grande gioia e riconoscenza. La gioia deriva dal fatto di poter avere in un solo testo degli articoli sempre interessantissimi, la cui lettura complessiva riesce a farci cogliere il “timbro” inconfondibile dell’opera di Reneé Vink. La riconoscenza va non solo verso l’editore, ma verso la stessa autrice, che instancabilmente ha esplorato come pochi altri i tanti e differenti aspetti dell’opera tolkieniana. La raccolta, come spiega anche Jan van Breda nella sua pregevole introduzione, è infatti opportunamente divisa in quattro sezioni, che rendono giustizia del percorso critico della Vink:
Translation: raccoglie due saggi sulla traduzione in olandese del Signore degli Anelli (Vink è infatti anche traduttrice in olandese di moltissime opere di Tolkien), più un articolo su Tolkien come traduttore;
Elvish Affairs: questa sezione è più orientata alla “tolkienologia” nel senso che i contributi esaminano nei minimi dettagli alcune tematiche essenzialmente legate alla storia e alla genesi di alcuni personaggi del legendarium;
Tolkien and some Women Authors si compone di tre saggi i cui l’autore del Lord of the Rings è messo a confronto con, rispettivamente, Dorothy Sawyers, Simon de Beauvoir e A.S. Byatt;
Varia è l’ultima sezione che raccoglie articoli dedicati ai nani, alla fan-fiction e a Wagner.

L’indice

Vale la pena riportare per intero l’indice, perché già solo la lettura dei titoli degli articoli può rendere bene il “tono” dell’intero volume.
Translations
– In de ban van de Ring: Old and New Fashions of a Translation
– A Somewhat Bumpy Ride: Max Schuchart’s Translation of the Poetry in The Fellowship of the Ring
– J.R.R. Tolkien, Translator of The Red Book: A Look at His Views, His Methods and His Work
Elvish affairs
– The Wise Woman’s Gospel: Some Thoughts about ‘The Athrabeth Finrod ah Andreth’
– The Parentage of Gil-galad: A Textual History
– Human-Stories or Human Stories: Investigating a Remark in ‘On Fairy Stories’
– Glorfindel’s Body: The Fate of a Self-sacrificing Elf
Tolkien and some women authors
– The Image of the Maker: J.R.R. Tolkien and Dorothy Sayers
– Immortality and the Death of Love: J.R.R. Tolkien and Simone de Beauvoir
– The Name of the Tree – Mythopoeia and the Garden of Proserpina: J.R.R. Tolkien and A.S. Byatt
Varia
– ‘Jewish’ Dwarves: Tolkien and Anti-Semitic Stereotyping
– Fanfiction as Criticism: The Possibilities of Fan-made Stories
– Creating Free Agents: Wagner and Tolkien Revisited

Traduttori: Renée VinkEssendo impossibile riassumere e esaminare tutti i contributi, preferisco qui concentrarmi su un solo articolo per sezione, nell’intento di invitare ognuno alla lettura completa della raccolta. La grande competenza di Renée Vink come traduttrice e studiosa di Tolkien emerge con particolare forza dal terzo articolo della prima sezione, che ha un titolo e un contenuto per certi aspetti provocatorio. Vink qui compie un’operazione davvero elegante e intelligente, mettendo in contrapposizione Tolkien come traduttore del Beowulf e come traduttore dell’inesistente Red Book. La studiosa all’inizio dell’articolo illustra alcune strategie traduttive e elenca, sempre basandosi sui testi tolkieniani, le cinque regole che usa Tolkien nel tradurre il Beowulf. Vink poi spiega come in una traduzione si possa prediligere una resa che tenda alla domestication o alla foreignisation, Ad esempio, in italiano è uso dire “rosso come un pomodoro”, mentre in inglese l’oggetto “rosso” per eccellenza è piuttosto il “beetroot” o “lobster” (barbabietola o aragosta). Una scelta di “domesticazione” tradurrebbe “red as a beetroot” mentre la foreignisation preferirebbe “red as a tomato” (p. 49). Vink poi mostra con dovizia di testi e argomenti che Tolkien quando traduce il Beowulf preferisce la seconda opzione, mentre quando traduce il Red Book opta per la domestication (ad esempio traduce “Kalimac” con Meriadoc: p. 50). In quest’ottica vengono anche parzialmente spiegati alcuni anacronismi (“clock”, “tea”, “express train”) presenti in The Lord of the Rings e ne The Hobbit, che vengono interpretati come domestication da parte del traduttore Tolkien. (pp. 56-58). Per Vink dunque «Tolkien, un traduttore esperto, ha formulato una serie di idee sulla traduzione nel suo saggio sulla traduzione di Beowulf. In esso, sembra preferire le strategie traduttive alla foreignisation rispetto alla domestication, sebbene la sua posizione non sia affatto estrema. Questa preferenza è confermata da una lettera che discute la traduzione dei suoi nomi della Contea e degli Hobbit in una lingua straniera, l’olandese, contro la quale si è fortemente opposto. Questa posizione si rivela insostenibile in pratica, a causa della sua presunzione che sia Lo Hobbit che Il Signore degli Anelli fossero stati tradotti dal libro rosso di Westmarch. Renée VinkQueste traduzioni evidenziano tendenze fortemente anglicizzanti per quanto riguarda i nomi personali e i toponimi e in questo senso sono ovviamente “addomesticanti”, il che suggerisce una strategia addomesticante per le traduzioni straniere di The Lord of the Rings per quanto riguarda i nomi hobbit» (p. 60).
Nella sezione Elvish Affairs l’articolo che meglio mostra le qualità e particolarità di Reneé Vink è probabilmente il primo, che esamina con vera partecipazione e indubitabile competenza sull’Athrabeth Finrod ah Andreth, su cui si tornerà anche dopo. Nel testo, tra le altre osservazioni, si contrappone Andreth a Turin, ma anche a Luthien perché «Per me, la fine di Athrabeth suona più promettente della conclusione de La storia di Aragorn e Arwen ne Il Signore degli Anelli (Appendice A). Arwen, avendo scambiato la vita degli Eldar per la mortalità a causa del suo amore per un mortale, ottiene un’improvvisa intuizione della disperazione umana di fronte alla morte del suo amato» (p. 77). La studiosa sottolinea anche il carattere “problematico” del dialogo, che pare fare entrare contenuti esplicitamente cristiani nel legendarium e in cui si tratteggia lo scenario di Arda Rifatta ove le sub-creazioni sembra che verranno in qualche modo completamente realizzate, similmente al celebre albero di Niggle (pp. 79-81). In quest’ottica le problematiche relazioni tra morte/amore e tra creazione/subcreazione mi sembrano centrali nella riflessione della Vink, visto che tornano praticamente in quasi tutti i saggi seguenti, da “Human-Stories or Human Storie” ai saggi su Sawyers e Byatt fino a “Fanfiction as criticism” (cfr. p.131).
Wagner e TolkienMa l’articolo che forse meglio affronta con straordinaria profondità queste tematiche è “Immortality and the Death of Love: J.R.R. Tolkien and Simone de Beauvoir”, contenuto nella terza sezione. Qui Renée Vink sostiene, in modo prudente e documentato, che forse l’Athrabeth è stato scritto su ispirazione di (e in contrapposizione a) Tuot les hommes sont mortels di Simon de Beavoir, tradotto in inglese nel 1955, pochi mesi prima dell’inizio della redazione del dibattitto tra Finrod e Andreth: «Ora vorrei davvero suggerire che la lettura di AMM [Tutti gli uomini sono mortali] abbia ispirato Tolkien a scrivere Athrabeth. Ma il professore era notoriamente contrario ad ammettere qualsiasi influenza; a suo avviso identificare gli ingredienti che entrano nel calderone della storia dice poco sul gusto effettivo della zuppa. (Albero e Foglia, 23)» (p. 150). Gli argomenti che porta la Vink a sostegno della sua tesi sono molto convincenti ed esegeticamente fondati; in ogni caso l’afflato con cui affronta le tematica sono sicuro indice di grande intelligenza e sensibilità. Chiude l’ultima sezione (e dunque l’intero volume) un saggio in cui l’autrice ritorna sulla materia wagneriana, della quale è riconosciuta essere la massima esperta avendo scritto il miglior libro completamente dedicato a Wagner and Tolkien (WTP, 2012); in questo articolo finale si tematizza di nuovo la subcreazione, questa volta in relazione alla possibilità o meno di produrre agenti liberi (desiderio questo proprio di Melkor, Aulë e Wotan).

Conclusione

Concludo questa mia recensione raccomandando vivamente a tutti gli appassionati e gli studiosi di Tolkien la lettura completa di questa pregevolissima raccolta, al termine della quale si uscirà sicuramente ricolmi di informazioni e contenuti profondi, gioveranno grandemente sia al cuore che all’intelletto di tutti coloro che amano l’opera tolkieniana.

 

RECENSIONI

Cover recensioni– Tolkien, Rischiarare le tenebre: la recensione
– Leggere insieme ISdA: la recensione di Testi
– Tolkien e i Classici: quante belle recensioni estere di Roberto ArduiniGiampaolo Canzonieri e Claudio A. Testi (Walking Tree Publishers, 2019)
– Tolkien: Il creatore della Terra di Mezzo – la recensione di Catherine McIlwaine (Mondadori, 2020)
– Recensione: Tolkien e il Vangelo di Gollum (prima parte)  e (seconda parte) di Ivano Sassanelli (Cacucci Editore, 2020)
– Recensione: Colui che raccontò la grazia di Mauro Toninelli (Cittadella Editrice, 2019)
– Recensione: Tolkien’s Library di Oronzo Cilli (Luna Press, 2019)
– Recensione: Eroi e mostri Il fantasy come macchina mitologica di Alessandro Dal Lago (Il Mulino, 2017)
– Recensione: Beren e Lúthien di JRR Tolkien (Bompiani, 2017)
– Recensione: Due recensioni “italiane” nei Tolkien Studies
– Recensione: Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli (Il Cerchio Editore, 2016)
– Recensione: J.R.R.Tolkien l’esperantista curato da Oronzo Cilli (Cafagna Editore, 2015)
– Recensione: Tolkien e i Classici a cura di Roberto Arduini, Cecilia Barella, Giampaolo Canzonieri, Claudio A. Testi (Effatà Editrice, 2015)
– Recensione: Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 2011)
– Recensione: Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher (Bompiani, 2011).
– Recensione: L’eroe Imperfetto di Wu Ming 4 (Bompiani, 2010).
– Recensione: Salvare le apparenze di Owen Barfield (Marietti 1820, 2010)
– Recensione: Arda Reconstructed. The Creation of The Published Silmarillion di Douglas C. Kane (Lehigh University Press, 2009)
– Recensione: Tolkien, Race and Cultural History. From fairies to Hobbits di Dimitra Fimi (Palgrave MacMillan, 2009)
– Recensione: A question of time: J.R.R. Tolkien’s Road to Faërie di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 1997)
– Recensione: Il Silmarillion di JRR Tolkien (Rusconi 1978)

FOCUS SANTI PAGANI

Libri: "Santi pagani" di Claudio Testi– Recensione: Santi pagani nella Terra di Mezzo
– Leggi l’articolo Santi pagani, la replica di Wu Ming 4 (2 parte)
– Recensione: Santi Pagani: le recensioni all’estero
– Leggi l’articolo Santi Pagani, ecco il carteggio Monda-Testi
– Leggi l’articolo Claudio Testi replica su Provvidenza e “Destino”
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Fede&Cultura
– Vai al sito web dei TolkienLab
– Vai al sito web dell’Istituto Filosofico di Studi Tomistici
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Leggere insieme ISdA: la recensione di Testi

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Recensione a: Nardi Paolo, Leggiamo insieme il ‘Signore degli Anelli’, Fede&Cultura, Verona, 2020 pp.174.

Premessa

L’indice del volume coincide praticamente con l’indice del Signore degli Anelli perché in questo ottimo libro l’autore commenta brevemente capitolo per capitolo (Prologo e appendici incluse) il capolavoro di J.R.R. Tolkien. Questa semplice idea è però estremamente efficace perché aiuterà chi ha letto il Signore degli Anelli almeno una volta a capirne meglio tutta la profondità.

Pregi del volume

Libro Paolo NardiSul piano formale il libro è scritto in un linguaggio chiaro e non specialistico, e questo lo rende particolarmente piacevole alla lettura. Questa accessibilità però non va scambiata per superficialità. Nardi infatti dimostra di aver ben presenti tutti i testi fondamentali di critica tolkieniana, e nei singoli capitoli egli cita gli autori proprio dove le loro tesi riescono a far meglio apprezzare il contenuto del brano commentato.
Altro merito non banale del libro è che l’autore, peraltro cattolico così come lo è la casa editrice, sta ben lontano dalle letture allegorizzanti e confessionaliste che, volendo vedere a ogni riga riferimenti cristiani espliciti, non colgono la profondità e complessità del testo tolkieniano.
Venendo ai contenuti, segnalo qui solo alcuni punti particolarmente significativi, che mostrano il valore del libro.
– la canzone The Road goes ever on viene esaminata nelle sue quattro versioni disseminate nel vari capitoli del SDA, e se ne mettono in luce le principali, seppur sottili, differenze
– si sottolinea come la nostalgia elfica per un passato, effettivamente più luminoso, sia il loro enorme limite, con buona pace delle letture “Tradizionaliste” (con la “T” rigorosamente maiuscola) tipiche di un certo approccio italiano che appare sempre più inadeguato (p. 30; cfr. p.45).
– nell’episodio della “Vecchia Foresta” si dice che gli Hobbit, ben lungi da essere dei convinti ecologisti, hanno in passato bruciato diversi alberi e questo spiega (come notò Verlyn Flieger) la reazione delle Vecchia Foresta all’arrivo di Frodo & Co. (p. 35)
– Nardi nota come Tolkien volutamente non dice esplicitamente cosa ha spinto Frodo, durante il Consiglio di Elrond, a farsi avanti per portar l’Anello, in modo da lasciare aperte diverse possibilità interpretative: è stato mosso dall’Anello, da Eru o dall’inconscio? (p. 55)
– Ne “Il Grande Fiume” si cita il discorso di Legolas sullo scorrere del tempo per gli elfi, uno dei pochi ma fondamentali punti nel Signore degli Anelli in cui tematizza esplicitamente il conflitto tra morte e immortalità (p. 69)
– molto correttamente Nardi descrive Barbalbero come un vero e proprio filologo in senso tolkieniano, dato che per lui storia e nomi di fatto coincidono (p.83)
– quando parla dei Cavalieri di Rohan (sia al Fosso di Helm che nella loro cavalcata a Gondor) Nardi mette in luce come questi incarnino lo spirito nordico, che per Tolkien ha anche una aspetto molto negativo radicato nella idea di “soverchiante orgoglio” (ofermod: p.91)
– Nel “Viaggio al crocevia” si dice come l’incontro con le rovine serva per dare alla storia quel senso di profondità così caro a Tolkien (p.113)
– Nell’episodio della distruzione dell’Anello l’autore non manca di notare come Frodo “non-sceglie di fare” ciò che doveva, il che è ben diverso del “scegliere di non–fare”: lo hobbit così rinuncia alla scelta per farsi soggiogare dall’Anello, che infatti è incompatibile col libero arbitrio, così fondamentale per il cattolicesimo e per Tolkien medesimo (p. 150 cfr. p. 137)
– infine, nei “Grigi Approdi” si sottolinea che la tragica figura di Frodo è da considerarsi un vero e proprio reduce di guerra disadatto alla Contea, che infatti ammette che è stata salvata “not for me” (che Fatica traduce con “non per me”, correggendo la fuorviante precedente traduzione che riportava “non per merito mio”: p. 166).

Limiti

Paolo NardiIl libro nasce per essere semplice e accessibile, e quindi non sarebbe corretto indicare tutto quello che qui non si trova per capire il Signore degli Anelli. Mi permetto qui di segnalare solo un paio di punti che potrebbero essere migliorati:
– quando si parla dell’Anello, e si nega (giustamente) che Tolkien non lo considerava un’allegoria della bomba atomica, Nardi afferma che «se anche l’Anello fosse la bomba atomica perché rappresenterebbe l’arma definitiva […] il romanzo ci metterebbe comunque in guardia dall’impiegarla a fini bellici, perché non può esistere un buon motivo per farlo» (p. 25). Dalla frase sembra supporre che la bomba atomica (che si ipotizza nel brano identica all’anello) si potrebbe usare per fini non bellici, qualora ci siano buoni motivi. Ebbene, non è così: Signore degli Anelli insegna proprio che in nessun caso si può usare l’Anello, e che l’uso è sempre in sé negativo, da cui segue che l’unica cosa da fare è distruggerlo il prima possibile.
– quando Nardi descrive lo scontro tra Uruk-hai di Saruman e orchi di Mordor, descrive Ugluk come un «bestione privo di cervello che vuole solo comandare». In realtà, Ugluk è colui che per cieco senso del dovere obbedisce rigorosamente agli ordini, e quindi lo scontro tra schieramenti esemplifica un più profondo conflitto tra dovere e interesse personale (non a caso Ugluk è il personaggio preferito da Tom Shippey).
– infine, mi permetto di indicare come mancanza il non aver segnalato nel capitolo “Molti incontri” che qui Tolkien offre una dettagliata descrizione di quello che per lui è un Faërian Drama: questo accade a Frodo quando viene praticamente immerso e sommerso quasi fisicamente dal canto elfico nel salone del fuoco.

Conclusione

Leggere insieme ‘Il Signore degli Anelli’ – che verrà Il volume sarà presentato nel prossimo TolkienLab, mercoledì 24 Febbraio 2021, ore 20.45 alla presenza dell’autore – è una piccola perla nella bibliografia italiana su Tolkien, che mi sento di consigliare a tutti coloro che hanno letto SDA da una a venti volte e più: chi sta nella prima fascia potrà così iniziare a vederne meglio la ricchezza, chi sta nella seconda (e magari ha fatto qualche lettura critica) leggerà il testo di Nardi con avidità perché gli sembrerà di rivivere in sole 174 pagine la grandezza del capolavoro di J.R.R. Tolkien.

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RECENSIONI

Cover recensioniTolkien e i Classici: quante belle recensioni estere di Roberto Arduini, Giampaolo Canzonieri e Claudio A. Testi (Walking Tree Publishers, 2019)
Tolkien: Il creatore della Terra di Mezzo – la recensione di Catherine McIlwaine (Mondadori, 2020)
– Recensione: Tolkien e il Vangelo di Gollum (prima parte)  e (seconda parte) di Ivano Sassanelli (Cacucci Editore, 2020)
– Recensione: Colui che raccontò la grazia di Mauro Toninelli (Cittadella Editrice, 2019)
– Recensione: Tolkien’s Library di Oronzo Cilli (Luna Press, 2019)
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– Recensione: Beren e Lúthien di JRR Tolkien (Bompiani, 2017)
– Recensione: Due recensioni “italiane” nei Tolkien Studies
– Recensione: Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli (Il Cerchio Editore, 2016)
– Recensione: J.R.R.Tolkien l’esperantista curato da Oronzo Cilli (Cafagna Editore, 2015)
– Recensione: Tolkien e i Classici a cura di Roberto Arduini, Cecilia Barella, Giampaolo Canzonieri, Claudio A. Testi (Effatà Editrice, 2015)
– Recensione: Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 2011)
– Recensione: Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher (Bompiani, 2011).
– Recensione: L’eroe Imperfetto di Wu Ming 4 (Bompiani, 2010).
– Recensione: Salvare le apparenze di Owen Barfield (Marietti 1820, 2010)
– Recensione: Arda Reconstructed. The Creation of The Published Silmarillion di Douglas C. Kane (Lehigh University Press, 2009)
– Recensione: Tolkien, Race and Cultural History. From fairies to Hobbits di Dimitra Fimi (Palgrave MacMillan, 2009)
– Recensione: A question of time: J.R.R. Tolkien’s Road to Faërie di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 1997)
– Recensione: Il Silmarillion di JRR Tolkien (Rusconi 1978)

FOCUS SANTI PAGANI

Libri: "Santi pagani" di Claudio Testi– Recensione: Santi pagani nella Terra di Mezzo
– Leggi l’articolo Santi pagani, la replica di Wu Ming 4 (2 parte)
– Recensione: Santi Pagani: le recensioni all’estero
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LINK ESTERNI:
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Tolkien e i Classici: quante belle recensioni

Queen's College OxfordCon grande piacere e soddisfazione diamo notizia di una serie di recensioni all’estero che accolgono in maniera positiva l’antologia Tolkien and the Classics (30 euro – 245 pp.), versione in inglese del progetto in due volumi pubblicati da Eterea Edizioni nel 2018-2019. Il volume è stato poi tradotto e pubblicato il 7 agosto 2019 dalla Walking Tree Publishers come numero 42 della sua collana Cormarë Series, a cura di Roberto Arduini, Giampaolo Canzonieri e Claudio A. Testi.
Cover: Tolkien and the ClassicsTutte le recensioni sono apparse su riviste specializzate britanniche e statunitensi e sono positive, a ulteriore dimostrazione di come il livello degli studi italiani, dopo anni di autarchia e provincialismo, abbia ormai raggiunto una dignità riconosciuta anche dai maggiori esperti all’estero. Le recensioni si aggiungono alla lunga serie di elogi che hanno accolto le altre produzioni “italiane” all’estero, cioè la traduzione inglese di due volumi della collana Marietti: La Falce Spezzata (The Broken Scythe), Tolkien e la Filosofia (Tolkien and Philosophy) e del libro Santi pagani nella Terra di Mezzo (Pagan Saints in Middle-earth) di Claudio A. Testi, oltre alle numerose conferenze tenute dai membri del Comitato Scientifico della collana “Tolkien e Dintorni” tenuti in Inghilterra, Francia, Germania e Stati Uniti a partire dal 2005.

Le recensioni

Luke SheltonLa prima recensione in ordine temporale a essere pubblicata è stata quella di Luke Shelton, dell’università di Glasgow, apparsa su Journal of Tolkien Research (Vol. 8: Iss. 1, Article 7, 2019), in cui viene elogiato l’iniziativa di «offrire una pubblicazione che possa piacere, e che possa essere utile, sia agli studenti sia ai professori», passa in rassegna alcuni dei saggi che compongono l’antologia, rilevandone pregi e difetti e infine conclude dicendo che «Tolkien e i Classici è un testo utile da avere quando si insegna in un corso di studi su Tolkien che si focalizza sulla critica testuale o sulla storia culturale poiché aiuta a presentare le influenze di altri scrittori su Tolkien e le idee che stavano circolando tra gli autori a lui contemporanei. È un volume accessibile a un ampio pubblico e la ricerca presentata è attendibile. Può essere un utile strumento anche per gli studiosi neofiti che vogliono avere una fonte che fornisca una veloce panoramica delle relazioni di Tolkien con altri eminenti autori».
Scarica e leggi la Recensione a Tolkien and the Classics su Journal of Tolkien Research

Studiosi: Edward L. RisdenLa seconda recensione, ancor più lusinghiera, è di Edward L. Risden, professore di letteratura inglese al St. Norbert College (Du Pere, Wisconsin) e studioso tolkieniano con all’attivo un volume di critica (Tolkien’s Intellectual Landscape) e diversi contributi pubblicati in antologie accademiche. La sua recensione a Tolkien and the Classics è comparsa sul Journal of Inklings Studies del 2020 (n. 10.1, pp. 72–110) e trova positivo il fatto che «in felice collaborazione con l’editore Walking Tree, i curatori hanno cercato di portare i frutti di una cooperazione italiana al pubblico anglofono». Il recensore è particolarmente sensibile a questo tema e fa una riflessione importante sul ruolo benemerito di alcune case editrici nel «sostenere e archiviare un’attività che altrimenti potrebbe andare persa»: in questo caso, c’è una motivazione in più, cioè «lo scopo principale di una raccolta di questo tipo è documentare il lavoro ininterrotto di un’associazione attiva, produttiva e colta» come è l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Risden spinge le sue considerazioni verso due ambiti diversi. Da un lato, l’uso del volume come exemplum: «gli studiosi accademici e gli studenti universitari troveranno molto utili gli argomenti e le risorse bibliografiche; inoltre, il volume potrebbe essere una preziosa acquisizione per le biblioteche universitarie essendo adatto a stimolare gli studenti nella ricerca collegando Tolkien ai loro autori preferiti. La questione non è tanto che gli studenti citino questi saggi, ma che possano imparare metodi e strumenti per leggere e pensare più audacemente e con curiosità attraverso lo spazio e il tempo. Benché i saggi siano di qualità differente (come in quasi tutte le raccolte), ognuno di essi fornisce interessanti confronti che possono incoraggiare ulteriori esplorazioni della matrice delle influenze letterarie di Tolkien e promuovere una migliore comprensione delle risonanze letterarie». Dall’altra, sono gli spunti di ricerca che può dare un’antologia come questa, facendo un paragone che non può che lusingare gli autori e i curatori che hanno partecipato al lavoro: «Questo volume suggerisce molti percorsi in sequenza e difficilmente potrebbe non riuscirci. Può ricordare, ad esempio, un volume come I mostri e i critici, la raccolta di studi di Tolkien curata da Christopher Tolkien. Un progetto meno interessante per il grande pubblico, ma forse ugualmente prezioso per gli studiosi, potrebbe includere una nuova raccolta di saggi sugli studi accademici di Tolkien, una parte sottoutilizzata delle sue opere comunque apprezzata».
Scarica e leggi la Recensione a Tolkien and the Classics su Journal of Inklings Studies

rivista: Mythlore 38Terza in ordine cronologico è giunta la recensione di Willow DiPasquale, docente associato di letteratura inglese alla Drew University (New Jersey), autore di un libro dal titolo Myth-making and Sacred Nature: J.R.R. Tolkien’s and Frank Herbert’s Mythopoeic Fiction. La recensione è apparsa su Mythlore (Vol. 38: No. 2, Article 14, 2020) e DiPasquale rimane positivamente colpito dall’eterogeneità del gruppo che firma i saggi che compongono l’antologia:«Questa combinazione di critica professionale ed amatoriale aumenta il piacere dettato da questa raccolta: i lettori troveranno la varietà di argomenti e approfondimenti sia accessibile che stimolante». Pur trovando qualche difetto qua e là nella sintassi, DiPasquale evidenzia i possibili spunti di ricerca che il volume può suscitare nei lettori. La conclusione è in crescendo: «Per lo studioso, lo studente e l’appassionato Tolkien e i Classici è una lettura che arricchisce e che vale decisamente il tempo speso (e che, se letto per brani scelti non richiede nemmeno molto tempo). Accessibili, illuminanti e piacevoli, questi saggi aggiungono voci preziose all’attuale trattazione degli studi tolkieniani, evidenziando l’impressionante gamma di studi svolti e, c’è da sperare, facendo nascere nei lettori la curiosità per ambiti di studio ancora da esplorare. Benché di diversa lunghezza, profondità e, forse in alcuni casi, qualità, queste analisi hanno in comune un obbiettivo lodevole, ripetuto nell’introduzione al volume e a questa recensione: elevare la reputazione di Tolkien nella comunità letteraria e offrire nuovi modi di leggere e pensare i classici, Tolkien incluso».
Scarica e leggi la Recensione a Tolkien and the Classics su Mythlore

Mallorn 60 coverQuarta e ultima, solo in ordine cronologico di Tom Hewitt, apparsa su Mallorn No. 60 (Summer 2020). Dopo aver illustrato il progetto, la sua origine e sviluppo, il recensore fa notare come «i saggi sono scritti in uno stile completamente accessibile e tuttavia non banalizzano il contenuto». Hewitt trova molti punti forti nel volume: «Non è difficile trovare collegamenti con Tolkien, giacché egli aveva familiarità con quasi tutti questi classici. Tuttavia, non si deve pensare che gli autori abbiano fatto la scelta più semplice, in quanto i saggi che ne risultano sono saldamente in linea con lo scopo della raccolta. Ogni autore propone collegamenti con i classici senza affermare che Tolkien ne abbia tratto ispirazione. Oggi saggio si concentra invece su come le opere comunicano l’una con l’altra». Secondo Hewitt il libro «è piuttosto più simile a un’occhiata veloce nello specchio di Galadriel». E ne spiega il motivo: «Proprio perché la brevità genera il desiderio di ulteriori informazioni, chiunque sia alla ricerca di una profonda immersione nelle opere resterà con la voglia di saperne di più. Poiché le opere citate sono spesso piuttosto corpose, esse richiedono una lettura e un’interpretazione più approfondite». Ogni argomento consente di tornare a un testo, o di scoprirlo per la prima volta, attraverso le lenti degli studi tolkieniani. La conclusione è anche qui molto positiva: «La prova dell’evidente forza di questa raccolta è data dal desiderio di (ri)prendere in mano l’argomento di ogni saggio durante o subito dopo la sua lettura. Chiunque si avvicini ai testi accademici con un approccio immersivo molto probabilmente sentirà il desiderio di leggere ciascuno di questi saggi avendo con sé un’edizione recente dell’opera oggetto del confronto».
Scarica e leggi la Recensione a Tolkien and the Classics su Mallorn

Che dire? Gli sforzi fatti per inserire gli studi tolkieniani italiani nel contesto internazionale sono stati molti se si considerano le traduzioni fatte, i testi critici pubblicati, i convegni e le conferenze organizzate, ma ne è certo valsa la pena: infatti tanti altri studiosi si stanno muovendo in questa direzione, e questo non può che rendere felici tutti gli ammiratori delle opere di J.R.R.Tolkien!

(La traduzione delle recensioni è di Alberto Ladavas
che ringraziamo per l’occasione)

 

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Vai al sito “Santi Pagani”, quante recensioni all’estero!
– Vai al sito Due recensioni “italiane” nei Tolkien Studies

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Il creatore della Terra di Mezzo: la recensione

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Meme catalogo mostra OxfordLeggendo il catalogo della mostra Tolkien: Maker of Middle-Earth, tenutasi a Oxford da giugno a ottobre del 2018, in uscita oggi in Italia per Mondadori (Tolkien: Il creatore della Terra di Mezzo, 416 pagine, 45 euro, trad. di Stefano Giorgianni), si ha a tratti la sensazione di violare uno spazio privato. Una grande quantità di materiale appartenuto al celebre Professore viene messa in mostra per i fan della Terra di Mezzo. È una cosa che accade soltanto per gli autori di culto, e non ci sono dubbi che J.R.R. Tolkien sia tra questi, dato che con il passare dei decenni la sua narrativa ha incontrato un apprezzamento sempre più ampio da parte di un pubblico quanto mai eterogeneo. Per questo, sfogliando il catalogo viene da chiedersi cosa avrebbe pensato di una mostra su di sé. La risposta è che probabilmente ne sarebbe stato al tempo stesso lusingato e irritato. Lusingato, perché sono pochi gli scrittori a cui siano state dedicate esposizioni come questa. Irritato perché era profondamente avverso alla via biografica alla letteratura e contrario al culto dell’autore, ritenendo quest’ultimo un pessimo servizio alla letteratura stessa. In una lettera del 1971 scriveva:

«Una delle mie convinzioni più radicate è che l’indagine sulla biografia di un autore (o su altri aspetti della sua “personalità”, come quelli che vengono racimolati dai curiosi) sia un approccio totalmente inutile e sbagliato alla sua opera, e specialmente a un’opera d’arte narrativa, per la quale l’obiettivo che l’autore cercava di centrare era che venisse apprezzata in quanto tale, che fosse letta con piacere letterario»1.

Già nel 1958, a pochi anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, Tolkien si era espresso in termini ancora più netti:

«Non mi piace riferire “fatti” su di me che non siano “nudi” (e che in ogni caso sono altrettanto rilevanti per i miei libri quanto gli altri dettagli più succosi). Non semplicemente per motivi personali; ma anche perché sono contrario alla tendenza contemporanea della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e artisti. Questi infatti distraggono l’attenzione dall’opera dell’autore (se l’opera è in effetti degna di attenzione), e finiscono, come si vede spesso, per diventare l’interesse principale. Ma solo il proprio angelo custode, o Dio stesso, potrebbe dipanare le effettive relazioni fra i fatti personali e l’opera di un autore»2.

Catalogo mostra OxfordSi potrebbe aggiungere che quando scriveva narrativa, Tolkien si sentiva affine agli autori medievali che studiava da accademico, spesso anonimi estensori di tradizioni poetiche tramandatesi oralmente per secoli. «Ho sempre avuto la sensazione non di “inventare”, ma di annotare ciò che era già “lì”, da qualche parte»3, scriveva riferendosi alla propria attività di mitopoieta. L’immagine romantica dell’autore-genio, dell’autore-oggetto-di-culto, non gli è mai appartenuta. Questo non significa, ovviamente, che non fosse disposto a riconoscere la perizia, il talento, l’inventiva, del singolo autore al lavoro su un’opera nuova, attraverso l’uso creativo delle fonti. Semplicemente per lui l’autore non doveva essere anteposto all’opera stessa, la quale, peraltro, se di un qualche valore, gli sarebbe sopravvissuta, guadagnando legittima autonomia, come una figlia ormai adulta. Non era quindi propenso a vedere sviscerata ed esposta la propria vita fin nei minimi dettagli personali e familiari.

Catalogo mostra OxfordNondimeno, nel suo caso ci sono almeno tre argomenti a favore dell’approccio biografico, che trovano conferma proprio nelle pagine di questo catalogo.
Il primo è che Tolkien ha pubblicato poco in vita: non molti lavori accademici e davvero poche opere narrative, vale a dire appena due romanzi, tre racconti, e una raccolta di poesie. Dunque una mole considerevole di materiale interessante ha dovuto essere attinta dai suoi archivi personali, per essere pubblicata postuma. Lo stesso vale per l’epistolario, del quale a suo tempo è stata pubblicata soltanto una selezione, priva delle lettere inviate a Tolkien, alcune delle quali fanno invece parte di questo catalogo e rivelano aspetti peculiari dei suoi rapporti con il mondo esterno.
Catalogo mostra OxfordIl secondo argomento è che – essendo stata la narrativa una semplice passione per decenni e poi tutt’al più un secondo mestiere – molto spesso l’espediente per la scrittura era offerto a Tolkien proprio dalla vita privata. Molte delle sue storie nascevano dai racconti serali inventati per i quattro figli. Esiste dunque una dimensione intima della sua narrativa che – a maggior ragione nel caso degli inediti – è strettamente connessa alle relazioni personali. Sotto questo aspetto, dalle memorie famigliari emerge la figura di un genitore moderno, che «univa paternità e amicizia», trascorrendo parecchio tempo con i figli, coinvolgendoli nelle sue storie fantastiche, e prendendo le loro «osservazioni e domande infantili con assoluta serietà»4. La capacità di restare in sintonia con l’infanzia – anche la propria – e di non gettare su di essa uno sguardo paternalistico è senz’altro una delle chiavi della sua efficacia narrativa.
Catalogo mostra OxfordIl terzo argomento è che Tolkien amava disegnare e dipingere – una passione trasmessagli dalla madre e rafforzata a scuola – ed era un illustratore dilettante di un certo talento. Aprire il “Book of Ishness”, osservare i suoi acquerelli, i disegni a penna o anche solo i bozzetti, dà la misura di quanta parte avesse l’arte figurativa nella sua attività di creatore di mondi; per non parlare della calligrafia, in particolare quella elfica. Un’arte, la sua, per lo più privata, ma con un tratto distintivo che l’autrice dei testi a commento non esita a definire “surreale”, accompagnato da un uso del colore per il quale McIlwaine spende l’aggettivo “psichedelico”.

Catalogo mostra OxfordIn realtà c’è un quarto argomento che sostanzia il taglio della mostra oxoniense. È l’affascinante mistero rappresentato da Tolkien stesso: il contrasto tra vita e opera assai più che la loro concordanza. Da un lato un’esistenza borghese, estremamente regolare, conforme alle aspettative sociali e alle convenzioni; dall’altro una “evasione” creativa sconfinata. Quanto più costui fu lontano dalla mondanità, politicamente disimpegnato, devoto alla propria fede cattolica, tanto più fu spregiudicato nell’uso dell’immaginazione fantastica.
Tolkien era un uomo ordinario, assai poco eccentrico, privo delle idiosincrasie e delle pose tipiche dello scrittore, dedito alla famiglia, agli amici e alla professione di studioso e insegnante; tuttavia ha coltivato sempre un “vizio segreto”, l’invenzione di linguaggi e la passione fono-estetica, sfociato nell’ideazione di una realtà secondaria in cui quelle lingue potessero essere parlate. Una “subcreazione” mitica – Arda, la Terra di Mezzo – che è ormai entrata a fare parte indelebilmente dell’immaginario collettivo.
Pensando a questo contrasto, allora, non stupisce che i protagonisti dei suoi romanzi siano proprio uomini comuni capaci di caricarsi sulle spalle i destini del mondo, quei piccoli Hobbit dai quali Tolkien distillava «il sorprendente e inaspettato eroismo dell’uomo ordinario “quando è necessario”»5.
Catalogo mostra OxfordA suggerirgli quella scelta era stata l’esperienza vissuta, il trauma della guerra, che Tolkien riversò nella propria narrativa, come fecero altri letterati reduci del primo conflitto mondiale. Impiegò il tempo concessogli per costruirsi un’esistenza tranquilla e usò la scrittura non soltanto come terapia o elaborazione del lutto, ma anche come grande strumento per raccontare l’umanità posta di fronte al dispiegarsi del male nella storia e ai dilemmi universali. Dove però altri scelsero la poesia, il memoriale, il romanzo realistico, lui mosse in una direzione del tutto diversa, proiettando i grandi temi del suo tempo su un fondale fantastico e posando in questo modo una pietra angolare per la rifondazione e nobilitazione di un intero genere letterario.
Non tutti all’epoca lo capirono e non pochi stentano a capirlo ancora oggi. Tuttavia le lettere che compaiono in queste pagine testimoniano di un riconoscimento da parte di importanti intellettuali e artisti coevi, anche molto lontani dalla visione del mondo del Professore: il reporter e romanziere per ragazzi Arthur Ransome, il poeta Wystan H. Auden, la filosofa Iris Murdoch, la cantautrice Joni Mitchell, o ancora un giovanissimo Terry Pratchett che, proprio grazie all’influsso di Tolkien, sarebbe diventato scrittore fantasy a sua volta. Le epistole messe in mostra raccontano come Tolkien non fosse affatto un eremita. Tanto era refrattario alle luci della ribalta e alla fama mediatica, quanto trasparente nei confronti dei lettori che gli scrivevano. Lettori di ogni ordine e grado, dai suddetti intellettuali a illustri personaggi pubblici, come la figlia del presidente degli Stati Uniti d’America, o la principessa d’Olanda; ma soprattutto illustri sconosciuti, fossero bambini riconoscenti o ammiratori adulti affamati di dettagli sulla Terra di Mezzo.
Catalogo mostra OxfordIl corpus del catalogo – preceduto da una sequenza di saggi dei maggiori studiosi tolkieniani – è un caleidoscopio di carteggi, ritratti fotografici color seppia, disegni a motivi “morrisiani”, acquerelli coloratissimi, mappe e oggetti. Al netto di ogni tentazione feticistica, il volume è un viaggio nel percorso creativo di un uomo che ha nutrito la propria fantasia incessantemente, esprimendosi non solo attraverso l’arte narrativa e la saggistica, ma anche il disegno, la poesia, la pittura, la calligrafia e la cartografia. Queste pagine ci restituiscono l’immagine di uno studioso e artista poliedrico, a tutto tondo, in costante dialogo con le proprie suggestioni infantili, capace al tempo stesso di svilupparle e traghettarle nel racconto adulto, fino a fare collassare la fiaba nel romanzo epico e nell’ucronia fantastica. Sfogliando queste pagine si respirano anche le difficoltà del narratore, trasmesse attraverso la materialità del vivere quotidiano, o la necessità di scrivere e riscrivere, abbozzare, scarabocchiare e immaginare con penna o pennello, prima di riuscire a creare un mondo tanto vivido da sembrare reale e far nascere la voglia di percorrerne i sentieri. Senza dubbio Tolkien ci è riuscito. È per questo che – volente o nolente – viene celebrato.
A tutto ciò si aggiunge un percorso attraverso il Novecento tramite l’album fotografico di famiglia, dove le generazioni si passano il testimone, cambiano il taglio degli abiti e le acconciature, i giovani indossano divise militari poi abiti borghesi, diventano genitori a loro volta e invecchiano, mentre i loro figli crescono di scatto in scatto, diventando giovani uomini e donne.

Catalogo mostra OxfordQuesto fino alla tavola 133, che consiste in una fotografia a colori, a tutta pagina. Lo scopo è evidentemente quello di presentare la toga da cerimonia del professor Tolkien esposta alla mostra, ma il cimelio passa in secondo piano rispetto alla fotografia. Il colore produce un effetto di avvicinamento spiazzante. Siamo abituati a vedere Tolkien in bianco e nero e tonalità di grigio, come un vecchio signore che ci parla da un tempo remoto; e in effetti nel catalogo è così, fino a questa foto. Il soggetto è colto mentre cammina spedito, nella mise adatta a ricevere il dottorato ad honorem in Lettere all’università di Oxford, con il tocco in testa, il papillon candido, la toga scarlatta svolazzante, sotto la quale si vede il gessato a righe. Ha in mano un ombrello chiuso, e sotto il braccio tiene forse il programma della cerimonia o l’attestato stesso. La fotografia è stata scattata il 3 giugno 1972, due settimane prima che scoppiasse lo scandalo Watergate e che David Bowie pubblicasse Ziggy Stardust; dieci giorni dopo la presentazione ufficiale della prima console domestica per videogiochi. Alle spalle del Professore, sfocata, c’è una piccola folla di persone dalla quale si sta allontanando. Si distinguono cappotti e vestiti color pastello, capelli lunghi. Il colore, la dinamicità, il fatto che il soggetto non sia in posa, l’espressione concentrata dell’anziano che non guarda in camera, e, non ultimo, il contrasto tra l’abito cerimoniale e l’abbigliamento moderno delle persone sullo sfondo, ci raccontano qualcosa di diverso dal solito.
Catalogo mostra OxfordNato e cresciuto in un’altra epoca, legato alle convenzioni dei grandi atenei del regno e del ceto accademico, Tolkien, tramite la sua opera, giunge a lambire e perfino ad avere una parte indiretta nella grande rivolta giovanile degli anni Sessanta e Settanta. Eccolo buffamente agghindato, mentre viene onorato dalla sua università, ed è già un autore caro a una generazione di studenti ribelli, rockers psichedelici e hippies, che nella sua opera legge una critica radicale al proprio tempo, alla società industriale, al potere, e un inno alla libertà, alla pace, alla riscoperta della natura vivente. Le storie di Tolkien hanno contaminato e influenzato la controcultura angloamericana di quegli anni: dai Beatles ai Led Zeppelin, dai giovani di Woodstock a quelli di Glastonbury, da “l’uomo più pericoloso d’America” Timoty Leary a un obiettore di coscienza alla guerra in Vietnam che risponde al nome di George R.R. Martin, a tantissimi altri.

Questo ci ricorda che la letteratura non è un feticcio né un altare sul quale innalzare l’autore, ma vive nel mondo grazie alla partecipazione di chi continua a ritrovarsi nelle storie narrate e a farle collidere con la propria vita. Anche e soprattutto le storie fantastiche, che per Tolkien rappresentavano non già un rifugio incantato, ma un’evasione dalla dittatura realista come atto di resistenza contro l’abbrutimento dei tempi. «Perché la Fantasia creativa si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi»6, scriveva nel celebre saggio Sulle fiabe. Un’asserzione che suona come una petizione di principio e che potrebbe essere l’epigrafe perfetta di questo volume.

1 Lettere 1914-1973, n. 329, Bompiani, 2018, p. 656

2 Ibidem, n. 213, p. 456-457

3 Ibidem, n. 131, p. 231

4 Intervista a Michael H.R. Tolkien sul “Sunday Telegraph” del 9/09/1973, citata in questo volume a pag. 178

5 Lettere, op. cit., n. 131, p. 252

6 Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2004, p. 213

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Il Vangelo di Gollum, la recensione di Testi (2)

Logo "Letto & Commentato"Proseguiamo con la recensione a Ivano Sassanelli, Tolkien e il Vangelo di Gollum, Cacucci Editore, Bari, 2020 pp. 526. La prima parte la trovate qui.

SANTI PAGANI NEL VANGELO DI GOLLUM

Premessa

Ho deciso di scrivere separatamente queste note all’opera di Ivano Sassanelli perché non mi sarebbe sembrato corretto “inquinare” una “mia” recensione al volume con delle considerazioni sul “mio” libro Santi Pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien (ESD, Bologna, 2014), che Sassanelli mostra di tenere in gran conto (e per questo lo ringrazio) tanto da affermare che “ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo delle indagini scientifiche e critiche riguardanti le opere dello scrittore inglese” (p. 114).

Rilievi critici

Subito dopo aver esposto correttamente la mia tesi (riassumibile in tre proposizioni, 1-l’opera di Tolkien è pagana perché non contiene espliciti riferimenti cristiani, 2- ma è in armonia con la rivelazione cristiana 3) e proprio per questo differenza armonica è cattolica) Sassanelli ne prende le distanze e afferma che “non è la compresenza e l’armonia di natura e Grazia a mostrare la cattolicità delle opere tolkieniane ma, per converso, proprio il fatto che egli fosse un credente, e segnatamente un cristiano-cattolico, ha motivato la strutturazione della sua narrativa in maniera fondamentalmente ‘religiosa’, ossia comprendente, in maniera armonica, l’ordine delle natura e l’ordine della Grazia, il naturale e il soprannaturale” (p. 114). Ora, questa impostazione, se l’ho ben capita, mi pare si esponga a queste critiche:

1) Sulla definizione di “religioso” e “cattolico”
Sassanelli afferma una equivalenza tra narrazione “religiosa” e “comprendente, in maniera armonica, l’ordine delle natura e l’ordine della Grazia”. Ma questo non è esatto. Ci possono essere benissimo religioni (e di conseguenza narrazioni religiose) che non comprendono armonicamente questi due ordini: una prospettiva protestante non accetta la loro armonia, e una prospettiva orientale potrebbe non ammettere nemmeno l’esistenza di un ordine superiore a quello naturale, pur essendo entrambe prospettive religiose. Per questo motivo, ritengo più corretto dire, come ho fatto in Santi Pagani, che l’armonia tra natura e Grazia sia invece una caratteristica propria della cultura cattolica

2) Indebito passaggio dal piano biografico a quello dell’opera
L’autore afferma nella sostanza che “poiché Tolkien era un credente cattolico, allora produce un’opera cattolica”. Questo è un altro passaggio indebito che passa dal piano biografico (sul quale di sicuro Tolkien era un cattolico in senso confessionale) a quello dell’opera (in resta da terminare se questa è cattolica o meno in senso culturale: per queste distinzioni si vedano ad esempio i miei rilievi al libro di Toninelli “Colui che raccontò la Grazia”). Il passaggio è indebito perché:
– un autore cattolico può fare un’opera non cattolica: lo dimostra l’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa Cattolica in cui vengono condannate come non cattoliche diverse opere scritte da cattolici. Ma, banalmente, anche Tolkien ha prodotto libri che non si possono dire cattolici (e nemmeno anti-cattolici, come invece avviene nel caso precedente) perché non contengono elementi legati a natura e grazia: Mr. Bliss ne potrebbe essere un esempio.
– un autore non cattolico può fare un’opera culturalmente cattolica dato che “lo Spirito soffia dove vuole” (Gv 3,8): un esempio potrebbe l’ortodosso Pavel Florenskij, le cui opere, almeno parzialmente, sono citate da S. Giovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et ratio” (che parla proprio dell’armonia tra fede e ragione) come esempi di un cammino da seguire.

3) Assenza di espliciti riferimenti alla Grazia soprannaturale nell’opera di Tolkien
Sassanelli sostiene che l’ordine della natura e della Grazia soprannaturale sono compresenti all’interno della narrazione tolkieniana: in Santi Pagani invece si sostiene che l’opera tolkieniana non contiene esplicitamente al suo interno elementi soprannaturali, ma è in armonia con esso (e per questo è cattolica). Per mostrare la maggior coerenza di Santi Pagani rispetto al testo tolkieniana, vorrei riprendere la tesi di Sassanelli secondo cui “Se Frodo può essere considerato come una esemplificazione (o personificazione) dell’ ‘umile accompagnato e sostenuto dalla grazia’, Gollum è sicuramente l’esemplificazione (o personificazione) dell’ ‘ignobile ricercato, inseguito e trovato dalla pietà e dalla misericordia’ ” (p. 450). Nel brano si dice che:
a) Frodo è “un’esemplificazione [..] dell’‘umile accompagnato e sostenuto dalla Grazia”, e Sassanelli vede questo sostegno della Grazia in almeno due momenti decisivi:
– quando Frodo al consiglio di Elrond decide di portare l’Anello a Monte Fato. Qui Sassanelli commenta la frase di Elrond da lui tradotta “Ma se tu lo [l’Anello] prendi liberamente, dirò che la tua scelta è giusta” dicendo che “Elrond aveva acconsentito a che Frodo prendesse l’Anello e a giudicare tale scelta come ‘giusta’ solo ed esclusivamente perché essa era libera” e alla luce di questa libertà Sassanelli esclude che “quell’ altra volontà’ richiamata nel testo, non sarebbe mai potuta essere né quella di Sauron né l’attrazione provocata dall’Anello, in quanto entrambe, circuivano e cercavano di schiacciare la libertà del soggetto e annichilire ogni volontà contraria […] dunque non era nient’altro che la stessa volontà di Frodo ma accompagnata, aumentata e aiutata dalla grazia che […] Eru, gli aveva donato”” (pp. 219-220). Ora, riprendendo alcuni rilievi già fatti al dott. Lusetti, se si sta al testo:
1) non dice mai che “la scelta di Frodo è giusta”, né che “è libera”, perché da Elrond viene enunciato solo un periodo ipotetico: “SE tu lo prendi liberamente, dirò che la tua scelta è giusta”. Che il capitolo resti su questo punto ambiguo è innegabile, e poiché Tolkien era ben consapevole della centralità di questa scena, va detto che egli ha coscientemente voluto lasciare questa ambiguità: altrimenti avrebbe esplicitamente detto che “Eru mosse la volontà di Frodo” dato che quando Tolkien vuole attribuire esplicitamente a Eru un’azione diretta lo fa senza troppi problemi anche entro il Signore degli Anelli, dove ad esempio dice che Nùmenor affonda a seguito delle richiesta dei Valar all’Uno (app. A.1), o quando dice che la morte è il “dono dell’Uno” (App. A.5). Per lo stesso motivo di voler lasciare l’interpretazione “aperta”, Tolkien evidentemente non scrive nemmeno che “l’Anello mosse la volontà di Frodo” o altre frasi simili;
2) Per questa indeterminazione, resta però vero che la narrazione è in armonia con la rivelazione e la teologia cristiane: per un cattolico è infatti del tutto “naturale” vedere in Frodo un esempio di mozione divina: e Tolkien come individuo cattolico mostra di pensarla cosi (si veda la lettera 246, citata da Sassanelli a p. 220): ma resta che il testo scritto da Tolkien è volutamente non esplicito su questo.
b) Altro momento in cui Sassanelli vede nella storia di Frodo un esplicito intervento di Eru è l’episodio finale a Monte Fato, nel quale “L’Unico era riuscito ad arrivare nella Voragine del Fato lì dove, alla presenza di Eru (seppur mai nominato), sarebbe stato distrutto” (p. 350). Ma anche qui si possono fare considerazioni simili alle precedenti: Eru non è mai nominato (e questo lo ammette pure Sassanelli) e se Tolkien avesse voluto nominarlo lo avrebbe fatto, per quanto la presenza dell’Uno non è nemmeno negata.
Quanto detto dimostra dunque che anche in questi due momenti decisivi nella vicenda di Frodo il piano resta naturale, senza esplicita presenza o assenza di Grazia soprannaturale, per quanto può essere visto in armonia con il piano Soprannaturale: da ciò si evince la cattolicità culturale dell’opera.

4) Pietà e Misericordia come concetti pagani
Sempre in riferimento al brano sopra citato di Sassanelli, si possono fare considerazioni simili anche sul personaggio di Gollum. Personalmente ritengo la tesi di Sassanelli, secondo il quale “Gollum è sicuramente l’esemplificazione (o personificazione) dell’ ‘ignobile ricercato, inseguito e trovato dalla pietà e dalla misericordia’ ” (p. 450)”, è centrata e feconda sul piano interpretativo, a condizione però che venga precisata mantenendo le distinzioni di livello chiaramente poste in Santi Pagani. Infatti, anche in questo caso, il testo di Tolkien non richiama necessariamente il piano soprannaturale. Di sicuro i termini per capire il personaggio di Gollum sono “Pity” (pietà-peccato) e “Mercy” (Misericordia), come mostra il celebre dialogo tra Gandalf e Frodo (La Compagnia dell’Anello, L’ombra del passato), poi ripreso tra Frodo e Sam (Le Due Torri, Sméagol domato) analizzato da Sassanelli a pp.453 e seguenti. Ora, Sassanelli legge questi concetti alla luce della teologia cattolica, citando nella seconda parte del libro con dovizia e precisione posizioni di teologi o pontefici. Ma il punto è che i concetti di pietà e misericordia precedono la rivelazione cristiana e sono già presenti sia nella cultura greca sia latina (cfr. Aristotele, Retorica II, 8, 1385b sgg,; Etica Nicomachea II.5 1305b23; la ‘pietas’ celebrata nell’Eneide), dunque sono concetti pagani, che in seguito la teologia cattolica assume e potenzia fino a legarli a Dio Creatore e Giudice, per quanto anche qui restino sempre distinti dalla sfera delle virtù teologicali-soprannaturali. Per questo la presenza di questi concetti non indica la presenza della Grazia, per quanto può essere visto in armonia con quel piano soprannaturale.

Conclusione

Per concludere, mi permetto di dire che, nonostante i rilievi di Sassanelli, la prospettiva di Santi Pagani sembra essere ancora il criterio di lettura più completo, perché rende ragione di tutti i testi tolkieniani alla luce di tre semplici enunciati. Resta comunque che, almeno negli intenti, l’opera di Sassanelli non mi pare distantissima da questa prospettiva, per cui, come ho fatto con il dott. Toninelli, mi permetto di riscrivere la tesi centrale dell’autore “adattandola” a quanto sopra esposto: “Se Frodo può essere considerato come una esemplificazione (o personificazione) in armonia dell’ ‘umile accompagnato e sostenuto dalla grazia’, Gollum è sicuramente l’esemplificazione (o personificazione) dell’ ‘ignobile ricercato, inseguito e trovato dalla pietà e dalla misericordia pagane’ ” (cfr. p. 450).

 

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RECENSIONI:

Cover recensioni– Recensione: Tolkien e il Vangelo di Gollum di Ivano Sassanelli (Cacucci Editore, 2020)
– Recensione: Colui che raccontò la grazia di Mauro Toninelli (Cittadella Editrice, 2019)
– Recensione: Tolkien’s Library di Oronzo Cilli (Luna Press, 2019)
– Recensione: Eroi e mostri Il fantasy come macchina mitologica di Alessandro Dal Lago (Il Mulino, 2017)
– Recensione: Beren e Lúthien di JRR Tolkien (Bompiani, 2017)
– Recensione: Due recensioni “italiane” nei Tolkien Studies
– Recensione: Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli (Il Cerchio Editore, 2016)
– Recensione: J.R.R.Tolkien l’esperantista curato da Oronzo Cilli (Cafagna Editore, 2015)
– Recensione: Tolkien e i Classici a cura di Roberto Arduini, Cecilia Barella, Giampaolo Canzonieri, Claudio A. Testi (Effatà Editrice, 2015)
– Recensione: Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 2011)
Copertina libro "Maestro della Terra di Mezzo" di Paul H. Kocher– Maestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher (Bompiani, 2011): «Il suo capolavoro, e tutta la sua opera complessiva, non è semplicemente una “avventura” nel significato popolare del termine, ma qualcosa in più, una vicenda che offre ai suoi lettori degli insegnamenti profondi. Come le fiabe, del resto. E “fiaba” è una delle definizioni che Kocher ci dà de Il Signore degli Anelli…» (dall’introduzione).

Copertina "L'eroe imperfetto"– L’eroe Imperfetto di Wu Ming 4 (Bompiani, 2010): «Negli ultimi tempi è in corso una profonda riflessione sulla figura dell’eroe, come ci è stata tramandata dai miti classici e dalla “Poetica” di Aristotele: sulla sua crisi, sulla sua decadenza o esaurimento, sul suo “lato oscuro” e nondimeno sulla sua necessità. Smontare la figura dell’eroe nei suoi aspetti odiosi e deteriori, per riconnotarla, sembra necessario e soprattutto stimolante».

– Recensione: Salvare le apparenze di Owen Barfield (Marietti 1820, 2010)
– Recensione: Arda Reconstructed. The Creation of The Published Silmarillion di Douglas C. Kane (Lehigh University Press, 2009)
– Recensione: Tolkien, Race and Cultural History. From fairies to Hobbits di Dimitra Fimi (Palgrave MacMillan, 2009)
– Recensione: A question of time: J.R.R. Tolkien’s Road to Faërie di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 1997)
– Recensione: Il Silmarillion di JRR Tolkien (Rusconi 1978)

FOCUS SANTI PAGANI:

Libri: "Santi pagani" di Claudio Testi– Recensione: Santi pagani nella Terra di Mezzo
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– Recensione: Santi Pagani: le recensioni all’estero
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito di Cacucci Editore

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Il Vangelo di Gollum, la recensione di Testi

Logo "Letto & Commentato"Recensione a Ivano Sassanelli, Tolkien e il Vangelo di Gollum, Cacucci Editore, Bari, 2020 pp. 526.

Premessa sui Signori C, P e N

DisputaQuando sui social e non solo si parla del tema religioso in Tolkien, gli animi subito si scaldano e spesso le discussioni finiscono in risse virtuali che non servono a praticamente a nessuno, tanto che la pagina Facebook della Tolkien Society blocca sul nascere qualsiasi discussione su questo tema. Ora, limitando lo sguardo al panorama italiano, si può dire in questi flame emergono due atteggiamenti diametralmente opposti rappresentati dal Signor C e dal Signor P:
– Il Signor C non sopporta che quando si parla di Tolkien non si dica a ogni piè sospinto che era un fervente cattolico che andava a messa e si comunicava quanto più spesso possibile.
Disputa– Il Signor P, invece, non sopporta che quando si parla di Tolkien si dica che era un fervente cattolico che andava a messa e si comunicava quanto più spesso possibile.
Il Signor C a sostengo della sua posizione cita ossessivamente la lettera 142 in cui Tolkien afferma che il Signore degli Anelli è un’opera “fondamentalmente religiosa e cattolica”, e crede con questo di aver chiuso il discorso.
Il Signor P, con la medesima insistenza, cita ossessivamente la critica di Tolkien al ciclo arturiano perché “è legato alla religione cristiana e ne parla esplicitamente. Per motivi che non starò qui a spiegare, questo mi sembra fatale” (Lettere n. 131) e crede così di aver chiuso il discorso.
A questo punto il signor C e P decidono che il loro avversario (rispettivamente P e C) è uno che non vuole capire le cose evidenti, e quindi abbandonano il confronto e si danno al proselitismo per cui:
Disputa– il Signor C martella i media citando ogni tre per due la lettera 142 (e similari) ricordando, sempre ogni tre per due, che Tolkien andava a messa:
– Il Signor P, d’altro canto, martella i media facendo outing della sua avversione verso le idee del signor C, e citando ogni tre per due la lettera 131 (e similari) ricordando, sempre ogni tre per due, che Tolkien andava in birreria.
C’è poi il signor N, che è neutrale rispetto alle idee dei signori C e P, il quale assiste a questo ripetitivo e allucinante “dibattito” restando sbigottito, anche perché i due signori C e P spesso si atteggiano a studiosi di livello internazionale su Tolkien, pur non avendo mai pubblicato nessuno studio su riviste importanti o aver mai partecipato a nessun convegno internazionale.
disputaEgli inoltre, vedendo l’ossessiva stupidità del signor C, è portato a pensare che tutti i cattolici devono essere stupidi come lui: e così il signor C, nella sua stupida azione proselitistica, ottiene l’effetto opposto a quello desiderato.
Allo stesso modo, vedendo la stupidità del signor P, capisce quanto questa stupidità interessi tutte le parti, e per lo stesso motivo sia allontana dalle idee del signor P.
DisputaIn tal modo però il povero signor N resta intellettualmente insoddisfatto perché vorrebbe capire meglio la questione (che risulta chiusa solo alle menti ottuse dei signori C e P). Ed ecco quindi che magari prova a leggere articoli o libri che gli facciano capire qualcosa di più quindi comincia a fare qualche ricerca bibliografica.
In questa ricerca, se fatta in Italia, il signor N troverà una notevole produzione di testi scritti da cristiani (per lo più cattolici) alcuni dei quali sono molto recenti. Tra questi vi sono due estremi:
– da un lato abbiamo testi che piaceranno molto al signor C e poco al signor P, perché scritti con una ben precisa matrice ideologia e che si caratterizzano per una quasi totale assenza di riferimenti a studi critici;
– all’altro estremo vi sono testi che piaceranno poco sia al signor C che al signor P, ma molto al signor N, i quali invece citano Disputasia i testi graditi a C che quelli graditi a P, e in più citano degli studi su Tolkien. Ebbene in questo tipo di testi sono apparsi recentemente i lavori di Carmine Costabile, Mauro Toninelli e Ivano Sassanelli. Questo testo è l’ultimo in ordine cronologico, ma è a mio avviso il primo e più importante a livello metodologico e critico.

Tolkien e il Vangelo di Gollum: contenuto

Il volume di Sassanelli è di 526 pagine, che toccano innumerevoli aspetti dell’opera tolkieniana: mi scuserà quindi l’autore se mi limiterò a illustrare molto generalmente il contenuto del saggio, ed elencarne schematicamente alcuni pregi e limiti, che spero possano essere per lui spunti di riflessione o dibattito. Riporto di seguito l’indice ridotto del volume (per l’indice completo con la bella prefazione del prof. Vito Fascina è disponibile qui):

Parte Prima – Discorso su Tolkien

  • Cap. I J.R.R. TOLKIEN: L’UOMO E IL CATTOLICO
  • Cap. II J.R.R. TOLKIEN: DALL’UOMO ALLE FONDAMENTA NARRATIVE
  • Cap. III J.R.R. TOLKIEN: DALLE FONDAMENTA NARRATIVE ALLE OPERE LETTERARIE

Parte Seconda – Il Vangelo di Gollum

  • Cap. IV GOLLUM: STORIA DI UN VECCHIO HOBBIT DELLA TERRA DI MEZZO
  • Cap. V GOLLUM E “LO HOBBIT”
  • Cap VI GOLLUM E “IL SIGNORE DEGLI ANELLI”

Cover "Il Vangelo di Gollum" di Ivano SassanelliCome si può evincere facilmente, la prima parte del volume ha un carattere biografico e teorico, in quanto esplora le fondamenta filologiche e teologiche alla base della mitopoiesi tolkieniana, mentre la seconda parte è dedicata all’esame della figura di Gollum.
Dopo una breve esposizione della vita dell’autore (cap. I), nel secondo capitolo Sassanelli mette ben in luce il rifiuto tolkieniano dell’allegoria, e critica l’uso che ne hanno fatto tante letture confessionali (che invece sono le preferite del signor C) le quali forzano i testi per ipotizzare infondati rimandi scritturistici (per cui Frodo rimanda a Cristo, Galadriel a Maria, ecc…). Egli poi analizza quelle che sono le due fondamenta dell’opera tolkieniana: quella linguistica e quella religiosa-cattolica. Questi due aspetti, come ben dice Sassanelli, sono entrambi essenziali per capire Tolkien, con buona pace del signor C (a cui non piace il fondamento linguistico) e del signor P (che ribolle al sentir parlare di fondamento religioso e cattolico). Per illustrare quest’ultimo Sassanelli cita sia Wu Ming 4 (il nemico per eccellenza del signor C) sia Andrea Monda (autore disprezzato dal signor P).
Il capitolo III è maggiormente incentrato sulle opere di Tolkien, e nell’esaminarle Sassanelli affianca in vari temi a delle possibili fonti tolkieniane, in primis fonti di carattere religioso e teologico.
La seconda parte è tutta dedicata al personaggio di Gollum. Il capitolo IV ha il grande merito metodologico di passare in rassegna ben 12 analisi critiche (sia italiane che estere) di Sméagol: da Woody a Monda, da Flieger a Fascina, Da Shippey a Giorgianni e via dicendo.
Il capitolo V spiega quindi cosa Sassanelli intende con “Il Vangelo di Gollum”: non si tratta di ipotizzare, come si potrebbe immediatamente pensare, che Sassanelli veda in Gollum sia un’allegoria di qualche evangelista; la tesi sostenuta è semplicemente quella di prendere come frase guida per l’analisi del personaggio il versetto evangelico “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (Luca 12,34).
Il capitolo VI, infine, è teso a mostrare che “Se Frodo può essere considerato come una esemplificazione (o personificazione) dell’ ‘umile accompagnato e sostenuto dalla grazia’, Gollum è sicuramente l’esemplificazione (o personificazione) dell’ ‘ignobile ricercato, inseguito e trovato dalla pietà e dalla misericordia’ ” (p. 450) che però drammaticamente rifiuta (come fece Giuda).  

Pregi del volume

Ivano SassanelliOltre a quelli già sopra accennati (completezza bibliografica e profondità di analisi) va subito segnalato come pregio quello “filologico”, nel senso che Sassanelli sostiene le proprie tesi analizzando con precisione  tantissimi brani del Signore degli Anelli (di cui riporta affiancate entrambe le versioni di Alliata e Fatica) e di altre opere. Questo metodo è sicuramente segno di serietà, e sarà molto utile a chi non conosce i testi tolkieniani.
Inoltre l’analisi della lettera 142 che Sassanelli propone alle pagine 106-120, oltre a criticare giustamente la banale lettura allegorica di Galadriel-Maria, è una delle più dettagliate che abbia mai letto.
Un altro merito dell’autore, è quello di non avere pregiudizi ideologici, i quali sono una garanzia di poca serietà degli studi: Sassanelli infatti, come accennato, non cita solo gli “amici” della sua posizione, ma ben volentieri cita anche chi risulta lontano dalle sue posizioni, sia nella prima parte che nella seconda (cfr. cap. IV).
Ho poi trovato particolarmente convincente l’ipotesi che il “Compendio della Dottrina Cristina” (promulgato da Pio X nel 1905) come possibile fonte tolkieniana, in considerazione del periodo e, soprattutto, dei testi che Sassanelli cita (ad esempio la “teologia naturale” di cui parla Tolkien nella lettera 165 appare vicinissima alla “religione naturale” del Compendio: p. 183).
Sassanelli poi è molto prudente nell’identificare le fonti, e si tiene abbastanza lontano dell’indebito passaggio (che molti commettono) da una similitudine a un fonte (se un testo è conosciuto ed è simile a ciò che dice Tolkien, allora ne è una fonte). Questa maggior prudenza la si vede ad es. a p. 346 in cui si propongono le guarigioni di Gesù nei Vangeli è “probabilmente” una fonte per le cure operate da Aragorn.
Infine l’analisi di Gollum che viene offerta nella seconda parte è, per completezza e articolazione, tra le migliori letture critiche che io abbia mail letto su questo straordinario personaggio. Tra le cose pregevoli in questo senso voglio in particolare menzionare:
– Il modo completo e chiaro in cui ha esposto le diverse letture critiche su Sméagol-Gollum;
– la tesi sostenuta del Gollum braccato dalla Misericordia (cfr. supra), che è un criterio ermeneutico molto forte, chiaro, fondato e che unifica in un certo senso anche il duplice aspetto psicologico di Gollum.
– varie intuizioni brillanti legate a questo personaggio, tra cui segnalo ad esempio l’identificazione (p. 488) tra questo personaggio è il volto della fiaba rivolto allo “specchio dello scherno” presente in Sulle Fiabe.

Limiti

Frank Frazetta: "Gollum"Il sopra apprezzato metodo dell’autore (lunghe citazioni di brani) risulta essere, a chi certi testi già li conosce, molto pesante per la lettura, perché si verrebbe vedere subito chiaramente la tesi sostenuta dall’autore.
Altro limite mi pare legato al concetto di “applicazione”, che per Sassanelli indica “il far riemergere i grandi temi generali o universali che il Professore ha esemplificato nelle su storie o personificazioni dei sui protagonisti” (p. 127): questa lettura non mi sembra esatta. “Applicare” in Tolkien significa che il lettore può liberamente sovrapporre l’opera ai contesti più vari, per cui si può applicare Mordor al nostro mondo e dire “Mordor è in mezzo a noi” (Lettera n. 135). Quello che indica Sassanelli è invece a mio avviso più simile al concetto di “interpretazione”, che è il risalire da un personaggio inventato a un tema universale.
Infine, quando Sassanelli ravvisa le forti analogie tra l’opera di Tolkien è la rivelazione e teologia cristiana, non tematizza adeguatamente quelle che sono diversità acclarate, come ad esempio:
– quando si illustra la similitudine tra Ainur e Angeli (p.151), non si enfatizza che nel Legendarium vi sono “angeli” che si accoppiano con incarnati (Melian con Thingol) il che è rifiutato dalla teologia ufficiale (cfr. S.Agostino, De Civitate Dei, XV, 23, per il quale i “Figli di Dio”, che secondo genesi 6,1-4 si accoppiano con le donne e generano giganti, sono in realtà uomini decaduti e non angeli, come invece vogliono delle letture non canoniche).
– allo stesso modo, non si spiega adeguatamente come mai come Eru crea Eã già intaccata dal male, il che è da Tolkien medesimo considerato una diversità rispetto alla rivelazione cristiana, in cui come noto il male è introdotto dall’esterno dopo la creazione (Lettera n. 212).
Altri rilievi riguardano il mio libro Santi Pagani nella terra di Mezzo (ESD, Bologna, 2014), da Sassanelli tenuto in notevole considerazione, ma li esporrò in altro articolo.

Conclusione

Il lavoro di Ivano Sassanelli è un evento molto positivo per la critica italiana, perché aumenta il numero di quegli studi che, diversamente dai tanti pamphet propagandistici scritti dai vari signori C e P, si basano su testi e saggi sia italiani che esteri, citano tutti gli autori rilevanti (e non solo quelli di “amici”) e avanzano con le dovute argomentazioni le loro tesi.

(DOMANI LA SECONDA PARTE)

 

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RECENSIONI:

Cover recensioni– Recensione: Tolkien e il Vangelo di Gollum di Ivano Sassanelli (Cacucci Editore, 2020)
– Recensione: Colui che raccontò la grazia di Mauro Toninelli (Cittadella Editrice, 2019)
– Recensione: Tolkien’s Library di Oronzo Cilli (Luna Press, 2019)
– Recensione: Eroi e mostri Il fantasy come macchina mitologica di Alessandro Dal Lago (Il Mulino, 2017)
– Recensione: Beren e Lúthien di JRR Tolkien (Bompiani, 2017)
– Recensione: Due recensioni “italiane” nei Tolkien Studies
– Recensione: Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli (Il Cerchio Editore, 2016)
– Recensione: J.R.R.Tolkien l’esperantista curato da Oronzo Cilli (Cafagna Editore, 2015)
– Recensione: Tolkien e i Classici a cura di Roberto Arduini, Cecilia Barella, Giampaolo Canzonieri, Claudio A. Testi (Effatà Editrice, 2015)
– Recensione: Green Suns and Faërie: Essays on J.R.R. Tolkien di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 2011)
Copertina libro "Maestro della Terra di Mezzo" di Paul H. KocherMaestro della Terra di Mezzo di Paul H. Kocher (Bompiani, 2011): «Il suo capolavoro, e tutta la sua opera complessiva, non è semplicemente una “avventura” nel significato popolare del termine, ma qualcosa in più, una vicenda che offre ai suoi lettori degli insegnamenti profondi. Come le fiabe, del resto. E “fiaba” è una delle definizioni che Kocher ci dà de Il Signore degli Anelli…» (dall’introduzione).

Copertina "L'eroe imperfetto"L’eroe Imperfetto di Wu Ming 4 (Bompiani, 2010): «Negli ultimi tempi è in corso una profonda riflessione sulla figura dell’eroe, come ci è stata tramandata dai miti classici e dalla “Poetica” di Aristotele: sulla sua crisi, sulla sua decadenza o esaurimento, sul suo “lato oscuro” e nondimeno sulla sua necessità. Smontare la figura dell’eroe nei suoi aspetti odiosi e deteriori, per riconnotarla, sembra necessario e soprattutto stimolante».

– Recensione: Salvare le apparenze di Owen Barfield (Marietti 1820, 2010)
– Recensione: Arda Reconstructed. The Creation of The Published Silmarillion di Douglas C. Kane (Lehigh University Press, 2009)
– Recensione: Tolkien, Race and Cultural History. From fairies to Hobbits di Dimitra Fimi (Palgrave MacMillan, 2009)
– Recensione: A question of time: J.R.R. Tolkien’s Road to Faërie di Verlyn Flieger (Kent State University Press, 1997)
– Recensione: Il Silmarillion di JRR Tolkien (Rusconi 1978)

FOCUS SANTI PAGANI:

Libri: "Santi pagani" di Claudio Testi– Recensione: Santi pagani nella Terra di Mezzo
– Leggi l’articolo Santi pagani, la replica di Wu Ming 4 (2 parte)
– Recensione: Santi Pagani: le recensioni all’estero
– Leggi l’articolo Santi Pagani, ecco il carteggio Monda-Testi
– Leggi l’articolo Claudio Testi replica su Provvidenza e “Destino”
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LINK ESTERNI:
– Vai al sito di Cacucci Editore

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Colui che raccontò la grazia: la recensione

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Recensione a: Toninelli Mauro, Colui che raccontò la grazia. Una rilettura de Il Signore degli Anelli di J.R.R.Tolkien, Cittadella Editrice, Assisi, 2019, pp. 215

I. PREMESSA

Libro ToninelliQuesto volume è stata per me una lettura estremamente interessante perché tocca la tematica religiosa in Tolkien che da tempo occupa i miei studi: il testo infatti vorrebbe distaccarsi la solita interpretazione didascalico-apologetica, proponendo una via originale a questo problema. In questo sforzo Toninelli pone particolare attenzione al mio studio Santi Pagani nella Terra di Mezzo (SP): per questo motivo la parte finale della mia recensione sarà dedicata a un disamina critica delle su osservazioni in merito.
A livello di struttura e contenuto Colui che raccontò la grazia (CR) si divide in tre parti:
– la prima (Capp. 1-2) ha carattere precipuamente biografico e mostra, specialmente attraverso l’epistolario, quanto sia stato autentico e profondo il cattolicesimo vissuto da J.R.R.Tolkien;
– la seconda (Capp. 3-5) ha un contenuto metodologico: qui Toninelli, basandosi soprattutto sul saggio “Sulle Fiabe”, spiega come per capire l’opera di Tolkien sia importante non farne una allegoria, per quanto resta assodato che ha un contenuto simbolico e che ogni Mondo Secondario deve avere anche un certo legame con il nostro Mondo Primario;
– la parte finale (Capp. 6-9) è dedicata all’esame del Signore degli Anelli (SDA), che viene interpretato alla luce di quanto sopra.

II. PREGI

Mauro ToninelliIl volume di Toninelli ha molti pregi s spunti interessanti che elenco di seguito.
1- a livello formale il volume è scritto molto bene, l’esposizione è piacevole e l’impianto di fondo è molto chiaro; efficace anche l’idea di usare come titoli (sia dei capitoli che dei paragrafi) frasi estrapolate dai testi di Tolkien.
2- In CR sottolinea con dovizia di testi, e diversamente da tante letture apologetiche, che l’opera tolkieniana non ha un intento pedagogico o apologetico-confessionale, per cui la sua opera non può essere letta come un’allegoria o semplice sermone (p. 15-16).
3- Un aspetto che l’autore sviluppa molto bene è quello dell’intreccio tra letteratura e storia. La Fantasia tolkieniana infatti subcrea un mondo secondario sempre a partire da un Mondo Primario, e produce il Ristoro che il lettore sperimenta proprio nella storia primaria (cfr. p. 97 sgg.). Toninelli in questo senso cita adeguatamente alcuni episodi nel SDA in cui si vede chiaramente come a un certo punto narrazione e storia si incontrano (cfr. il dialogo di Éomer e Aragorn a proposito dei mezzuomini, pp. 70 sgg).
5- A livello esegetico, ci sono alcuni spunti molto interessanti, che dimostrano l’attenzione con cui è stata letta l’opera di Tolkien, tra cui ricordo:
a) un attento esame del finale del SDA e in particolare delle ultime parole di Sam “Sono tornato” (p. 80 sgg.);
b) una profonda analisi del momento topico in cui Frodo si infila l’anello su Monte Fato (e in particolare della sua frase “Ma ora non scelgo di fare ciò per cui sono venuto”: p. 143);
c) un’articolata riflessione sulla parola “heathen” usata da Tolkien nel SDA
d) e infine un interessante spunto circa differenza che pare esserci in Tolkien tra “teologia cristiana formale” e “fede cristiana” (p. 140)

III. LIMITI

I limiti più rilevanti che mi permetto di segnalare a questo libro, confidando che possano servire di stimolo all’autore per ulteriori ricerche o integrazioni, sono i seguenti:
a) a p. 67 Toninelli, basandosi sulla celebre immagine del calderone e della zuppa di Sulle Fiabe, a un certo punto afferma che per Tolkien “il mito è allegoria”: questo è un passaggio indebito perché Tolkien dice solamente che un mito (la zuppa) è fatto di fonti (ingredienti) ma non che il mito significa le sue fonte, essendo questo appunto un tutto diverso dalle fonti e che quindi va guastato per se.
b) Il medesimo passaggio indebito lo troviamo anche a proposito di Galadriel per la quale Toninelli, dopo aver ricordato che ha tra le sue fonti Maria (cosa acclarata, così come è acclarato che lo siano pure Morrigan o She di Haggard), ne deduce un “riferimento a Maria che certamente in Tolkien non è assente” (p. 125; cfr.132).
c) a p. 88 e 90 Toninelli traduce la nozione di “application” con la parola “analogia”, il che è sicuramente errato essendo l’analogia cosa ben più specifica e complessa
d) L’apparato bibliografico di CR tiene presente i principali saggi su Tolkien disponibili in lingua italiana, ma sono assenti alcuni fondamentali studi in lingua inglese sul tema (come ad esempio The Ring and the Cross di Paul Kerry).
e) A livello di impianto generale, desidero ora avanzare alcuni rilievi in relazione a come l’autore si pone rispetto al mio lavoro SP.

IV. COLUI CHE RACCONTO’ A GRAZIA E SANTI PAGANI: UNA CONFERMA INASPETTATA

4.1- Apprezzamenti e critiche di CR A SP
SP sta suscitando all’estero (nella sua versione inglese Pagan Saints in Middle-earth, WTP, 2018) e in Italia numerose recensioni positive e vivaci dibattiti (cfr. link sotto riportati), ai quali sia aggiunge ora il volume di Toninelli. Non posso che salutare la cosa in maniera positiva, anche perché solo i rilievi critici permettono di chiarire sempre meglio una tesi e vedere se questa è o meno valida. In CR infatti si trovano numerosi rimandi a SP, e per due distinti ordini di motivi:
– da un lato alcuni passaggi di SP sono citati a supporto delle tesi di Toninelli (cfr. pp.: 73, 122, 129, 167);
– dall’altro SP è preso come punto di partenza dell’analisi ma con l’intento di andare oltre questa impostazione, come mostrano i seguenti brani:
T1- “Secondo Testi, in virtù della peculiare non-cristianità e laicità del mondo creato da Tolkien, esso si identificherebbe con ‘un universo essenzialmente pagano espressione di un piano naturale, che tuttavia è in armonia con quello soprannaturale della rivelazione’ (SP p. 178) e pone la fondamentale cattolicità dell’opera proprio nella prospettiva della distinzione/separazione dei due piani che pure sono in armonia. La domanda, perciò, che guida il lavoro è: Tolkien è così? Il Signore degli Anelli è cattolico proprio perché crea un mondo pagano che è praeambula fidei, nel senso che contiene verità raggiungibili con la sola ragione e che non necessitano della rivelazione? È vera l’interpretazione di Testi, che in Italia (e non solo) fa scuola? Oppure è vero l’esatto contrario, che, cioè, Tolkien è cattolico proprio perché fa così sua la ‘cattolicità’ dell’essere-di-Dio (Dio è il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe…, cioè Dio nella storia al punto da definirsi con le relazioni di singole storie) da nomare la storia come luogo della presenza stessa di Dio senza doverlo nominare?” (CR, p. 13-4, sottolineature aggiunte)
T2- “Come detto fin dall’inizio, questo modo di leggere Il Signore degli Anelli è un salto oltre la tesi proposta da C.A.Testi, il quale indica l’utilizzo dell’ipotesi del doppio piano natura/sovra-natura e delle conoscenze razionali/naturali come praeambula fidei. Ma Il Signore degli Anelli è oltre questo. È un romanzo che diviene simbolo (nel senso tolkieniano) di verità antropologiche perché scritto alla luce della verità di Cristo che, come ricordato dal Vaticano II, svela l’uomo all’uomo in quanto verità dell’uomo. Banalmente, non si può parlare di ciò che è vero per una realtà escludendo il riferimento alla verità, anche laddove se ne faccia un racconto fantasy.” (CR p. 197-198).

4.2. Risposta alle critiche di Toninelli
Vorrei ora fare alcuni rilievi su questi due brani e alla luce di questi dimostrare poi ((4.3) che SP più che oltrepassato da CR viene piuttosto confermato e anzi apparirà come un ambito teorico adatto per soddisfare anche l’intenzione di CR.
1) In T1 si cita correttamente un brano di SP in cui si enuncia la distinzione di due piani, e poi lo si commenta dicendo che in SP si afferma una separazione tra questi piani: questo però non è esatto. In SP è infatti del tutto assente questa idea di separazione tanto che esplicitamente si afferma “il principio dell’armonia tra natura e grazia, in base al quale si distinguono due piani che risultano essere non separati, bensì in reciproca armonia” (SP p. 166, sottolineature aggiunte).
2) in T1 l’alternativa finale tra SP e CR non è in realtà tale. Per Toninelli infatti la tesi di SP (“Il Signore degli Anelli è cattolico proprio perché crea un mondo pagano”) sembra opposta e contraria (“Oppure è vero l’esatto contrario,”) alla tesi di CR secondo cui “Tolkien è cattolico proprio perché fa così sua la ‘cattolicità’ dell’essere-di-Dio..”). Ma le due posizioni non sono affatto contrarie perché hanno soggetti diversi. La prima infatti ha come soggetto un’opera di Tolkien (Il Signore degli Anelli) mentre la seconda ha come soggetto l’individuo J.R.R.Tolkien. Questo è un aspetto decisivo se si vuole tematizzare in modo adeguato il tema religioso nel Legendarium, perché tanti autori confondo l’opera con l’autore. In SP invece si stabilisce chiaramente questa distinzione e si afferma con rigore l’indipendenza del piano biografico dal contenuto dell’opera (cfr. SP p. 99). Non solo, ma in SP si dice proprio che l’opera tolkieniana esprime la mentalità autenticamente cattolica dell’individuo J.R.R. Tolkien, proprio come si preoccupa di rimarcare CR sopra con la sua presunta opposizione a SP: “Proprio in questa visione armonica va a mio avviso riscontrata la mentalità autenticamente cattolica di Tolkien” (SP p. 28, sottolineature aggiunte).

4.3. Osservazioni sulla tesi centrale di CR
Dipanati questi due equivoci, vorrei ora soffermarmi sulla tesi di CR, che desidera oltrepassare SP e che è enunciata anche in questo passaggio:
T3- «Per tutto quanto mostrato, dunque, si può riconoscere che la realtà implicita che sostiene l’intera vicenda, senza cui la storia non sarebbe la stessa, è Cristo. Non perché sia citato esplicitamente, ma perché viene raccontato nello svolgimento dei fatti: ‘ordine della grazia’ significa ‘in Cristo’. Anzi, si potrebbe dire che la Verità de Il Signore degli Anelli, nella sua profondità è Cristo, perché è in Cristo, e agisce per Cristo, senza perciò doverlo necessariamente esplicitare» (p. 170; cfr. p. 132 e p. 192)
Ora, la tesi che desidero di seguito sostenere è la seguente:
1°- CR non riesce a dimostrare che SDA contiene implicitamente la Verità che è Cristo;
2°- ciò che CR desidera dimostrare si ritrova già all’interno della prospettiva sintetica di SP, per cui CR ne viene a essere una ulteriore riprova.

Riguardo al primo punto, Toninelli usa le categorie di “implicito/esplicito”, che però non vengono definite chiaramente. Ora, cosa vuol dire che un contenuto A è implicito in un contenuto B? Vuol dire che B implica A anche se non lo dice esplicitamente. Ad esempio, se si dice “Ogni uomo è animale e Socrate è uomo” (A), la conclusione “Socrate è animale” (B) è implicita in A. Ma se così stanno le cose, e se la verità del Signore degli Anelli è implicitamente Cristo, ciò vuol dire che dalla lettura del SDA si può dedurre Cristo, che è il Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto per salvare l’uomo. Ma di questa esplicitazione non si trova però traccia in CR; quello che si trova in CR è solo una duplice argomentazione, insufficiente per dimostrare una tesi così ambiziosa:
1- alla fine del cap. 6 si afferma che “sono state evidenziate tracce, e anche qualcosa di più (come i riferimenti mariani) riguardo alla religiosità/ religione del Signore degli Anelli. Se è innegabile qui la scoperta di un monoteismo di teologia naturale [come si dice in SP], avendo cercato meglio nei simboli, e tra questi nelle parole usate da Tolkien, sono sorte alcune domande rimaste in sospeso: si può andare oltre questa teologia naturale?” (CR p. 132). Ora, come si vede, Toninelli pensa di aver instillato il dubbio di andare oltre SP soprattutto alla luce dei riferimenti mariani, che però risultano basati sull’erroneo scambio tra fonte e rappresentazione (cfr. III.a)-b)]
2- I capitoli seguenti sono poi dedicati a dare una risposta positiva alla suddetta domanda, per cui dovrebbero dimostrare che il SDA è oltre un piano naturale e anzi ha in Cristo la sua verità [T3]. In questo senso è particolarmente chiaro il capitolo 8 in cui Toninelli, nel commentare la celebre frase di Tolkien “L’incarnazione di Dio è infinitamente più grande di qualsiasi cosa io potrei osare scrivere” (Lettera n. 181) tenta di discostarsi sia da SP (che prende per assodata questa frase) sia dalle letture allegorizzanti che, nonostante la chiarezza di Tolkien, continuano a trovare riferimenti cristici in Frodo, Gandalf o Aragorn. CR tenta quindi una terza via, che si basa sostanzialmente sull’idea teologica (peraltro corretta e presumibilmente condivisa dall’individuo Tolkien) secondo cui ogni uomo è unito all’ordine della grazia fin dall’origine:
T4- “si provi a ragionare tenendo in considerazione le spiegazioni del professore di Oxford sul concetto di grazia che sembra essere sotteso al Signore degli Anelli. Certamente necessita della presenza di Cristo, perché l’apice dell’auto-comunicazione di Dio è l’incarnazione di Cristo: ma l’uomo è già costituito nella grazia di Dio […] Tenendo conto che, affinché possa parlare agli uomini di tutti i tempi, il romanzo è collocato in un periodo storico a-storico, Tolkien è libero dalla necessità di porre nel tempo del racconto l’Incarnazione storica. Questo non lo svincola da ciò che offre la verità del Cristo che è entrato nel Mondo Primario” (CR 167-169, sottolineature aggiunte).
Ora questo brano mostra chiaramente due cose:
2.1) Toninelli commette l’indebito passaggio dal piano individuale-biografico a quello dell’opera. Un conto è dire che Tolkien è un buon cattolico (fatto questo innegabile per semplici motivi “empirici”) che come tale crede che l’uomo reale e anche le sue produzioni artistiche (dunque anche il SDA) non sono staccate dall’ordine della grazia che culmina in Cristo. Ma tutt’altra cosa è dire che Il Signore degli Anelli parli di queste credenze.
2.2) T4 mostra anche che Toninelli (se non ho frainteso) desidera soprattutto preservare la relazione profonda che SDA ha con la verità cristiana, dato che SP secondo lui “separa” questi due ambiti. Se così, allora io ribadisco che questa separazione non è mai affermata in SP (supra), e “oso” aggiungere che il concetto di “armonia” che SP dimostra tra l’opera di Tolkien e la rivelazione cristiana è più che sufficiente per garantirne questo nesso, giustamente caro a Toninelli (punto 2° supra). Mi permetto così di riscrivere il testo T3 di Toninelli modificandolo con il linguaggio di SP: “Per tutto quanto mostrato, dunque, si può riconoscere che la realtà che risulta in armonia con l’intera vicenda, senza cui la storia non sarebbe la stessa, è Cristo. Non perché sia citato esplicitamente, ma perché ‘ordine della grazia’ significa ‘in armonia con Cristo’.”.

In conclusione SP, anche alla luce di CR, sembra confermarsi come prospettiva davvero sintetica perché, basandosi sul semplice concetto di armonia-tra-differenti-piani, permette di affermare coerentemente che:
– l’individuo Tolkien, in quanto cattolico in senso confessionale, di sicuro pensava che la sua opera non fosse slegata da Cristo (come sottolinea anche CR: IV.4.2,2) );
– L’opera tolkieniana è nondimeno pagana, perché non ha contenuti essenzialmente cristiani (IV.2.1), né espliciti (cfr. le letture allegorizzanti) né impliciti, come invece vuole CR (T3), che però non riesce a dedurre l’incarnazione-morte-resurrezione di Cristo se non rischiando di ricadere nell’allegoria (supra 1) e III.a-b);
– L’opera di Tolkien non è tuttavia separata dalla Rivelazione (in accordo con CR: IV-T1, T2, T4), in quanto è con questa in armonia, dato che il suo contenuto pagano-naturale è compatibile con la più ampia rivelazione cristiana: e in questo principio culturale che risiede la sua cattolicità.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Santi Pagani, quante recensioni all’estero!
– Leggi l’articolo Santi Pagani, ecco il carteggio Monda-Testi
– Leggi l’articolo Santi pagani, la replica di Wu Ming 4 (2 parte)
– Leggi l’articolo Un libro da Claudio Testi: «Santi pagani nella Terra di Mezzo»
– Leggi l’articolo Claudio Testi replica su Provvidenza e “Destino”

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Cittadella Editrice

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Tolkien’s Library, la recensione di Testi

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Contenuto e commento generale

Il volume di Oronzo Cilli va a mio avviso considerato uno strumento fondamentale per poter adeguatamente comprendere la formazione culturale e la mentalità di J.R.R. Tolkien. Cilli ha infatti realizzato una cosa molto semplice a dirsi, ma estremamente impegnativa a farsi: ha raccolto in un unico testo 2.599 libri che Tolkien ha “frequentato” durante la sua vita. Cilli poi non si è limitato a elencare i testi, ma ha corredato ogni occorrenza riportando le fonti che “dimostrano” il loro nesso con J.R.R. Tolkien.
Un lavoro immane, in cui l’autore, sicuramente il massimo studioso italiano di J.R.R. Tolkien sul piano “biografico”, è stato anche aiutato dalla sua attitudine al collezionismo (lo dico senza alcun intento riduttivo), campo anche questo in cui eccelle e per il quale è richiesta pazienza, precisione, e acribia massime.
Il volume, oltre alla Tolkien’s Library, costa anche di altre parti e in particolare:
– l’elenco degli scritti pubblicati da Tolkien dal 1910 al 1972;
– l’elenco delle interviste a Tolkien delle recensioni ai suoi libri che Tolkien dimostra di aver letto;
– elenco delle tesi universitarie in cui Tolkien su supervisore o esaminatore dal 1929 al 1960;
– lista dei testi editi dalla Early English Text Society, di cui Tolkien fu membro attivo dal 1938;
– elenco delle lectures che Tolkien tenne durante la sua carriera universitaria dal 1920 al 1959

Pregi

Sul lato “materiale”, il volume è magnificamente curato e stampato dalla Luna Press, astro nascente nell’editoria anglosassone legata a questo tipo di studi: la versione cartonata è splendida sia per il disegno in copertina (di Jay Johnstone) sia per l’ottima rilegatura. Anche la versione elettronica è ben realizzata, di facile e immediata consultazione, anche grazie al dettagliato indice interno.

Sempre sul lato editoriale, non si può non essere contenti che questo testo sia stato pubblicato da una casa editrice estera: in questo senso, essendo il quinto volume curato o scritto da italiani e pubblicato da editori “anglofoni” negli ultimi cinque anni (1), segue e prosegue la recente tendenza degli studi tolkieniani nostrani ad aprirsi con maggior decisione alla “platea” internazionale, cosa questa che da sempre AIST caldeggia e promuove.

Sul piano metodologico poi, il volume ha un alto valore scientifico perché, come già anticipato, ogni occorrenza di testi è corredata dalla fonte in base a cui Cilli l’ha aggiunta al suo elenco. Egli infatti divide chiaramente le fonti in:
– Primarie: libri che Tolkien medesimo ha citato, acquistato o chiesto in prestito;
– Secondarie: riferimenti dei massimi studiosi a opere che Tolkien può aver letto;
– legate al New English Dictionary: vengono riportati i testi citati dal NED negli anni in cui Tolkien vi lavorò (1919-20) e che quindi presumibilmente conosceva

Ma il pregio più grande del testo è sicuramente la sua utilità: infatti come dice giustamente Tom Shippey nella sua prefazione (anche questa un “plus” del testo), per capire un autore è importante leggere non solo i libri che ha scritto, ma anche quelli che ha in qualche modo avuto presente.
E così chi consulterà la Tolkien’s Library non sarà forse stupito dalla mole degli studi filologici che Tolkien ha letto, ma resterà sicuramente sorpreso nell’apprendere che ha anche avuto in mano testi di Giosuè Carducci o Agatha Christie.

In quest’ottica, quest’opera di Cilli aiuterà molti studiosi a meglio orientarsi nella “mente” di J.R.R. Tolkien. Ad esempio, si è sempre sospettato che Tolkien conoscesse Leibniz (considerando la sua nozione di armonia e il ricorso al principio dell’identità degli indiscernibili in alcuni suoi scritti (2)) e grazie a questo testo, con una semplicissima ricerca (ho infatti l’edizione elettronica) in pochi secondi ho appreso che egli il 12 Maggio 1931 chiese in prestito questo volume: John Theodore Merz, Leibniz, Edinburgh, Blackwood, 1884 (3).

Limiti

Il volume nasce soprattutto come uno strumento prezioso per gli studiosi e in questo senso non ho limiti particolari da rilevare, visto l’apparato chiaro e corposo di riferimenti e indici.
Certo, se uno si aspetta di trovare dei contenuti critici legati alle opere di Tolkien, resterà probabilmente deluso, ma non era questo l’intento dell’opera e dell’enorme lavoro che ha fatto l’autore.
Io comunque spero che, magari in una seconda edizione, l’autore aggiunga qualche analisi e “interpretazione” dei dati raccolti. Sarebbe ad esempio interessante fare anche una semplice riclassificazione numerica che distingua i testi in base al tipo (filologici, filosofici, narrativi, critici, ecc..) e al periodo in cui vengono consultati: questo potrebbe essere un ulteriore arricchimento per il volume, che comunque già così porterà, dopo quelle già ricevute negli anni passati, altre soddisfazioni agli studi tolkieniani italiani nel mondo.

Note:
1. Si veda: Arduini R., Testi C.A. (eds.), The Broken Scythe, Walking Tree Publishers, Zurich and Jena, 2012; Arduini R., Testi C.A. (eds), Tolkien and Philosophy, Walking Tree Publishers, Zurich and Jena, 2014; Testi C.A., Pagan Saints in Middle-earth, Walking Tree Publishers, Zurich and Jena, 2018; Arduini R., Testi C.A., Canzonieri G. (eds.), Tolkien and the Classics, Walking Tree Publishers, Zurich and Jena, 2019.
2. Si veda ad esempio J.R.R. Tolkien, La reincarnazione degli elfi e altri scritti, Marietti 1820, Milano, 2014, pp. 82 sgg.
3. Apro una breve nota sul valore “ermeneutico” dei libri contenuti (o non contenuti) nella Tolkien’s Library in relazione all’opera di Tolkien, nota che meriterebbe un’argomentazione più ampia, ma questo esula dalla presente recensione. Il discorso è semplice: la
presenza di un testo nella libreria di Tolkien è un dato importate, ma di per se non prova che quel testo abbia influenzato Tolkien nella sue opere; inoltre l’assenza di un altro testo dalla lista non dimostra che Tolkien non abbia mai letto quel testo o che non ne sia stato influenzato. Per chiarificare continuando con il medesimo esempio, la presenza nel volume di Cilli del libro di Merz su Leibniz:
1) da un lato è un argomento in più per sostenere che quando Tolkien scriveva di armonia o identità poteva essere stato influenzato da Leibniz (e su questo piano il testo di Cilli risulta imprescindibile);
2) questa presenza però non prova con certezza assoluta una influenza sull’opera (Tolkien poteva non avere in mente Leibniz quando scriveva di armonia e identità),
3) e questa influenza potrebbe esserci stata anche se in Tolkien’s Library non fosse stato presente quel volume, dato che il testo di Cilli non ha ovviamente la pretesa di contenere tutti i volumi mai consultati da Tolkien.

ARTICOLI PRECEDENTI:
– Leggi l’articolo Santi Pagani, quante recensioni all’estero!
– Leggi l’articolo Esce Tolkien e i Classici anche in inglese!
– Leggi l’articolo La Falce Spezzata pubblicata inglese!
– Leggi l’articolo Tolkien 2019, è boom degli studiosi italiani
– Leggi l’articolo Uncle Curro: la vita di padre Francis Morgan

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Luna Press Publishing

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Santi Pagani, quante recensioni all’estero!

Claudio Testi - studio 2018Con grande piacere e soddisfazione diamo una notizia molto positiva per gli studi tolkieniani italiani, che riguarda in particolare il nostro socio fondatore (nonché ex vice-presidente) Claudio A. Testi. Il suo libro Pagan Saints in Middle-earth (1) sta infatti suscitando una notevole attenzione a livello internazionale, tanto da aver ricevuto già cinque recensioni positive. La prima è stata quella di John Houghton, tra i massimi studiosi della tematica religiosa in Tolkien, che su Beyon Bree (2) ha giudicato il volume “an invaluable contribution to the (sometimes rather heated) debate over Christian and pagan readings of Tolkien”; “it is the sort of contribution that’s meant to end the debate once and for all”; “it is, however, one which will prove to be of vital importance to all further discussion of the Christian-pagan question in Tolkien studies” (Houghton pp. 1-2).
Sempre sulla medesima testata Randy Miller (3) ha poi scritto che “Pagan Saints in Middle-earth will provide a context to understand this debate [on Tolkien and Religion, note mine] and a resolution. Famous Tolkien experts like Verlyn Flieger and Tom Shippey were impressed with the strength and results of Testi’s argument and presentation. […] There is much here for those who want to understand J.R.R. Tolkien who is less enigmatic because of this treatise” (Miller p. 7).
In un lungo articolo (4) apparso su Lembas Katren, nel quale Jan Van Breda giudica il volume di Testi un “highly structured book that must be considered an asset to Tolkien studies” (Van Breda p. 195); “Those adhering to either a Christian or a pagan perspective or to an and/or perspective, should admit that these perspectives can hardly be upheld after the strong and convincing criticism of Testi. And what alternative perspective remains then, other than that presented by Testi?” (Van Breda p. 200).
Quarta in ordine di tempo è la recensione di John Evans (anche questo uno dei massimi studiosi del tema relagioso nel legendarium) apparsa sull’importante Journal of Tolkien Research (5), in cui scrive “Testi is to be commended for his familiarity with dozens of critics on both sides of this divide—and if not for anything else, this book is indispensable for its exhaustive review of scholarship pertinent to the question”; “the book’s core argument, the summary of Tolkien’s analytical and interpretive themes in the scholarly work is another invaluable benefit.” (Evans, pp. 3-4).
L’ultima (per ora) positiva valutazione è quella di James Hamby (6) per il quale lo studio italiano è “a wonderful overview of an intriguing question in Tolkien’s work. Even readers who disagree with his solution will no doubt benefit from the in-depth and serious consideration he gives to his subject. Indeed, given the evidence that Testi cites, it is difficult to see how Tolkien’s work could now be viewed as either exclusively Christian or pagan” (Hamby, p. 25).
Insomma, una bella serie di giudizi “ufficiali”, che peraltro era già iniziata con Verlyn Flieger e Tom Shippey, i due massimi studiosi tolkieneni viventi (e soci onorari AIST, che li ha ospitati nel nostro paese per ben cinque volte complessive), i quali nella loro prefazione e postfazione al testo avevo detto che “[Testi] has brought his readers the best of both schools. He has shown how they work, and best of all, shown how they can work together.” (Verlyn Flieger); “Both admirers and critics, however, have now been helped to a better and truer understanding of Tolkien’s work by this admirable exposition, the deepest appreciation yet written of Tolkien’s Catholicity, and one he himself would certainly have welcomed and approved.” (Tom Shippey).
Ma il dibattito sul tema continuerà anche in futuro: Claudio Testi, sollecitati da studiosi stranieri, sta infatti preparando un’articolata risposta (dopo una breve replica a Houghton (7)) ai rilievi critici presenti nelle varie recensioni, che verrà a breve pubblicata in una prestigiosa rivista estera.

Uno sguardo “estero” sulla critica italiana

Allargando lo sguardo, va detto che quanto sopra si inserisce all’interno di un orizzonte critico in cui gli italiani sono sempre più attenti e meritevoli di attenzione a livello internazionale. Pagan Saint in Middle-earth è infatti il terzo volume “italiano” pubblicato in collane estere dopo The Broken Scythe e Tolkien and Philosophy (entrambi curati da Roberto Arduini e Testi medesimo), anche questi già ottimamente recensiti. Sempre crescente poi il numero di saggi di studiosi italiani pubblicati su riviste estere, tra cui ricordiamo il recente contributo di Chiara Bertoglio sui Tolkien Studies. Ma l’“onda” non si ferma: a Birmingham saranno relatori ben nove studiosi nostrani (oltre ai soci AIST Lorenzo Gammarelli, Gloria Larini, Marco Scicchitano, Claudio Testi presenzieranno anche Oronzo Cilli, Carmine Costabile, Massimo Izzo, Enrico Spadaro e Guglielmo Spirito) e ben due nuovi volumi di italiani verranno lì presentati. Si tratta di Tolkien and the Classics (edito da Arduini-Canzonieri-Testi, sesto volume frutto del gruppo di studio promosso dall’AIST) (8), che verrà presentato nientemeno che da Thomas Honegger e Tom Shippey, il quale presenterà anche il volume di Oronzo Cilli Tolkien’s Library.
Siamo quindi in presenza di un bel “movimento” che da sempre AIST ha promosso e sollecitato, e a cui tanti altri stanno sempre più positivamente contribuendo. Ma come Associazione non ci fermiamo: stiamo infatti preparando un’altra bella sorpresa in questa direzione, di cui vi informeremo a breve!

Note:
1. Testi C.A., Pagan Saints in Middle-earth, WTP Publishers, Zurich-Jena 2018, traduzione inglese del volume Santi Pagani nelle Terra di mezzo di Tolkien, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2014
2. Houghton, John, “Pagan Saints in Middle-earth. Review by John Houghton”, in Beyond Bree, August 2018 p. 1-2.
3. Miller, Ryder, “Pagan Saints in Middle-earth. Review by Ryder W Miller”, in Beyond Bree, January 2019, p. 7.
4. Van Breda, Jan, “Solving ‘Tolkien’s problem’? A review of Claudio Testi’s Pagan Saints in Middle-earth”, Lembas Katern, Lembas 184, 2018, pp. 195-200.
5. Evans, Jonathan (2019) “Pagan Saints in Middle-earth (2018) by Claudio A. Testi”, Journal of Tolkien Research: Vol. 7 : Iss. 1 , Article 3, pp. 1-4.
6. Hamby, James, “Book-Review: Pagan Saints in Middle-earth”, in Fafnir, vol. 5, iss. 2, 2018, pp. 23-25.
7. Testi, Claudio A.,“A Note on two reviews of Pagan Saints in Middle-earth” (Beyond Bree, April 2019, pp. 1-2).
8. Oltre a questo ricordiamo: La Falce Spezzata (e la sua versione inglese The Broken Schythe), C’era una volta Lo Hobbit, Tolkien i Classici, Tolkien e i Classici II.

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– Leggi l’articolo Esce Tolkien e i Classici anche in inglese!
– Leggi l’articolo Tradotto in inglese Tolkien e la Filosofia
– Leggi l’articolo La Falce Spezzata pubblicata inglese!
– Leggi l’articolo Tolkien Studies, rivelati i contenuti del num. 15
– Leggi l’articolo Tolkien 2019, è boom degli studiosi italiani
– Leggi l’articolo Pubblicato il libro Tolkien e i Classici II
– Leggi l’articolo Esce Tolkien i Classici per l’editrice Effatà
– Leggi l’articolo La Falce Spezzata in libreria
– Leggi l’articolo Sabato in libreria a Roma C’era una volta Lo Hobbit

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della Walking Tree Publishers
– Vai al sito di Journal of Tolkien Research

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Il Silmarillion: un afflato d’eternità

copertina Il SilmarillionUna delle caratteristiche che più distingue l’opera tolkieniana da quella di tanti altri scrittori è la profondità storica e mitologica del suo mondo, profondità che i lettori italiani possono apprezzare di più grazie al Silmarillion, la raccolta di leggende che pubblicò il figlio Christopher nel 1977, carissime al Professore e che tentò più volte di pubblicare, come dimostrano le sue lettere:
Da quando ho rivelato questa sciocchezza privata e tanto amata, ho sofferto un senso di paura e perdita; e penso che se a Lei fosse sembrata una sciocchezza, ne sarei stato veramente distrutto. Non mi importa dei versi, che malgrado qualche passaggio virtuosistico hanno grossi difetti, poiché per me sono solamente la materia prima di partenza. Ma ora spero certamente, un giorno, di essere in grado, o di potermi permettere, di pubblicare il Silmarillion!” (Lettera 19, a Stanley Unwin, 16 dicembre 1937)
Ma cos’è esattamente il Silmarillion, come spiegarlo a chi non l’ha letto, come proporlo a chi ancora non si è avvicinato ad uno dei testi tolkieniani più affascinanti?
Ecco la presentazione di Nicola Nannerini.

Il Silmarillion: un afflato d’eternità

Grande “Pentateuco” mitografico, Il Silmarillion è il fertile alveo dal quale si dipartono – ed in virtù del quale possono essere meglio comprese – tutte le altre opere del filologo e scrittore britannico J.R.R. Tolkien. È un’opera che riveste, nel quadro della sua produzione letteraria, un ruolo di primo piano, non solo in senso cronologico, ma anche sul piano tematico e formale.
Christopher TolkienLa complessa gestazione del lavoro interessa di fatto tutta la vita dell’autore: i primi taccuini di appunti risalgono agli anni 1916-1917, ed ancora agli inizi degli anni ’50 egli poneva mano al materiale che già era confluito in alcune delle saghe che costituiscono la struttura dell’opera, per un’estrema revisione di lingua e contenuto (1). La stesura dei singoli racconti, nati in maniera semi-indipendente e faticosamente riorganizzati in una struttura coerente dal figlio Christopher, si era intercalata spesso al lavoro condotto su altre opere; la stessa edizione de Il Signore degli Anelli, il cui manoscritto era già pronto, dovette attendere la conclusione de Il Silmarillion, poiché Tolkien auspicava una pubblicazione congiunta – desiderio destinato a non realizzarsi. Quest’ultimo, infatti, viene dato alle stampe postumo, nel 1977, da Christopher Tolkien e da Guy Gavriel Kay: il loro intervento, condotto su materiali ancora disomogenei e solo parzialmente completi, deve essere tenuto in adeguato conto, sebbene costante e lodevole sia il tentativo di restare quanto più possibile fedeli allo stile e alle intenzioni dell’autore.
Più che singolo testo ovvero opera conclusa in sé, Il Silmarillion è un corpus testuale molto articolato, la cui effettiva configurazione concreta – così come essa doveva presentarsi nella mente del suo autore – ancora sfugge e probabilmente continuerà a farlo (2): la critica tolkieniana, pertanto, conosce queste due declinazioni del titolo: da una parte il libro edito nel 1977 cui normalmente si suole riferirsi; dall’altra l’intero complesso delle creazioni letterarie concernenti l’universo di Arda (3).
Silmarillion08Il nucleo narrativo poggia sui tre silmaril, gemme purissime e preziosissime forgiate dall’Elfo Fëanor con la luce degli Alberi di Valinor, Teleperion e Laurelin, rispettivamente l’Albero d’argento e l’Albero d’oro. Entità originate dal canto di Yavanna, sposa di Aulë, sono responsabili della prima illuminazione del mondo: dopo la loro distruzione fu possibile solo raccoglierne l’ultimo fiore e l’ultimo frutto, destinati a diventare il sole e la luna. In virtù di questo evento tragico, dunque, le gemme divengono le ultime depositarie della luce degli Alberi, scatenando le brame di possesso di Melkor/Morgoth, un Vala, come Aulë, ma decaduto al tempo della creazione di Arda e perennemente votato al male. Egli sarà capace, grazie alle sue subdole arti della parola, a suscitare l’invidia ed il sospetto tra Fëanor ed il fratellastro Fingolfin, e tra Fëanor ed i Valar stessi, causandone l’esilio. Avendo così diviso ed indebolito i suoi nemici, l’Oscuro Nemico del Mondo raggiunge l’obiettivo di conquistare i manufatti tanto spasimati, uccidendo il re dei Noldor Finwë, padre di Fëanor. Quest’ultimo, preda di una collera furibonda, sfida la decisione di allontanarlo e guida i suoi verso la Terra di Mezzo, coinvolgendo nella sua impresa i destini degli Elfi ma anche degli Uomini. Contro Morgoth saranno combattute cinque grandi battaglie, e la conclusiva lo vedrà infine sconfitto e gettato nel vuoto esterno ad Arda. Questi gli eventi narrati nei capitoli che costituiscono la terza parte del libro, intitolata Quenta Silmarillion.
Eru Iluvatar - Jian GuoLa prima, l’Ainulindalë, contiene il mito cosmogonico della nascita del mondo, che si deve alla deità Eru (o Ilúvatar) ed agli Ainur, potenti entità originatesi dal suo pensiero. Essi partecipano della melodia impostata dal dio, ed in essa vi intuiscono gli elementi della creazione e della futura storia, sebbene alcune parti questa rimangano note esclusivamente a lui. Manwë e Melkor sono i più potenti fra gli Ainur, nonché fratelli nella mente di Ilúvatar; il secondo, però, ben presto devia dallo spartito iniziale e dà così origine alla ribellione ed al male. Eru mette a conoscenza gli Ainur della futura venuta, in Arda, dei suoi figli: gli Elfi, i Primogeniti, destinati a vivere tanto a lungo quanto il mondo; e gli Uomini, i Successivi, beneficiati del dono della morte. Lungi dall’essere paradossale, quest’ultima è una caratteristica che sarà loro invidiata dalle divinità stesse. I Nani, invece, vengono creati di nascosto da Aulë grazie alle sue arti di fabbro: Ilúvatar, dopo averlo rimproverato per la sua disobbedienza, è mosso a compassione dal suo pentimento e decide di non distruggere la nuova razza, ma solo di posticiparne il risveglio. Gli Ainur possono così scendere nel mondo, dove vengono conosciuti come Valar, e dare inizio alla loro opera sub-creativa, in quanto riflesso della perfezione di Eru: il loro è un continuo confronto con Melkor, il quale è alla costante ricerca di nuove macchinazioni finalizzate a guastare quanto di buono vede sorgere in Arda.
La seconda, il Valaquenta, presenta i Valar e le altre creature divine di Arda. Narra quindi delle prime grandi battaglie tra le forze del bene e quelle del male, la seconda delle quali porta alla momentanea cattura di Melkor: questi, infatti, riesce presto a fuggire. Quindi, con l’aiuto di Ungolianth – un gigantesco mostro aracnoide di sesso femminile – dà l’assalto agli Alberi di Valinor, deciso a sopprimere la luce del mondo. Così il rostro venefico di Ungolianth spaccia per sempre le creazioni di Yavanna, condannandole a disseccarsi, facendo piombare Arda nella tenebra.
Ted Nasmith: "Akallabeth - the downfall of Numenor"La quarta parte, Akallabêth, narra la saga di Númenor e della sua caduta. Il popolo dei Númenóreani è condannato alla perdizione dalla superbia e dalla brama di potere del re Ar-Pharazôn: costui, dopo aver sconfitto Sauron, decide di portarlo con sé, sottovalutandone le capacità dissimulatorie. Egli, infatti, diventa in breve suo intimo consigliere, e riesce a convincerlo a muovere guerra ai Valar: l’empietà del gesto è punita con l’inabissamento dell’isola e la distruzione della sua progredita civiltà. L’ultimo capitolo di questa parte si occupa della fondazione dei regni dei Númenóreani sopravvissuti, fra i quali quello di Gondor.
La quinta parte, Degli Anelli del Potere e della Terza Era, è l’immediato antecedente dei fatti che si verificano ne Il Signore degli Anelli. Qui, infatti, si esplicita l’origine degli anelli e la loro funzione nel piano di dominio totale partorito da Sauron.
Numerosi e complessi sono i temi che emergono: la mitopoiesi dell’autore certo è funzionale al potenziamento dell’universo scaturito dalla sua fantasia, qui descritto nelle Tre Ere della sua esistenza ed in particolare nelle prime due, ma anche alla creazione di una dimensione letteraria per la lingua che aveva inventato per Arda (4). Il patrimonio di miti così strutturato non pone in scena soltanto le azioni eroiche dei protagonisti o l’eziologia di alcune specificità di Arda – dai mutamenti morfologici, geografici e politici dei suoi continenti alla cultura e alle tradizioni dei suoi abitanti – ma è necessario soprattutto ad evocare il passato mitologico e mitografico inglese così come questo, nella mente dell’autore, avrebbe potuto essere (5).
Ted Nasmith: "The Oath of Feanor" - Giuramento di FëanorÈ interessante notare, inoltre, come proprio il personaggio di Fëanor smentisca il “manicheismo” che è stato spesso imputato a Il Silmarillion e agli altri capolavori tolkieniani. Il bene ed il male, lungi dall’appartenere a due campi contrapposti ed incomunicabili, sembrano compenetrarsi e convivere costantemente. L’Elfo, pur connotandosi primariamente come personaggio positivo, è ciononostante soggiogato dalla possessività per la sua creazione, così come dal suo carattere impulsivo, talora financo avventato, che porterà all’estremo le conseguenze negative di alcune sue azioni. Melkor/Morgoth, analogamente, è una figura angelica originariamente partecipe della perfezione e del bene di Ilúvatar, e successivamente traviata dalla gelosia per i Valar e dalla volontà di dominio e distruzione. Il Vala Aulë, quantunque personaggio indubbiamente positivo, è protagonista di un atto di ribellione in nuce, in quanto egli deroga dallo spartito originale cui era partecipe per elevarsi alla stessa dignità divina e creatrice di Ilúvatar, dando origine alla razza dei Nani. Solo la sua tempestiva contrizione e la finalità generosa del suo gesto valgono a evitare che egli sia un novello Melkor.
All’interno della vasta e fertile riflessione sul confronto tra il bene ed il male, insito in ogni elemento del reale, emerge la tematica della perdizione cui irrimediabilmente conduce la brama di potere e di possesso immodica e incontrollata: da Melkor ad Ar-Pharazôn, da Sauron a Fëanor, coloro i quali ne sono succubi sono indirizzati, in modo diverso, alla sofferenza ed alla catastrofe. L’apparire venale e caduco, rappresentato da tali pulsioni, è implicitamente contrapposto all’essere della spiritualità profonda, della purezza, della creazione generosa e stoicamente indirizzata alla sopportazione: il popolo degli Elfi, personaggio collettivo da annoverarsi fra i protagonisti del libro, racchiude in sé tali caratteristiche.
Il Silmarillion - edizione Bompiani (angoli smussati)Il Silmarillion si avvale di uno stile elevato ed aulico, non estraneo, nei suoi cataloghi genealogici, al sapore annalistico delle cronache antiche e medievali. Il registro linguistico, attentamente sorvegliato, concede adeguato spazio ad istanze fortemente liriche, realizzando così, grazie all’inclusione di brani poetici interni alla struttura narrativa, un sapiente gioco metaletterario che impreziosisce l’opera ed offre un’interessante variazione al ritmo della lettura e del racconto. Raffinato è il rimando implicito che il testo offre rispetto ad alcuni stilemi tipici dell’epica, quali i già citati cataloghi, le genealogie, le ekphràseis descrittive di carattere geografico e politico.
In ultima analisi, Il Silmarillion costituisce un momento fondante per un intero genere letterario, quello del fantasy moderno, e retroterra irrinunciabile per la comprensione del mondo de Il Signore degli Anelli e delle altre opere tolkieniane, perché ne costituisce l’afflato d’eterna (ed incontestata) longevità.

Note:

1. G. Nagy, Il Silmarillion, p.109, in S. Lee (edit.), A Companion to J.R.R. Tolkien, pp.107-119, Hoboken, 2014.
2. Ivi p.108.
3. Ivi p.106.
4. C. Phelpstead, Mith-making and Subcreation, p.81, in S. Lee (edit.), A Companion to J.R.R. Tolkien, pp.79-92, Hoboken, 2014.
5. L.A. Donovan, Middle-earth Mythology: An Overview, p. 93 in S. Lee (edit.), A Companion to J.R.R. Tolkien, pp. 92-106, Hoboken, 2014.

Nicola Nannerini

ARTICOLI PRECEDENTI:
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Eroi e mostri di Dal Lago: c’è la recensione

Logo "Letto & Commentato"Riceviamo e volentieri pubblichiamo la recensione ad opera di Wu Ming 4 al volume di Alessandro Dal Lago Eroi e mostri Il fantasy come macchina mitologica (2017, €18), appena pubblicato da Il Mulino e che rappresenta, come scrive il recensore, «un salto indietro di almeno cinquant’anni nella storia della critica letteraria». L’autore Alessandro Dal Lago ha insegnato Sociologia della cultura nelle Università di Milano, Bologna, Genova e all’estero. Fra i suoi numerosi libri segnaliamo, per il Mulino, «Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio» (20012), «Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel» (1994) e, con Serena Giordano, «Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea» (2006), «L’artista e il potere. Episodi di una relazione equivoca» (2014), «Graffiti. Arte e ordine pubblico» (2016). Con quest’ultimo volume, però, si manifesta come l’erere di quella intellettualità progressista che in Italia portò all’iniziale snobismo degli ambienti editoriali e accademici nei confronti della letteratura fantastica.
La critica principale di Dal Lago è che nel Signore degli Anelli non ci sia profondità morale. Invece, nelle storie di Tolkien c’è una lotta interiore che si rispecchia in quella esteriore. Alessandro Dal LagoNon c’è però lotta tra le classi, non c’è attrito sociale, inutile cercare col lanternino. Tolkien non era di sinistra, era un cattolico preconciliare che vedeva la diffusione della stampa operaia come il fumo negli occhi ed era perfino contrario al divorzio. Ma le problematiche le affronta tutte sul piano etico, morale, psicologico, a volte perfino teologico, non su quello delle strutture economiche o dei conflitti sociali. E nella sua opera narrativa lui è riuscito a svolgere uno dei più interessanti lavori sugli stili eroici, messi in conflitto l’uno con l’altro, della letteratura europea contemporanea. È per questo motivo che siamo lieti di proporre ai lettori una recensione di chi i libri li legge e analizza in profondità. Buona lettura!

I MOSTRI, GLI EROI E I CRITICI
note sul saggio di A. Dal Lago «Eroi e mostri – Il fantasy come macchina mitologica»


1. A volte ritornano

Libro: "Eroi e mostri"Pare incredibile che nell’anno di grazia 2017 qualcuno si getti anima e corpo in un attacco a Tolkien, Lewis, e agli Inklings, riproponendo una sfilza di luoghi comuni usciti direttamente dagli anni Cinquanta del secolo scorso.
Eppure è proprio questa la sensazione che si ha leggendo il saggio del sociologo Alessandro Dal Lago “Eroi e mostri” (Il Mulino, 2017, €18). In particolare si ha l’impressione di trovarsi tra le mani il risultato di una lettura bulimica della letteratura primaria e secondaria, utile a suffragare con un minimo di bibliografia aggiornata un vecchio pregiudizio, senza assimilare nulla del dibattito critico degli ultimi decenni.
La buona vecchia tesi è riassumibile in poche frasi. La narrativa di Tolkien e Lewis rifuggirebbe «la complessità morale del mondo», sposando «una opposizione manichea tra il bene e il male» (p. 26); i due rifondatori del genere fantastico contemporaneo sarebbero alfieri di «un’epica passatista. O, meglio, di un’epica per famiglie, depurata da qualsiasi tentazione di complessità morale, pluralità di prospettive e profondità filosofica, per non parlare di erotismo o altre inclinazioni letterarie tipicamente moderne. E proprio questo aspetto costituisce uno dei motivi dello straordinario favore di Tolkien (e continuatori) presso il pubblico: una rocciosa isola di tradizionalismo fantastico nel mare agitato della modernità letteraria» (p. 40).
Insomma la fortuna di Tolkien & soci dipenderebbe dal fatto che offrirebbero ai lettori moderni una visione del mondo tradizionalista, in grado di titillare il loro inconscio desiderio di antiche certezze. Non solo. I padri nobili del genere fantasy, seguiti dai loro epigoni, sarebbero colpevoli di avere depurato l’antica poesia nordica dalle sue ambiguità di giudizio sulle figure eroiche, in favore della fascinazione latente nella cultura occidentale per la guerra e la violenza, che permane nel genere ancora oggi. In poche parole, questi autori sarebbero stati e sarebbero culturalmente perniciosi.
Conferenza Shippey a Modena 2013Per sfortuna di Dal Lago, almeno dagli anni Ottanta a oggi la critica letteraria su Tolkien ha fatto passi da gigante. Risulta incredibile come nel XXI secolo si possa affermare che nell’opera di Tolkien non vi sia profondità morale, o che in essa non siano implicite questioni filosofiche, o perfino che essa inneggi alla guerra. L’opera omnia di studiosi pionieristici come Tom Shippey e Verlyn Flieger; o i singoli saggi di Brian Rosebury, W.H. Green, Christopher Garbowsky, Matthew Dickerson, Patrick Curry; o ancora gli studi di Janet Brennan Croft, e tanti altri, stanno lì a dimostrare il contrario. A meno di ignorare quanto costoro hanno scritto nell’arco dei decenni e quindi il dibattito internazionale, è ben difficile riproporre certe affermazioni senza rendersi ridicoli. Ma in Italia su Tolkien ci si è sempre spudoratamente permessi tutto, quindi perché rovinare una così ben consolidata tradizione?

2. Eroi & Orchi

Château de sable: dragon qui mange un enfantQuello che salta agli occhi nel saggio di Dal Lago è l’assoluta scorrettezza del metodo argomentativo. La qual cosa risulta tanto più bizzarra se si pensa che l’autore è un docente universitario. La strategia espositiva è presto detta: ogni affermazione dell’autore si presenta povera o addirittura priva di pezze d’appoggio testuali e ogni elemento che la contraddice viene considerato un’eccezione oppure ignorato. Ecco un primo esempio:

«La giustizia trionferà e i malvagi saranno sconfitti – in questo senso i due libri fondamentali di J.R.R.Tolkien, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, costituiscono davvero le pietre miliari del fantasy nel nostro tempo. Ma è proprio qui che si misura la distanza tra queste riletture del fantastico medievale e le loro fonti classiche. Dove anticamente gli eroi fallivano o mostravano qualche irredimibile lato oscuro, oggi sono per lo più senza macchia e senza paura» (p. 38).

Ogni lettore di Tolkien sa che il protagonista del primo romanzo citato da Dal Lago, Bilbo Baggins, tutto è fuorché “senza paura”, e il deuteragonista, Thorin Scudodiquercia, tutto è fuorché “senza macchia”. Che dire del protagonista del secondo romanzo, Frodo Baggins, che viene sopraffatto dal potere dell’Anello e – per usare le parole di Tolkien stesso – “fallisce come eroe”? Per non parlare degli eroi tragici e ambigui del Silmarillion, come ad esempio Túrin, ricalcato sulle figure mitologico-leggendarie di Edipo e Kullervo, che muore suicida dopo avere scoperto di avere messo incinta la sorella. E tuttavia per Dal Lago “Gli amori incestuosi, che abbiamo visto comuni nella letteratura medievale […] sono del tutto assenti nel mondo di Tolkien” (p. 152).
Ed ecco un altro esempio di questa modalità argomentativa, in questo caso a proposito della rappresentazione del male:

«L’intenzione teologico-morale evidente in questi libri ha un prezzo: la personificazione del male sia in figure che rappresentano varianti di Satana (come Sauron in Il Signore degli Anelli), sia in altre che lo servono in virtù del loro aspetto ripugnante e deforme, cioè di quello che sono (giganti, troll e soprattutto orchi). […] è difficile sfuggire alla sensazione che esse siano malvagie perché orrende, e viceversa, e quindi prodotti di un vero e proprio determinismo» (p. 39). […] «i mostri di Tolkien non albergano sentimenti umani, ancorché nascosti da corpi ripugnanti, ma sono puri e semplici gargoyle, insensibili maschere di pietra che hanno il compito di dare risalto, per contrasto, alla bontà e al coraggio degli eroi positivi» (p. 39).

Hildebrandt: "Merry and Pippin Captured by Orcs"Si sa che gli orchi tolkieniani nascono dalla corruzione violenta degli elfi operata da Melkor, dunque non sono per natura malvagi, ma vittime essi stessi del male. Infatti hanno sentimenti umani, ancorché meschini, nonché una struttura sociale, una lingua, una storia, conflitti interni, contraddizioni personali. Ce ne si rende conto osservando i rapporti contrastanti tra Uglúk e Grishnákh o tra Shagrat e Gorgbag nel Signore degli Anelli. Tanto è vero che più avanti nel saggio, Dal Lago stesso è costretto a tornare sulle sue affermazioni e a rendere conto di questa “umanità” intrinseca. Ma lo fa solo per prodursi in un altro goffo tentativo di portare acqua al mulino della propria tesi, affermando che gli orchi sarebbero un’allegoria dei “lavoratori industriali”, insomma della classe operaia come “classe pericolosa”, e che Tolkien avrebbe condiviso “l’idea che il lavoro abbia a che fare con l’abisso, le caverne, i cunicoli, la deformazione fisica e ovviamente morale” (p. 107-108).
Senza alcun pudore Dal Lago pretende di scambiare la ben nota critica tolkieniana all’industrialismo con la stigmatizzazione della classe operaia. Questo è tanto più imbarazzante perché uno dei capostipiti di quella critica fu l’ispiratore letterario di Tolkien, cioè William Morris, che aveva nutrito l’utopica (e certo borghesissima) speranza di salvare i lavoratori dalla fabbrica e dalla miniera per restituire loro la creatività del lavoro artigiano. Lavoro che in Tolkien infatti è esaltato presso Hobbit, Nani ed Elfi, laddove produce appunto cose belle e utili. Al contrario gli orchi, come viene narrato ne Lo Hobbit (e citato da Dal Lago stesso!), producono armi e strumenti di tortura, e spesso «li fanno fare, su loro disegno, ad altra gente, prigionieri e schiavi che devono lavorare fino a che non muoiono per mancanza di aria e di luce». Volendo proseguire nel giochino allegorico di Dal Lago si dovrebbe dire che questi orchi sono assai più simili ai padroni delle ferriere che agli operai che ci lavoravano dentro tra XIX e XX secolo. Ma appunto, è un esercizio che si commenta da solo.
Ed ecco un terzo esempio, questo davvero crasso:

«Con tutto ciò, la rappresentazione del male è fatalmente univoca e non lascia spazio ad alcuna considerazione sulle motivazioni o i punti di vista dei malvagi. E nemmeno a forme di pietà» (p. 39).

Nei romanzi di Tolkien non c’è il punto di vista soggettivo dei malvagi come Melkor o Sauron, ma c’è il punto di vista dei buoni che cedono al male, altroché: Thorin, Saruman, Denethor, Boromir, ecc. C’è un’ampia gamma di sfumature dell’insinuarsi del male nell’animo umano e delle motivazioni che lo determinano. Su tutti valga il discorso di Saruman sulla necessità di adeguarsi al trend politico, di cavalcare l’onda montante, pensandosi più furbi della storia, che è un pezzo di letteratura indiscutibilmente attuale e figlio di una riflessione moderna. Inoltre, se c’è una qualità che tutti sanno contraddistingue gli eroi positivi di Tolkien è precisamente la pietà. Chiunque abbia letto Tolkien sa che la pietà nei confronti di Gollum, che per Dal Lago è una “parziale eccezione”, è la chiave dell’eucatastrofe finale. In generale, se c’è un messaggio reiterato nella narrativa di Tolkien è: uccidi soltanto per non essere ucciso, non somministrare la morte a tuo proprio giudizio. E questo vale soprattutto nei confronti delle creature malvagie. Ciò nonostante Dal Lago più avanti non ha remore a dichiarare che “i personaggi buoni di Il Signore degli Anelli ricorrono ampiamente alla violenza. Come gli elfi, che qui rappresentano una sorta di nobiltà guerriera, anche se non precisamente umana: essi uccidono tutti gli estranei, uomini, nani, che osano avventurarsi nel loro territorio” (p. 143).
Ecco, l’intero saggio è basato su affermazioni infondate e risibili di questo genere, che poi Dal Lago usa per trarre le sue conclusioni.

3. Beowulf, Artù e Beorhtnoth

Libro: Beowulf di TolkienUn’altra affermazione impegnativa di Dal Lago riguarda il lavoro letterario e accademico di Tolkien e Lewis, che a suo dire avrebbe ripulito dalle contraddizioni le fonti mitologiche e medievali, restituendoci un’immagine edulcorata del medioevo, della letteratura e della mitologia:

«Il medioevo di Tolkien, sia nelle trasfigurazioni narrative, sia nell’opera di studioso, è curiosamente innocente e trasparente, privo di ambivalenze, conflitti culturali intestini e residui barbarici» […] «ritengo che tutto il gruppo in questione (i cosiddetti Inklings) abbia operato una sorta di semplificazione critica della mitologia che i partecipanti travasavano nelle loro storie e nei loro poemi. La conseguenza è che, data la loro autorevolezza di studiosi e lo strepitoso successo di alcuni di loro come narratori, il fantasy che essi hanno contribuito a creare reca le tracce e perpetua i contenuti di una visione edificante e sterilizzata di una delle fonti primarie della cultura occidentale, ovvero la mitologia nordica» (p. 43).

In particolare la celebre conferenza di Tolkien sul Beowulf (1936) fornirebbe un’immagine semplicistica dei mostri del poema, non già come alter ego dell’eroe e suoi doppi, ma come creature aliene, disumane, completamente maligne. In questo senso, dunque, la lettura tolkieniana del poema sarebbe appiattita sulla concezione cristiana del conflitto bene/male.
Dal Lago dimentica di dire che la conferenza tenuta da Tolkien è di argomento filologico. In quell’occasione Tolkien indaga la mentalità e le istanze sottese alla scrittura del poema stesso, cioè il lavoro poetico dell’anonimo autore cristiano alle prese con la materia pagana. Tolkien parla proprio di come nella riscrittura cristiana i mostri divennero incarnazioni del male e del peccato; il suo è un discorso meta-narrativo. Ciò che Dal Lago attribuisce a Tolkien è in realtà ciò che Tolkien attribuisce all’autore del Beowulf (che definisce i mostri “nemici dell’umanità”, v. 164).
Di fronte a questo proditorio equivoco, non stupisce quindi che Dal Lago non nomini nemmeno la riscrittura del Beowulf operata da Tolkien stesso, cioè Sellic Spell – Il racconto meraviglioso. Altrimenti avrebbe dovuto dare conto del fatto che il Tolkien narratore espelle gli inserti cristiani introdotti dall’autore del poema, per immaginare come potesse essere la storia originale, e fa dell’eroe un berserker, un uomo-orso, in parte umano e in parte belva.
Più avanti Dal Lago non può esimersi dal constatare che il personaggio di Gollum rappresenta una sorta di riscrittura dell’orco Grendel come doppio dell’eroe, e che si tratta del personaggio più ambiguo e complesso della narrativa tolkieniana (p. 139). Tuttavia si guarda bene dal trarre qualsivoglia conclusione da questo riscontro, proprio perché confuta con ogni evidenza la tesi che lui vuole sostenere.

La caduta di ArtùA tratti questa modalità bislacca di procedere sfiora la mistificazione, ancorché maldestra. È il caso dell’arcinota avversione di Tolkien per il carico simbolico religioso che il ciclo arturiano aveva accumulato nel corso del medioevo, ribaltata da Dal Lago nel suo contrario. Dal Lago basa la sua critica sul fatto che l’Artù di Tolkien combatte contro i Sassoni e quindi è “un campione della cristianità” che si batte contro il paganesimo (p. 68). Se c’è un aspetto che ha un peso marginale ne La caduta di Artù di J.R.R.Tolkien è precisamente questo, anche perché il poema incompiuto si concentra sul tradimento di Mordred, mentre la guerra in Germania funge più che altro da premessa. Così, mentre si dedica al confronto tra l’Artù tolkieniano tutto d’un pezzo e quello maloryano ambiguo e contraddittorio, Dal Lago si dimentica un dettaglio da niente come il Graal. Quando ne parla deve chiamare in causa Lewis e Williams (p. 84-90), infatti, e abbandonare Tolkien, cioè quello degli Inklings che operò la liberazione – non particolarmente felice sul piano letterario, forse, ma impossibile da ignorare sul piano concettuale – della figura di Artù dall’aura mistico-cristiana sedimentatasi sulla leggenda.

La terza prova a carico è forse quella più grottesca, e sarebbe il lavoro di Tolkien sul poemetto La Battaglia di Maldon, dal quale il saggio di Dal Lago pretende di dedurre una granitica difesa dell’eroismo nordico. Poiché infatti Tolkien riscontra nel testo medievale una pesante critica all’ofermod/orgoglio del conte Beorthnoth, ma salva l’eroismo dei suoi sottoposti che scelgono di morire con lui, «i veri eroi sono i suoi uomini, che combattono e muoiono per ‘obbedienza e amore’. E quindi Tolkien esalta l’eroismo nordico (lo fa in tutta la sua opera e lo ripete nelle lettere)» (p. 127). A un’affermazione del genere risponde Tolkien stesso (nel testo che in teoria Dal Lago starebbe commentando):

«Questo ‘spirito eroico nordico’ non si presenta infatti mai allo stato puro: è sempre una lega d’oro e di un metallo meno nobile […] costituito dal buon nome personale. […] Ma questo elemento d’orgoglio, sotto forma di aspirazione a onore e gloria, in vita e dopo la morte, tende a dilatarsi, a divenire un movente fondamentale, inducendo chi lo fa proprio, al di là della mera necessità eroica, all’eccesso cavalleresco, indubbiamente tale, anche se approvato dall’opinione coeva, qualora non solo trascenda la necessità e il dovere, ma con essi addirittura interferisca». (Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Bompiani, 2010, p. 59)

BeorhtnothPer Tolkien lo spirito eroico nordico è una lega composta da genuino eroismo e orgoglio, ma è il secondo elemento che tende a diventare il movente principale dell’agire dell’eroe fino a fargli perdere di vista il dovere e la necessità. Dunque l’ofermod è un elemento di problematicità intrinseco dello spirito eroico nordico. Infatti nella sua produzione narrativa Tolkien mette in contrasto l’eroismo depurato dall’ofermod (che è appunto un’invenzione letteraria e non già l’eroismo nordico) con l’eroismo nichilistico, orgoglioso e disperato, sciogliendo attraverso questa polarizzazione la lega metallica. È infatti nel territorio dell’invenzione narrativa che Tolkien si sente libero di trarre le conseguenze ultime della riflessione su Maldon, introducendo un elemento nuovo: la disobbedienza. Nel Signore degli Anelli sono i cruciali atti di disobbedienza ai propri signori compiuti da personaggi come Pipino, Merry, Éowyn, Éomer, Faramir, Beregond, Háma, ecc. che aiutano il piano provvidenziale a realizzarsi. Ed è Gandalf a enunciare il principio in base al quale si può contestare la volontà del proprio signore «quando significa follia e malvagità» (SdA, libro V, cap. VII). Per il cattolico Tolkien non c’era obbedienza dovuta in cui potesse annullarsi il libero arbitrio. Se c’è un problema sul quale ha riflettuto nell’arco di una vita è proprio l’eroismo nordico, guardandosi bene dall’esaltarlo acriticamente (tanto nella sua opera quanto nelle lettere), e anzi, cercando di indagarne la complessità sia contro lo stato della filologia corrente (E.V. Gordon) sia contro le semplificazioni politiche (Adolf Hitler).

4. Toc toc

Alessandro Dal LagoDulcis in fundo, Dal Lago ripropone la tesi dei vecchi lettori tradizionalisti sul Signore degli Anelli come manifesto sociale:

«Al di là del gusto letterario, qual è il gusto sociale, per così dire, che emana da questo romanzo? È quello di un mondo in cui i re sono buoni e governano saggiamente; in cui popolo ed esercito acclamano il sovrano; in cui i bravi hobbit, bevitori di birra e fumatori di pipa – cioè la piccola borghesia rurale -, compiono imprese straordinarie e vengono onorati dai nobili, in attesa di tornare al loro posto nella terra natale – mentre legioni di orchi, umani felloni e bestie varie ricevono il colpo di grazia da guerrieri vittoriosi» (p. 145).

È giusto tralasciare il fatto che Tolkien stesso avesse già rinviato al mittente una lettura politico-utopica della propria opera, giacché non è certo l’autore ad avere l’ultima parola su ciò che ha reso pubblico, ma il pubblico stesso, appunto. Se dunque questo è vero, allora nel 2017 è a dir poco puerile pensare che la capacità di un romanzo come Il Signore degli Anelli di parlare a generazioni di lettori derivi dal suo essere un manifesto «del legittimismo politico» (p. 145), oppure dal fatto che «ci racconta un mondo di sogno che si erge contro le brutture di quello reale» (p. 152). È una ben misera idea della letteratura e dei lettori quella sottesa a un’affermazione del genere.
Non una parola sui caratteri dei personaggi, sui loro dilemmi e scelte, sul libero arbitrio, la morte, la fede, il male, la perdita, la trasformazione del mondo, il rapporto maschile-femminile, quello uomo-natura, il problema del potere, la fine del tempo mitico e l’inizio di quello storico, e si potrebbero riempire altre dieci righe con i temi e le corde toccate dal romanzo, sui quali studiosi di mezzo mondo scrivono e fanno convegni… Dal Lago registra soltanto il “gusto sociale” reazionario e l’avvento dei re buoni. Tant’è. Ognuno legge nella letteratura quello che è in grado di leggere con i propri mezzi. Quelli di Dal Lago arrivano fino a lì. Nondimeno, per non peccare di modestia, decide di lanciarsi in una roboante conclusione sul Signore degli Anelli:

«Con questo romanzo la vittoria del bene è conquistata al prezzo di una gigantesca regressione letteraria; come se tutto quello che è stato scritto dalla metà dell’Ottocento in poi non avesse più alcun significato; né Dickens, né Flaubert, né Tolstoj, né Proust, né Joyce, né Kafka e nemmeno Eliot e Pound – per non parlare di Freud o delle avanguardie letterarie. Né gli abissi della società industriale, né i conflitti di ceto e di classe, né le complicazioni della psiche, né l’ambivalenza delle motivazioni umane trovano posto in questo radicale rifiuto della realtà» (p. 152)

Parlando di regressione, una sparata come questa rappresenta appunto un salto indietro di almeno cinquant’anni nella storia della critica letteraria.
Per fortuna gli studi contemporanei sono ormai più orientati all’approccio di un Henry Jenkins (Dal Lago lo conosce) che a quello di un Edmund Wilson (conosce e cita anche questo).
Per altro, ormai ci si è bene accorti che gli Inklings non furono una compagine o movimento letterario, come pretenderebbe Dal Lago, tanto meno schierato in antitesi al modernismo o alla letteratura contemporanea.
Per lo stato attuale della critica (Flieger, Rosebury, Garth) è assai più verosimile che quello tra Inklings e modernisti fosse un dialogo a distanza, che aveva una base comune: il riuso del mito. Solo che i modernisti usavano il mito con ironia, con riferimenti espliciti, collegandolo al passato perduto, mentre gli Inklings lo usavano direttamente, perché credevano che la mitopoiesi fosse una caratteristica fondante della condizione umana.
Da ciò Dal Lago deduce che lo scrittore inkling si concepiva come «un profeta, che parla letteralmente in nome di Dio e di Cristo, propagandone il messaggio» (p. 63), ed è assai probabile che di fronte a una così gretta banalizzazione del concetto di subcreazione – e dell’epilogo del saggio Sulle fiabe – anche un gentiluomo all’antica L'ultimo soldato giapponesecome Tolkien avrebbe avuto un moto di stizza violenta. Ad ogni modo, è il suggello perfetto di Eroi e mostri.
Alla fine viene da dire, con un po’ di tenerezza, che qualcuno dovrebbe raggiungere Dal Lago in mezzo alla giungla sull’isola del Pacifico in cui il suo saggio pare essere stato scritto, battergli le nocche sull’elmetto, e avvisarlo che la guerra è finita da un pezzo, e che la sua parte ha perso. E ha perso perché ha scelto di combatterla con le armi sbagliate. Non quelle della comprensione e della critica, ma quelle del rigetto e del pregiudizio.

LINK ESTERNI:
– Vai al sito della casa editrice Il Mulino
– Vai al sito dei fratelli Hildebrandt

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